Studia

Superlasalashow: il mutante tecnologico muove a ritroso. Passo del gambero da Mc Luhan a Vygotski

Il colpo di san La Sala
martedì 2 maggio 2006.
 

Lo storico Lucien Febvre faceva notare, già negli anni Settanta, come la psicologia stentasse a dare contributi sostanziali alle discipline di carattere storico:

«Quando gli psicologi parlano nelle loro memorie, nei loro trattati di emozioni, di decisioni, di ragionamenti dell’uomo, in realtà essi trattano delle nostre emozioni, delle nostre decisioni, dei nostri ragionamenti: del nostro settore particolare, di noi, uomini bianchi dell’Europa occidentale, integrati in gruppi di antichissima civiltà. Ora, come potremo valerci, noi storici, di una psicologia basata sull’osservazione degli uomini del XX° secolo per interpretare le azioni di uomini di altri tempi?»

Il quesito, presentato in modo eloquente dal fondatore degli Aannales d’Histoire Economique et Sociale, è stato riproposto e discusso in molte occasioni, ma non si è giunti a conclusioni definitive. Gli storici attenti conoscono assai bene il rompicapo esposto da Febvre e non smettono di segnalarlo. Così, il volume La nascita della Scienza Moderna in Europa, dello storico del pensiero scientifico Paolo Rossi, si apre con l’affermazione:

«Più che alle strutture perenni della mente degli esseri umani, gli storici sono interessati alla diversità dei modi di funzionare delle menti in epoche differenti».

Dubito che Paolo Rossi abbia voluto esprimere con queste parole soltanto una captatio benevolentiae nei confronti del curatore della collana, lo storico francese Jacques Le Goff. Un’autorità scientifica indiscussa come lui non ne avrebbe avuto alcun bisogno. Si tratta invece di una esplicita dichiarazione di intenti. Sebbene Paolo Rossi si riferisca alla storia della scienza, il problema delle diversità dei modi di funzionare delle menti è stato posto in termini più generali riguardo alla coscienza delle diverse civiltà sia in chiave sincronica che diacronica. E non solo da Le Goff. Non ci sono troppi dubbi circa il fatto che i maggiori contributi recenti in questa direzione di ricerca siano giunti da quella che è stata definita, un po’ genericamente, scuola canadese (o scuola di Toronto) che ha proseguito gli studi avviati dal controverso Mc Luhan e dal suo maestro, l’economista Harold Innis. Uno dei più noti rappresentanti della scuola canadese, Erick A. Havelock, ha rilanciato in questi termini l’annosa questione:

«La mente o la coscienza umana, o comunque si voglia chiamarla, rappresenta una costante dell’umanità o ha subito modificazioni storiche ? Più semplicemente: gli esseri umani pensavano diversamente da come noi pensiamo oggi, e oggi noi pensiamo diversamente da come penseremo in futuro ?»

La risposta di Havelock, in linea con quella della sua "scuola", è ovviamente quella che le modificazioni storiche ci sono state e ci saranno ancora. Inutile dire che domande di questo genere, nella società dei media elettronici, hanno finito spesso con l’assumere la forma di un vero "tormentone" con continue discussioni a proposito e a sproposito. I media elettronici modificano la nostra coscienza ? L’espressione mutazione cognitiva si è diffusa e, con essa, sono stati versati fiumi di inchiostro circa ansie e timori (e qualche speranza) per una trasformazione radicale della coscienza a cui alcuni hanno dato il nome di era postumana. Per altri versi, il problema investe la problematica delle differenze tra culture, coinvolgendo ampiamente gli interessi dell’antropologia. L’indagine dei canadesi si è progressivamente diversificata e, se gli studiosi orientati alla filologia classica come Havelock e Ong si sono concentrati sul passaggio dall’oralità alla scrittura, giungendo a conclusioni importanti e per molti versi definitive, i mcluhaniani più giovani e intraprendenti hanno preferito guardare avanti, affrontando lo spinoso tema dei media elettronici. Sicuramente fondamentali, a tale proposito, lo studio di Meyrowitz sulla televisione e quelli più recenti di De Kerckhove sulla comunicazione digitale, l’Internet e le reti.

Ad ogni modo, per una molteplicità di ragioni, il termine coscienza sebbene usato costantemente da questi studiosi, non è mai stato oggetto di analisi o definizioni troppo persuasive da parte della scuola canadese o di altri storici della cultura. A volte ci si è accontentati di termini come mentalità, altre volte s’è parlato di mente, Foucault insegnava storia dei sistemi di pensiero e soltanto alcuni temerari hanno parlato esplicitamente di cervello. La cosa non deve stupire. La definizione di coscienza solleva problematiche scientifiche, religiose e filosofiche troppo vaste perché se ne possa discutere con disinvoltura. La coscienza «o comunque si voglia chiamarla», viene allora data per scontata e sembra dissolversi in una sorta di perenne understatement, un sottinteso che rinvia a problemi troppo vasti per essere, non oso dire risolti, ma anche soltanto accennati. E’ tuttavia legittimo chiedersi come un ambito di studi che assegna tanta importanza alla coscienza (o alla mentalità o alla cultura, o ai sistemi di pensiero) come la scuola canadese, possa mantenersi attivo e vitale senza che di tali ineffabili entità venga fornita una qualche, sia pur debole, descrizione. Nelle pagine successive discuteremo il rapporto tra le mutazioni culturali di cui parlano i canadesi e l’impostazione teorico-metodologica con cui alcuni psicologi e neurologi, in particolare quelli appartenenti alla cosiddetta scuola storico-culturale sovietica, hanno affrontato il medesimo problema. Come avremo modo di vedere il rapporto tra le due "scuole" è estremamente visibile anche alla luce di una breve indagine bibliografica.

