Prolusione
S.Em. Card. Dionigi Tettamanzi
Il Signore doni alla Chiesa italiana umili e coraggiosi testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. *
Carissimi, con questa professione di fede e di speranza il Signore ci dà la grazia di iniziare la celebrazione di questo quarto Convegno della Chiesa italiana, di quella Chie-sa che voi partecipanti rappresentate nelle sue 226 diocesi e nelle sue molteplici e diverse vocazioni e realtà: una Chiesa che è presente e viva nel nostro Paese.
Sentiamo particolarmente presenti tra noi S.E. Mons. Cataldo Naro, uno dei vice-presidenti del Convegno, che il Signore ha improvvisamente chiamato a godere il frutto maturo e pieno della speranza cristiana, e S.E. Mons. Giuseppe Betori, il Se-gretario Generale della CEI: egli ci offre il più prezioso dei contributi, quello della sua sofferta lontananza. Mentre esprimiamo gratitudine per il suo qualificato e generoso apporto dato alla preparazione del Convegno, ci rassicurano le confortati noti-zie sul suo rapido e pieno ristabilimento.
Introduzione
Il nostro Convegno prosegue i precedenti di Roma (1976), Loreto (1985) e Palermo (1995), quali momenti importanti nei quali la Chiesa in Italia ha ricevuto e vissuto il messaggio di rinnovamento venuto dal Concilio. Era proprio questa l’intenzione originaria del primo Convegno: «tradurre il Concilio in italiano».
Ritengo che una simile intuizione debba essere ripresa e riproposta con forza come criterio anche per questo nostro Convegno: ovviamente con l’accresciuta ricchez-za ecclesiale e nella modificata situazione sociale-culturale-ecclesiale del periodo successivo, e insieme sull’onda di una preparazione al Convegno ampia e capillare, impegnata e appassionata, come testimoniano - tra l’altro - le relazioni regionali e diocesane, i contributi degli organismi nazionali e delle aggregazioni ecclesiali e di ispirazione cristiana, e gli innumerevoli apporti giunti dalle più diverse parti.
In apertura del Convegno e nello stesso tempo giungendo alle sue radici, sono sicuro di poter condividere con tutti voi un pensiero, un sentimento, un’istanza estremamente semplici ma di grande significato. Li esprimo con una frase che mi è abituale: parliamo non solo “di” speranza, ma anche e innanzitutto “con” speranza. È la spe-ranza come “stile virtuoso” - come anima, clima interiore, spirito profondo - prima ancora che come contenuto. È proprio questo lo stile del Vaticano II, verso cui il nostro Convegno rilancia il suo ponte di raccordo, accogliendo in modo convinto e rinnovato il testimone che i Padri conciliari hanno consegnato al mondo nel loro “congedo”: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (Gaudium et spes, n. 1).
A ricordarci questa consegna strategica del Concilio alla Chiesa e al mondo è Paolo VI, che nell’omelia di chiusura lo difendeva dall’accusa di «un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui» (EV I 454*), ne esaltava l’atteggiamento «volutamente ottimista» e lo indicava in modo programmatico come stile tipico della Chiesa: «Una corrente di affetto e di ammirazione - diceva il Papa - si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette» (EV I 457*).
La speranza come stile virtuoso è parte essenziale e integrante del realismo cristiano. Certo, nessuno di noi può minimamente negare o attenuare l’esistenza dei tantissimi mali, drammi, pericoli crescenti e talvolta inediti dell’attuale momento storico - l’elenco non terminerebbe mai -, ma tutti, grazie alla presenza indefettibile di Cristo Signore e del suo Spirito nella storia d’ogni tempo, possiamo e dobbiamo riconoscere che la speranza non è solo un desiderio o un sogno o una promessa, non riguarda unicamente il domani, ma è una realtà molto concreta e attuale, che non abbandona mai la nostra terra: le persone, le famiglie, le comunità, l’umanità intera, soprattutto la Chiesa del Signore.
È dunque nella coscienza umile dei nostri ritardi, fatiche, lentezze e inadempienze e nel segno di un’immensa gratitudine al Signore e di una fiducia incrollabile nel suo amore che siamo chiamati a vivere questo Convegno nell’orizzonte della speranza. Chi ha occhi e cuore evangelici vede e gode del numero incalcolabile di semi e germi e frutti e opere concrete di speranza che sono in atto nei più diversi ambiti delle nostre Chie-se e nella nostra società. Ci sono tantissime persone e gruppi che continuano a scri-vere “il Vangelo della speranza” nelle realtà e nelle vicende più disagiate e sofferte della vita quotidiana. Possiamo allora applicare qui quanto leggiamo nell’esortazione Christifideles laici: «Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglio-so: quello di tantissimi laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d’ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi - certo per la potenza della grazia di Dio - della crescita del regno di Dio nella storia» (n. 17).
Ora questa mia Prolusione vuole solo “introdurre” al Convegno. Ma come? Lo penso, questo Convegno, come un momento di grande grazia e di forte responsabilità, nel quale siamo posti di fronte ad una rinnovata effusione dello Spirito santo che tutti ci coin-volge e ci sollecita all’ascolto: sì, all’ascolto reciproco - piccola e grande cosa, questa! -, ma ancor più all’ascolto della voce di Dio e del suo Spirito, dei “sogni” che Gesù Cristo oggi ha nei riguardi delle nostre Chiese e della nostra società: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Apocalisse 2,7).
In concreto, l’appello è a rivisitare alcuni cammini ecclesiali che stiamo facendo, a lasciarci incrociare dalle sfide di cui oggi sono segnati e a scioglierle con la forza della nostra testimonianza, con il nostro essere “testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”.
Con voi desidero ora soffermarmi, nella prospettiva indicata, su di un triplice cammino della nostra Chiesa in Italia.
Gesù Cristo crocifisso e risorto: speranza che non delude
Il primo cammino avvenuto è quello di una maturazione sempre più chiara e forte della coscienza della Chiesa circa la sua missione evangelizzatrice. È questa, e non altra, la missione della Chiesa: le viene riconsegnata ogni giorno da Cristo e dal suo Spirito come missione tipica, irrinunciabile, sempre aperta, necessaria e insostituibile perché voluta in ordine alla fede e alla salvezza di tutti gli uomini.
E aggiungiamo: si tratta di una missione che sta vivendo una stagione di singolare urgenza e indilazionabilità. Infatti, in intimo rapporto con la coscienza evangelizzatri-ce registriamo una più diffusa ed esplicita consapevolezza della “distanza” (nel senso di estraneità o/e di antitesi) che nel nostro contesto socio-culturale e insieme ecclesiale esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. È, da un lato, il contesto del secolarismo, dell’indifferentismo religioso, della cultura estranea o contraria al Vangelo quando non addirittura alla stessa razionalità umana; e, dall’altro la-to, è il contesto di un’interruzione o di un rallentamento dei canali ecclesiali classici di trasmissione della fede, come la famiglia, la scuola, la stessa comunità cristiana. Se è così, non è allora esagerato dire che l’evangelizzazione e la fede si ripropongono oggi con singolare acutezza come il “caso serio” della Chiesa.
Di qui l’urgenza di tenere viva la preoccupazione per la “distanza” che esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. Senza dimenticare, peraltro, che una simile distanza - sia pure in forme e gradi diversi - ha sempre segnato la vita della comunità cristiana, e ancor più ha segnato e continua a segnare il cuore di ogni credente, che nella prospettiva di san Giovanni è pur sempre un incrocio di fede e di incredulità, di sequela del Vangelo e di arroccamento su se stessi e sul proprio egoismo. Ma la grande sfida pastorale rimane in tutta la sua gravità: come eliminare o atte-nuare questa “distanza”?
Risponderei dicendo che prioritario e decisivo oggi è di tenere massimamente de-sta non tanto la preoccupazione per la “distanza”, quanto la preoccupazione per la “differenza”, per la “specificità” della fede cristiana. Meglio e inserendoci nell’orizzonte del Convegno, diciamo: siamo chiamati a “custodire”, ossia conservare, vivere e rilanciare l’originalità, di più la novità - unica e universale - della speranza cristiana, il DNA cristiano della speranza presente e operante nella storia.
L’appello del Convegno è di tornare e ritornare senza sosta, con lucidità e coraggio, a interrogarci - per agire di conseguenza - su: chi è la speranza cristiana? quali sono i suoi tratti qualificanti? come essa incrocia l’uomo concreto d’oggi nei suoi problemi e nelle sue attese?
1. La speranza è Gesù Cristo! Non pronuncio una formula, ma proclamo una convinzione di fede: la mia, la nostra, quella della Chiesa. È la stessa fede dell’apostolo Paolo, che così scrive nella lettera ai Romani: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5).
Fondamento incrollabile e sorgente viva - e insieme dinamismo inarrestabile e formidabile risorsa - della speranza cristiana è l’amore di Dio effuso in noi dallo Spirito, quell’amore senza misura o calcolo, sovrabbondante, eccedente, folle, “sprecato”(cfr. Marco 14,3-9), vissuto «sino alla fine» (Giovanni 13,1) che è stato donato totalmente da Gesù Cristo sulla croce e che viene riofferto con le sue ferite sempre aperte e il suo costato squarciato nel memoriale del suo sacrificio, cioè nell’Eucaristia.
Ave crux spes unica! È la morte gloriosa di Cristo il luogo sorgivo e l’alimento co-stante della speranza della Chiesa e dell’umanità. Qui, nell’incontro vivo con Gesù crocifisso e risorto, viene dato alla Chiesa quel grande appuntamento che la costituisce nella storia - in ogni sua epoca - quale sacramentum spei, segno e luogo di speranza per tutti gli uomini, le persone e i popoli. Ed è qui l’incontro di tutti noi che, come membri della Chiesa, riceviamo la grazia e la responsabilità di essere, nel cuore e nella vita, annunciatori e testimoni dell’unica speranza - quella assolutamente nuova e rinnovatrice che viene dalla morte e risurrezione di Gesù - che sa dare risposta vera e piena alle attese delle persone e della società.
2. “La speranza che non delude” presenta, tra gli altri, alcuni tratti qualificanti, che pongono oggi al cammino spirituale-pastorale-culturale della nostra Chiesa nuove sfide. Sono sfide gravide sì di difficoltà, ma insieme di opportunità feconde, di appelli di grazia proprio a partire dalla forza incontenibile, pervasiva e trasformatrice della speranza cristiana.
Ricordo, in particolare, che la novità della speranza cristiana si ritrova e si sprigiona in particolare nell’evento della risurrezione di Cristo, nella vita eterna che ci attende, nella comunione beatificante con Dio come destino offerto all’umanità.
Non è questo il momento per l’analisi di questi contenuti caratteristici della speranza cristiana. È piuttosto il momento di sottolineare l’urgenza e la drammaticità di un loro ricupero e rilancio, prendendo coscienza tutti che la scommessa più forte, in un certo senso cruciale, all’inizio del terzo millennio - nel contesto di una società cosiddetta liquida e ripiegata e quasi esaurita sull’immediato - consiste nel mettere in luce - con la parola e con la vita - la fondamentale e ineliminabile dimensione escatologica della fede cristiana. E dunque la sua valenza o proiezione di futuro, ma di un futuro che si sta costruendo nel presente, proprio dentro le tante e più diverse “attese umane”.
In realtà, in questione non è semplicemente la fine, la conclusione della vita, ma il fine, il senso, il logos della vita dell’uomo. E questo, proprio perché tale, rimandandoci al traguardo ci coinvolge nel cammino in atto: la speranza cristiana entra, abita, plasma e trasforma l’esistenza quotidiana. Per il cristianesimo - che è memoria, celebrazione ed esperienza viva dell’evento del Figlio eterno di Dio fatto uomo per noi nella “pienezza del tempo” - è una vera e propria eresia pensare che l’aldilà sia ininfluente o alienante l’uomo che vive sulla terra e nel tempo. Desidero citare un testo del Concilio, che scrivendo dell’atteggiamento di fronte all’ateismo afferma: la Chiesa «insegna che la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno della attuazione di essi. Al contrario, invece, se manca il fondamento divino e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si costata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione» (Gaudium et spes, 21).
