"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
"Dopo la "Deus caritas est", la seconda enciclica: "Spe salvi".
"CARITAS IN VERITATE": FINE DEL CRISTIANESIMO.
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
Ha letto l’enciclica Deus est caritas come donna impegnata nella riflessione filosofica ed ermeneutica. E pure come persona che «non aderisce a nessun credo», ma «non per questo anticlericale», come lei stessa si è definita. Luisa Muraro, filosofa della differenza sessuale, analizza il documento papale sull’amore scoprendo «bagliori caldi» di pensiero nel testo di Benedetto XVI. Condividendo in maniera convinta la critica di Ratzinger al marxismo in nome di un «qui e ora inattingibile al pensiero e assoluto» rispetto a ogni strumentalizzazione.
Quali sono questi punti "caldi" del documento di Benedetto XVI?
«Due, soprattutto: quando dice che "il programma del cristiano è un cuore che vede". E quando scrive che "Dio ci coglie di sorpresa". Credo che questi elementi vengano proprio dal suo cuore, che li abbia scritti senza la preoccupazione della dottrina. Qui il Papa vuole - a mio parere - comunicare il senso del divino che ha dentro di sé. Non gli interessa la morale, ma qualcosa di Dio, che a noi arriva proprio nel modo in cui lui lo percepisce. Si sente, in questi frangenti, che Benedetto XVI è uno come noi, che parte dalla sua bisognosità creaturale di Dio, e ci comunica quanto lui stesso ha provato di Dio».
«Un cuore che vede» è un’espressione quasi materna...
«Sì, è vero, mi ha richiamato subito la figura della madre verso il proprio figlio. E vorrei ricordare quanto lo psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott diceva delle mamme "sufficientemente buone", che in quanto tali adempiono il programma cristiano, così come lo prospetta Benedetto XVI. Anche se devo sottolineare che nell’analisi dell’amore compiuta nell’enciclica manca il riferimento all’amore materno».
Nel suo testo il Papa critica il marxismo da un punto di vista inedito: «L’uomo che vive nel presente viene sacrificato al moloch del futuro». Qui e altrove Benedetto XVI sembra fare spazio ad una prospettiva di "trascendenza terrena" che può unire credenti e non credenti: cosa pensa al riguardo?
«Questo mi sembra una questione cruciale, che considero il punto più alto dell’enciclica. Finora il marxismo respingeva la religione in quanto rimandava al Cielo ciò che doveva essere un’esperienza umana, da sperimentarsi qui e ora. In questo passaggio, invece, Benedetto XVI segna un punto importante nella critica al marxismo: rifacendosi ad un "qui e ora", il Papa afferma la precedenza del presente sull’assente. E segna un’affermazione fondamentale della metafisica nei confronti della religione moderna e postmoderna, che su questo punto è un macchinoso marchingegno che si fonda sul filo dell’assenza. Per il Papa questo "qui e ora" è la presenza dell’amore. E Benedetto XVI si oppone alla modalità pratica del marxismo, che usa l’altro per ottenere un suo fine - con effetti aberranti, come si è visto nella storia. A tutto questo il Papa contrappone la testimonianza di un "di più" presente nell’amore cristiano che rende visibile un assoluto che nessuno può controllare. Questo, a mio giudizio, è il punto cruciale dell’intero testo, perché il "qui e ora" come testimonianza dell’amore rimanda a un altro che è inattingibile e che nessuno può possedere in maniera speculativa. Infatti l’amore è il punto di contatto fra quello che noi siamo nella nostra finitezza e l’infinitezza (per usare un’espressione di Simone Weil) che i cristiani chiamano Dio, che è appunto amore».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL CATTOLICESIMO-ROMANO E I SUOI SCHELETRI NELL’ARMADIO.
"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
"Dopo la "Deus caritas est", la seconda enciclica: "Spe salvi".
"CARITAS IN VERITATE": FINE DEL CRISTIANESIMO.
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE ( 1 Gv 4,16): MA AL DIO ("CHARITAS") DI GESU’ ("LUMEN GENTIUM") O AL DIO ("CARITAS") DI COSTANTINO E DI RATZINGER ("DOMINUS IESUS") E DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST")?! DI CHI SIAMO FIGLI E FIGLIE?!
"LUMEN FIDEI": LA "LUCE DELLA FEDE" MORTA E SEPOLTA SOTTO LA VOLONTA’ DI POTENZA DI RATZINGER: PAPA FRANCESCO HA FIRMATO! Una nota di Vito Mancuso - con appunti
IL PAMPHLET DI LUISA MURARO DIO È VIOLENTO (NOTTETEMPO, 6 EURO, PP. 75) SI INNESTA SU DIVERSI LINEE DI PENSIERO. LA PIÙ ARCAICA E PROFONDA È QUELLA BIBLICA.
La forza dell’uomo
Che mondo sarà il nostro? Un pamphlet di Luisa Muraro
Il nuovo potere immenso, astratto e invisibile che esercitano finanza e informazione
delegittima la politica e la vita
Ma l’umanità deve resistere, affermandosi contro ciò che lo nega
di Enrico Palandri (l’Unità, 27.06.2012)
La violenza di Dio, da Gomorra a Giobbe a qualunque evento naturale che distrugga umani, animali, natura, rischia di inaridirsi in autocommiserazione se non trova la forza di chi è stato plasmato dall’amore femminile che ci ha cresciuto. Come ritrovare questa forza?
Osserviamo la violenza attraverso Marx: il capitale estrae valore dalla vita, lo monetarizza, lo astrae. Il comunismo è fallito perché, come diceva Glucksmann, nel mito rivoluzionario si abolisce il problema delle origini. Non è possibile sostituire a tradizioni spirituali il materialismo storico, o ci si ritrovano file di contadini nella piazza rossa a venerare la salma di Lenin o in piazza Tien En Men per vedere Mao Dze Dong. Quello che viene prima non viene mai solo superato, si trasforma e resta con noi, che sia il potere feudale, le lotte di religione, lo scisma o qualunque altro momento nella storia dei popoli e delle persone.
