MISSIONE: SPACCARE
di Furio Colombo (www.unita.it, 25.03.2006)
Non è vero che non c’è un programma elettorale del gruppo Berlusconi. C’è, ed è così semplice e radicale che si riassume in una sola parola: spaccare. Non c’è spazio per la discussione se sia o no naturale o possibile o sensato impegnarsi a distruggere prima di lasciare il potere. E non importa neppure chiedersi: ma che senso ha spaccare tutto prima del tempo? Potrebbe anche vincere. So benissimo che evoco un incubo scrivendo questa frase, «potrebbe anche vincere». Ma per un momento devo cercare di constatare i fatti e di capirli prima di giudicarli.
Dunque il presidente del Consiglio in carica - che in una sciagurata ipotesi potrebbe anche essere il prossimo presidente del Consiglio italiano - si dedica con impegno e furore a spaccare tutto ciò che conta e che è fondamentale in un Paese: coesione, fiducia, senso di cittadinanza, associazioni di grande rilievo sociale (agli industriali, i sindacati) rapporti internazionali, confronto di un intero Paese con i pericoli del mondo (terrorismo), alleanze e legami fondamentali (per esempio con gli Stati Uniti). Fa tutto ciò con grande rilievo pubblico, nel modo più visibile e non più smentibile. Fa venire il pubblico finto ad applaudire. Decreta espulsioni e condanne. Attrae non solo l’attenzione degli italiani, ma anche la testimonianza attonita dei governi e delle istituzioni europei e quella, anche più attonita, della stampa americana.
Dovunque esistono destra e sinistra, anche se la destra di Berlusconi, che va dal monopolio alla rendita, dal controllo totale delle informazioni alla abolizione del falso in bilancio, e si allarga fra il condono di ogni regola capitalistica e l’altra destra, dei nuovi alleati francamente fascisti, è difficile da definire. Ma non esistono precedenti, in normali Paesi democratici, di qualcuno che spacca e divide e accusa e attacca dovunque scorge anche un vago elemento di dissenso. E lascia polvere e macerie persino dove dice e sostiene che governerà ancora.
Tutti noi cittadini siamo tuttora stupiti da ciò che è successo alla assemblea della Confindustria di Vicenza , la più violenta - e solo apparentemente incontrollata - scenata in pubblico che sia mai accaduta al di fuori di situazioni di dittatura. Un lavoro degno di Lukashenko, il contestato dittatore della Bielorussia. Ma Lukashenko è amico di Putin che è amico di Berlusconi, e può darsi che i tre, esperti di strangolamento della libertà, si siano scambiati consigli.
Ma l’impegno accanito, il lavoro intenso di una mattina per spaccare la Confindustria, un lavoro che evidentemente non gli era riuscito dietro le quinte, è il seguito, ma anche l’annuncio, di una politica vigorosamente distruttiva, che non è solo prerogativa del capo, ma viene richiesta, momento per momento, a ciascun dipendente del gruppo Berlusconi. *** Come molti lettori ricorderanno, il primo impegno di questo governo privato è stato di spaccare l’opposizione, tentando di separare pattuglie di sottomessi da coloro che, secondo il dettato sacro in ogni democrazia, erano decisi a tenergli testa. Di volta in volta ha inventato liste di cattivi. Ha aizzato la stampa di regime ad attaccare, preferibilmente con la calunnia o l’accusa gratuita («stampa omicida»), chi si ostinava a raccontare le cose.
È giusto che i lettori sappiano che la «stampa omicida», benché chiamata in causa mille volte «per avere inventato accuse al solo scopo di denigrare il governo», e dunque l’Italia, per avere ricordato, quando era indispensabile farlo, la Loggia massonica P2, i legami di mafia, per aver riferito con esattezza su processi e condanne, non ha, al momento, una sola querela per avere detto o narrato il falso. Ci sono decine di querele di chi si ritiene offeso (Bossi non vuole essere chiamato «razzista», ma basterà chiedere al giudice di convocare il teste Borghezio, o l’apposita commissione del Parlamento europeo). Ma nessuno ha potuto dire «non è vero». Mai. Ma l’operazione di spaccatura è cominciata presto. Ricordate quanto a lungo e con quanto impegno Berlusconi, conferenza stampa dopo conferenza stampa, ha nominato e accusato questo giornale per «educare» gli altri giornalisti e ammonirli a non sognarsi di criticarlo?