Di qui il grave e inquietante pericolo, religioso ed umano ad un tempo, di un’eclissi o smemoratezza del tratto escatologico della fede cristiana, che viene pro-clamato nelle ultime parole del Credo: «Credo la risurrezione della carne e la vita e-terna». Sì, sono le ultime parole, ma in qualche modo sono quelle riassuntive e deci-sive dell’intero Credo, proprio perché offrono la chiave di lettura e di soluzione dei problemi antropologici più complessi e decisivi per l’esistenza, a cominciare dal sen-so del morire e quindi dell’intera esistenza umana come tale.
E così siamo introdotti a cogliere lo spessore umano, la consistenza antropologica della speranza cristiana.
3. La speranza in Cristo genera un rinnovato pensiero antropologico. Sbocciata nel cuore di Cristo - Dio fatto uomo, morto risorto e veniente - e riversata dal suo Spirito nel cuore del credente e di ogni uomo, la speranza raggiunge e coinvolge l’uomo nella sua totalità e radicalità, quale meraviglioso microcosmo: di struttura, dinamismi, finalità; di anima psiche e corpo; di individuo e comunità; di unicità irripetibile e tessuto vivo di relazioni; di tempo e di eternità, di spazio e di infinito.
Si fa qui inevitabile, e insieme quanto mai interessante, l’intreccio tra la speranza cristiana e la questione antropologica, che si è riproposta in modo particolarmente acuto nella nostra cultura. Non sto parlando soltanto della cultura cosiddetta “alta” - appannaggio dei filosofi e teologi, degli scienziati e tecnocrati, degli uomini dell’economia-finanza-politica-comunicazione sociale, ecc. -, ma e non meno della cultura che contagia e modula ogni persona e ogni gruppo sociale nella loro esistenza quotidiana.
Ora la speranza cristiana, grazie alla novità dei suoi contenuti e in concreto all’esperienza di Dio e dell’uomo che essa genera e alimenta, possiede un formidabile po-tere di trasformazione sulla visione, di più sull’esperienza odierna dell’uomo: vale a dire su l’immagine e la concezione della persona, l’inizio e il termine della vita, la cura delle relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, l’educazione e la trasmissione dei valori, la sollecitudine verso il bisogno, i modi della cittadinanza e della legalità, le figure della convivenza tra le religioni e le culture e i popoli tutti.
Si apre oggi con più forza a tutta la nostra Chiesa in Italia il compito di elaborare - con un’interpretazione che sappia intrecciare fede e ragione, teoria e prassi, spiritualità e pastoralità, identità e dialogo - una rinnovata figura antropologica sotto il segno della speranza. Esiste infatti, in sintonia con l’intellectus fidei, un intellectus spei, un’intelligenza della speranza - una vera speranza è realtà che è nella storia e la costruisce, e dunque non può non vedere, non leggere, non interpretare, non decidere, non toccare il vis-suto concreto dell’uomo - da cui deriva un sapere della speranza che si ripercuote sulla questione antropologica.
Non potrebbe incominciare da qui una specie di “seconda fase” del progetto culturale in atto nella nostra Chiesa? una fase che rimetta al centro la persona umana e il suo bisogno vitale e insopprimibile, appunto la speranza, come rilevava in modo incisivo sant’Ambrogio dicendo che «non può essere vero uomo se non colui che spera in Dio» (De Isaac vel anima, 1,1)? Forse è possibile un’analogia: come la Dottrina Sociale della Chiesa e la conseguente prassi hanno la persona umana come principio fonda-tivo e architettonico dei loro più svariati contenuti, così l’azione spirituale-pastorale-culturale della Chiesa potrebbe strutturarsi in riferimento alla centralità della persona umana, nella sua dignità di immagine viva di Dio in Cristo e nella concretezza delle sue situazioni e relazioni quotidiane.
La Chiesa: una comunione nella varietà per l’unità e l’universalità
Un secondo cammino avvenuto e in atto nelle nostre Chiese è quello di una matura-zione della coscienza e della prassi della comunione ecclesiale. È il frutto e il segno dell’ecclesiologia di comunione donataci dal Concilio e vissuta nel periodo successivo, eco viva e sviluppo concreto dell’antica parola di san Cipriano: la Chiesa è come «un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (De Oratione Dominica 23).
Questa maturazione si trova oggi a dover affrontare nuove sfide, perché la testimonianza dei cristiani si situa all’interno di un mondo e di una società gravati da molte-plici tensioni, contrapposizioni, divisioni, conflitti, solitudini immense e angosce profonde, ecc.; ma anche all’interno delle stesse comunità e realtà ecclesiali che non poche volte faticano o rinunciano a “camminare insieme”, non conoscono la “sino-dalità”: non certo come parola, ma come esperienza di vita e di partecipazione eccle-siale. Senza dire, in positivo, che oggi si danno opportunità inedite e urgenze più forti per vivere una comunione ecclesiale più ampia, più intensa, più responsabile e, proprio per questo, più missionaria.
E la risposta alle sfide passa, ancora una volta, attraverso il ricupero e il rilancio della fede professata-celebrata-vissuta, di una fede che genera e corrobora la speranza cristiana. E questa ha un suo proprio contributo da offrire per il realizzarsi della co-munione ecclesiale. Mentre illumina alcuni aspetti propri del nostro “camminare insieme” come Chiesa, la speranza cristiana ci garantisce le risorse specifiche necessarie.
E ora con la preoccupazione pastorale concreta, propria di un Vescovo, desidero offrire alcuni spunti sulla comunione ecclesiale in quanto comunione nella varietà per l’unità e l’universalità.
1. La comunione ecclesiale è un dono di Dio, è un bene della Chiesa e per la Chiesa (e insieme della e per la società), è una promessa di Cristo e del suo Spirito, è un ideale alto ed esigente, un comandamento, una responsabilità per tutti, ecc. Certo, sto ricordando a me e a voi una prospettiva di fede. Ma questa, con la forza della grazia e la libera risposta del credente, costruisce la storia quotidiana di una Chiesa, delinea il volto visibile e preciso di una comunità cristiana che a tutti può presentarsi nella realtà concreta di una comunione di persone, una comunione singolare, perché segnata insieme dalla varietà e dall’unità, dall’unità e dall’universalità.
Eccoci allora a riprendere in modo più convinto e determinato il compito spirituale-pastorale-culturale della nostra Chiesa, chiamata a rielaborare e rivivere il tessuto dei profondi legami che intercorrono tra la varietà e l’unità della e nella Chiesa, tra la sua unità e universalità, tutto come riflesso luminoso del mistero dell’infinita ricchezza di Cristo e del suo Spirito. Varietà e unità, unità e universalità non si con-trappongono, ma si incontrano nel segno della complementarietà, della circolarità, anzi della compenetrazione profonda. Più radicalmente la varietà è generata dall’uni-tà, dell’unità è espressione e vita, nell’unità sfocia come a suo fine.
Così come si ripropone con maggiore forza il compito di rielaborare e realizzare l’indissolubile legame che esiste tra l’unità e l’universalità della Chiesa. Come il bonum è diffusivum sui, così il bene della comunione ecclesiale quanto più si fa profondo e intenso tanto più si apre e si dilata, insieme si concentra e si espande senza limiti: dai singoli cristiani a tutti i cristiani, dalle singole Chiese locali alla Chiesa universale. Ritroviamo qui il meraviglioso fatto della communio sanctorum, e nello stesso tempo ci vengono incontro le nuove possibilità aperte dai fenomeni della globalizzazione. E così il credente è membro della Chiesa cattolica e cittadino del mondo.
Certo, sono prospettive note. Ma come lasciarci concretamente contagiare e trasformare quando rischiamo di rimanere chiusi e prigionieri di un camminare insieme troppo angusto, stolto e sterile? La comunione “nuova” e “originale” della Chiesa è di essere “cattolica”, chiamata dunque a coinvolgere tutti, a raggiungere l’umanità intera. Per sua natura è il segno dell’amore universale di Dio, è il frutto del dono di Cristo che muore sulla croce per tutti, è missionaria e lo è da Gerusalemme «fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,8).
Da qui nasce la missio ad gentes, da qui deriva la modalità ecclesiale che deve distinguere tutte le forme di presenza nelle Chiese di altri popoli o di altri mondi, da qui emerge il paradigma d’ogni impegno pastorale missionario: dentro e attraverso la comunione tra Chiese sorelle. E da qui vengono anche la grazia e la responsabilità di una nuova visione e realizzazione della mondialità e della grande questione della giustizia e della pace!
Come si vede, sto declinando il riferimento alla comunione ecclesiale in termini di universalità, ma tale riferimento si fa subito anche estremamente “domestico”, per-ché ci tocca nella concreta comunione che di fatto esiste - o non esiste - nelle e tra le nostre Chiese, nelle e tra le nostre diverse realtà ecclesiali. Da parte mia ritengo quanto mai appropriata e stimolante la rilettura ecclesiologica del comandamento biblico dell’«ama il prossimo tuo come te stesso», che con rigorosa logica si declina così: «ama la parrocchia altrui come la tua, la diocesi altrui come la tua, la Chiesa di altri Paesi come la tua, l’aggregazione altrui come la tua, ecc.».
Sto forse esagerando e rifugiandomi in una specie di sogno, o non piuttosto confessando la bellezza e l’audacia della nostra fede? Non ci sono dubbi: nel mysterium Ecclesiae ciò è possibile, ciò è dove-roso: non solo nell’intenzione e nella preghiera, ma anche nella concretezza del-l’azione.
Per concludere questo primo spunto, rilevo come proprio a questo livello quotidiano possiamo cogliere l’intimo e inscindibile legame tra comunione e missione, tra missione e comunione. Sono assolutamente inseparabili: simul stant vel cadunt. Secondo la categorica parola di Gesù, anzi secondo la sua appassionata preghiera: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Giovanni 17,21). La Christifideles laici così chiosa il testo evangelico: «In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione» (n. 31).
2. Il secondo spunto vuole rileggere la Chiesa quale “comunione nella varietà per l’unità e l’universalità” in più diretto riferimento alle persone che della Chiesa sono “le pietre vive”: alle persone nella concretezza del loro stato e condizione di vita, di vo-cazioni, di doni e compiti, di ministeri, ecc. È l’unico popolo di Dio nella sua eccezionale varietà. Sono tutti i Christifideles. Sono i presbiteri e diaconi, le persone con-sacrate, i laici.
Ma nella Chiesa - che come memoria vivente di Gesù, il Verbo incarnato, è composta di uomini e donne concreti - la comunione donata e richiesta dal Signore può e deve essere vissuta e testimoniata non soltanto nella modulazione specificamente ecclesiale (in rapporto alle categorie ora ricordate), ma anche in una sua modulazione antropologica e sociale. Proprio nella Chiesa, in una maniera nuova e rinnovatrice, può e deve realizzarsi la comunione più variegata e talvolta più difficile: è, per esemplificare, la comunione tra uomini e donne, giovani e adulti, ricchi e poveri, studenti e maestri, sani e malati, potenti e deboli, vicini e lontani, cittadini del paese e cittadini del mondo, giudei e greci, schiavi e liberi (per usare le parole dell’apostolo: cfr. Galati 3,28), fortunati e disperati, ecc.
E per ritornare alla modulazione propriamente ecclesiale della comunione, al di là dei tanti passi positivi compiuti nella nostra Chiesa, siamo consapevoli che l’essere oggi “testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” domanda una comunione mis-sionaria tra le diverse categorie di fedeli più compattata e dinamica, più libera e insieme strutturata, più convinta e convincente, più visibile e credibile. Non si dà testimonianza cristiana al di fuori o contro la comunione ecclesiale!
Una comunione, questa - lo dobbiamo marcare con forza -, che nel suo spirito interiore e nel suo realizzarsi storico fiorisce e fruttifica sempre e solo come triade indivisa e indivisibile di comunione-collaborazione-corresponsabilità. La comunione ecclesiale conduce alla collaborazione: dall’anima e dal cuore alle mani, ai gesti concreti della vita, alle iniziative intraprese, in una parola al dono reciproco e al servizio vicendevole (cfr. Romani 12,9ss). E, a loro volta, comunione e collaborazione non possono non porta-re a forme di vera e propria corresponsabilità, perché l’incontro e il dialogo sono tra soggetti coscienti e liberi, tra le menti che valutano la realtà e le volontà che liberamente affrontano e forgiano la realtà stessa, e dunque nell’ambito del discernimento e della decisione evangelici-pastorali. Certo, una corresponsabilità nella quale sono diverse le competenze e diversi i ruoli dei vari membri della Chiesa, ma sempre un’autentica corresponsabilità.