Ma la critica al capitalismo resta al centro del nostro mondo, anche dopo il crollo del comunismo: più ancora che nell’epoca industriale, che sta passando alle nostre spalle, la crescita esponenziale della astrazione del valore dalla vita, la sua monetarizzazione e finale opposizione alla vita concreta ci mette di fronte a un quadro che nessuno governa: tramontano le forme partecipative della politiche (quelle democratiche e quelle dittatoriali) che hanno caratterizzato il novecento, ed emerge un nuovo potere che si esercita congiuntamente attraverso finanza e informazione.
Murdoch e Berlusconi, ma anche Repubblica o il Corriere, tutti i media e le banche divengono i luoghi in cui convergono informazioni e denaro. Il potere è nel flusso di queste astrazioni, soldi e notizie. Non le cose e noi, amanti e viventi, ma notizie delle cose, di noi, e rappresentazioni simboliche delle relazioni sociali. Questo flusso delegittima la politica, e alla fine la vita stessa.
In questo territorio il comando non è esercitato da un imperatore come quello cinese o romano posto al centro della società, ma dall’astrazione. Un potere immenso, e astratto, invisibile. Tutti noi versiamo costantemente il denaro che guadagnamo nelle banche, compriamo anche al dettaglio attraverso ordini che trasferiscono crediti che abbiamo con istituzioni, se possiamo risparmiamo, investiamo cioè parte del valore del nostro lavoro nel futuro attraverso le banche, ma questo denaro dalla concretezza della relazione che ha mediato (ti ho aggiustato il rubinetto e mi dai quindi 250 euro) entra subito in un flusso di denaro astratto che assume immediatamente una identità indipendente, il valore risucchiato dalle vite concrete e trasformato in spread e pensioni, nel valore di una casa, nell’acquisto di un paio di scarpe o nel fallimento del bilancio economico di una nazione.
Il territorio di questo impero è il pianeta intero, e al suo interno le corporazioni si muovono come le aristocrazie o gli ordini religiosi nel medioevo, in modo transnazionale,delegittimando costantemente la politica (sono osservazioni consone a quelle di Negri e Hardt nel libro forse più influente degli ultimi anni, Impero).
Murdoch ha chiesto a John Major di cambiare politica in Europa, a Blair di sbrigarsi con la guerra in Iraq. Sua moglie secondo alcune voci nella rete potrebbe essere una spia cinese, notizia che anche se si rivelasse falsa mostra dove si è spostato il potere. Ma Murdoch potrebbe anche non esistere, le forze del mercato agirebbero per lui.
I giornali, le televisioni, o semplicemente i nodi di raccolta e diffusione di informazioni, divengono a prescindere da Berlusconi e Murdoch il luogo che si sostituisce un poco alla volta alla politica, la spinge ai margini. Grandi agglomerati di folle disomogenee che si riconoscono in nome delle idee, ma che hanno un committente e un pubblico, non cittadini che ne sono il senso costitutivo.
Nodi attraversati da informazioni private e pubbliche, un unico flusso che tende sempre più all’astrazione, a togliere tempo e valore dalla vita per spostarla in luoghi digitali, astratti, che si spostano da Tokyo Buenos Aires in un istante, fanno fallire oggi la Grecia e domani se credono la Germania, dove raccontiamo dei nostri amori e versiamo lo stipendio, per poi magari vedere apparire improvvise risorse e opportunità in un’altra parte del pianeta.
Che mondo è, e che mondo sarà questo? La risposta più radicale all’astrazione è quella di amarci gli uni con gli altri, già raccomandata da San Paolo. Non per un generico buonismo, ma perché oppone l’amare e l’amarsi concreto, l’essere presente gli uni di fronte agli altri, all’astrazione e monetarizzazione. La forza umana alla violenza del potere. Così resistono gli umani da sempre alla violenza dell’imperatore, affermandosi contro ciò che li nega e li nasconde.
LA MISURA E LE PAROLE. PARLARE PER SE’ E PARLARE "IN GENERALE", "IN PERSONA CHRISTI". L’ideologia del superuomo e della superdonna. Note di premessa sul tema:
Esiste il sesso delle parole
di Luisa Muraro (Metro, 28 marzo 2012) *
Non m’interessa che si faccia una politica in favore delle donne. Quello che invece m’interessa, è che le donne che entrano in politica, sappiano farsi valere con tutta la loro esperienza e competenza. Perché lo dico? Perché troppe di loro, man mano che fanno carriera, rinunciano invece al nome di donna e si presentano come dei neutri. Mi riferisco a quelle che, parlando ai giornalisti, dicono: chiamatemi ministro, sindaco, segretario, professore... La trovo una cosa scandalosa e incomprensibile, tanto più che negli altri paesi europei non lo fanno. Angela Merkel era deputata ed è diventata cancelliera della Germania. Ma guardiamo anche da noi: la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia; quella che lavora in campagna, contadina; quella che vende, commessa. È giusto, lo vuole la lingua che parliamo, lo insegnano i vocabolari. Nei vecchi vocabolari non troviamo il femminile di sindaco, di ministro, di deputato, ma solo perché erano vocabolari di una civiltà patriarcale che escludeva le donne dalla vita pubblica. Questo non succede più. Da qui viene per me lo scandalo: se quelle che entrano nei posti di comando vogliono chiamarsi al maschile, che messaggio danno? Che il femminile è buono per sgobbare ma non per dirigere? Buono per la scuola elementare ma non per l’università?
Che una donna ammiri un uomo, ammesso che abbia qualche merito, non ci sono obiezioni, l’ammirazione è un sentimento libero. Ma che lo prenda come una misura per sé, in generale, questa o è soggezione o trasformismo. E ha degli effetti deteriori, perché in un posto di responsabilità, grande o piccola, bisogna portare non solo le conoscenze ma anche le esperienze, non solo un titolo di studio ma anche il proprio essere.
Niccolò Machiavelli dichiara nei Discorsi (III, I), "è solenne principio che per riformare una società in decadenza è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’azione".
Anche Machiavelli sarebbe d’accordo con il Papa
di Ettore Gotti Tedeschi *
Una enciclica sociale è senza tempo perché affronta, in periodi diversi e condizioni che cambiano, un problema sempre prioritario: l’esigenza di dare un senso alle azioni umane. Esigenza che si soddisfa cercando e trovando la verità. Per questo motivo, la Caritas in veritate nei suoi principi è senza tempo: potrebbe essere stata scritta un secolo fa, così come potrebbe esserlo fra cento anni. Ma un testo papale di questo genere intende ovviamente anche rispondere ai problemi dei tempi in cui nasce.