Certo nessuno di noi dimentica che Berlusconi ha iniziato la sua carriera di «liberale» con il licenziamento di Biagi e Santoro, colpevoli di «attività criminosa», a cui è seguita una lunga serie che è giunta fino a Sabina Guzzanti. E alla fine si arriva alla minaccia in diretta (non una svista, l’esemplarità conta molto in questa strategia distruttiva) a Lucia Annunziata come modo per dire a tutti «state attenti qui non c’è posto per chi mi tiene testa».
Ricordate con quanto puntigliosa ripetitività i giornali di proprietà della famiglia Berlusconi sono tornati sulla accusa di contiguità al terrorismo, sul fatto che le parole con cui una opposizione critica un governo (parole senza le quali non esiste democrazia) in realtà - dicono loro - armano mani di assassini e richiedono (ci è stato detto proprio così) di aumentare la scorta, dopo ogni titolo «terrorista» dell’Unità, titolo tratto, il più delle volte, dalla stampa internazionale?
A questo si sono aggiunte lunghe e ripetute azioni di calunnia, durate anni e riprese costantemente da scrupolose persone di servizio del giornalismo, al fine di dire chiaro agli altri colleghi: «Se noi siamo in grado di sputtanare persone che hanno la reputazione di tutta una vita, vedete bene che siamo in grado di colpire chiunque». È questione di controllo delle informazioni, non di verità dei fatti, che a loro certo non importa.
Ricordate gli insulti dedicati dal premier agli inviati dell’Unità che osavano rivolgergli domande, il riferimento (prediletto fra il personale di servizio post fascista) delle banche off shore in cui avrebbe trafficato chi scrive questo articolo? Ricordate le presunte «cinquecento minacce» dell’Unità alla illustre persona di Silvio Berlusconi da parte dell’Unità (altro aumento del personale di scorta) anche allo scopo di avvisare gli inserzionisti pubblicitari di stare alla larga da chi osa fare opposizione?
Alla fine, come ha dimostrato l’editoriale del Corriere della Sera che - nella tradizione del New York Times e del Washington Post - ha dato una chiara indicazione di voto il mai interrotto tentativo di spaccare i frammenti di informazione libera, e più ancora di isolare e fare apparire indegni i giornalisti oppositori, non è riuscito a regola di regime come progettato. Certo ha devastato il sistema di informazioni italiano, già vastamente oscurato dal possesso e controllo delle televisioni. Intanto era al lavoro il progetto di spaccare i sindacati. Il breve periodo in cui è sembrato riuscire il trucco del «Patto per l’Italia» ha fatto pensare a un successo.
Arduo però sfidare il rapporto con la realtà e il contatto con l’opinione pubblica dei grandi sindacati popolari. Possono essere più o meno a sinistra, più o meno all’opposizione. Ma hanno fiuto per la truffa e le affermazioni false. E tutti si sono allontanati per tempo, nonostante l\’intenso fuoco di sbarramento contro il loro tornare insieme.
Al momento giusto, cioè estremo, quando la crescita zero inchioda un governo incapace alla sua responsabilità, restano due mosse immensamente distruttive, dannose e costose fino al limite estremo per l’Italia. Però - pensa il gruppo Berlusconi - che cosa importa l’Italia se la mossa può darci un beneficio?
Parte, dunque, con un finto e violento attacco di nervi, la campagna per dividere e spaccare la Confindustria. Niente è più normale di una grande e autorevole associazione di imprese in cui i titolari hanno interessi comuni ma anche visioni diverse. Al diavolo gli interessi, spacchiamoli sulla politica. È probabile che il gioco non sia riuscito, non nel modo totalmente distruttivo pianificato dal gruppo Berlusconi. Però l’attacco improvviso, grossolano e violento di un presidente del Consiglio a un singolo imprenditore, che aveva osato tenergli testa anche nel sacrario della sua trasmissione prediletta «Porta a Porta», appare in tutta la sua desolante gravità: Berlusconi può farlo. Lo ha fatto. E l’imprenditore attaccato, denigrato, insultato in pubblico, si è dimesso, come se fosse lui il colpevole. In tal modo il gruppo Berlusconi ha dimostrato - costi quello che costi alla reputazione del Paese - che non c’è poi tanta differenza fra un giornalista senza protettori e un ind ustriale nel pieno del suo successo. Chi osa tenere testa paga. *** Questa oscura pagina della storia italiana continua. Adesso, in ogni occasione, intervista, talk show, dichiarazione ufficiale o confidenza al cronista, Berlusconi e il suo ministro dell’Economia Tremonti fanno sapere che «i capitali se ne vanno».