È in questo contesto e secondo questo spirito che è più che legittimo, anzi doveroso il richiamo alla specificità dei vari stati di vita, vocazioni e missioni nella Chiesa. Infatti, solo nel confronto e nell’incontro e nel riferimento all’unità e universalità la specifi-cità può essere custodita, promossa ed esaltata: diviene cioè ricchezza per tutta la Chiesa. Secondo la parola dell’apostolo: «a ciascuno è data una manifestazione parti-colare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Corinzi 12,7). E secondo la parola di papa Benedetto XVI: «Al di là dell’affermazione del diritto alla propria esistenza, deve sempre prevalere, con indiscutibile priorità, l’edificazione del Corpo di Cristo in mezzo agli uomini» (Al II Congresso dei Movimenti ecclesiali, 22 maggio 2006).
Il nostro Convegno è chiamato qui a dire una parola, molto attesa e doverosa, sui Christifidels laici, sui laici e sul laicato. Occorrerebbe, forse, un’intera Prolusione ad hoc. Ma pur rapidamente esprimo qualche convinzione e qualche urgenza per la Chiesa in Italia e per il nostro Paese.
Inizio con una parola che è di quasi vent’anni fa: è venuta l’ora nella quale «la splendida ‘teoria’ sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un’autentica ‘prassi’ ecclesiale»(Christifidelslaici,2).El’oraèaperta, conservatuttalasuaurgenza,mavaacceleratanelsensodicogliernel’intera ricchezza di grazia e di responsabilità per la missione evangelizzatrice della Chiesa e per il servizio al bene comune della società, in una parola per la testimonianza cristiana e umana nell’attuale situazione del mondo.
Sento poi di dover esprimere stima e gratitudine per la testimonianza evangelica e civile che tantissimi laici e il laicato nelle sue varie forme, grazie alla loro propria e peculiare co-appartenenza alla Chiesa e al mondo, hanno dato e continuano a dare a Gesù Risorto e all’avvento del suo Regno nella storia, e dunque nelle più diverse problematiche, realtà e strutture terrene e temporali.
Il disegno di Cristo circa la sua Chiesa domanda a tutti noi di rinnovare il nostro riconoscimento cordiale e gioioso del posto e del compito comuni e specifici dei fe-deli laici: il riconoscimento cioè del diritto - in chiave ecclesiale e quindi nel suo sen-so più originale e forte e nel suo spirito evangelico di glorioso servizio - e insieme il riconoscimento della responsabilità. L’affermazione è teorica, ma proprio per questo ognuno di noi può coglierne le implicazioni di vita e di azione nella Chiesa e nella società.
È anche necessario un rinnovato impegno delle nostre Chiese e realtà ecclesiali per sviluppare una più ampia e profonda opera formativa dei laici - singoli e aggregati - che assicuri loro quell’animazione spirituale, quella passione pastorale e quello slancio culturale che li rende pronti e decisi (e aggiungerei: competenti, dialoganti, coerenti, operativi e coraggiosi) nella loro tipica testimonianza evangelica e umana al servizio del bene comune, in specie nel campo familiare, sociale, economico-finanziario, culturale, mediatico e politico, e tutto ciò nell’ambito del Paese, dell’Europa e del mondo. Il Convegno ci offre una meta e un programma di grande respiro e insieme di singolare concretezza quotidiana - e dunque di riferimento alle sacrosante richieste della gente, dei poveri in particolare -, là dove ci apre alla riflessione e all’im-pegno sulla vita affettiva, sul lavoro e la festa, sulla fragilità umana, sulla trasmissione dei valori, sulla cittadinanza.
In questa prospettiva si fa logico e straordinariamente bello, confortante, stimolante ricordare a tutti i laici che nella Chiesa identica è la missione evangelizzatrice e ancor più la vocazione alla santità, alla “misura alta” della vita cristiana ordinaria (cfr. Novo millennio ineunte, 31). Ciò vale per tutti, anche per i politici cristiani. Mi rimangono indimenticabili le parole di Paolo VI: «La politica è una maniera esigente - ma non la sola - di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Octogesima adveniens, 46).
3. Un ultimo spunto riguarda la comunione ecclesiale nel suo rapporto con la speranza cri-stiana. Questa tocca sì l’individuo e le sue personali attese, ma coinvolge anche le comunità nelle loro aspettative. La Chiesa stessa, sappiamo, si configura come “popolo pellegrinante” verso la comunione piena e definitiva con Dio (cfr. Lumen gentium, 9). E i contenuti tipici della fede cristiana sopra ricordati - quelli, in particolare, della risurrezione di Gesù il crocifisso, la vita eterna e la beatitudine -, offrendo una intelligenza nuova e un vissuto nuovo ai membri della comunità cristiana, non possono non ripercuotersi sulla comunione ecclesiale, nel suo dinamismo operativo e nelle sue caratteristiche: è una comunione ecclesiale segnata dalla speranza, dono dello Spirito di Cristo.
In particolare, è lo Spirito santo - come vinculum amoris tra il Padre e il Figlio, tra la divinità e la carne umana di Cristo, tra il Signore Gesù crocifisso e risorto e la sua Chiesa - il principio sorgivo della comunione ecclesiale - varia, unita e universale - e insieme la legge nuova e la risorsa permanente per la sua quotidiana realizzazione storica. Emergono così la gratuità e la serietà della comunione ecclesiale: proprio perché se-gnata dalla speranza che viene dallo Spirito, essa è un dono e un compito. È allora la forza dello Spirito che sostiene - al di là di ritardi, lentezze, errori, mancanze, ecc. - il cammino della comunità cristiana verso una comunione autentica e costantemente tesa alla sua perfezione. Potremmo dire che, connotata dalla tensione escatologica, la comunione ecclesiale può ritrovare l’umiltà e la conversione di fronte alle sue diverse forme di lacera-zione, può farsi più ricca di vigilanza e di desiderio e di slancio operativo, può aprirsi all’audacia profetica di una singolare libertà e di una grande snellezza nei suoi cammini e passi nelle varie vicende storiche. Cito dalla Lettera apostolica Orientale Lumen: «Se la Tradizione ci pone in continuità con il passato, l’attesa escatologica ci apre al futuro di Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tut-to ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito» (n. 8).
La testimonianza: di tutti i cristiani e di ogni giorno
Giungiamo finalmente al cuore del Convegno: alla testimonianza di Gesù Risorto, che è dono e compito di tutti i cristiani ed è questione di ogni giorno. La tirannia del tempo mi offre, lasciando a chi lo desidera la lettura del testo scrit-to, la libertà di limitarmi al semplice indice o poco più. Del resto, è l’intero Conve-gno, con la ricchezza della sua preparazione ed ora della celebrazione che si apre, un corale approfondimento dei contenuti, delle forme e degli spazi della testimonianza cristiana.
1. La testimonianza cristiana è generata e sostenuta dalla fede in Gesù Cristo, il Crocifisso Risorto e il Veniente. È la fede cristiana nella sua unitotalità, nella sua triplice e inscindibile dimensione di fede professata-celebrata-vissuta. È, dunque, la fe-de che sta in ascolto della Parola di Dio, che celebra ed esperimenta l’incontro vivo e personale con Gesù Cristo nella sua Chiesa con il Sacramento e la preghiera, che si fa “carne della propria carne” nel vissuto di ogni giorno.
Così la testimonianza cristiana, per essere vera e autentica, ha assoluto bisogno della Parola e del Sacramento, dei quali proprio il vissuto del credente deve dirsi frutto, verifica, “compimento”. In questo senso si deve riprendere la prospettiva indica-ta nella “Traccia” (cfr. Allegato) e più volte ricordata nella Prolusione: la testimonianza è questione globale e unitaria di spiritualità, di pastorale e di cultura, perché per interiore esigenza e di fatto essa scaturisce dalle radici vive e vivificanti di una intensa spiritualità, si esprime nell’agire pastorale-missionario della Chiesa e dei credenti e trova nella cultura lo strumento e insieme la forza per “aprirsi” e “dialogare” con i linguaggi e le esperienze della vita dell’uomo d’oggi. Ci troviamo dunque di fronte a tre realtà, più tre dimensioni, che vanno profondamente saldate insieme.
In particolare, la cultura viene intesa «come capacità della Chiesa di offrire agli uomini e alle donne di oggi un orizzonte di senso, di essere con la stessa esistenza un punto di riferimento credibile per chi cerca una risposta alle esigenze complesse e multiformi che segnano la vita». In questo senso il vissuto, come testimonianza, si configura come sintesi finale di un processo di discernimento evangelico che si snoda attraverso le fasi del leggere e interpretare i segni di senso o di speranza, del decidersi con scelte libere e responsabili per offrire senso e seminare speranza, dell’impegnarsi in atteggiamenti e comportamenti concreti e, dunque, in opere di speranza, giungendo sino a una specie di coraggiosa “organizzazione della speranza” anche sotto il profilo comunitario e strutturale. In questa linea la testimonianza, che passa attraverso il discernimento, presuppone un umile e forte esame di coscienza e diviene il frutto di una vera e propria conversio-ne: a Cristo e all’uomo!
2. La testimonianza punta come a suo specifico sul vissuto, sul vissuto esistenziale, quello “concreto” nel senso di una fitta serie di elementi che “crescono insieme” alla e nella persona, alla e nella comunità, quindi nel senso fondamentale della relazione interpersonale e sociale dentro le vicende e situazioni storiche e i più diversi ambiti di vita. Anche quelli messi a tema dal Convegno. Sono ambiti, questi, trasversali, che intrecciandosi tra loro si situano - in modo unico e irripetibile - nella singola persona e nel suo tessuto relazionale.
Ora, vissuti nella testimonianza evangelica dei cristiani, questi ambiti delineano un volto concreto e “popolare” di Chiesa missionaria, un volto di Chiesa fortemente radicato nel territorio e presente nei passaggi fondamentali dell’esistenza: quello cioè di una comunità col volto di famiglia, costruita attorno all’Eucaristia e alla domenica, forte delle sue membra più deboli, in cui le diverse generazioni si frequentano, dove tutti hanno cittadinanza e contribuiscono ad edificare la civiltà della verità e dell’amore.
Come si vede, il vissuto fa riferimento all’uomo reale, che nella sua prima enciclica Giovanni Paolo II qualifica come «ogni uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell’es-sere e dell’agire, dell’intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. L’uomo, nella sua singolare realtà (perché è “persona”), ha una propria storia della sua vita e, soprattutto, una propria storia della sua anima... L’uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale e sociale - nell’ambito della propria famiglia, nell’ambito di società e di contesti tanto diversi, nell’ambito della propria nazione, o popolo (e, forse, ancora solo del clan, o tribù), nell’ambito di tutta l’umanità - quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione» (Redemptor hominis, 14). La testimonianza, dunque, fa tutt’uno con la vita quotidiana dell’uomo: il vissuto umano è lo spazio storico e insieme la forma necessaria della testimonianza.
3. Ma qual è la forma specifica della testimonianza, e più precisamente della testimonianza cristiana? Ora, se a decidere la risposta generale è la coerenza - cioè il vissuto in sintonia con i valori ideali e con le esigenze morali delle persone e della comunità -, la risposta propria della testimonianza cristiana è la coerenza con la grazia e le responsabilità che ci vengono dall’incontro vivo e personale con Gesù Cristo morto e risorto, dall’obbedienza alla sua parola, dalla sequela del suo stile di vita, di missione e di destino. Non ci sono alternative!
Solo con il nostro vissuto quotidiano possiamo confessare la nostra fede in Cristo e rendergli testimonianza. La prima, necessaria, irrinunciabile, possibile e doverosa testimonianza al Vangelo è la vita di ogni giorno, una vita nella quale “seguiamo Cristo”, ci “rivestiamo” di lui, siamo mossi dalla sua carità, ascoltiamo la sua parola, obbediamo alla sua legge, entriamo in comunione di vita con lui, diventiamo suoi “amici”, ci lasciamo animare e guidare dal suo Spirito. In una parola, viviamo nella grazia di Dio e camminiamo verso la santità.
Potremmo fare sintesi dicendo che testimone è chi vive nella logica delle beatitudini evan-geliche. E questo in ogni situazione, anche la più complessa e difficile e inedita; a qualsiasi costo, anche della rinuncia e del massimo coraggio, anche di venir incompreso, irriso, emarginato e rifiutato. Anche a prezzo del martirio, nelle sue più diverse forme. Al riguardo ci sono, infatti, parole inequivocabili di Cristo che non possiamo zittire: sono lì sempre scritte nel suo Vangelo, sempre stampate a fuoco nel nostro cuore dal suo Spirito.