Quando nel marzo 1891 Leone xiii pubblicò la Rerum novarum, molti vollero interpretarla in chiave anticapitalistica per le considerazioni che conteneva sugli eccessi della concentrazione del potere economico. Ma proprio nello stesso periodo, nel luglio 1890, il Governo statunitense aveva promulgato lo Sherman Act per regolare i monopoli che impedivano al mercato di funzionare. Era una curiosa coincidenza tra valutazione economica e giudizio morale che lascia intendere come le leggi dell’economia non possano prescindere da una naturale conformità con i principi etici.
Allo stesso modo si può interpretare la Caritas in veritate. Consapevole delle origini dell’attuale situazione economica, Benedetto XVI propone la sua analisi e mette in guardia sulla pericolosità di una crescita egoistica, consumistica e insostenibile. La stessa crescita fittizia che ha portato in questi anni a distruggere ricchezza e indebolire l’uomo. Curiosamente, come era avvenuto alla fine del xix secolo, anche questa volta è dagli Stati Uniti che è venuta un’indiretta adesione all’insegnamento del Pontefice. Il presidente Obama - riproponendo la complementarità tra valutazione economica e morale - ha infatti affermato che gli americani devono smetterla di vivere al di sopra delle proprie possibilità.
Ma quanto durerà l’attenzione alle raccomandazioni contenute nella Caritas in veritate? Il suo richiamo verrà dimenticato appena terminata l’emergenza? Il testo è stato pubblicato in un momento di grave recessione economica originata da una forte crisi dei valori morali. Tutti sono ora molto attenti e si dichiarano d’accordo con il suo messaggio. Ma ci vuole altro per consentire allo spirito dell’enciclica di radicarsi. È necessario comprendere cosa significhi in pratica applicare l’etica all’economia. È forse inutile sperare in un cambiamento delle persone a motivo di un ciclo economico negativo. Molti di quelli che oggi riconoscono l’importanza dell’etica in economia, appena ieri dileggiavano lo stesso richiamo, sottolineando l’esclusiva importanza di produrre profitto. E ignorando che l’aspetto etico riguarda soprattutto come e perché il profitto viene generato.
Le proposte della Caritas in veritate potranno quindi essere accettate e trovare realizzazione anche nei periodi successivi alla crisi attuale se si riconoscerà che esse corrispondono a un concreto interesse generale e individuale. Ci si deve cioè convincere che l’etica in economia produce risultati migliori. E ciò non è affatto impossibile se si regola la competizione sleale. Non è difficile dimostrare che l’etica applicata produce maggiore ricchezza, che è persino un vantaggio competitivo, che realizza risultati più sostenibili nel tempo. Il comportamento etico implica costi minori - si pensi solo a quelli di controllo - e permette di creare valore crescente grazie alla trasparenza e alla fiducia che a loro volta producono più certezze e meno rischi.
Qualcuno diffonde ancora l’idea che la civilizzazione dell’economia - l’applicazione cioè di principi etici alle attività economiche - significhi minore produzione di ricchezza, rallentamento del processo economico, meno vantaggi competitivi e una scarsa attenzione alla misurazione dei risultati in base al profitto. In realtà è vero il contrario. È la mancanza di etica a produrre rischi di distruzione di ricchezza, e la storia della crisi attuale non dovrebbe lasciare dubbi in proposito. È lo spreco di risorse a generare perdite per la comunità. È lo sviluppo truccato a innescare diseconomie e ingiustizie. È l’asservimento del cittadino agli esclusivi bisogni dello Stato a dare vita alla debolezza e alla conseguente sfiducia verso le istituzioni.
L’insegnamento della Caritas in veritate - a partire dalla fondamentale introduzione - può quindi trovare una concretissima e utilissima applicazione. Perché, come Niccolò Machiavelli dichiara nei Discorsi (III, I), "è solenne principio che per riformare una società in decadenza è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’azione". Anche lui sarebbe d’accordo con il Papa.
(©L’Osservatore Romano - 12 luglio 2009)
Ansa» 2009-07-13 11:08
PAPA: VACANZE IN VAL D’AOSTA, IMPONENTI MISURE SICUREZZA
INTROD (VAL D’AOSTA) - Sono circa 300 gli ’angeli custodi’ che vigileranno sulla sicurezza del papa durante le sue vacanze montane a Les Combes, frazione del comune valdostano di Introd. La questura di Aosta ha predisposto un servizio di sorveglianza, 24 ore su 24, in cui saranno impiegati 200 uomini - tra polizia, carabinieri, guardia di finanza, corpo forestale e polizia locale. A questi vanno aggiunti gli agenti dell’ispettorato che seguono da Roma il papa, la vigilanza vaticana, la polizia stradale e - durante gli eventi pubblici - la protezione civile.
Un piccolo esercito per misure che si preannunciano imponenti, considerato il fatto che Benedetto XVI trascorrerà gran parte delle sue giornate nello chalet di Les Combes e nei sentieri vicini. A Introd ci saranno anche i reparti specializzati: artificieri, tiratori scelti e unità cinofile, oltre agli uomini dell’ispettorato generale della polizia presso il Vaticano e quelli della sicurezza vaticana. I boschi e le zone limitrofe saranno continuamente tenuti sotto controllo da personale qualificato. Sono previsti anche servizi di filtraggio sulla strada di accesso alla casa di vacanza e sono stati intensificati i controlli alle stazioni, ai trafori e alle uscite dell’autostrada Aosta-Torino. A coordinare la macchina della sicurezza sarà il questore di Aosta. Da oggi e per tutto il soggiorno del papa, per un raggio di 6 miglia il cielo di Les Combes sarà inibito a qualsiasi oggetto in grado di volare, parapendio compreso.
“GESU’” E “MARIA”...CHE ‘BELLA’ E ‘SANTA’ ALLEANZA!!!