Prossimità in itinere e politica

Una passione imprudente per la neurofisiologia è stata certamente all’origine di alcune delle molte scomuniche lanciate all’indirizzo dell’opera di Mc Luhan. I suoi continui riferimenti al sistema nervoso, ai sensi e al cervello, penzolavano tra il tradizionale e discutibile uso delle metafore del corpo in sociologia e una singolare forma di materialismo, che sembrava muoversi tentoni nei labirinti della neurofisiologia alla ricerca di qualche conferma alla sue ipotesi sui sensi estesi artificialmente. Anche chi scrive - pur ormai lontano dal rigore dei laboratori - non può sottrarsi dal rilevare come alcuni degli argomenti psicofisiologici di Mc Luhan, nella loro disarmante ingenuità, spieghino da soli come il canadese si sia guadagnato l’appellattivo di Dottor Spock della cultura pop. Ma anche gli allievi di Mc Luhan e gli studiosi che a vario titolo si sono ispirati al suo pensiero, si sono posti il problema e, in diverse occasioni, lo hanno fatto con maggior lungimiranza del maestro. Se qualcuno ha voglia di perdersi per li rami delle genealogie e dei riferimenti incrociati finirà prima o poi con lo scoprire che la scuola canadese ha spesso attinto da una tradizione di studi precedente, di radici esplicitamente marxiane, la cosiddetta scuola storico-culturale sovietica, che non era composta da studiosi di storia o di letteratura quali Mc Luhan e la maggior parte dei suoi epigoni, ma da psicologi direttamente impegnati nelle neuroscienze come A. R. Lurjia e Lev S. Vigotskij. In realtà Vygotskij e Lurija erano scienziati di vastissima cultura, la cui formazione non era ispirata a quello specialismo rigido che spesso caratterizza i neuroscienziati dei nostri giorni. Forse per questo, il contributo degli studiosi sovietici è stato di incalcolabile importanza, e la loro influenza, lungi dal rimanere limitata alla storia delle culture, si estende a settori come la riabilitazione, la neuropsicologia (di cui Lurija è considerato il fondatore) la pedagogia. Non più di dieci anni fa ebbi uno scambio con un celebre neurochirurgo che nei suoi corsi insegnava neuropsicologia seguendo un celebre libro di Lurjia degli anni Settanta. Giovane psicologo piuttosto fomentato e attento alle novità quale ero allora, gli chiesi a bruciapelo se non gli sembrasse un testo un po’ superato. Ricordo la sua risposta come fosse ieri:

«Pensi pure ciò che vuole. Ma quando vado in sala operatoria, porto sempre il Lurjia nella tasca. Trent’anni di esperienza mi hanno insegnato che è quel che fanno tutti, anche se non sempre lo riconoscono»

. Ancora più sorprendente è che, quando entriamo nel dettaglio, scopriamo che il libro di Lurija a cui si riferiva il professore costituisce l’approfondimento e il sostanziale completamento, a quarant’anni di distanza, di un articolo di Vygotskij che risale al lontano 1934. Un periodo in cui molte scoperte epocali, come quella del DNA, erano ancora di là da venire, e in cui le tecniche di indagine neuropsicologica non erano neanche lontanamente paragonabili a quelle attuali.

Molta acqua è passata sotto i ponti dalla pubblicazione di quel manuale di Lurjia. Ciò che però merita uno sguardo sorpreso è la tenuta complessiva, durata almeno mezzo secolo, del modello di Vygotskij. Rispettato, peraltro, anche da molti studiosi contemporanei. Un risultato dovuto evidentemente al genio di Vygotskij, ma anche all’ampiezza di vedute che caratterizzava la ricerca della scuola storico-culturale, che sapeva spaziare dall’antropologia culturale alla linguistica, dalla pedagogia alla critica artistica e letteraria. Un background culturale profondissimo che, tra l’altro, consentì a Lurija quelle portentose analisi cliniche che recentemente hanno catturato la fantasia di scrittori e registi. La sensibilità umana e narrativa con cui Lurija ha descritto i suoi pazienti cerebrolesi diventerà celebre dopo la sua morte, ispirando una sorta di vero e proprio stile letterario a carattere neuropsicologico che negli ultimi quindici anni ha raggiunto il grande pubblico attraverso le opere di Oliver Sacks.