Il richiamo ci viene risvegliato in continuità dal fenomeno sempre in atto dei grandi e piccoli martiri della fede. Pure il Concilio, facendo eco alla voce di sant’Agostino, ci ammonisce dicendo che «la Chiesa “prosegue il suo pelle-grinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1 Corinzi 11,26)» (Lumen gentium, 8).
Senza dimenticare che la beatitudine della persecuzione è da Cristo segnata da una sua originalissima gioia: non solo futura, ma già ora operante. «Beati voi - così proclama il Signore Gesù - quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli» (Luca 6,22-23).
E perché non rilanciare una rinnovata “spiritualità della gioia cristiana”, l’unica capace di scuotere un mondo annoiato e distratto?
Non c’è bisogno, a questo punto, di offrire una qualche riflessione sul rapporto tra la testimonianza e la speranza cristiana. Proprio il testimone - in specie il martire - costituisce l’incarnazione più radicale e il vertice supremo della speranza: per amore di Cristo, egli è pronto a donare nel sangue la propria vita (cfr. Esortazione Ecclesia in Europa, 13).
E ora l’ultima parola. Non è da me, ma viene da lontano, dall’Oriente, da un vescovo martire dei primi tempi della Chiesa, da sant’Ignazio di Antiochia. Desidero che la sua voce risuoni in questa Arena e pronunci ancora una volta una parola d’estrema semplicità, ma capace di definire nella forma più intensa e radicale la grazia e la responsabilità che come Chiesa in Italia chiediamo di ricevere da questo Convegno.
E che, per dono di Dio, il cuore di ciascuno di noi ne sia toccato e profondamente rinnovato!
Ascoltiamo: «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. E’ meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo» (Lettera agli Efesini).
Fonte: Sito dell’Agenzia SIR (www.agenziasir.it)
Sul tema, in rete e enel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
VAN-gélo ... o ... EU-Angélo!? Verona. IV Convegno Ecclesiale della Chiesa Cattolica. Prolusione del Card. Dionigi Tettamanzi. Già dall’inizio, quasi un aut-aut. La parola del Dio-"Caritas" (Mammona) o la Parola del Dio-"Charitas" (Amore) .... **
Morto il cardinale Tettamanzi, ex arcivescovo di Milano
Aveva 83 anni. Il dolore del Papa: "Era pastore sollecito ed esperto di etica"
di Redazione ANSA MILANO *
E’ morto stamani all’età di 83 anni, dopo una lunga malattia, il cardinale Dionigi Tettamanzi. Arcivescovo di Milano dal 2002 al 2011, il cardinale si è spento nella Villa Sacro Cuore, la ’Casa di spiritualità della Diocesi’, a Triuggio, in Brianza, dove si era ritirato dopo la fine del mandato.
Tettamanzi è morto stamani a Villa Sacro Cuore, in Brianza, non lontano da Renate, il paese dove era nato il 14 marzo 1934. Accanto al cardinale c’erano i familiari e Marina, la storica assistente.
Ieri il cardinale Angelo Scola e il neo eletto arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, avevano diffuso una nota per spiegare che le condizioni di Tettamanzi si erano "particolarmente aggravate" e per invitare la comunità diocesana a pregare per lui.
Papa: "Dolore, era pastore sollecito ed esperto di etica" - Il Papa invia un messaggio di vicinanza ai familiari e alla diocesi di Milano per la scomparsa del cardinale Dionigi Tettamanzi, del quale "penso con affetto e ricordo con gratitudine - scrive il Papa - l’intensa opera culturale e pastorale profusa" da questo "benemerito fratello" che ha "testimoniato con gioia il vangelo e servito docilmente la Chiesa". Papa Francesco ricorda Tettamanzi come "pastore sollecito, totalmente dedito alle necessità e al bene dei sacerdoti e dei fedeli tutti, con una peculiare attenzione ai temi della famiglia, del matrimonio e della bioetica, dei quali era particolarmente esperto". Papa Francesco invia la benedizione a quanti ne piangono la scomparsa, "con un pensiero speciale per quanti lo hanno amorevolmente assistito in questi ultimi tempi di malattia". Il telegramma è firmato personalmente dal Papa, e indirizzato al cardinale Angelo Scola, amministratore apostolico di Milano e a mons. Mario Delpini, arcivescovo eletto.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Van-gélo ... o ... Eu-angélo!? Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Verona. IV Convegno Ecclesiale della Chiesa Cattolica. Prolusione del Card. Dionigi Tettamanzi. Già dall’inizio, quasi un aut-aut. La parola del Dio-"Caritas" (Mammona) o la Parola del Dio-"Charitas" (Amore)?!
Papa Francesco: «Nella sua feconda esistenza ha testimoniato con gioia il Vangelo»
Il testo inviato dal Santo Padre a Scola e a Delpini in ricordo del cardinale Tettamanzi *
Nell’apprendere la notizia del decesso del caro cardinale Dionigi Tettamanzi, desidero esprimere le mie condoglianze ai familiari e a codesta comunità diocesana, che lo annovera tra i suoi figli più illustri e tra i suoi pastori più amabili e amati. penso con affetto e ricordo con gratitudine l’intesa opera culturale e pastorale profusa da questo benemerito fratello che nella sua feconda esistenza ha testimoniato con gioia il vangelo e servito docilmente la chiesa, dapprima come presbitero nell’Arcidiocesi di Milano, poi come vescovo ad Ancona-Osimo, segretario della conferenza episcopale italiana, arcivescovo di Genova, in seguito Arcivescovo della diletta Chiesa ambrosiana, infine amministratore apostolico di Vigevano. sempre si distinse come pastore sollecito, totalmente dedito alle necessita’ e al bene dei sacerdoti e dei fedeli tutti, con una peculiare attenzione ai temi della famiglia, del matrimonio e della bioetica, dei quali era particolarmente esperto. elevo la mia preghiera al signore affinchè, per intercessione della Beata Vergine Maria, che egli ha tanto amato, accolga questo suo fedele servitore nel gaudio e nella pace eterna, e di cuore imparto a coloro che ne piangono la scomparsa la benedizione apostolica, con un pensiero speciale per quanti lo hanno amorevolmente assistito in questi ultimi tempi di malattia.
Franciscus pp.
Dal Vaticano, 5 agosto 2017
* FONTE. Chiesa di Milano, 05.08.2017
Bisogna avere fede nella giustizia
intervista a Dionigi Tettamanzi,
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 14 marzo 2011)
Non è stato facile convincere il cardinale Dionigi Tettamanzi a rilasciare questa intervista: da un lato era affascinato dal tema, dall’altro intimorito. Va da sé che questa titubanza, sorprendente in un uomo tra i più coraggiosi e limpidi della Chiesa cattolica, ha finito per accrescere la simpatia nei suoi confronti. Il resto lo hanno fatto un calore umano e una bonomia sapida e terragna, sì che l’incontro è durato ben più a lungo del previsto. Con un’amabile coda finale a base di chiacchiere e caffè.
Eminenza, la domanda d’avvio è sempre la stessa. Credere, credenza, fede: come si articolano queste parole nella nostra società?
«Mentre ogni credenza rimanda a una convinzione profonda che determina poi un preciso impegno di vita, l’odierno pullulare di opinioni va nella direzione opposta. Mettendo a dura prova il credente. Il rischio è duplice: da un lato si assiste a una crescente difficoltà di orientamento, dall’altro al rinserrarsi dogmatico delle diverse credenze. Io penso invece che momenti di profondo cambiamento, come quello attuale, debbano essere colti come sfide positive. Come stimolo a una sorta di purificazione delle proprie verità, a una interrogazione sui convincimenti più intimi che animano le nostre azioni».
Che differenza c’è, se c’è, tra fede e credenza?
«La fede, per sua definizione, allude a qualcosa di chiaro, preciso. Mentre la credenza indica un sentimento molto più vago, indefinito».
In cui il soggetto non si mette totalmente in gioco?
«Potremmo dire così: la credenza implica in qualche modo l’impossessamento di un ideale, o di un Dio, che finisce per essere messo al proprio servizio. Chi è animato dalla fede, invece, consegna se stesso all’altro, abbandona l’idea di dominio sulla realtà. Impossessamento nel primo caso, spossessamento nel secondo: un’esperienza ben più difficile».
Che cosa significa per lei credere in Dio?
«Provo a dirglielo in termini telegrafici, nudi. Significa non tanto fare riferimento a un essere assoluto e trascendente, ma a un essere che ha un nome, un volto, un cuore. Significa credere a qualcuno che mi intercetta, mi accompagna, mi provoca, mi consola. E mi costringe a comportarmi diversamente. La fede, insomma, più che un concetto è un incontro, una comunione. E questo non vale soltanto per il cattolico o il cristiano».
Come mai certi aspetti più squisitamente teologici della fede cattolica (la resurrezione dei morti, la verginità di Maria), sono stati messi progressivamente da parte?
«Nelle forme più popolari di credenza si tendono a sottolineare alcune verità che rispondono meglio a certi bisogni immediati. Pertanto altre verità, più provocatorie, che mettono in questione la vita di ciascuno e la spingono in direzioni più impervie, tendono a oscurarsi o addirittura ad essere dimenticate. Ma la fede cristiana è un complesso armonico e unitario di verità. Dunque sceglierne una e tralasciarne un’altra, vuol dire venir meno a quella rivelazione di cui, grazie alla fede, siamo stati messi a parte. Attenzione però a non trascinare l’intero problema del credere a un livello puramente concettuale. Detto altrimenti: la fede è sì verità, ma prima ancora è vita».
Qualche tempo fa fece una battuta polemica: «È meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo».
«Un po’ di polemica non guasta. Basta aprire le pagine del Vangelo e si vedrà che il nostro Signore non la disdegnava affatto. Quanto a quella frase, è stata attribuita a me, ma io l’ho presa di sana pianta da un padre della Chiesa, Sant’Ignazio di Antiochia. Il quale ci invita a diffidare di chi dice di essere cristiano senza esserlo, perché così facendo strumentalizza per altri fini il bene più prezioso di cui disponiamo: la fede, appunto. C’è poi un altro padre della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, il quale sostiene che non c’è alcun bisogno di annunciare il Vangelo. Se la fede vive nei gesti piùumili e semplici del buon cristiano, lui stesso diventa Vangelo: un Vangelo vivente».
La fede dunque è tale solo se si incarna nei comportamenti concreti. Dovrebbe valere anche per la Chiesa. Talvolta invece si ha l’impressione che a muovere la Chiesa non sia la parola, magari "scandalosa" del Vangelo, ma altre logiche: politiche, utilitaristiche, mondane.
«Come diceva Sant’Agostino, anche la Chiesa ha bisogno di una sua quotidiana purificazione. La tentazione non riguarda solo il singolo, ma l’intera comunità. E la Chiesa, talvolta, corre il rischio di adattarsi a una situazione data, anziché seguire il dettato evangelico. Quasi che si trattasse di qualcosa di irraggiungibile, che sta al di sopra delle nostre umane possibilità. Ma noi dobbiamo pensare a Cristo: quello è il nostro modello, quella la nostra legge. Quella la strada lungo cui camminare».
E non avremmo bisogno, oggi più che mai, di quella certa parola "scandalosa"?
«Non so se per lei è scandalosa a sufficienza, ma a me preme molto la parola sobrietà. Perché l’eccesso e il successo, spesso e volentieri intrecciati tra loro, ormai prevalgono regolarmente sulla misura. Eppure la misura è l’unica realtà che soddisfa l’individuo, creando uno spazio di autentica attenzione verso l’altro. Tali modelli di comportamento, spesso inutilmente invocati per chi riveste posti di responsabilità, sono invece molto più diffusi di quanto non si creda tra la gente comune. C’è tutto un mondo che purtroppo non riesce a esprimersi con la propria voce, capace di atti piccoli ma a modo loro prodigiosi. Se quei segni di speranza fossero maggiormente conosciuti, ne trarremmo tutti un grande beneficio. Tanti anni fa, nel mio discorso di insediamento alla diocesi di Milano, ho parlato dei diritti dei deboli, che non sono affatto diritti deboli. Il sale della democrazia è la giustizia. Ogni tanto sarebbe opportuno ricordarlo».