Dicono che in Italia l’eventualità della alternanza democratica tra l’imprenditore fallito come governante Berlusconi e l’economista noto nel mondo Romano Prodi, che ha già governato bene in Italia e in Europa, sta portando alla fuga dei capitali, un atteggiamento che neppure Chavez del Venezuela oserebbe adottare nelle sue colorite campagne di denigrazione degli avversari.
L’annuncio, infatti, è capace di produrre conseguenze di immenso danno che potranno continuare a lungo. I capitali fuggono dalla crescita zero di Berlusconi? In fuga per la paura dei cosacchi di Prodi? Un guasto grave al Paese è assicurato comunque. Berlusconi non sa se vincerà e teme seriamente di non farcela. Ma spacca il Paese nel punto sensibile, proclamando che gli investitori del mondo decidono di fuggire. Se un simile disastro può servire a dargli una mano, perché no? Spaccare, distruggere, lasciare macerie è diventato il suo marchio di fabbrica. Così ha fatto nella scuola, nella sanità, nelle leggi sul lavoro, nella così detta riforma della giustizia, nella amputazione della Costituzione e della legge elettorale.
Perché non dovrebbe continuare? Invece delle opere pubbliche che non sono mai cominciate, ricordiamo l’esortazione del suo ministro delle Infrastrutture «a convivere con la mafia» (cioè con gli assassini di Falcone e Borsellino). Dopo un brutto e pericoloso periodo della vita italiana, ci resteranno soltanto le scenografie di cartone di Pratica di Mare. È stato il luogo in cui Berlusconi, attraverso i sette telegiornali che controlla, ha imposto agli italiani di credere che, per merito suo, Putin era entrato nel G8, nella Nato, in Europa, e l’America era diventata il miglior amico della Russia. Subito dopo è scoppiata la «Rivoluzione Arancione», ovvero la liberazione della Ucraina, sostenuta dagli Usa contro il Gaulaiter di Putin. E oggi - sempre con l’aiuto degli Usa - si ribella la Bielorussia contro il despota Lukashenko, già collega di Putin al Kgb. I vecchi amici si ritrovano e, come dice un proverbio americano, «non si può mentire a tutti per tutto il tempo». *** Vi sembra troppo? Eppure non basta. Quello di Berlusconi è l’unico governo al mondo - democratico o non democratico - che prima delle elezioni denuncia il rischio, anzi la probabilità di brogli. Altrove sarebbe una seria offesa al ministro dell’Interno, di cui gli italiani hanno rispetto. Ma Berlusconi non si fa intimidire e, se può spaccare, spacca. Anche la fiducia, anche il rispetto. Tratta il suo Paese come una tormentata Repubblica africana. Reclama brogli che - come governo - ha il compito e il dovere, ma anche i mezzi, di impedire. E come il leader braccato di una di quelle repubbliche, l’autore del danno corre negli Stati Uniti per far sapere che l’Italia è un Paese pericoloso, in modo che gli Usa avvertano gli americani di non venire in Italia.
Che cosa importa che l’Italia non è un Paese pericoloso se non per gli ingorghi di traffico che si formano a Roma il mercoledì, giorno dell’udienza generale del Papa? Che cosa importa il turismo? Da noi provvede il capo del governo a bloccarlo.
Sembra incredibile, sembra raro che una sola persona, con un cattivo governo, possa far tanto danno al suo Paese. Eppure resta l’ansia e il dubbio che non sia tutto. Se questo è ciò che finora è accaduto - e che non si può smentire - è ragionevole l’ansia e il dubbio che nei giorni che restano da oggi al voto ci saranno altri tentativi di far male al Paese. Risorse e cattive intenzioni non gli mancano.