Tornando alla scuola canadese non sfugge come nei loro riferimenti ai sovietici ricorrano frequenti exusationes non petitae quali: «Nonostante l’intelaiatura marxista la relazione di Luria (...)» (Ong) oppure «sebbene intese in origine come un contributo alla psicologia marxista (...)» (Havelock). L’interesse nei confronti delle ricerche sovietiche da parte dei canadesi non deve essere considerato, insomma, come un riconoscimento di tipo teorico alla scuola storico-culturale. Sebbene i canadesi abbiano ampiamente attinto alle precedenti ricerche dei sovietici, pare l’abbiano fatto soltanto per dare forza alle proprie teorie, tenendosi alla larga dai modelli e dai riferimenti culturali a cui si ispiravano gli psicologi sovietici. Si tratta di cautele dettate da ragioni - perfino comprensibili - di opportunità politica, ma difficilmente accettabili qualora ci si spinga alla loro sostanza. Pur facendo le rituali postille all’opera del barbuto filosofo di Treviri, è letteralmente impossibile scindere l’opera di Vygotskij dalle sue radici. Come ha scritto Giuseppe Cossu:

«Le premesse teoriche della scuola storico-culturale affondano le loro radici nei classici del marxismo, ma questa analisi, come notava Vygotskij, aveva lo scopo di impadronirsi del "metodi di Marx" non certo di sostituire citazioni rabberciate alla concreta analisi sperimentale dei problemi.»

Va da sé che l’impegno della scuola storico-culturale era guidato dal miraggio della costruzione di un uomo nuovo sovietico e ispirato in buona parte dalle ipotesi di Marx sullo sviluppo onnilaterale dell’uomo. Sappiamo come è andata a finire.

Ciò che rimane da vedere è in quale misura, negli scenari del lavoro immateriale e cognitivo, le teorie di Vygotskij, intese esplicitamente come "teorie della mutazione", vadano rilette e reinterpretate. Il che rimanda alla necessità, per troppo tempo procrastinata, di una definizione chiara del ruolo del materialismo nell’ambito delle cosiddette teorie della comunicazione.

Va anche rilevato, per completezza, che, se gli psicologi della scuola storico-culturale non furono propriamente dei dissidenti e in rare occasioni goderono anche dei favori del regime, è stato evidenziato come la loro posizione durante lo stalinismo sia stata in diverse occasioni estremamente precaria. Nel corso della guerra fredda, si ventilò spesso l’ipotesi, oggi quasi del tutto smentita, che la morte prematura di Vygotskij (1934) non sopraggiunse per cause esclusivamente naturali. Ipotesi tutt’altro che peregrina visto che il suo collega Bechterev, teorico della riflessologia sovietica, venne avvelenato dal KGB dopo una visita neurologica a Stalin, perché colpevole di aver dichiarato di sfuggita l’esito della sua diagnosi: «un’ordinaria paranoia».

Storia e politica a parte, tali prossimità nell’itinerario delle due "scuole" sorprende e fa riflettere. Se Ong e Havelock si sono interessati principalmente alle ricerche transculturali svolte da Lurjia in Uzbekistan negli anni Trenta, che contenevano interessanti argomenti circa il fenomeno del passaggio dall’oralità alla scrittura, riferimenti a Lurjia si trovano anche nell’opera principale di Meyrowitz. E non sono stati soltanto i mcluhaniani ad interessarsi agli psicologi sovietici: la storica Frances Yates si è soffermata sulle ricerche di Lurjia sulla memoria e perfino il finlandese Pekka Himanen ha dedicato un’ampia nota di Etica hacker a Vygotskij. A quest’ultimo riguardo è lecito supporre che la pedagogia della scuola storico-culturale può aver svolto un ruolo silenzioso ma determinante nei successi tecnologici di quella Finlandia (da Linux alla Nokia) in cui il pensiero di Vygotskij ha ricevuto notevole diffusione.

Probabilmente, il riferimento più pertinente alla scuola storico-culturale viene però dal paleontologo Leroi-Gourhan che nel suo "La parola e il gesto" in tono vagamente polemico nei confronti di Lévi-Strauss, scriveva che:

«tranne nella scuola russa degli storici della cultura materialista, l’infrastruttura tecno-economica per lo più è intervenuta solo nella misura in cui cotrassegnava in maniera sfacciata la sovrastruttura delle pratiche matrimoniali e dei riti».

Un’osservazione che, se fosse realmente riferita alla scuola storico-culturale sovietica, come del resto sembra probabile, assume un significato politico di notevole rilevanza e attualità.

Per quanto più rari, si trovano anche segnali del fenomeno inverso: il riferimento alla scuola canadese da parte degli epigoni della scuola storico-culturale. Nelle pagine bibliografiche di un libro di Luciano Mecacci, il più importante studioso italiano della scuola storico-culturale, troviamo un paragrafo della "bibliografia ragionata" intitolato:Il cervello è cambiato nella storia dell’uomo? in cui vengano elencati diversi riferimenti bibliografici all’opera di Mc Luhan e di Havelock.