Nel suo libro su San Carlo, lei parla con ammirazione di un uomo, un santo, capace allo stesso tempo di obbedire e comandare.
«Sono due termini che solitamente vengono distinti o addirittura contrapposti. Ma San Tommaso parlava non a caso di "autoexusia", ovvero della capacità di "tenersi in mano". Soltanto chi è davvero padrone di se stesso, sa consegnarsi al bene, al vero, al bello. Soltanto chi sa obbedire, è capace di comandare se stesso. Aggiungo che la credibilità di chi riveste un ruolo di comando è direttamente proporzionale alla sua capacità di esercitare l’autorità non a proprio favore, ma per qualcosa di più grande, universale».
Per un laico, un agnostico, risulta molto problematico il legame tra fede e libertà.
«Se c’è una dimensione totalmente disinteressata, e dunque libera, è proprio quella della fede. Soltanto chi pensa alla libertà come puro arbitrio, può ritenere che la fede renda schiavi. La fede non è un ossequio ai comandamenti, un mero sì verso i precetti. È un’energia che ci rende liberi, in verità. Avendo insegnato a lungo teologia morale, aggiungo che per me libertà e responsabilità sono termini che viaggiano di conserva. Se non viviamo con orgoglio la necessità di rispondere a qualcosa o a qualcuno, non saremo mai davvero liberi».
C’è stato un momento preciso in cui ha sentito la chiamata del Signore?
«No, non c’è stato. Non ho avuto nessuna folgorazione. Ho preso coscienza adagio adagio di quale sarebbe stato il mio cammino. Temo di deluderla, così come ho deluso tutti quelli che mi hanno rivolto la medesima domanda, ma la mia chiamata a Cristo è avvenuta nella più assoluta normalità».
Ratzinger: è meglio tacere ed essere, che dire e non essere
First Things diffonde un testo, a firma di Benedetto XVI, che comparirà come postfazione nel libro del cardinale Robert Sarah, «La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore» (Fayard, Parigi 2017). Il volume sarà edito anche in lingua italiana da Cantagalli (di cui riportiamo la traduzione) e in lingua tedesca da Fe-medienverlags *
Da quando, negli anni Cinquanta, lessi per la prima volta le Lettere di sant’Ignazio di Antiochia, mi è rimasto particolarmente impresso un passo della sua Lettera agli Efesini: «È meglio rimanere in silenzio ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se si fa ciò che si dice. Uno solo è il Maestro che ha detto e ha fatto, e ciò che ha fatto rimanendo in silenzio è degno del Padre. chi possiede veramente la parola di Gesù può percepire anche il suo silenzio, così da essere perfetto, così da operare tramite la sua parola ed essere conosciuto per mezzo del suo rimanere in silenzio» (15, 1s.).
Che significa percepire il silenzio di Gesù e riconoscerlo per mezzo del suo rimanere in silenzio? Dai Vangeli sappiamo che Gesù di continuo ha vissuto le notti da solo «sul monte» a pregare, in dialogo con il Padre. Sappiamo che il suo parlare, la sua parola proviene dal rimanere in silenzio e che solo in esso poteva maturare. È illuminante perciò il fatto che la sua parola possa essere compresa nel modo giusto solo se si entra anche nel suo silenzio; solo se s’impara ad ascoltarla a partire dal suo rimanere in silenzio.
Certo, per interpretare le parole di Gesù è necessaria una competenza storica che ci insegni a capire il tempo e il linguaggio di allora. Ma solo questo, in ogni caso, non basta per cogliere veramente il messaggio del Signore in tutta la sua profondità. Chi oggi legge i commenti ai Vangeli, diventati sempre più voluminosi, alla fine rimane deluso. Apprende molte cose utili sul passato, e molte ipotesi, che però alla fine non favoriscono per nulla la comprensione del testo. Alla fine si ha la sensazione che a quel sovrappiù di parole manchi qualcosa di essenziale: l’entrare nel silenzio di Gesù dal quale nasce la sua parola. Se non riusciremo a entrare in questo silenzio, anche la parola l’ascolteremo sempre solo superficialmente e così non la comprenderemo veramente.
Tutti questi pensieri mi hanno di nuovo attraversato l’anima leggendo il nuovo libro del cardinale Robert Sarah. Egli ci insegna il silenzio: il rimanere in silenzio insieme a Gesù, il vero silenzio interiore, e proprio così ci aiuta anche a comprendere in modo nuovo la parola del Signore. Naturalmente egli parla poco o nulla di sè, e tuttavia ogni tanto ci permette di gettare uno sguardo sulla sua vita interiore. A Nicolas Diat che gli chiede: «Nella sua vita a volte ha pensato che le parole diventano troppo fastidiose, troppo pesanti, troppo rumorose?», egli risponde: «... Quando prego e nella mia vita interiore spesso ho sentito l’esigenza di un silenzio più profondo e più completo... I giorni passati nel silenzio, nella solitudine e nel digiuno assoluto sono stati di grande aiuto. Sono stati una grazia incredibile, una lenta purificazione, un incontro personale con Dio... I giorni nel silenzio, nella solitudine e nel digiuno, con la Parola di Dio quale unico nutrimento, permettono all’uomo di orientare la sua vita all’essenziale» (risposta n. 134, p.156), In queste righe appare la fonte di vita del Cardinale che conferisce alla sua parola profondità interiore. È questa la base che poi gli permette di riconoscere i pericoli che minacciano continuamente la vita spirituale proprio anche dei sacerdoti e dei vescovi, minacciando così la Chiesa stessa, nella quale al posto della Parola nient’affatto di rado subentra una verbosità in cui si dissolve la grandezza della Parola. Vorrei citare una sola frase che può essere origine di un esame di coscienza per ogni vescovo: «Può accadere che un sacerdote buono e pio, una volta elevato alla dignità episcopale, cada presto nella mediocrità e nella preoccupazione per le cose temporali. Gravato in tal modo dal peso degli uffici a lui affidati, mosso dall’ansia di piacere, preoccupato per il suo potere, la sua autorità e le necessità materiali del suo ufficio, a poco a poco si sfinisce» (risposta n. 15, p. 19).
Il cardinale Sarah è un maestro dello spirito che parla a partire dal profondo rimanere in silenzio insieme al Signore, a partire dalla profonda unità con lui, e così ha veramente qualcosa da dire a ognuno di noi.
Dobbiamo essere grati a Papa Francesco di avere posto un tale maestro dello spirito alla testa della Congregazione che è responsabile della celebrazione della Liturgia nella Chiesa . Anche per la Liturgia, come per l’interpretazione della Sacra Scrittura, è necessaria una competenza specifica. E tuttavia vale anche per la Liturgia che la conoscenza specialistica alla fine può ignorare l’essenziale, se non si fonda sul profondo e interiore essere una cosa sola con la Chiesa orante, che impara sempre di nuovo dal Signore stesso cosa sia il culto. Con il cardinale Sarah, un maestro del silenzio e della preghiera interiore, la Liturgia è in buone mani.
Città del Vaticano, nella settimana di Pasqua 2017
Copiright della Libreria Editrice vaticana
Traduzione di Pierluca Azzaro, revisione di Lorenzo Cappelletti - Cantagalli
LA "LUCE DEL MONDO" SONO "IO"!!! CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!! Il benvenuto alla “Ratzinger Academy”. Una nota di Philippe Clanché ("Témoignage chrétien")
Tettamanzi, luci a Milano
di Aldo Maria Valli (Europa, 5 dicembre 2009)
Che cosa fa veramente grande una città? Forse le infrastrutture? Forse i grattacieli? Forse le opere d’arte? Certo, tutte queste cose sono necessarie per fare più bella e funzionale una città, ma per farla grande occorre altro. Occorre, precisamente, un’anima. E se la città in questione è Milano, occorre che riscopra le sue qualità universalmente riconosciute ma ormai piuttosto sbiadite: generosità e solidarietà.
La festa di sant’Ambrogio del sette dicembre è tradizionalmente il momento in cui l’arcivescovo di Milano si rivolge alla città con un messaggio a vasto raggio, e quest’anno il cardinale Dionigi Tettamanzi ha deciso di intitolarlo così: Milano torni grande con la sobrietà e la solidarietà, titolo che contiene sia l’obiettivo da porsi sia la strada da seguire per raggiungerlo.
Dice Tettamanzi: «Non possiamo stancarci di parlare di solidarietà, una solidarietà non a parole ma a fatti. La solidarietà è inseparabile dalla giustizia, ha una destinazione sociale. Alla sua radice ci sono sempre gli altri». Nessuno di noi può pensare di fare da solo. Sono principi certamente cristiani, ma il cardinale si premura di ricordare che sono principi anche costituzionali.
Tra i principi fondamentali della nostra Carta fondamentale viene infatti affermato il legame tra i «diritti inviolabili dell’uomo» e «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (articolo 2). È questo il patto sociale che mantiene in vita una città, e «qui è in gioco la giustizia!».
Ora per il cardinale la domanda è: Milano è una città solidale, all’altezza della sua tradizione? È, per esempio, solidale con i bambini che hanno bisogno di asili nido, scuole materne e parchi gioco? È solidale con i ragazzi che hanno bisogno di opportunità educative per prevenire il disagio? È solidale con i giovani nel momento in cui offre loro «un lavoro quasi sempre precario, quasi a voler sfruttare le loro necessità»? È solidale con le tante famiglie alle prese con problemi economici? È solidale con gli anziani «senza relazioni e prospettive per il futuro»? È solidale con gli immigrati «spesso confinati, per chiusura o rifiuto, nei propri gruppi etnici»?
Il cardinale non gira attorno alle parole. Milano offre ancora molti esempi di solidarietà, specie a opera del volontariato e della Chiesa, ma ciò che occorre è «una solidarietà che sia in grado di animare il corso delle istituzioni».
Un esempio calzante è il comportamento nei confronti dei nomadi: «La risposta della città e delle istituzioni alla presenza dei rom non può essere l’azione di forza senza alternative e prospettive, senza finalità costruttive».
Per Tettamanzi la solidarietà si costruisce nella sobrietà. «Nella nostra città c’è chi sta molto bene, mentre sempre più aumenta il numero di chi fa più fatica». La sobrietà «ci aiuta a costruire la giustizia», perché «agisce secondo la giusta misura, superando sempre eccessi e sprechi ». La sobrietà, in quanto istanza etica, non danneggia l’economia e non è contro il mercato, «ma è a favore di una realizzazione sapiente dell’economia perché mette al centro la persona e le sue esigenze vere ».
Milano ha davanti a sé un appuntamento importante, l’Expo 2015, il cui tema, Nutrire il pianeta, energia per la vita, si presta a una riflessione proprio sulla sobrietà. La sfida presuppone un ripensamento circa l’uso delle risorse e i modi di produrle e scambiarle. E bisogna partire proprio dalla città. Milano è conosciuta come la città del fare. La sobrietà può essere un modo per ridare sostanza a questo appellativo, «un risultato che si raggiungerà eliminando ciò che è vuota apparenza, spreco di risorse», perché si ha la sensazione che «si punti a campagne di comunicazione e immagine, nascondendo la consistenza dei problemi, più che alla loro soluzione e all’offerta di servizi efficienti».
Chi è chiamato a operare per gli altri, come l’uomo delle istituzioni, «deve essere sobrio per mettere al centro delle proprie attenzioni i problemi delle persone e per risolverli». Occorre «un sussulto di moralità e spiritualità nei nostri stili di vita». Milano è coinvolta in progetti di sviluppo che esigono grandi quantità di denaro «e per i quali sono possibili infiltrazioni di criminalità organizzata ». Per questo è urgente da parte di tutti «il rispetto di norme semplici, chiare ed efficaci», nel «confronto con la coscienza morale, la rettitudine nell’agire, la gestione corretta del denaro pubblico».
OPINIONI
Preti pedofili? La Chiesa sia credibile
Una macchia che coinvolge il 3% del clero: la stessa percentuale dei ministri di culto di altre confessioni che finiscono in tribunale ma sono ignorati dai giornali
di FILIPPO DI GIACOMO (La Stampa, 1/6/2007)
E’ la Chiesa Cattolica la "grande prostituta" del mondo»? Il pregiudizio urlato dal leader degli unionisti calvinisti dell’Ulster davanti a Giovanni Paolo II, nell’emiciclo di Strasburgo l’11 ottobre 1988, fa parte dei vari linciaggi subiti attraverso i secoli dalla gerarchia e dal clero cattolici. Un pregiudizio antico quanto il cristianesimo, particolarmente coltivato e diversamente declinato in ambiente anglosassone da quando la riforma protestante prima e l’illuminismo poi gli hanno anche attribuito un valore confessionale e nazionalistico con un mix gradito alla politica.