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo (il Fatto, 13.03.2011)
“Gentile Furio Colombo,
sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia?
Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare. Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare.
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana.
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa.
Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro.
Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano.
1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile);
2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici;
3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge - promette - la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia;
4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito;
5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma vita e attività dei giudici;
6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?;
7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti;
8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti;
9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura;
10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.
La porta della libertà
di Furio Colombo (il Fatto, 28.03.2010)
Nessuno di noi finora ha tenuto conto di una domanda che pure dovrebbe apparire urgente e drammatica. La domanda è questa: riuscirà la Repubblica Italiana a rientrare nella normalità democratica senza avere prima capito e detto e denunciato il grave stato di fuori gioco in cui si trovano ormai da tempo in questo Paese tutte le istituzioni? Fino ad ora ha prevalso, se non altro per l’ autorevolezza di chi l’ ha espressa, la persuasione che alcuni episodi separati, non sempre denunciati, non sempre redarguiti, non formino di per sé un comportamento grave e costante e non debbano, quindi, essere affrontati in difesa della Repubblica e della sua Costituzione, come un grave pericolo in atto. Il più delle volte, a parte il silenzio, l’invito ha queste caratteristiche: ci sono due parti che debbono riconciliarsi. Offra ciascuna il suo “passo indietro” e “ i toni bassi” e “il rispetto delle istituzioni”, senza “delegittimare l’avversario”.
Questi ammonimenti sono saggi da un punto di vista molto importante: evitare il peggio. Chi li propone, a volte in modo ripetuto e con una preoccupazione che si percepisce molto intensa, questo “peggio” deve averlo intravisto o addirittura vissuto in alcune occasioni rimaste non pubbliche. Va dunque considerato e apprezzato lo sforzo di “evitare il peggio”, tenendo conto, però, che nelle vicende politiche sia nazionali che internazionali, tale intento di scartare un pericolo ha sempre portato a un pericolo più grave. Infatti lo spazio lasciato vuoto da fatti veri non riconosciuti e non descritti ai cittadini, viene invaso, ogni volta, da fatti più gravi e letali. Il lettore può pensare che mi sto tenendo un po’ alla larga. Perciò preciso. Vi prego di notare che dirò le stesse cose che molti di coloro che si oppongono vanno dicendo tutti i giorni, durante i quindici anni di Berlusconi.
Ma questa volta lo dico nel modo formulato dalla domanda: se si possa uscire da un pericolo ormai molto grave e imminente fingendo di non vedere, ed evitando di descrivere quel pericolo. Non è ciò che è accaduto a Monaco quando normali e prudenti statisti democratici hanno accettato e avvalorato la finzione di avere raggiunto un accordo con normali e democratici statisti di parte opposta che però erano Hitler e Mussolini? Purtroppo abbiamo imparato che prudenza e saggia cautela non diminuiscono il rischio contro la democrazia.
Il modo in cui avvengono le cose oggi in Italia lo conosciamo: un esecutivo, per sua natura pronto nell’ agire e nel reagire (per questo la Costituzione circonda ogni esecutivo di verifiche, contrappesi, controlli, garanzie per i cittadini) e per giunta reso fortissimo dal doppio potere, pubblico e privato, lancia attacchi violenti, con intenzione di piena rottura contro i centri costituzionali di verifica, controllo e garanzia. Alla fine di ogni attacco, complice quasi tutta la stampa (d’ altra parte comprata o succube o spaventata) manca la descrizione di quell’attacco, la portata distruttiva. Persino le intenzioni esplicite, proclamate dal capo di quell’esecutivo che attacca le altre istituzioni, vengono omesse. Qui il problema non è l’ arbitro (mi riferisco con tutto il rispetto al Capo dello Stato) perché il problema non è il rapporto fra maggioranza e opposizione e non è l’eventuale lamentela dell’opposizione.