Stimoli o segni ?

E’ evidente che questo tessuto di riferimenti incrociati - che non mi pare sia stato oggetto di considerazioni da parte degli addetti ai lavori - richieda approfondimenti che si spingano oltre l’evidenza di qualche occasionale interesse in comune tra le due scuole. Sarebbe impossibile riassumere in poche pagine la vicenda storica e l’impianto teorico del gruppo di studiosi marxisti che formarono la cosiddetta scuola storico-culturale nell’Unione Sovietica. Tale è la vastità dei temi affrontati da questi scienziati, talmente intricato il groviglio delle pubblicazioni filtrate con maggiore o minore intensità dagli apparati di partito, così arduo affrontare un simile argomento senza una descrizione del contesto storico in cui la scuola ebbe a svilupparsi, che non si può fare altro che rinviare i volenterosi alla bibliografia. Si può, invece, provare a riassumere brevemente il tema centrale della riflessione della scuola storico-culturale.

Partendo dalla constatazione che la maggior parte degli studi di psicologia sperimentale, nel corso degli anni ’20 e ’30 erano concentrati sul comportamento animale, Vygotskij produsse un’articolata confutazione materialistica della piena traducibilità dei principi del comportamento animale sull’uomo. Che tale confutazione fosse materialistica costituisce il punto di maggiore interesse per il nostro discorso. Lungi dal voler opporre lo spirito umano alla volgare materia, Vygostkij mostrava come la forma tipica del comportamento umano passi per una elaborazione interna. Quando faccio un nodo al fazzoletto per ricordare qualcosa stabilisco un nesso, di tipo culturale, con la mia attività. Fenomeni di questo genere, riconducibili per estensioni progressive fino alle costruzioni di sistemi di segni da parte dell’uomo, non si osservano negli animali. Mentre la psicologia comportamentista statunitense, la scuola pavloviana e la riflessologia della Russia dei primi anni del Novecento, si concentravano su stimoli e condizionamento, Vygotskij, pur riconoscendo pienamente la portata euristica di tali approcci, sottolineava l’esistenza nell’uomo di un processo di tipo diverso, che introduceva stimoli di natura culturale, dotati di una dinamica propria e non immediatamente riconducibili al modello S-R. «La novità» scriveva Vygotskij,

«è che qui è l’uomo stesso che crea gli stimoli che determinano le sue reazioni e li adopera per dirigere i processi del suo comportamento.L’uomo determina liberamente il suo comportamento mediante degli stimoli-mezzi creati artificialmente».

Oggi si sarebbe tentati di definirla una semiotica psicofisiologica. Espressione volutamente spericolata, dal momento che la semiotica si è occupata esclusivamente di "segni", mentre la prospettiva di Vygotskij collocava il segno, se non in continuità, almeno in uno spazio di forte continguità con il puro stimolo:

«La presenza di stimoli creati accanti a quelli dati è, a nostro parere, la caratteristica distintiva della psicologia dell’uomo. Noi chiamiamo questi segni "stimoli-mezzi" artificiali, introdotti dall’uomo nella situazione e svolgenti una funzione di autostimolazione .... L’uomo introduce stimoli artificiali, "significa" il comportamento e instaura, mediante i segni, dall’esterno, nuovi nessi nel cervello».

Sebbene per Vygotskij l’attività simbolica umana doveva avvenire anche a livello cerebrale, egli si distanziava da quanto veniva sostenuto dalle concezioni rigidamente naturalistiche di quel periodo. I sistemi simbolici, nella visione di Vygotskij, non si sviluppano autonomamente, ma passano per la mediazione sociale. L’abitudine di fare un nodo al fazzoletto per ricordare qualcosa di solito viene trasmessa socialmente, come trasmessi socialmente sono la scrittura, gli alfabeti, le tecnologie.

Già da queste scarne e inevitabilmente parziali considerazioni appare evidente perché la prospettiva "storico-culturale" abbia esercitato un fascino sugli storici delle culture. Essa poneva come punto di partenza lo studio scientifico delle caratteristiche peculiari dei processi di apprendimento propriamente umani. Il passo seguente, tratto dall’autobiografia di Lurjia, è particolarmente illuminante e fornisce un quadro sintetico, ma estremamente efficace, degli obiettivi che si proponeva la scuola storico-culturale:

«Sulla base delle nostre conoscenze e delle nostre ipotesi sulla struttura delle funzioni psicologiche complesse, derivate dalle nostre ricerche con i bambini, Vygotskij sosteneva che le funzioni psichiche superiori rappresentano dei sistemi funzionali complessi, che hanno una struttura mediata. Essi incorporano simboli e strumenti accumulati storicamente. Di conseguenza, l’organizzazione delle funzioni superiori deve differire da quanto si può osservare negli animali. Inoltre, poiché l’evoluzione del cervello ha richiesto milioni di anni, ma la storia dell’umanità si limita a migliaia di anni, una teoria dell’organizzazione cerebrale delle funzioni complesse deve spiegare quei processi, come ad esempio quelli implicati nella scrittura, che dipendono in parte da mediatori esterni, storicamente determinati. In altre parole Vygotskij riteneva che il suo approccio storico allo sviluppo di tali processi psicologici, come la memoria attiva, il pensiero astratto e le azioni volontarie doveva valere anche per i principi della loro organizzazione a livello cerebrale».