Un pregiudizio tira l’altro e, man mano che la marea immonda dei preti cattolici accusati di pedofilia montava, sui media anglosassoni negli ultimi due decenni si è letto spesso: «è la Chiesa il vero pedofilo». Una macchia, attribuita alla persistenza della legge sul celibato per i sacerdoti cattolici di rito latino, ed estesa, proprio per questo, a decine di migliaia di chierici. In realtà, fonti non confessionali stabiliscono allo 0,3 per cento del clero la percentuale di infamia che si riferisce alla Chiesa Cattolica. Una percentuale del tutto simile a quella che colpisce i ministri di culto di altre confessioni religiose i quali forse perché non cattolici e perché operanti in terre anglosassoni, finiscono in tribunale ma vengono ignorati dai giornali.
L’infamia di una parte
Una percentuale notevolmente inferiore alle condanne per pedofilia inflitte agli educatori e agli insegnanti delle scuole pubbliche statunitensi e irlandesi, i due Paesi dove la pruderie di Sex crimes and the Vatican - il video che ha tanto eccitato Santoro e i suoi - ha pescato, casualmente, nel torbido. È stato il Wall Street Journal, in un editoriale di qualche anno fa, a elencare, per stigmatizzare e rigettare, la spendibilità politica a stelle e strisce della «grande prostituta». Sull’Unità del 29 maggio una intervistatrice chiedeva a uno scrittore anticattolico irlandese: «Di cattolicissimi restiamo solo noi italiani: ci faccia sognare, ci dica, come è avvenuto nel suo paese il crollo del cattolicesimo?». Il giornale per il quale scrive la giornalista con i sogni, in teoria, si rivolge a un elettorato che in un recente sondaggio si è dichiarato «credente» al 70% e «praticante» per quasi il 30%.
Se qualcuno spera di tradurre politicamente l’infamia di una parte del corpo clericale della Chiesa, moderando così la spinta verso il centro intravista nelle ultime (e nelle future) tornate elettorali, vuol dire che, almeno politicamente, non abbiamo più argomenti.
Il «mistero dell’iniquità»
E che, nello specifico del problema pedofilia, ancora non vogliamo dire realisticamente nulla; visto che, secondo i dati dell’Onu, è un problema che colpisce circa 150 milioni tra bambini e bambine. Le vere inchieste, quelle per cui vale la pena mettere in campo la libertà di stampa, dovrebbero riguardare fenomeni come il turismo sessuale, la pedopornografia, lo sfruttamento sessuale di minori...
Proprio per questo motivo, è particolarmente importante che la Chiesa ci dica con tutta sincerità come mai è successo che, anche al suo interno, quel «mistero di iniquità» che Giovanni Paolo II aveva riconosciuto nel mondo ha così pervicacemente colpito. Dovrà dirci ancora, con parole credibili, come farà a ricostruire quella fiducia tradita che tanti papà e mamme avevano riposto nella loro Chiesa. Perché, al di là di ogni fatto confessionale, l’immonda macchia della pedofilia ha gettato sulla testimonianza della Chiesa quel «tradimento» definito e stigmatizzato con dolore da Giovanni Paolo II, il Giovedì Santo del 2002, il giorno del sacerdozio ma anche il giorno di Giuda, in una memorabile omelia. Un tradimento, del tutto simile a quello di Giuda, dell’umano che è in tutti noi.
DISCORSO ALLA CITTÀ
«Milano, ritrova un centro per riscattare le tue periferie»
Tettamanzi: non basta l’urbanistica, serve un’idea alta di persona «Anche la fuga verso l’esterno alla ricerca di luoghi a misura d’uomo molte volte finisce per creare alienazione: ci si isola e ci si muove di continuo con una frenesia che è esistenziale»
Da Milano Giorgio Bernardelli (Avvenire, 07.12.2006)
La questione delle periferie di Milano? Non si risolve solo premendo l’acceleratore sui doverosi interventi urbanistici e sociali. Perché è un problema che chiama in gioco anche qualcosa di più. Spinge a interrogarsi su quale sia il vero «centro» nelle nostre città e nella vita delle persone che la abitano.
È a questo tema da tempo al centro del dibattito in una metropoli come Milano, che il cardinale Dionigi Tettamanzi ha voluto dedicare ieri sera il tradizionale messaggio alla città alla vigilia della festa di sant’Ambrogio. Nell’antica basilica dedicata al patrono, davanti alle autorità cittadine e alla presenza dei gruppi regionali e della comunità straniere, il porporato ha voluto raccogliere - come ha spiegato lui stesso - la sollecitazione di tante voci che sottolineano allarmate «il degrado e la difficile qualità della vita» delle persone che abitano le periferie di Milano. Che sono molte. Ma - ha aggiunto il cardinale - a volte si nascondono anche dove meno ce le si aspetta.
Lontani anche da se stessi?
La periferia non è infatti solo un luogo fisico, ma qualcosa che ha a che fare con l’identità di una comunità di persone. Il centro - ha spiegato Tettamanzi - «non è tanto un punto geometrico, quanto il cuore pulsante, l’anima della città». Ed è con questo sguardo che va letto il problema delle città di oggi. Perché «è l’uomo come uomo, ossia nella sua umanità, che può diventare periferia a se stesso. E tale diventa quando è senza identità e senza radici; quando smarrisce il suo centro interiore, anzi si separa da esso; quando perde la capacità di riconoscere l’altro, di stabilire una relazione, di farsi prossimo, di essere cittadino». Già sant’Ambrogio - ha ricordato l’arcivescovo di Milano - lo diceva con chiarezza: «Che c’è di più lontano che fuggire via da se stessi?».
Non è un disagio solo interiore. «Se un uomo si sente estraneo, lontano, scacciato, non amato, condannato senza appello - ha sottolineato il cardinale Tettamanzi -, se non sente più pulsare il cuore della sua città, spesso finisce per diventare un uomo contro. E lo dimostrano fenomeni come il bullismo, la violenza cieca e irresponsabile del branco, l’aggressività in tutte le sue manifestazioni, in particolare verso coloro che vengono ritenuti più deboli: i disabili, le donne, gli anziani. Più sale il senso di estraneità e di alienazione, più la violenza trova alimento e dilaga».
Ecco, allora, la prospettiva più vera attraverso cui guardare anche ai "luoghi-periferia". Realtà in cui in questi anni qualcosa si è cominciato a costruire. «Sono stati fatti non pochi sforzi - ha riconosciuto l’arcivescovo di Milano - dalle istituzioni, dalle aggregazioni sociali, dalle comunità parrocchiali e da tante persone generose per vincere la dequalificazione umana, la non bellezza di interi quartieri, la mancanza di servizi sociali e culturali e di relazioni umane: sono sforzi da continuare con decisione e fiducia». Eppure si avverte sempre la mancanza di qualcosa. «La riqualificazione urbanistica delle periferie cittadine, per quanto necessaria e significativa, non basta - ha continuato Tettamanzi -. Chiede un di più, domanda un coinvolgimento e un vero ascolto di coloro che abitano e operano in quelle periferie e ne vivono il disagio».
Una fuga che genera nuove periferie
La dimostrazione più chiara la si vede nella fuga dalle periferie della città, alla ricerca di «nuovi luoghi a misura d’uomo». Fenomeno che Milano ha vissuto impetuosamente in questi anni. Qual è stato il risultato? Intanto le periferie cittadine rimangono periferie. «I nuovi venuti - in particolare coloro che vengono chiamati extracomunitari - sono troppo spesso costretti ad accontentarsi - ha denunciato il cardinale -, a ripopolare i luoghi e gli spazi di chi è riuscito a fuggire, senza però che nessuno si sia preoccupato di risolvere la questione precedente che aveva causato la fuga, perpetuando così, in termini a volte più drammatici, i problemi».
Ma c’è anche di più: anche chi se n’è andato credendo di trovare una situazione migliore, alla fine si è ritrovato in un’altra periferia. «Fuggiamo dalla città pensando che la nostra ricerca di senso e di nuova identità trovino compimento, ma questo compimento non avviene - ha osservato Tettamanzi -. Perché si sviluppa una nuova frenesia, non solo di tipo edificatorio, ma anche esistenziale: ci si muove in continuazione, si esce dalla città, ma poi ci si ritorna per lavoro o per acquisti o per trovare momenti di svago, si passa da un centro commerciale all’altro, si vive e ci si muove insieme, ma isolati». Alla fine anche nella villetta o nel moderno condominio immerso nel verde l’uomo si ritrova comunque «periferia a se stesso».
«Abbiamo sì cambiato l’area geografica - ha annotato l’arcivescovo di Milano -, ma abbiamo riprodotto lo stesso modello sociale, quello consumistico, fatto di un frenetico correre tra il lavoro e gli acquisti, antica raffinata schiavitù secondo un nuovo modello. In un simile contesto nessuno riesce a trovare la gioia dell’appartenenza alla comunità sociale; pochi si sentono di assumere la responsabilità degli altri e di farsi carico dei problemi collettivi; rinascono la paura e l’avarizia di sé; si affievolisce o scompare l’idea di un impegno civile; le relazioni tra le persone e i gruppi divengono inconsistenti e segnate dalla diffidenza e dalla superficialità».
Dai ghetti alle persone
Dalla periferia si esce davvero solo se la città rimette al centro la persona. Se non oscura la domanda di senso che sta nel cuore di ciascuno. Perché l’«interiorità ha pure una valenza civile» e allora occorre chiedersi quale modello non la tradisce. È questo, per Tettamanzi, il compito della politica: «Rendere possibile l’essere persona e condurre ciascuno ad affrontare le proprie responsabilità individuali, sociali, civili; creare tutte le condizioni che non tradiscano la persona, che ne ricollochino la dignità e il valore al centro della moderna civiltà». Ma questo è possibile s olo se si ha un progetto, se non ci si ferma alla rincorsa delle emergenze.
Ed è un compito che va declinato anche rispetto a un’altra grande questione aperta della Milano di oggi: il rapporto con le nuove presenze immigrate all’interno della città. «Se vogliamo una convivenza civile - ha detto l’arcivescovo - dobbiamo uscire da uno schema di contrapposizione di identità, di culture, di religioni. In realtà non potrà mai avere un’anima una città, nella quale comunità diverse convivono senza incontrarsi, si ghettizzano, rendendole periferia le une alle altre. Il futuro della nostra comunità civile - ha aggiunto Tettamanzi - non sta in una "ordinata ghettizzazione" rispettosa di alcune norme di convivenza più per necessità che per convinzione. Le diverse identità devono essere messe in condizione di non temersi reciprocamente, bensì di aprirsi alla reciproca stima e conoscenza. E questo è necessario per preparare un futuro nel quale i figli di queste comunità si potranno sentire, tutti insieme, appartenenti a un’unica città e da cittadini potranno costruire la città di domani».
CHIESA DOMINATA DALLA PAROLA
AL CONVEGNO PAROLE FREMENTI
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 18.10.2006)
Ci sono parole che vengono maneggiate in modo antitetico: c’è chi se le strappa quasi dalle viscere e le getta davanti agli altri ancora frementi e c’è chi le tira fuori dalla tasca della giacca come se fossero un regalino da mettere sul tavolo per una festicciola. Il monaco Franco Mosconi ieri a Verona ha tratto dalla sua meditazione tre parole facendole serpeggiare in mezzo all’uditorio come se fossero lingue di fuoco. Eppure sono vocaboli che condiscono spesso le prediche e il linguaggio ecclesiale, risultando alla fine inoffensive.
La prima parola è speranza, e sperare nel cristianesimo vuol dire avere fisso «un orizzonte escatologico», significa lasciar cadere tante sovrastrutture, gli stereotipi spirituali, la melassa devozionale e rischiare sul sentiero d’altura dei «valori essenziali del Vangelo quali la gratuità, l’amore, la povertà, la piccolezza», in opposizione a ciò che ormai siamo stati convinti a considerare come veramente primari, cioè «la potenza, il successo, la ricchezza, la forza dei numeri e dei mezzi». Senza questa essenzialità il cristianesimo si stinge in un impegno pur nobile ma col solo debole respiro della storia.