Una nota sull’ordine simbolico della madre ...e del figlio
di Federico La Sala (cfr. www.ildialogo.org/filosofia, 03.03.2006)
Dalla teoria alla pratica: Ratzinger - Benedetto XVI apre alla donna-MADRE e Luisa Muraro (la teorica dell’ordine simbolico della MADRE: cfr. Intervista*, “Più che di morale, ci dice qualcosa di Dio”, a c. di Lorenzo Fazzini, Avvenire, 02.03.2006) apre all’ uomo-FIGLIO - e tutti e due stringono una “santa alleanza” e ... partono per sogni incestuosi sul ’corpo’ e sul ’trono’ di "DIO". GESU’ e MARIA!!!...e questo che cosa è se non la teorizzazione e la santificazione dell’incesto e della struttura edipica, ‘cattolica’ - ‘universale’, di cui Freud - ‘Giuseppe’ (il grande interprete dei sogni) ha denunciato abbondantemente vita morte e miracoli, “peste” e “corna”!!! Dopo la tempesta di vento e la chiusura del Libro, al funerale di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II (del cui travaglio non si è proprio capito e voluto far capire niente), per queste pacchianate pre-evangeliche non c’è proprio più futuro!!! Cerchiamo di svegliarci.... e cerchiamo di capire che significa essere esseri umani!!! (03.03.2006)
Federico La Sala
VERITA’ O MENZOGNA? Aprire gli occhi e il cuore e non solo le orecchie. Non è tanto e solo importante capire "che cosa" viene detto, ma soprattutto "Chi" parla"!!! Parla Mosè o il Faraone? Parla Gesù - il figlio di Dio-Amore ("Charitas") e di Maria e Giuseppe, o il Papa e il figlio del Dio-Ammon-"Mammona" ("Deus caritas est"!!!) .... di Rea Silvia e Marte, di Laio e Giocasta??? "E’ meglio essere critiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo" (Lettera agli Efesini - cit. dalla "Prolusione del Cardinale Tettamanzi a Verona, 2006)).
SPE SALVI"
Non leggo più i documenti del Papa
di Sergio Grande *
Non leggo più i documenti del Papa.
Non leggo più i documenti di chi parla “ex cattedra”, di chi sostiene la propria infallibilità sia pure in materia di fede.
Non leggo più i documenti di chi vive in palazzi dove la ricchezza ed il potere trasuda da ogni pietra, dove il pasto quotidiano non è un problema, dove non ci sono gli affanni per arrivare alla fine del mese, dove i soldi non mancano mai, anzi c’è ne sono tanti da poterli usare anche per speculazioni finanziarie nei paradisi fiscali, dove schiere di servitori sono pronti a soddisfare ogni capriccio, dove non si vive la sofferenza che vivono alcuni miliardi di esseri umani nel mondo.
Non leggo più i documenti di chi si presta a fare il testimonial di auto di lusso nelle quali poi va in giro per il mondo.
Non leggo più i documenti di chi riceve i potenti della terra e gli sorride e stringe loro le mani anche se sono macchiate del sangue di milioni di persone, e non li addita al pubblico ludibrio.
Non leggo più i documenti di chi non fa nulla contro la guerra, limitandosi a dire qualche parola formale.
Non leggo più i documenti di chi nega i funerali ai poveri cristi come Welby e poi li concede ai criminali sanguinari come Pinochet o agli ultramilionari come Pavarotti anche se divorziati e risposati.
Non leggo più i documenti di chi accetta come propri rappresentanti politici, contro cui nulla dice, persone che secondo la sua stessa dottrina dovrebbero essere scomunicati, perché divorziati e risposati, o perchè implicati in ripetuti scandali finanziari o perchè portatori di ideologie apertamente atee.
Non leggo più i documenti di chi nulla dice contro coloro che detenendo il potere assoluto sui mezzi di comunicazione ha ridotto la nostra gioventù a marionette succube della pubblicità, della ideologia edonista, dell’ingordigia più estrema, del prostituirsi pur di avere successo, perpetuando l’idea della donna “oggetto sessuale”, buona solo a fare figli e a fare le faccende domestiche.
Non leggo più i documenti di chi vuole rinchiudere nel “tempio”gli uomini e le donne del nostro tempo per tenerli prigionieri della religione della paura e dell’angoscia, contro cui il Gesù di cui loro si sono appropriati ha speso tutta la sua vita.
Non leggo più i documenti di chi veste come un principe medioevale e che si dichiara vicario di Dio e che pur non avendo mai conosciuta la sofferenza che deriva dalla miseria si permette di pontificare su tutto e di non avere misericordia di alcuno.
Non leggo più i documenti di chi pretende obbedienza cieca, di chi si ritiene difensore della retta dottrina, di chi espelle in continuazione persone dalla chiesa come se fosse una sua proprietà privata di cui può disporre come gli pare.
Non leggo più i documenti di chi avvalla culti idolatrici schiavizzando milioni di persone attorno a questo o quel “santo”.
Non leggo più i documenti di chi ha combattuto ferocemente contro la “teologia della liberazione”, consegnando di fatto ai boia di turno i tanti profeti e martiri sudamericani primo fra tutti Oscar Romero.
Non leggo più i documenti di chi parla continuamente di Dio e mai dell’uomo.
LA NUOVA ENCICLICA “SPE SALVI...”
BENEDETTO XVI: UN PAPA CHE IGNORA IL CONCILIO VATICANO II
di Alberto Bruno Simoni op *
E’ solo un rilievo di fatto: se si scorrono le note della Enciclica “Spe salvi”, che sono 40, ben 7 sono del Catechismo della Chiesa cattolica, mentre non figura nessun riferimento, non dico all’evento di speranza che è stato il Vaticano II per la storia intera, ma almeno ai suoi documenti.
Se questo è un semplice indizio, non mancano motivi per pensare che il Concilio è chiamato in causa - anzi non è affatto chiamato in causa - proprio quando sarebbe stato necessario e inevitabile: proprio quando l’enciclica mette di nuovo in discussione - e non solo in discussione - il rapporto della Chiesa con la “modernità” o col “mondo moderno”, fino a mettere in mora un cosiddetto “cristianesimo moderno”.
La domanda che nasce è questa: il Concilio era “chiesa” e può essere ancora considerato espressione e insegnamento della chiesa, dal momento che viene così tranquillamente by-passato dal Magistero solenne? E’ una domanda tendenziosa, o c’è motivo di farla?