Qui stiamo parlando di iniziative ripetute di tipo rivoluzionario contro la Costituzione, i suoi organi di controllo, i suoi giudici e le fondamentali leggi della Repubblica tuttora in vigore. In quel punto e in quel momento dell’ aggressione, che è ogni volta un colpo duro e forse finale al muro democratico, c’è l’ ultima, estrema possibilità di difesa della Repubblica. Vi sono consiglieri, in luoghi autorevoli, che insistono nel suggerire, come unica cura, come unico intervento risolutivo di questo momento grave, una ragionevole e ben visibile equidistanza.
Ma equidistanza da che cosa? La parte offesa di questo tremendo gioco non è l’ opposizione. Il suo mestiere comprende il dare e avere, argomenti duri e aggressivi (vedi la brutalità senza riguardi che i repubblicani americani riservano al loro Presidente, vedi l’impegno senza tregua con cui Barack Obama tiene testa a quell’ offensiva) .
La parte offesa, adesso, in Italia, sono le istituzioni dello Stato, sono i magistrati (tutti), sono le Corti, fino alla Cassazione e alla Corte Costituzionale, sono le authority di garanzia, come quella delle comunicazioni. Quando i giudici si comprano (nei pochi casi in cui si può) o si insultano con modalità di separazione definitiva dallo Stato di diritto, quando cade ogni finzione sull’ appartenenza comune alle leggi fondamentali, violandole e annunciandone la soppressione ogni volta che sono un ostacolo, la controparte è la Costituzione, sono le sue radici di libertà, la sua originaria e incancellabile natura antifascista. Questa è la descrizione di una grave e pericolosa situazione politica. Se continueremo a non riconoscerla fingendo di credere che due parti in contrapposizione debbano smettere di delegittimarsi e giungere a più miti consigli, si nega la realtà, si cancellano i fatti, si murano le porte di uscita.
Berlusconi e il suo popolo
di Furio Colombo *
Sabato mattina, nel corso del programma Omnibus, un collega che partecipava con me al dibattito sulla nuova legge Gentiloni mi ha detto, con comprensibile esasperazione: forse dovremo cominciare a ragionare al netto di Berlusconi, vedere i problemi del Paese (delle televisioni) così come sono, senza cominciare e finire sempre con lui. Gli ho detto, come dico adesso su questa pagina, che sarei felice di farlo, sarebbe l’inizio di una vera vacanza.
Purtroppo non si può. Berlusconi è di nuovo in piazza. Ne ha diritto, naturalmente.
Il fatto è che Berlusconi non solo è in grado di potersi pagare (attraverso legami e joint venture con costellazioni di imprenditori che hanno convenienza d’affari a comparire accanto a lui) spostamenti di folle. Lo è nel senso di essere in grado di comandare alle notizie di comparire nel modo, nella sequenza e con titoli e spazi ed enfasi che lui desidera. Perché da dieci anni ormai ogni carriera italiana nel campo delle comunicazioni dipende dalla simpatia o antipatia di Berlusconi in persona.
Per esempio, durante il passato regime, ogni volta che un titolo dell’Unità accennava a una delle tante malefatte del governo che ha stroncato l’economia del Paese e indicava non solo il gesto legislativo ma anche l’autore, Berlusconi, circondato da tutti i sub-appaltatori politici di Casa delle Libertà (detti altrimenti "i partiti della coalizione") gridava che la nostra denuncia era un attentato alla sua vita, che stavamo dando nomi e indirizzi ai nostri amici terroristi.
Ma ora che Vicenza è stata teatro di una manifestazione schiettamente cilena, in cui si sono sentite frasi come «Se Prodi oggi lo incontrano gli italiani, non lo fanno tornare a Palazzo Chigi» non troverete neppure una riga sul rischio della vita che, con una simile barriera di violenza verbale, di scatenamento della folla, di accuse che hanno coinvolto il presidente della Repubblica, del Senato e della Camera, e la ripetuta accusa di «governo ladro!», viene creata intorno a chi sta dalla parte del governo, e, più ancora, ha la responsabilità di rappresentare le istituzioni.