Il problema delle mutazioni storiche della cultura, per fare un esempio classico quello del passaggio dall’oralità alla scrittura, tendeva in tal modo ad assumere, nella ricerca di questi studiosi, una dimensione scientifica e si inseriva prepotentemente nei problemi relativi al cervello e al suo funzionamento. Vygotskij non si riferiva a mutazioni genetiche, ma a modificazioni che intervengono nello sviluppo del bambino quando riceve, attraverso l’insegnamento, l’eredità culturale della specie. Una ricerca psicologica sulla natura umana doveva necessariamente considerare sia le mutazioni storiche che lo sviluppo ontogenetico del bambino, mediato dai processi di relazione con gli adulti e dall’ insegnamento. Mantenendo, inoltre, un’attenzione costante nei confronti di quanto rivelavano le patologie cerebrali e la ricerca delle relative tecniche di riabilitazione neurocognitiva sia nel bambino che nell’adulto.

Naturalmente, occorre tenere conto del fatto che la genetica e la neurobiologia hanno ridimensionato in più punti la pretesa, presente in alcune interpretazioni affrettate dell’opera di Vygotskij, di una plasticità quasi assoluta del tessuto corticale dell’uomo. Psicologi, neurologi e genetisti sono oramai d’accordo, dopo un cinquentennio di ricerche seguite alla scoperta di Watson e Crick, che il cervello umano presenta una disposizione modulare suddivisa in aree e in gran parte innata. Oggi sappiamo come la plasticità nervosa, per quanto elevata nelle prime fasi dello sviluppo ontogenetico, sia guidata da un progetto genetico abbastanza rigido e si riduca progressivamente dall’adolescenza all’età adulta. Ci sono, nello sviluppo del bambino dei "periodi finestra" nel corso dei quali si presenta una predisposizione ad apprendere determinate facoltà, che non sarà più la stessa nel rimanente arco della vita. Ugualmente, è difficile negare come la storia mostri con evidenza che homo sapiens ha fatto ricorso a nuove forme simboliche che si sono presentate, in parte, come tecnologie storiche e, in parte, come tecnologie bioculturali. Le modificazioni sono storiche in quanto prodotte da mediatori esterni, da tecnologie sociali, come la scrittura, che vengono trasmesse come eredità culturale della specie. Sono però anche biologiche, perché queste novità coinvolgono l’hardware cerebrale e, in determinati casi, impongono significative ristrutturazioni dell’organizzazione nervosa.

La descrizione della scrittura come una tecnologia, per quanto possa parere a prima vista bizzarra, è sostenuta da molti storici della cultura, tra cui il gesuita Walter Ong che scriveva:

«La scrittura fu ed è l’evento di maggiore importanza nella storia delle invenzioni tecnologiche dell’uomo. Non si tratta di una semplice appendice del discorso orale, poiché trasportando il discorso dal mondo orale-aurale a una nuova dimensione del sensorio, quella della vista, la scrittura trasforma al tempo stesso discorso e pensiero».

Niente di più interessante e utile del confronto tra la descrizione della scrittura operata da Ong e quella a seguire, tratta da un’opera giovanile del vygotskijano Luciano Mecacci:

«Un sistema funzionale cerebrale di origine storica è inoltre la scrittura. Per scrivere occorre la partecipazione di varie strutture cerebrali, ciascuna delle quali ha una funzione specifica, ma nessuna ha quella della scrittura in sé. La scrittura è infatti funzione di un insieme (sistema) di funzioni che interagiscono dal momento in cui si apprende a scrivere. Senza addentrarci nella descrizione dell’organizzazione cerebrale implicata nella scrittura, basta notare come vi si richieda la partecipazione della aree del linguaggio (si deve scrivere una parola che già si conosce per averla udita) delle aree visive (si devono conoscere i segni visivi corrispondenti all’informazione verbale udita) delle aree motorie (per tracciare i segni specifici sulla carta si deve attuare un programma motorio che la mano esegue). La nuova funzione (la scrittura) si sviluppa solo se il bambino cresce in un contesto sociale dove essa viene "coltivata"».