Il rilievo e l’interrogativo sono plausibili, se si passa alla lettura del testo, sia pure attraverso alcune citazioni e non ancora nel suo impianto generale. Al n.4 si legge: “Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciò è tutt’altro che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata”. Quindi presenza sì nella storia, ma in quanto questa è depotenziata e svuotata, per fare posto ad una “società nuova” che forse potrebbe essere la Chiesa.
Una conferma l’abbiamo al n.7: “La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una «prova» delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro «non-ancora». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future”.
Ne nasce un confronto tra “vita” ed “eternità”, e al n.11 ci si chiede: “Che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo - la «vita» vera - così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è”.
Parlando di speranza senza un soggetto portante (speranza di Israele, popolo messianico...) diventa necessario precisare “il carattere comunitario della speranza” (n.14), per poi dire al n.15: “Questa visione della «vita beata» orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo - in forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse”. Dove la storia umana appare come un guscio provvisorio e senza significato per la storia della salvezza.
Una domanda veramente cruciale e rivelativa è questa la n.16: “Come ha potuto svilupparsi l’idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si è arrivati a interpretare la «salvezza dell’anima» come fuga davanti alla responsabilità per l’insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri?”.
A parte il fatto che il carattere individualistico del messaggio di Gesù non è da imputare solo a fattori culturali “ad extra”, ma chiama in causa tanta spiritualità, tanta teologia e tanta ecclesiologia, come si fa a dimenticare che proprio il Concilio Vaticano II ha voluto essere nella chiesa e per la chiesa la svolta verso la collegialità, la comunione, la sinodalità, la coscienza di Popolo di Dio, in una parola la koinonia costitutiva?
Si ammette e si auspica un’autocritica anche da parte della chiesa, ma questa dovrebbe interessare e coinvolgere solo il “cristianesimo moderno” in parallelo all’”autocritica dell’età moderna”, come si dice al n.22: “Così ci troviamo nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici”.
Viene ancora da chiedersi se la Chiesa intera non abbia inteso, col Concilio, ripartire dalle proprie radici, per recuperare la sua intrinseca capacità di farsi “giudea con i giudei e greca con i greci”. In questo senso, una lettura più meditata la meriterebbe tutto il numero 24, dove si dice che “un progresso è possibile solo in campo materiale”, mentre nell’ambito delle “decisioni etiche” non è possibile uno sviluppo collettivo, ma tutto è sempre da ricominciare daccapo, fino a dire quanto segue: “Il retto stato delle cose umane, il benessere morale del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertà dell’uomo. Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione all’ordinamento comunitario. La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente”.
Si può essere d’accordo, ma si potrebbe auspicare che qualcosa del genere valesse anche per la “struttura chiesa” e nelle relazioni intra-ecclesiali: o anche qui siamo in mondi del tutto diversi e separati? Nel caso ad esempio, che una Teologia della liberazione, per non dire ancora dell’intero Concilio, rientri nel cosiddetto “cristianesimo moderno”, non si capisce come si possa fare questa affermazione al n. 25: “D’altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito - anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti”.
Si può dunque dire che il Concilio viene ignorato nella lettera e nello spirito. Ma si può dire anche di più: il fatto che non venga neanche messo in discussione (come fanno ad esempio i lefebvriani) può far pensare ad una cancellazione tacita, per ridurre tutta la realtà della Chiesa al Papa di turno. E la Chiesa che vive altrove e di altro può e deve solo tacere?
Alberto Bruno Simoni op
Dall’articolo di Eugenio Scalfari
“Il Papa che rifiuta il mondo moderno”
(La Repubblica 2 dicembre 2007)
Nei mesi più recenti era emersa una tonalità critica nei confronti della grande revisione conciliare e in un certo senso modernista del Vaticano II, dove dottori e pastori della Chiesa in vesti episcopali avevano aperto alla modernità, all’ecumenismo e perfino ai laici non credenti mettendosi in ascolto per trasmettere il messaggio evangelico e per conciliarlo con le risposte del pensiero laico, della morale laica e della razionalità.
Il Papa sembrava revocare in dubbio il messaggio conciliare e scavalcare a ritroso almeno due dei pontificati precedenti, quello di papa Roncalli e quello di papa Montini, tornando piuttosto alla Chiesa pacelliana e anche più indietro.
Perciò attendevo con interesse la seconda enciclica sperando che da essa si potessero trarre maggiori lumi sul pensiero di papa Ratzinger. Così infatti è stato. Anticipo qui il mio giudizio sul documento papale: Benedetto XVI ha voltato le spalle al Concilio Vaticano
Prima osservazione. L’enciclica porta un sottotitolo che indica i destinatari del documento: "Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana".
E’ strano che un’enciclica elenchi fin dal titolo i suoi destinatari. Tra di essi non sono indicati i seguaci delle altre confessioni cristiane, per non parlare dei fedeli di altre religioni. Solo vescovi, sacerdoti, fedeli cattolici.
Eppure si parla della speranza. Quella parola dovrebbe comunicare la massima apertura verso tutti i punti cardinali dell’orizzonte spirituale. Il vertice della cattolicità si chiude invece in difesa? Parla soltanto a chi è già arruolato e a chi è già convinto? Dov’è lo spirito missionario? Seconda osservazione. Le argomentazioni del documento pontificio sono certamente interessanti e comprensibili dalla cultura europea, ma abbastanza estranee ai cattolici di continenti e culture più lontane, all’Africa, all’Asia, all’America Latina. Che Ratzinger fosse un Papa europeo lo si era capito subito. La "Spe Salvi" ce ne dà conferma.
Ecco un’altra prova del suo voltar le spalle al messaggio ecumenico del Vaticano II.
Articolo tratto da:
FORUM (75) Koinonia
«Spe Salvi», quello che nessun Dio (e nessun papa) può fare
di Luisa Muraro (il manifesto, 06.12.2007)
Sembra a volte che qualcuno vicino al papa voglia danneggiarlo, oltre ai danni che lui stesso è capace di farsi. Mi riferisco a certe presentazioni della sua seconda enciclica, Spe salvi, «Salvati dalla speranza», come che lì ci fosse la condanna del marxismo e cose simili. Il testo della seconda enciclica è lontanissimo dal linguaggio delle condanne, ricco invece di critiche e di proposte che non possono non interessare quelli che hanno concepito la speranza di grandi cambiamenti.