S’intende che non è vero. Le manifestazioni politiche non creano pericoli fisici agli avversari.S’intende che si tratta di una trovata per mettere museruole alla democrazia (come vedete anticipo la appassionata difesa che di quelle parole e di quella manifestazione farà Sandro Bondi se ancora gli rimangono forze dal suo sciopero della fame contro la Finanziaria). Ma ho ripetuto la grottesca accusa per far capire di che cosa è fatta la "politica" di Berlusconi: bugie, accuse immense, incitamento ai peggiori sentimenti del suo popolo, una sfacciataggine senza limiti. Ha fatto approvare tutte le sue finanziarie con il voto di fiducia ma se lo facesse Prodi metterebbe a rischio la libertà degli italiani. Lo fa perché ha la forza economica e il controllo mediatico che gli consentono di non risponderne.
Nel Tg1 di venerdì scorso, un giornalista è riuscito ad agganciare il combattivo leader della opposizione basata sul controllo dei media, e ha ottenuto, per Prodi, la definizione di "emergenza democratica" se chiederà il voto di fiducia per la Finanziaria.
Certo è che neppure adesso, neppure nel nuovo e ben diverso Tg1, il nostro collega ha trovato l’occasione per la seconda domanda: «Scusi Presidente, ma lei ha sempre usato il voto di fiducia, pur avendo grandi maggioranze sia alla Camera che al Senato. Come lo spiega?»
Pensateci bene: chi vorrebbe impigliarsi nella memoria notoriamente vendicativa di Berlusconi con una simile frase di normale giornalismo? S’intende che più avanti nel corso del Tg abbiamo rivisto la storia della sequenza dei voti di fiducia costantemente imposti da Berlusconi quasi solo per impedire ai suoi, più ancora che alla opposizione, di discutere o di cambiare anche una piccola parte delle sue leggi indecenti.
Ma vorrei segnalare altri due eventi della memorabile giornata di Vicenza. Il primo: è stato fischiato sei volte l’Inno di Mameli. È stato fischiato fino a quando "i possenti altoparlanti della piazza" (nella Casa delle Libertà non si bada a spese) hanno trasmesso Va pensiero, la bella musica verdiana dedicata alla sofferenza del popolo ebraico che, purtroppo, è stata scelta come identificazione (unica che non sia volgare e imbarazzante) dei leghisti.
Ma attenzione. Dovete essere un lettore accanito di agenzie di stampa per ricostruire attraverso dispacci separati e titoli riduttivi la portata dell’evento. La pagina che ho stampato dalla Rete comincia con «Qualche fischio all’Inno di Mameli» (Agi); «Per sei volte durante la manifestazione di Vicenza è stato suonato l’Inno di Mameli e per sei volte il popolo della Lega presente ha fischiato» (Adn Kronos) . Poi l’Ansa: «Nella piazza di Vicenza una parte di sostenitori ha fischiato sei volte l’Inno nazionale diffuso dagli organizzatori in attesa dei leader della Casa delle Libertà». Ma segue subito, in tutte le agenzie, un unico commento, quello del leghista Luca Zai, che spiega: «È la delusione del popolo dei leghisti per il fatto che non sia stato trasmesso prima Va pensiero». Vi immaginate lo scandalo, la denuncia di legami con il peggior terrorismo del mondo, l’insulto ai nostri soldati impegnati nelle missioni di pace, se il più piccolo e periferico gruppetto di qualche sinistra ignota avesse dato luogo, anche solo con cinquanta persone, e magari al chiuso, a un evento di questo genere, fischiare Mameli?
Vi immaginate la raffica di telefonate e richieste di interviste che tutti gli opinion leader della sinistra italiana, da Giampaolo Pansa in giù, avrebbero ricevuto per commentare il gesto ignobile, del resto tipica rivelazione dell’odio per la Patria da parte della sinistra, che fin dalla Liberazione, voleva costruire un’Italia sovietica?
Ecco, questo è il controllo delle comunicazioni.
Data un’occhiata in giro, ai giornali di oggi, e vedrete che, sulla questione dell’Inno di Mameli non si va al di là della folklorica esuberanza leghista, e della vivacità di popolo.
A proposito di popolo, sostate un istante a immaginare che Prodi esca allo scoperto per cercare sostegno popolare e trovi in piazza solo diecimila persone. Ci sarebbero beffa, irrisione, vignette e penosi corsivi sul fatto che «saranno stati quattro milioni e trecentomila coloro che hanno votato alle primarie, ma adesso quel popolo non c’è più».