Dove Ong parlava di trasformazioni del pensiero, Mecacci forniva una descrizione della scrittura più interna all’hardware biologico, evidenziando i rapporti tra le diverse aree cerebrali coinvolte dall’attività scrittoria. Tornando al problema delle mutazioni e delle differenze culturali, a diversi anni di distanza da quel libro, Mecacci è categorico:

«Su questo punto bisogna essere chiari: si suppone che la mente di un individuo del XX° secolo sia funzionalmente diversa da quella di un individuo vissuto nel medioevo o nel mondo greco e, a parità di epoca, diversa da cultura a cultura. In quali termini va ipotizzata questa differenziazione? Sicuramente non tanto nella dotazione filogenetica che la specie umana ha rispetto alla struttura del cervello, quanto nel funzionamento del cervello a livello di operazioni mentali. Questo è stato il punto forte della ricerca sovietica sulla storicità delle funzioni cerebrali che ha fatto riferimento alle teorie di Vygotskij.»

La ricerca degli storici del pensiero e quella degli storici del cervello sembrano incontrarsi in un punto:

«il concetto cardine è quello di strumento di cui si avvale la mente umana per ampliare la sua dotazione filogenetica, per andare non tanto al di là dell’informazione data, quanto al di là del "cervello dato"».

Del resto, se la cablatura genetica e predeterminata dell’hardware cerebrale è un fatto ormai accertato, sempre più consistenti si fanno anche i dati sperimentali a favore della plasticità nervosa. E’ stata dimostrato, ad esempio, un evidente inspessimento della corteccia dei moduli cerebrali più utilizzati da quanti, per studio o per lavoro, effettuano operazioni ripetitive dall’infanzia alla vita adulta . Violinisti, dattilografi e altri operatori manuali presentano rappresentazioni corticali delle aree della mano coinvolte nelle loro attività assai più vaste di quelle che si riscontrano nei gruppi di controllo. Un neurofisiologo inglese, Ian H. Robertson, nel suo libro Il cervello plastico ha parlato dell’apprendimento come di un processo che scolpisce in cervello. Nelle sue parole l’apprendimento: «scolpisce il cervello creando nuovi intricati disegni nelle connessioni tra neuroni».

Affermazione singolarmente vicina a quella di un allievo di Mc Luhan, l’esperto di massmedia canadese Derrick De Kerckhove, che ha introdotto il concetto di "brainframes" di cornice cerebrale: «L’idea sottesa a questa nozione», afferma De Kerckhove, «è che le tecnologie di elaborazione dell’informazione incornicino il nostro cervello in una struttura e che ciascuna lo sfidi a fornire un modello diverso, ma egualmente efficace, di interpretazione».

In realtà, se pure è senz’altro vero che oggi le tecniche di neuroimmaging mostrano con grande evidenza come le attività ripetitive determinino un allargamento abbastanza rapido delle aree corticali coinvolte, tale fenomeno non è di per sé paragonabile alle ristrutturazioni funzionali determinate da attività complesse quali la scrittura o l’apprendimento di uno strumento musicale. La tentazione ingenua di scadere in un associazionismo neurale semplicistico e meccanico dev’essere accuratamente evitata: la metafora del cervello come "muscolo" va presa cum grano salis. Se pigiamo con il pollice le altre dita nella mano in una data sequenza per dieci-venti minuti al giorno nell’arco di due o tre settimane rileveremo, accanto a un notevole perfezionamento della prestazione, un allargamento del tessuto cerebrale coinvolto, chiaramente visibile attraverso le tecniche di neuroimmaging. Ma si tratta di un fenomeno temporaneo. Chi ha una grande abilità con la tastiera del proprio telefono cellulare probabilmente avrà sviluppato un inspessimento delle aree motorie cerebrali che controllano la mano che svolge questa attività. Si tratta, in ogni caso, di fenomeni pronti ad estinguersi quasi completamente dopo brevi periodi di inattività. Al di là delle infinite discussioni filosofiche intorno alle teorie basate sull’associazione neuronale e alle teorie della mente di tipo computazionale, sembra abbastanza chiaro che, sotto il profilo del sistema nervoso, il problema delle grandi ristrutturazioni cognitive di natura storica risiede in lenti processi di embricazione tra diverse aree corticali. In questa prospettiva, le obiezioni che Lurija poneva al cosiddetto localizzazionismo di fine Ottocento, la ricerca di aree specifice del cervello deputate ciascuna ad una specifica funzione, sono in gran parte ancora valide nonostante vi sia un significativo "ritorno", sia sul piano della ricerca applicata che della filosofia della mente, ai principi del localizzazionismo. Un deficit cognitivo nella lettura non si spiega con un danno dell’area della scrittura, dal momento che quest’area cerebrale, com’ è ampiamente noto e dimostrato anche dal discorso di Mecacci citato sopra, non esiste in quanto tale. La scrittura è un sistema funzionale:

«esso si realizza solo e se, la cultura organizza le funzioni "inferiori" in questa funzione superiore».

Chi voglia individuare l’origine neurologica del deficit dovrà interessarsi a tutte le aree coinvolte nella scrittura e ai loro rapporti di reciproca interdipendenza.

Mutanti informatici ?