Se si rimane in questa valle senza «levare il capo verso la liberazione vicina», come diceva Gesù, si è «bloccati dai paludamenti delle nostre menti che sono le nostre paure, le nostre angosce, i nostri sospetti». Le comunità si appesantiscono, si inflaccidiscono, cedono stancamente, ingrigite come la tiepida e sazia Chiesa di Laodicea, rigettata dal Cristo dell’Apocalisse.
Ed ecco, allora, la seconda parola che dom Mosconi ha estratto dalla sua lettura del testo della Prima Lettera di Pietro, la santità. Un termine ormai relegato tra gli incensi e spogliato della sua carica originaria fatta di trascendenza e di esistenza intrecciate tra loro. «Santità, infatti, significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio». Nella santità la creatura col suo limite e la sua colpa non si dissolve in una sorta di aura sacrale ma si libera e si ri-crea.
Ma sulle due parole della "speranza" e della "santità" si erge come vertice e stella polare proprio il terzo vocabolo decisivo, Parola di Dio, vocabolo tipico della Chiesa post-conciliare. Ma la domanda del monaco nella sua brutalità cade come una sferzata: «Cosa ne abbiamo fatto della Parola a quarant’anni dalla Dei Verbum?» Questo arco di tempo - che per la Bibbia è il segno di un’intera generazione - quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola? La Parola divina non la si deve conservare solo come una pietra preziosa da collocare in un reliquiario: essa è come un mare in cui si ci deve immergere, bagnare, avvolgere. «Uno diventa la Parola che ascolta. Uno si assimila alla Parola che medita quotidianamente e diventa narratore di speranza».
Le nostre comunità sono state attraversate veramente da questa Parola? Chi, come me e come tanti presbiteri e vescovi della Chiesa italiana, aveva al tempo del Concilio venti o trent’anni, che cosa scopre guardando al fluire degli ultimi decenni? Nelly Sachs, una poetessa ebrea tedesca, Nobel nel 1966, in una sua ballata sui profeti si domandava: «Se i profeti irrompessero per le nostre porte della notte incidendo ferite nei campi dell’abitudine, se i profeti irrompessero cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini ostruito di ortiche, sapresti ascoltare?». Dobbiamo riconoscere e non sminuire quello che si è fatto di importante per la Bibbia - sarà non a caso tema del prossimo Sinodo episcopale - ma dobbiamo anche chiederci perché spesso la Parola divina non incide ferite nella placida superficialità dei nostri giorni e le ortiche delle cose secondarie o vane continuano a ottundere il nostro ascolto. Per questo è stato necessario far risuonare con vigore a Verona quelle tre parole in tutto il loro ardore.
Demonio d’un laicismo
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 20.10.2006)
Il papa a Verona ha tenuto un’altra solenne «lezione magistrale», sul tipo di quella, ormai famosa, tenuta in Baviera ma, questa volta, senza citazioni ambigue nei confronti dell’islam. Il pensiero di Ratzinger, comunque, si fa sempre più chiaro. E anche più duro. Il punto di partenza è il giudizio sul mondo moderno e la sua cultura. Un giudizio decisamente negativo. Relativismo, utilitarismo, individualismo. Un vero disastro. La secolarizzazione con le sue conseguenze ha colpito un po’ tutti, anche l’Italia, nonostante alcuni aspetti favorevoli che la chiesa italiana è riuscita , anche se a stento, a conservare.
Il disastro indica una motivazione chiara: la pretesa di fare a meno di dio, il laicismo. Il papa non ha dubbi. La salvezza non può venire che dal cristianesimo cattolico (delle altre forme di religione non si parla neppure) la cui ragionevolezza si fonda sulla fede. Di questo rapporto stretto fra fede (cristiana) e ragione il papa sembra fare un’ancora di salvezza per il mondo. L’unica possibile. E l’unico a gestirla è proprio il Vaticano.
Una posizione di principio dalla quale il papa trae tutte le conseguenze logiche, a cominciare da quelle che riguardano l’educazione. Logiche e concrete, a partire dalla scuola cattolica (compresi i finanziamenti). Immediato il passo a tutti gli argomenti oggi in discussione: la vita dal concepimento alla morte, la famiglia, il matrimonio, e così via. Tutto si tiene, se è vero, come è vero, che fuori dalla fede cattolica non c’è salvezza e che solo la fede cattolica è fortemente e saldamente razionale. Perciò deve valere anche per chi non crede.
Alla chiesa - italiana, in questo caso - il compito di far trionfare questa impostazione. E’ chiaro che la chiesa in quanto tale non fa politica, non è un partito. Il compito non è della chiesa in quanto tale ma dei cattolici in politica: a Verona i delegati applaudono. Non potranno né dovranno appoggiare leggi e posizioni che siano contrarie alla rigida impostazione cattolica della politica. Un’impostazione che potrebbe apparire razionalista, anche perché il papa non teme di esaltare addirittura la matematica. Galileo padre della chiesa. Perciò il papa completa la sua lezione citando la recente enciclica sulla carità. L’amore deve completare il quadro che altrimenti rischierebbe il razionalismo. Verità, ragione e anche amore: un trinomio che dovrebbe portare la salvezza a un mondo altrimenti dannato e disperato.
Addio laicità, dunque. La grande avversaria, secondo il papa, sarebbe la grande sconfitta. Ma il cattolicesimo laico accetterà questa impostazione che dovrebbe abbracciare teologia, filosofia e scienze? Se ne può, per lo meno, dubitare. Anche in questi giorni di convegno a Verona si sono fatte sentire le molte espressioni di un cattolicesimo che non vuole rinunciare ai valori della laicità e del pluralismo.
Nonostante le lezioni dall’alto, il dibattito rimane aperto. Lo richiedono, d’altronde, le mille voci che anche all’interno del cattolicesimo all’ascolto di una lezione da una cattedra preferiscono il dialogo e i passi di un cammino.
Quarto Convegno Ecclesiale della chiesa Cattolica 16-10 ottobre 2006
Interviste ad esponenti non cattolici presenti a Verona
di Agenzia SIR del 17-10-2006 *
17/10/2006 14:31 VERONA 2006: RICCIARDIELLO (EVANGELICI), “DALLA SPERANZA ALLA REALTÀ” “Il dialogo tra le Chiese cristiane in Italia è ormai ben avviato e sempre più promettente”: così il pastore Romolo Ricciardiello, coordinatore apostolico delle Chiese cristiane evangeliche della Valle del Sele (Sa), presente a Verona tra i rappresentanti delle Chiese cristiane in Italia invitati al IV Convegno ecclesiale nazionale. “Nella mia zona - spiega - c’è una grande collaborazione tra la diocesi di Salerno e le Chiese evangeliche presenti sul territorio, come lo dimostrano incontri, celebrazioni comuni non solo per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ma anche per la Pentecoste, la pubblicazione del Vangelo secondo Matteo a cura della Società biblica italiana, presentato nella cattedrale di Salerno”. Tutto ciò, per Ricciardiello, è “frutto del Concilio Vaticano II, che ha segnato una svolta e un rinnovamento nei rapporti tra cattolici e evangelici”. Insomma, “essendo tanti i segni visibili positivi”, conclude, “dalla speranza di un dialogo vero stiamo passando alla realtà”.
17/10/2006 13:23 VERONA 2006: IL RABBINO LARAS, “PRIGIONIERI DELLA SPERANZA” “La speranza è un elemento comune alle nostre religioni, entrambe messianiche e in quanto tali incentrate sulla speranza di un domani migliore dell’oggi”. Così, Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia, che chiude i lavori della mattina con un saluto ai partecipanti al IV Convegno ecclesiale nazionale. Per Laras, “c’è un’esigenza di intensificare nel presente ma soprattutto nel futuro la carica della speranza”. Riprendendo le parole di Zaccaria, il rabbino ha evidenziato che siamo “prigionieri della speranza” nel senso che “non possiamo altro che essere portatori di speranza”. Dieci anni fa Laras partecipò al Convegno di Palermo: “È stato un incontro che mi ha impressionato per il numero di partecipanti, per quello spirito critico ma nello stesso tempo unito: da allora ho sempre pensato che questi incontri decennali della Chiesa cattolica siano molto importanti perché ci si confronta e analizza, oltre a coinvolgere una grossa rappresentanza del popolo cattolico”.
Dall’appuntamento di Verona, Laras è convinto che “nascerà un impulso rinnovato di energia per ritrovare l’unità per affrontare le grandi tematiche dell’esistenza, la guerra, la vita, la morte. Energia, che purtroppo, tendenzialmente, viene meno con il passare del tempo”. La speranza, aggiunge, “è sicuramente presente alla base del dialogo interreligioso che oggi esiste, anche se si svolge in maniera non uniforme e non sempre con l’auspicato slancio. Comunque, si sta andando avanti e quindi c’è la speranza che porti a risultati comuni”.
Per il rabbino, “non bisogna aspettarsi risultati immediati, ma bisogna avere fiducia che quel poco che facciamo insieme non vada perduto e su quel poco che abbiamo costruito insieme, domani potranno ulteriormente costruire gli altri”. Segni di speranza, per Laras, “la disponibilità a parlare insieme, a confrontarci e a collaborare, anche se non è tutto roseo lo sfondo; ma vedo più elementi positivi che negativi. E noi siamo positivi per definizione perché sia ebrei sia cristiani credono nell’avvento messianico e, quindi, in un futuro migliore”.
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wwww.ildialogo.org,Martedì, 17 ottobre 2006
LO “SCHIAFFO” DI VERONA
Il card. Tettamanzi scende nell’Arena
di Alberto *
A questo momento non è dato sapere quali reazioni e quali riflessi possa avere la prolusione di apertura al Convegno di Verona del card. D.Tettamanzi, e staremo a vedere. Proprio per questo, ad evitare che tutto venga diluito nel catino celebrativo che l’Arena presenta, è bene dire e avere presente che il cardinale è sceso nell’arena, magari giocando di fioretto ma assestando colpi decisivi. Quell’antitesi dialettica che si sperava “contra spem” è emersa prima ancora del previsto, addirittura in partenza. Una esegesi diversa della prolusione inaugurale forse è possibile, ma forse anche sospetta: e sarebbe certamente un bene per tutti dire le cose come stanno.
Per la verità, ascoltando in diretta le parole di Tettamanzi - un po’ distrattamente - si aveva l’impressione che ricalcasse l’impostazione aprioristica della Traccia del Convegno, forse perché condizionato nell’ascolto dall’apparato e dallo scenario celebrativo di una chiesa trionfante più che peregrinante, una chiesa fatta di segni più che essere segno essa stessa, un massimo di sacralità in ambiente laico. Rileggendo dopo quelle parole, la sensazione è invece che lì c’è una svolta, o meglio una ripresa di continuità col Concilio, anche se l’impianto del discorso è volutamente e apparentemente, per forza di cose, quello della Traccia. “Venenum in cauda” si potrebbe dire! La citazione finale di S.Ignazio d’Antiochia - accuratamente introdotta - appare come capovolgimento totale della prospettiva imperante: «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo» (Lettera agli Efesini). E questo dopo o all’interno di una maxi-liturgia che metteva in primo piano la dimensione celebrativa rispetto a quella del discernimento e del dialogo.
Cogliendo qua e là altre pacifiche “stilettate” ecco un riferimento allo stile del Concilio e a Paolo VI: “È proprio questo lo stile del Vaticano II, verso cui il nostro Convegno rilancia il suo ponte di raccordo, accogliendo in modo convinto e rinnovato il testimone che i Padri conciliari hanno consegnato al mondo nel loro “congedo”: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (Gaudium et spes, n. 1). A ricordarci questa consegna strategica del Concilio alla Chiesa e al mondo è Paolo VI, che nell’omelia di chiusura lo difendeva dall’accusa di «un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui» (EV I 454*), ne esaltava l’atteggiamento «volutamente ottimista» e lo indicava in modo programmatico come stile tipico della Chiesa: «Una corrente di affetto e di ammirazione - diceva il Papa - si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette» (EV I 457*).
Altra felice citazione utile a relativizzare la realtà storica della Chiesa: “Potremmo dire che, connotata dalla tensione escatologica, la comunione ecclesiale può ritrovare l’umiltà e la conversione di fronte alle sue diverse forme di lacerazione, può farsi più ricca di vigilanza e di desiderio e di slancio operativo, può aprirsi all’audacia profetica di una singolare libertà e di una grande snellezza nei suoi cammini e passi nelle varie vicende storiche. Cito dalla Lettera apostolica Orientale Lumen: «Se la Tradizione ci pone in continuità con il passato, l’attesa escatologica ci apre al futuro di Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito» (n. 8).