A seguire una serie di aneddoti su come la gente fa in fretta a cambiare opinione.
Del resto avrete notato che da quattro giorni si discute del "crollo di Prodi". Eppure Prodi, al momento, al confronto con Bush, con Blair, con Chirac, è ancora il leader di governo più popolare in Occidente. Quando accadeva a Berlusconi, la disputa durava sì e no un giorno, perché lui faceva circolare immediatamente i suoi sondaggi che dicevano sempre (nel 2004, nel 2005 e anche adesso, alla fine del 2006) «Siamo avanti di sei punti». Lo diceva e lo faceva pubblicare.
Faccio un’altra scommessa sull’universo giornalistico che Berlusconi è in grado di controllare. Ci sarà almeno un titolo con la memorabile frase di Bossi: «Silvio, ce lo abbiamo duro ed è anche per questo che oggi è pieno di donne»? E poiché la frase è detta accanto a quest’altra: «Dobbiamo prepararci a marciare su Roma», la sana ispirazione fascista dovrebbe essere chiara e orientare il titolista. Ma non accadrà. Mi aspetto piuttosto: «La destra agguerrita torna in piazza», come se questa fosse la destra liberista, la destra di mercato, la destra delle imprese che con originalità e destrezza inventano prodotti e invadono i mercati. Al suo meglio, questa è la destra di Le Pen e di un fascismo rancido, un avanzo della storia.
Ma se controllate i media e tutte le carriere di tutti (o almeno molti) che lavorano nei giornali e nelle televisioni, ve lo potete permettere.
Del resto nessuno di noi, che dovremmo essere abituati alle domande intriganti e alle inchieste, si è chiesto: ma che razza di credenti saranno questi che prima e dopo essersi inginocchiati davanti al Papa (un Papa serio e risoluto, che non perde tempo negli aspetti della politica ornamentale e va dritto ai punti teologici che gli stanno a cuore e su cui chiede attenzione e obbedienza) fischiano con tutte le forze il cattolico Romano Prodi, presidente del Consiglio, e si spellano le mani per applaudire Silvio Berlusconi, forse per il fatto di avere fatto così tanto per le sue svariate famiglie? Saranno gli stessi credenti che si entusiasmano per le virili affermazioni di Bossi?
Ma Vicenza non è finita, c’è anche materiale per la Digos. Per esempio l’affermazione leghista «La piazza è determinante e la gente è istintiva e non vuole più il governo Prodi. Vuole che vada subito fuori dalle scatole». Come vedete non è esattamente una richiesta di nuove elezioni.
Ah, e non dimentichiamo che in piazza, accanto ai "duri" di Berlusconi e di Bossi, accanto alla grazia con cui Berlusconi si è espresso sulle istituzioni e sul Paese, c’era anche l’uomo fidato dell’Udc Giovanardi. Non dimentichiamo che, se ci fosse un sistema di media normale, il quadro apparirebbe comico: Giovanardi fa parte dei fischi all’Inno di Mameli. Il suo capo Casini li condanna a difendere Napolitano. Ma attenzione alla grandezza dei leader. Casini dice che «nella destra vi sono alcuni cretini» cioè poca roba.
E per difendere il presidente della Repubblica Napolitano, accusato da Berlusconi di essere "uno di loro" (come dire, dal Soviet al terrorismo) afferma che «Napolitano è un uomo che rappresenterà tutti noi». L’escamotage è parlare al futuro. Come dire: per adesso non so, ma mi immagino che nei giorni a venire starà attento al segnale ricevuto.
Brutta giornata dunque, quella di Vicenza. Ci dice che una destra alla Pinochet, che non ha niente della destra moderna e tutto del populismo volgare e para fascista, sta seminando di chiodi le strade e cerca sul serio di creare un invivibile disordine. Un simile progetto - del tutto separato dalla democrazia - ha due barriere: un serio e coraggioso mondo dei media disposto alla descrizione accurata di ciò che accade (se non al commento e alla interpretazione). E una maggioranza che si rende conto del pericolo e smetta il continuo logorio delle battaglie interne.
Quella per l’Italia è la sola che valga la pena di affrontare.
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www.unita.it, Pubblicato il: 22.10.06 Modificato il: 22.10.06 alle ore 13.58