Processi come la scrittura si verificano, pertanto, in una dimensione storica e ancora una volta chiamano in causa i rapporti sociali e culturali che ne condizionano l’andamento anche a livello corticale. Ma gli strumenti del comunicare di oggi, quelli di cui si fa un gran parlare, rappresentano davvero delle modificazioni culturali "profonde", della stessa portata, per intendersi, di quelle che hanno determinato il passaggio dall’oralità alla scrittura ? Ci sono buone ragioni per dubitarne. La televisione o la radio non richiedono forme di apprendimento prolungate, non impongono un paziente allenamento che dura anni come avviene nel caso della scrittura o del linguaggio dei segni. Ciò a cui ci è dato assistere con i nuovi media è una proliferazione di stimoli, di segnali. La struttura comunicativa di MTV è abbastanza eloquente a riguardo: la stimolazione continua prevale sull’organizzazione del pensiero, che viene regolarmente battuta in velocità: «Di fronte al rapido mutare delle immagini presentateci e alla loro accelerazione lo spettatore è letteralmente trascinato da un’immagine all’altra (...). Lo spettatore non è più in grado di tenere il passo e rinuncia a una decodifica interiore».

Ma anche quando prendiamo in considerazione forme espressive statiche, come la fotografia o la prospettiva, ci rendiamo facilmente conto che, per quanto si tratti di forme storicamente determinate, non immediatamente accessibili a quelle culture tradizionali che non hanno subito il "training", in gran parte inconscio, a cui ci sottopone la cultura occidentale, esse vengono tuttavia assorbite rapidamente anche da quanti, già adulti, entrino in contatto con loro per la prima volta.

Naturalmente, questo non vuol dire che tali forme di comunicazione non meritino la nostra attenzione, o che non influiscano in modo più o meno significativo sul sistema sociale o sul sistema nervoso individuale. Sembra evidente, tuttavia, che la loro "influenza" (qualsiasi cosa significhi questa parola) sia di un tipo diverso rispetto a quella delle attività cognitive complesse che hanno trasformato la cultura e il cervello dell’uomo occidentale e che interessavano gli studiosi sovietici.

Un discorso a parte meritano invece l’informatica e il personal computer, che hanno catturato la fantasia degli stessi vygotskijani. Emblematico a tale riguardo quanto afferma Mecacci nell’introduzione di una recente edizione di "strumento e segno" (opera fondamentale di Vygotskij e Lurija risalente agli anni Trenta):

«Questa nozione di strumento esterno è ovviamente esemplificata nel migliore dei modi dal personal computer dei nostri giorni: la mente svolge determinate operazioni solo grazie alla mediazione del calcolatore e nuove associazioni, nuove reti si sviluppano tra le menti individuali ("l’intelligenza collettiva" di cui si parla sempre più spesso nei libri sul "cyberspazio") grazie alle connessioni via computer. Il concetto di "mente tecnologica" anche se questa espressione non si trova nei testi vygotskijani, è quindi implicito nella teoria storico-culturale, secondo la quale la mente amplia i propri strumenti di conoscenza».

La posizione di Mecacci suggerisce alcuni cambiamenti nell’interpretazione corrente della scuola storico-culturale, di cui si sottolinea sempre di più la sensibilità nei confronti degli aspetti cognitivi dell’attività umana. I riferimenti al cervello sono invece diventati rari, forse a causa della pervasività del nuovo localizzazionismo guidato dalla genetica, e si tende a cogliere nell’opera di Vygotskij una forma di "cognitivismo ante litteram".

In questa chiave, l’uso diffuso del personal computer come strumento cognitivo appare del tutto coerente con l’indirizzo teorico della scuola. Va tuttavia sottolineato come gli epigoni della scuola storico-culturale, compreso Mecacci, mantengano una posizione critica nei confronti di molte forme del cognitivismo contemporaneo e, in particolare, nei confronti dell’analogia mente-computer.

Se dunque l’informatica ristruttura la mente, si potrebbe considerare del tutto legittima la rampogna del francese Pierre Lévy nei confronti dell’insensibilità e dell’indifferenza del mondo culturale e degli accademici nei confronti delle mutazioni indotte dall’informatica:

«Il colmo dell’acciecamento si raggiunge quando le vecchie tecniche sono dichiarate culturali ed impregnate di valori, mentre le nuove sono denunciate come barbare e contrarie alla vita. Colui che condanna l’informatica non penserebbe mai a criticare la stampa ed ancor meno la scrittura. Il fatto è che la stampa e la scrittura lo costituiscono troppo perché egli possa mai designarle come straniere».

L’invettiva di Lévy può senz’altro essere considerata un’acuta diagnosi di quel fenomeno che Mc Luhan chiamava "narcosi narcisistica" una sorta di addormentamento, di negazione del nuovo medium in nome di un io ipertrofico che si identifica narcisisticamente nel mezzo, che tende a sussumere lo strumento mentre allo stesso tempo lo nega.