E con senso di realismo e consapevolezza, si dice: “Se è così, non è allora esagerato dire che l’evangelizzazione e la fede si ripropongono oggi con singolare acutezza come il “caso serio” della Chiesa. Di qui l’urgenza di tenere viva la preoccupazione per la “distanza” che esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. Senza dimenticare, peraltro, che una simile distanza - sia pure in forme e gradi diversi - ha sempre segnato la vita della comunità cristiana, e ancor più ha segnato e continua a segnare il cuore di ogni credente, che nella prospettiva di san Giovanni è pur sempre un incrocio di fede e di incredulità, di sequela del Vangelo e di arroccamento su se stessi e sul proprio egoismo. Ma la grande sfida pastorale rimane in tutta la sua gravità: come eliminare o attenuare questa “distanza”?
Si insiste di continuo sul “cammino spirituale-pastorale-culturale della nostra Chiesa”, così come si parla di “fede professata-celebrata-vissuta”. E questa volta ci si interroga in maniera molto diretta, in modo che chi ha orecchi per intendere intenda: “Non potrebbe incominciare da qui una specie di ’seconda fase’ del progetto culturale in atto nella nostra Chiesa? Una fase che rimetta al centro la persona umana e il suo bisogno vitale e insopprimibile, appunto la speranza, come rilevava in modo incisivo sant’Ambrogio dicendo che «non può essere vero uomo se non colui che spera in Dio» (De Isaac vel anima, 1,1)? Forse è possibile un’analogia: come la Dottrina Sociale della Chiesa e la conseguente prassi hanno la persona umana come principio fondativo e architettonico dei loro più svariati contenuti, così l’azione spirituale-pastorale-culturale della Chiesa potrebbe strutturarsi in riferimento alla centralità della persona umana, nella sua dignità di immagine viva di Dio in Cristo e nella concretezza delle sue situazioni e relazioni quotidiane”.
Possono bastare questi passi, per convincersi che ci troviamo davanti ad una “inversione ad U” per rientrare in un percorso o smarrito o abbandonato: quello segnato dal Concilio. Mi è sembrato importante lanciare questa segnalazione, perché non ci sfugga che un principio o processo dialettico è stato riattivato dentro la Chiesa e tutti possiamo farci sentire.
Alberto
Articolo tratto da:
FORUM (26) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
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www.ildialogo.org, Martedì, 17 ottobre 2006
Teo-con in corsa, Tettamanzi frena
di Red. Pol. (il manifesto, 17.10.2006)
Roma. Tra «cattolici adulti» e «teo-con» di provata fedeltà, popolari di ritorno e laici devoti, governanti e oppositori, il corpaccione cattolico della politica italiana aspetta con ansia la messa-evento che Joseph Ratzinger celebrerà giovedì prossimo a Verona. Allo stadio (Bentegodi) come è prassi nei paesi dove il papa arriva ad evangelizzare popoli lontani, ma stavolta giocando in casa. I politici ad omaggiare santa romana chiesa tra i 40mila degli spalti saranno in tanti, tanti che uno che se ne intende come il democristiano Publio Fiori, che adesso guida una «rifondazione Dc», denuncia «un’ipocrita caccia al voto dei cattolici». Ci sarà il presidente del Consiglio, ma non vuole mancare nemmeno il leader dell’opposizione Berlusconi. Si aspettano i capi dei partiti centristi, Casini e Mastella ma anche Rutelli, che del cardinale Ruini padrone di casa è buon amico. Fassino probabilmente sarebbe troppo, anche se il segretario della Quercia già tempo fa si è dichiarato credente, aggiungendo però che si tratta di «un fatto privato».
Una corsa e un’ansia che dev’essere sembrata eccessiva al cardinale arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, che in veste di organizzatore aprendo le giornate veronesi ieri ha citato le scritture per dire che «è meglio essere cristiano senza dirlo che proclamarlo senza esserlo». Certo i «teo-con» e anche i neonati «teo-dem» che militano sulla sponda bipolarmente opposta hanno sempre un posto nel cuore delle gerarchie ecclesiastiche - specie quando si stratta di far passare o bloccare leggi gradite e sgradite -, ma le parole di Tettamanzi qualche pensiero ai più sfrenati tra i politici papisti dovrebbero suggerirlo. «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere - ha continuato nella citazione l’arcivescovo di Milano -, non si tratta di fare una professione di fede a parole». Ognuno al suo posto, è sembrato voler dire Tettamanzi, assegnandone uno importante ai «politici cristiani», citati espressamente. E però anche ridimensionati in qualche modo: «Mi rimangono indimenticabili - ha detto - le parole di Paolo VI, ’la politica è una maniera esigente, ma non la sola, di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri».
Sandro Bondi (Forza Italia), Pierferdinando Casini (Udc), Maurizio Gasparri (An) da una parte, Pierluigi Castagnetti, Paola Binetti e Luigi Bobba (Margherita tutti e tre) dall’altra hanno già per conto loro contribuito all’appuntamento di Verona, partecipando due settimane fa ad un incontro romano di preparazione per esercitarsi proprio sui temi proposti dai vescovi italiani. Binetti e Bobba in particolare sono reduci dalla presentazione «urbi et orbi» della componente - «ma non chiamatela corrente» - «teo-dem» con la quale si propongono di sostenere le posizioni confessionali all’interno del partito democratico. Avanzando, all’interno del partito che dovrebbe nascere dalla fusione tra i Ds e la Margherita, una linea di «resistenza ad un laicismo da combattimento che ha fatto dei diritti individuali un assoluto e che vuole confinare il fattore religioso unicamente nella sfera del privato». A Verona saranno a casa loro.
CRISTIANI OGGI
il documento Il testo consegnato dai vescovi alle comunità ecclesiali suggella l’assemblea dell’ottobre 2006 e offre il profilo di una fede che sa incidere nella società complessa
Italia, ecco il cammino
Nella Nota dopo il Convegno di Verona le scelte per il futuro della Chiesa nel Paese
di Francesco Ognibene (Avvenire, 30.06.2007)
Un ritratto di Chiesa viva, aperta sul futuro, consapevole delle sfide, una cosa sola con la gente: lo si coglie nella «Nota pastorale», introdotta dal presidente della Cei monsignor Angelo Bagnasco, con cui il nostro episcopato suggella il 4° Convegno ecclesiale di Verona, mettendolo nelle mani della comunità cristiana. Il documento, articolato in quattro capitoli e trenta paragrafi, intende infatti «riconsegnare l’esperienza del Convegno» a tutte le comunità ecclesiali d’Italia attraverso una riflessione snella, vivida e chiara, perché esse «vi possano individuare le scelte più adatte per la loro vita». A ispirarle sarà l’intuizione scolpita nelle parole di Benedetto XVI nel suo discorso veronese, con quel «grande "sì" di Dio all’uomo» - espressione divenuta quasi un simbolo del Convegno - nel quale si riassume il profilo che la Chiesa italiana intende assumere.
Il «terreno favorevole». La Nota anzitutto riflette attorno a un’altra bella espressione del Papa (l’Italia di oggi costituisce «un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana») per ricordare che «la Chiesa italiana ha scelto di mettere al centro della sua azione l’impegno a comunicare il Vangelo» decidendo di darsi una «chiara connotazione missionaria fondata su un forte impegno formativo e su una più adeguata comunicazione del mistero di Dio».
Le tre scelte. I vescovi indicano alcune opzioni «di fondo» che - scrivono - «vorremmo diventassero patrimonio comune»: «Il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa», «la testimonianza, personale e comunitaria, come forma dell’esistenza cristiana capace di far adeguatamente risaltare il grande "sì" di Dio all’uomo» e «una pastorale che converge sull’unità della persona».
Il centro di tutto. È solo «l’incontro con il Risorto» e «la fede in lui» a rendere i cristiani « persone nuove, risorti con lui»: questo, non altro, è «il centro delle nostre comunità». L’«essenziale della nostra vita nel cuo re della fede» è «il primato di Dio e del suo amore»: in una «stagione difficile e complessa» come la nostra è decisivo puntare a quella «misura alta e possibile del nostro essere cristiani» che è la «santità». Questo è il centro di tutto: «Dall’essere "di" Gesù - spiega la Nota - deriva il profilo di un cristiano capace di offrire speranza». A credenti così animati è chiesto «un forte impegno nel far nascere e sostenere percorsi che riavvicinino le persone alla fede», capaci di scorgere come la stessa «immigrazione si presenta quale nuovo areopago di evangelizzazione»
Da un «sì» all’altro Il "sì" che «Dio pronuncia sull’uomo» fonda il "sì" con cui il credente «risponde ogni giorno» con «l’amore nei confronti della vita, di ogni persona, del mondo plasmato dalle mani di Dio». Questo duplice "sì" prende forma nella «testimonianza personale e comunitaria», «radicata in una spiritualità profonda e culturalmente attrezzata» «Il testimone - scrivono i vescovi - comunica con le scelte di vita» perché «il linguaggio della testimonianza è quello della vita quotidiana», a cominciare dai cinque àmbiti sui quali lavorò il Convegno (la Nota riassume efficacemente le proposte dei gruppi di lavoro che li esaminarono): vita affettiva, lavoro e festa, fragilità umana, tradizione, cittadinanza.
La sfida culturale. Centrale nella Nota è il ruolo della cultura: «Fede e cultura si richiamano reciprocamente», un dato ormai acquisito dodici anni dopo l’intuizione del Progetto culturale al Convegno ecclesiale di Palermo. È il momento ora di imprimergli «un nuovo impulso» puntando al «suo consolidamento e radicamento, sia in chiave formativa sia in prospettiva missionaria», con l’obiettivo di «un nuovo incontro tra la fede e la ragione» a partire da una elaborazione culturale «curata anzitutto nelle sue forme ordinarie e popolari». Un punto determinante, tanto che «l’elaborazione culturale e la formazione delle coscienze» vengono definiti come «i primi obiettivi de l discernimento ecclesiale».
Chi è l’uomo? Due filoni del Progetto culturale vengono sottolineati: la "questione antropologica" - «ossia la domanda su che cosa sia e che cosa significhi essere uomo» - e la «questione della verità» nel tempo del relativisimo, da intrecciare alla libertà mostrando come «la coscienza umana non esca mortificata, ma anzi arricchita, dal confronto con la verità cui la fede ci fa rivolgere». Vengono qui registrati i «notevoli passi compiuti» dai media dei cattolici, incluso Avvenire.
Il bene della società. Nell’«interesse per il rispetto della dignità della persona umana in ogni momento della vita, per il sostegno alla famiglia fondata sul matrimonio, per la giustizia e la pace, per lo sviluppo integrale e il bene della comunità» si esprime una vera «sollecitudine per il bene della società umana»: questo «fa sì che la Chiesa, senza rischiare sconfinamenti di campo, parli e agisca non per preservare un "interesse cattolico" bensì per offrire il suo peculiare contributo per costruire il futuro della comunità sociale in cui vive e alla quale è legata da vincoli profondi». E i cattolici che si impegnano in politica? Citando il Papa i vescovi ricordano come essi «sanno che "operano come cittadini sotto propria responsabilità"» e che «devono essere protagonisti di uno stile politico virtuoso, guidati da una coscienza retta e informata, illuminata dalla fede e dal magistero della Chiesa».
La persona al centro. Chiara l’opzione pastorale: rispetto a un’impostazione centrata «sui tre compiti fondamentali della Chiesa (l’annuncio del Vangelo, la liturgia e la testimonianza della carità)» la Nota indica di «mettere la persona al centro», scelta che «costituisce una chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e superare il rischio di ripiegamento», attraverso una «pastorale sempre più "integrata"».
Le aggregazioni dei laici. Il recente «percorso che avvicina le esperienze e le sensibilità» ha condotto molti laici a scoprire «il valore che l’essere insieme aggiunge alle proprie iniziative, condotte come espressione corale di una testimonianza cristiana che, pur nelle molteplici forme, attinge all’unico Vangelo». Questo cammino «che porta a una fisionomia laicale non omologata né uniforme, non dispersa né contrapposta» va senza dubbio accelerato: esso è animato infatti da «uno spirito di comunione che sa generare testimonianza unitaria».