Da dove escono certe sintesi rozze e fuorvianti? Una risposta secondo me esiste, senza dare la colpa ai giornalisti. Ma prima vediamo le critiche. L’errore del marxismo, secondo il papa, sarebbe di aver nutrito la speranza di una società senza ingiustizie, dimenticando che l’uomo resta libero anche per il male. Qui egli usa una formula con la quale non sono d’accordo: «il suo vero errore è il materialismo», come se il materialismo fosse sinonimo di determinismo. Non lo è quello di Marx, il cui guadagno teorico neanche il papa può respingere, perché contiene una verità. Altrimenti si finisce nello spiritualismo e in ciò sono d’accordo con una critica che Ida Dominijanni muove alla Spe salvi.
Quanto all’ateismo moderno, marxismo compreso, la critica si trova nelle pagine dedicate al «giudizio finale», che riescono a tradurre nell’oggi una tematica che era quasi scomparsa dalla cultura religiosa. Forse, solo un papa ferrato in teologia ed esegesi come Ratzinger poteva spingersi così avanti. A noi il cosiddetto giudizio finale è presente solo per certi capolavori della pittura, Giotto nella Cappella Scrovegni, Signorelli nel Duomo di Orvieto, la Cappella Sistina. Da questo grandioso immaginario Ratzinger ci invita però a prendere le distanze. Primo, perchè nell’arte gli aspetti terribili e paurosi hanno prevalso sullo splendore della speranza (da parte sua, una specie di abile autocritica, considerato che gli artisti erano guidati dai teologi). Secondo, perché a un certo punto occorre rinunciare ad ogni immagine del divino. Per pensare quel tema così distante da noi - e qui ci troviamo in un passaggio cruciale - bisogna ancora che superiamo la separazione tra la ricerca personale della salvezza e quella politica, una affidata alla fede religiosa e l’altra alla fede nel progresso storico. Nel suo contesto, per i suoi scopi, l’autore della Spe salvi fa la stessa mossa della politica delle donne: mettere fine ad una separazione tipica della cultura borghese, fatta per favorire egoismi e ipocrisie a non finire.
A questo punto viene la critica dell’ateismo, visto come una protesta contro Dio per le sofferenze di questo mondo. Protesta comprensibile, dice il papa, sbagliata è invece la pretesa che l’umanità possa fare «quello che nessun Dio fa né è in grado di fare». Parole forti. Le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia, aggiunge, provengono da quella pretesa. Noi sentiamo che il ragionamento è giusto: senza fare le graduatorie dell’orrore, è vero che la volontà del bene a tutti i costi, forzando i limiti umani, può essere causa di aberrazioni maggiori di quelle indotte dal normale egoismo, e si pensa a Robespierre o a Stalin. Ma si pensa anche alle religioni e ai loro fanatismi, si pensa alla Chiesa cattolica e ai suoi tribunali. Ci ha pensato il papa, scrivendo questo passo? Il testo non lascia trapelare nulla.
Ma non importa tanto questo, io dico, quanto andare alla conclusione del discorso: un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. I movimenti legati al marxismo sono naufragati, e con essi molte speranze e, purtroppo, anche alcune conquiste sociali. Ciò non significa che la partita comunista sia chiusa, ha giustamente affermato Luciano Canfora. Proprio per questo, se accettiamo la necessità di un ripensamento radicale, l’enciclica Spe salvi ci viene incontro.
Il contributo principale, secondo me, riguarda la dimensione simbolica dell’agire politico. Non credo che sia corretto ridurre il linguaggio dell’enciclica ad un rivestimento retorico di una dottrina immutata. Chi la scrive, quello che fa è tradurre nel presente testi e persone, come il Vangelo e san Paolo, che, molti secoli fa, hanno cambiato il mondo agendo dall’interno dell’essere umano, persone e testi che, senza potere, avevano un’efficacia performativa (per usare una parola che il papa usa e Dominijanni sottolinea). L’autore sa che il simbolico non soccombe al relativismo storico: con il tempo che passa, infatti, e si mangia tutto, l’ordine simbolico è in un rapporto di equipotenza. Detto alla buona: tutto passa, eppure quando io leggo un libro di mille anni fa e questa lettura mi risponde e m’ispira, i mille anni fa parlano qui e ora.
Si tratta, insomma, di quella politica del simbolico che è mancata al movimento operaio, sostituita da un’ideologia sposata fatalmente alla logica del potere, e che il movimento delle donne, invece, ha scoperto di suo, con la pratica dell’autocoscienza, pratica di parola in relazione che trasforma il rapporto che abbiamo con il mondo, e perciò il mondo stesso.
Per la seconda volta, mi scopro ad associare questo testo al femminismo: non credo che sia una forzatura, ma piuttosto la correzione di un suo aspetto evasivo. È evasivo nell’analisi storica del passaggio alla modernità, di cui ignora come, nella perdita della giusta soggezione verso la natura e nella volontà di eliminare ogni dipendenza, abbia pesato anche la volontà maschile di controllo sulle donne. È evasivo, di conseguenza, anche nel delineare le risposte che possiamo dare alla perdita della speranza, che domina l’odierna cultura occidentale: nel disegno, manca il sapere delle donne.
Vorrei lamentare un’altra lacuna, meno grave, un peccato veniale, di questo testo, ed è l’ignoranza di Giacomo Leopardi. Nella biblioteca di Joseph Ratzinger non c’è lo Zibaldone, me lo fa pensare quel breve passo in cui dice che «già nel sec. XIX esisteva una critica alla fede nel progresso» e non nomina nessuno dei tanti che poteva. Ma Leopardi avrebbe dovuto, perché non c’è nulla di quello che lui scrive sul culto della ragione e sulla fede nel progresso, che Leopardi non abbia già scritto, e forse meglio di lui, culto e fede che, neanche per Leopardi, possono validamente subentrare alla religione. O forse, se il nome non compare, non è per ignoranza, ma perché il nostro poeta-filosofo all’ottimismo risibile della fede secolarizzata non si oppone con un rincaro della credenza in Dio.