Riflettendo con il senno di poi, a quindici anni dal libro di Pierre Lévy, si direbbe che questo fenomeno assume caratteristiche altamente specifiche in presenza della tecnologia informatica. Essa si sta infatti configurando sempre più come una tecnologia in background. Chiunque si rivolga all’informatica con sguardo distratto, potrebbe arrivare a concludere che si tratta soltanto di un potente amplificatore di ciò che già esiste: dello scrivere, del fare calcoli, del fare fotografie, del comunicare per posta, del guardare la TV. Insomma, sembra non ci sia niente di nuovo nell’informatica, proprio perché in essa è tutto nuovo. La si potrebbe definire una tecnologia gattopardiana: una tecnologia che riesce a cambiare tutto lasciando esattamente tutto com’era prima. Risultando, di conseguenza, particolarmente idonea a questa nuova varietà di fenomeni di narcosi narcisistica.

«Analizzando tutto quel che nel nostro modo di pensare dipende dall’oralità, dalla scrittura e dalla stampa», affermava con lungimiranza Pierre Lévy, «scopriremo che noi apprendiamo la conoscenza di simulazione, propria della cultura informatica, con i riflessi mentali legati alle tecnologie intellettuali anteriori».

Fin dove questo è vero non si può parlare di una mutazione cognitiva forte, in grado di determinare ristrutturazioni significative a livello dell’organizzazione del sistema nervoso, neanche riguardo l’informatica. Ma, a qualche specifico livello, l’informatica presenta invece i tratti caratteristici di una ristrutturazione cognitiva di notevolilissime dimensioni. Almeno sul piano teorico, essa ha potenzialità di trasformazione paragonabile al passaggio dall’oralità alla scrittura. Il problema è che le forme più specifiche dell’informatica, quelle che potrebbero metterci sulla strada di significative e concrete mutazioni, sono anche quelle meno utilizzate. Si è fatto un gran parlare di ipertesti e multimedia, ma la fioritura di nuove forme di letteratura e di arte legate a queste nuove possibilità espressive è stata al di sotto delle previsioni. La cosiddetta realtà virtuale, che negli anni Novanta era stata salutata come un evento epocale, ha ben presto esaurito la sua spinta e proprio oggi che i progressi della tecnologia potrebbe garantirne un impetuoso sviluppo essa sembra del tutto scomparsa dall’orizzonte della ricerca informatica.

L’unica formula autenticamente informatica che da anni continua a proliferare con un certo successo è il videogame, che merita un discorso a parte che affronteremo altrove.

Si potrebbe obiettare, con buone ragioni, che la narcosi favorisce una mutazione inconsapevole, che proprio nell’intorpidirsi della consapevolezza dell’utente si danno quelle trasformazioni inconsce che facevano dire a Mc Luhan che il medium è il messaggio. Si tratta di un’obiezione corretta e parziale ad un tempo. Corretta perché c’è effettivamente un lavoro inconscio dell’informatica. Parziale, perché questo lavoro in background attualmente non si sta muovendo nella direzione di una rivoluzione delle forme del pensiero nel senso che abbiamo fin qui discusso. Al contrario, l’informatica si è insinuata come tecnologia di controllo e di comando all’interno di una molteplicità di attività precedenti, come l’organizzazione del lavoro, i sistemi di sicurezza, la comunicazione interpersonale, finendo spesso con il costituire un fattore di irrigidimento sociale le cui conseguenze, come vedremo, riguardano il sistema nervoso solo in termini di deterioramento e collasso.

E’ del resto ingenuo pensare che le mutazioni cognitive che l’informatica potenzialmente può determinare, per quanto notevoli, siano biologicamente inscritte nel percorso "evolutivo" di homo sapiens. Ed è quasi suicida illudersi che siano necessariamente positive. La questione che porremo con insistenza in questo lavoro è anzi quella che di tali mutazioni si deve discutere costantemente la direzione, l’andamento e il significato. E questa è biopolitica in senso proprio.

Vale concludere con l’osservazione che le indagini della scuola storico-culturale non rappresentano la chiave di volta per interpretare gli "strumenti del comunicare" dei nostri giorni né forniscono una risposta chiara alla domanda di Lucien Febvre sul mutare delle forme del pensiero nella storia. Indubbiamente mostrano che forme peculiari di tecnologia, quali la scrittura, vengono incorporate dall’uomo determinando sostanziali ristrutturazioni nell’organizzazione del suo sistema nervoso. Ma tali fenomeni di mutazione radicale richiedono lunghi periodi di incubazione e non si verificano con grande frequenza. Se pure investono l’organizzazione del sistema nervoso umano, non sappiamo alcunché di utile su come queste mutazioni avvengono concretamente né sui loro effetti di lungo periodo. Rimane tuttavia del tutto aperto, e di non facile soluzione, il problema delle potenzialità dell’informatica come strumento cognitivo in grado di determinare forme di mutazione altamente significative e, probabilmente, di importanza epocale.

Passo del gambero da Mc Luhan a Vygotski [da: www.babelteka.org/btiki/tiki-read_article.php?articleId=18]


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