Qui vengo alla questione che, per me, solleva il testo di Joseph Ratzinger, non a causa di questo o quel difetto, ma proprio per tutto quello che esso mostra di vero e di buono. Lo irradia dalla lettura di grandi testi del cristianesimo nella sua stagione inaugurale, e lo fa arrivare anche a chi non si considera cattolico o credente. Ma ecco che, in questa luce, anche il papa, non diversamente da noi altri, comune umanità, ci appare paradossalmente ma inevitabilmente «ateo e marxista». Ossia, uno che parla di Dio credendo di sapere quello che dice, che pretende di avere la verità in tasca, che presume di sanzionare il bene e il male, che si candida a risolvere i problemi degli altri non avendo risolto i suoi.
In queste mie parole non è implicita un’accusa d’incoerenza e tanto meno un rigetto delle sue parole, non c’è l’aspettativa che l’autore rispecchi fedelmente le grandi cose che ha detto. Il rispecchiamento non è né possibile né richiesto. Nelle mie parole c’è la semplice costatazione che il papa non può, né personalmente né istituzionalmente, presumere di stare in una qualche forma di proporzione con il vero e il giusto delle sue parole, perché non gli appartengono in alcuna maniera. Oppure sì, ma solo per l’aspetto caduco e opaco, il resto essendo luce che viene da un’altra parte.
La tradizione mistica la sapeva ed è significativo che qua e là, nel testo dell’enciclica, ci siano formule che la richiamano, come «questo sapere che non sa», «questa sconosciuta conosciuta realtà». Il paradosso nasce dal fatto che, nella logica di questo mondo così come funziona di suo, la verità non dà titoli di credito a chi la dice, così come la bontà non li dà ai buoni, proprio a causa del suo materialismo, che non è un errore ma un fatto, riscontrabile in Vaticano come a Milano o dove vi pare.
Dovunque e sempre, nella stessa misura? Non lo so. Sarebbe comunque questo paradosso a indurre le sintesi rozze e fuorvianti che dicevo all’inizio: si cerca di sanarlo traducendo la Spe salvi nella logica di questo mondo, per colmare un intervallo non colmabile. Mi sono chiesta se ciò sia dovuto a una condizione storica contingente, come un provvisorio esaurimento delle capacità di mediazione. Oppure se, al contrario, siamo arrivati nel culo del sacco (traducendo dal francese, ma si dice così anche nel mio dialetto, senza le doppie) della storicità, quasi alla vigilia di un nuovo inizio. Non lo so.
ENCICLICA, IL CORTOCIRCUITO DEI LAICI
di LUCETTA SCARAFFIA (Avvenire, 07.12.2007)
«Nella logica di questo mondo così come funziona di suo, la verità non dà titoli di credito a chi la dice»: con queste parole Luisa Muraro, in un articolo apparso ieri su «Il Manifesto», in un certo senso limita drasticamente la portata e l’interesse dell’ultima enciclica di Benedetto XVI, se pure al termine di una disamina interessante e portatrice di spunti interessanti. Che certo non si può definire antipatizzante in modo pregiudiziale. Con questa frase, però, con la quale la filosofa spiega la cattiva comprensione dell’enciclica ad opera di molti giornalisti, ella ne svuota in profondo l’autorevolezza, e quindi l’opportunità. E in fondo il senso stesso dell’esistenza della Chiesa e del papa, che è quello di testimoniare e di trasmettere la verità nel tempo e nella storia, anche - se non soprattutto - attraverso le encicliche.
Anche se, poche righe prima, il suo commento è fitto di riconoscimenti alla forza di pensiero del papa e alla sua lucidità nel descrivere la condizione dell’essere umano contemporaneo, rimane il rifiuto del suo diritto a proporsi come maestro in campo umano e spirituale: se il papa viene liquidato come «uno che pretende di parlare di Dio credendo di sapere quello che dice, che pretende di avere la verità in tasca» non ci rimane che un orizzonte piatto di nichilismo. Ma poi tanto condivide le tesi di Benedetto XVI da vederne le radici nel pensiero femminista che lei rappresenta: sia per quanto riguarda «la separazione fra la ricerca personale della salvezza e quella politica» - che il papa in realtà definisce come comunitaria - che per l’attenzione alla dimensione simbolica dell’agire politico.
Per questo lamenta però che il papa non faccia riferimento al «sapere delle donne» e a quella «pratica dell’autocoscienza, pratica di parola in relazione che trasforma il rapporto che abbiamo con il mondo, e perciò il mondo stesso». In questa paradossale critica della Muraro manca la consapevolezza di due dimensioni fondamentali del femminismo: la prima è che l’idea di partire da se stessi per cambiare il mondo è un’idea che, molto prima del femminismo, hanno diffuso e praticato i cristiani, come del resto scrive lei stessa, quando dice che il vangelo e san Paolo «hanno cambiato il mondo agendo dall’interno dell’essere umano». Non sarà per caso il contrario, e cioè che una parte del movimento femminista, quella che lei rappresenta, ripropone questa antica pratica rivoluzionaria senza rivendicarne le fonti originarie? E dimenticando che l’emancipazione delle donne nasce e si afferma solo all’interno delle società cristiane?
Luisa Muraro tende poi a identificare il pensiero delle donne con il suo, e a dimenticare che nelle società contemporanee invece il femminismo ha preso delle forme molto diverse da quelle da lei proposte: prevale cioè la dimensione individuale su quella comunitraria, e soprattutto i cambiamenti sociali si muovono nel senso di cancellare quella specificità femminile capace di amore disinteressato e di cura che Benedetto XVI indica come condizione base per tutti perché sia mantenuta in vita la speranza.
La femminista e la violenza
Muraro: "quando possiamo dire sì all’uso della forza"
La provocazione della filosofa su "Via Dogana" rivista storica delle donne
A cui replicano in tante, criticando una tesi mai condivisa: "Non esiste un modo di scontrarsi intelligente"
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 07.03.2012)
"Violenza giusta": ma non è dissennato riproporla oggi? Nella redazione di Via Dogana devono averci pensato un po’ prima di dare alle stampe il centesimo numero, che non passerà inosservato. La storica rivista della Libreria delle donne di Milano s’apre infatti con una sorprendente riflessione di Luisa Muraro Al limite, la violenza, che non è certo un inno alla violenza ma non la «esclude a priori».
Un’apertura a «un uso della forza» adeguato alla violenza che è nelle cose e nei rapporti tra le persone. Esisterebbe in sostanza una «violenza giusta», distinta da quella «stupida» e «controproducente». E sarebbe sbagliato «separare la violenza dalla forza» perché «lo sconfinamento tra una e l’altra è inevitabile».
Accanto alla citazione de L’Iliade poema della forza di Simone Weil, ecco l’improvvido elogio della sassaiola contro i cattivi politici. Bisognava «mandarlo indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati», scrive Muraro rievocando la passerella di Berlusconi all’Aquila dopo il terremoto. "A fischi e sassate", proprio così dice l’autrice.
Ma che succede nello storico laboratorio del pensiero della differenza, di cui Muraro è indiscussa e mite sacerdotessa? Non erano state proprio loro, le femministe della Libreria delle donne, a liquidare negli anni Settanta la violenza come rispecchiamento di bellicose logiche maschili? E dopo gli esiti luttuosi di quella stagione, non è sbagliato e pericoloso rilanciare ora una riflessione sulla «violenza giusta»?
Al momento Muraro non parla. Il suo articolo di Via Dogana è l’anticipazione di un saggio che sarà pubblicato a giugno da nottetempo - Dio è violent... - e l’autrice preferisce aspettare l’uscita del libro. Per capirne di più, bisogna risalire all’estate scorsa, all’epoca dei disordini nella Val Susa, quando sul sito della Libreria compare una voce femminile che invita "a rompere un tabù", il silenzio sulla «violenza nella realtà e nel discorso della politica».
Muraro condivide: «È un tema urgente, bisognoso di una nuova e spregiudicata riflessione», dove spregiudicata significa «pensarci senza dire automaticamente no alla violenza». E ancora: «Bisogna cominciare a fare la differenza tra la violenza stupida e quella che tale non è, di cui abbiamo smesso di pensare e di parlare, dimenticando che l’agire umano non si dà senza questa componente».
Violenza stupida? Violenza intelligente?
A sette mesi da quella riflessione, ecco il nuovo articolo su Via Dogana, in un numero dedicato alla "forza necessaria". «C’è una violenza nelle cose e tra i viventi che prelude a un ritorno alla legge del più forte: dobbiamo pensarci», invoca Muraro. Alla propria forza non si deve rinunciare, «si tratterà dunque di dosarla senza perderla».
Ma come? La studiosa rifiuta il confine indicato dalla «predicazione antiviolenza», ossia quello che distingue forza e violenza. «No, lo sconfinamento è inevitabile». E allora? E allora «la misura da cercare» è in «una violenza giusta» misurata non sul diritto ma sulle circostanze storiche. Due gli esempi indicati nel breve scritto.
Il primo risale agli eccidi di Srebrenica, che potevano essere evitati dai militari dell’Onu, «incapaci di percepire il mostro dell’odio davanti ai loro occhi».
Il secondo è invece preso dalle storie di casa nostra, quando «era nelle possibilità degli abitanti dell’Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione».
Della contundente soluzione suggerita da Muraro abbiamo già detto: sarebbe questa la violenza "intelligente"? «Muraro ha ragione, c’è una violenza stupida. Quello che però non riesco a concepire è la sassata intelligente, o la carica di polizia intelligente». Anna Bravo, storica dell’età contemporanea sensibile ai temi delle donne e della nonviolenza, appare piuttosto sorpresa. «Se Zizek sostiene che il pacifismo è facilmente assimilabile non mi turba molto. Muraro invece mi inquieta, perché è lei, e perché donna. Per noi donne, che abbiamo alle spalle una storia millenaria di disobbedienza e di manipolazione delle norme, è più semplice capire non solo che legge e giustizia sono due cose diverse, ma che si può agire di conseguenza senza inabissarsi nella distruttività. Per di più, il crescere della violenza e la militarizzazione dei movimenti - sia nella Resistenza che negli anni Settanta - ha sempre tolto respiro alle iniziative delle donne».
Nel suo bel saggio sul Sessantotto A colpi di cuore - titolo di per sé espressivo - Bravo rievoca il disagio delle donne di Lotta Continua quando portavano le molotov nel tascapane. La legittimità della violenza, annota la studiosa, è un tema estraneo alla tradizione femminista. E neppure nella letteratura di guerra e della resistenza l’argomento è centrale. «L’Italia è stata definita la patria del femminismo più forte e violento ma non è vero», dice ora Bravo. «Certo, i gruppi potevano risentire del clima di allora. C’era una pressione politica molto forte ed era acquisito il principio che si potessero fare cose illegali. Ma molte ragazze di Lotta Continua contestavano il servizio d’ordine e avevano paura di trovarsi in mezzo ai cortei più caldi. E quando Lc si sciolse, soprattutto per opera delle femministe, fu anche per una diversità di vedute sulla violenza».
Violenza legittima, uso della forza. Il pensiero corre a Carla Lonzi, la femminista che tra le prime liquidò la violenza dell’inconscio maschile, «ricettacolo di sangue e paura». La discussione sembra ora aperta all’interno della stessa Via Dogana, che ospita voci contrastanti.
«Alla sollecitazione della Muraro», scrive Annarosa Buttarelli, «fa obiezione la scelta storica di gran parte delle donne di lottare in modo non violento. La scelta di segno femminile è di custodire l’integrità dei corpi e dei luoghi». E Lia Cigarini chiude: «Schivare lo scontro guerresco è segno di forza, non di debolezza».
Al gioco del più forte, insiste ora Bravo, noi perdiamo sempre. «L’invito di Muraro a ripensare il nostro rapporto con la violenza si lega al giudizio sul presente, che prefigurerebbe un ritorno alla legge del più forte. Ammettiamo che sia così: ma spostarsi su questo livello di scontro, questo sì mi sembra un passo in sintonia con uno spirito militare. Voi usate la vostra forza? Noi siamo in grado di tenervi testa con la nostra. Mentre la potenza dell’oppositore nonviolento sta proprio nel sottrarsi a questo meccanismo». Un meccanismo, conclude la studiosa, che ha portato tanti movimenti alla sconfitta. Sconcertante, davvero, riconsiderarlo oggi.