di Furio Colombo
Ve ne siete accorti? Due volte in un anno, il nome di Tiziano Terzani figura in testa alle classifiche dei libri più venduti. Questa volta, due libri con il nome di Terzani nella stessa classifica, a uno o due posti di distanza. È una sorta di staffetta in cui il primo libro («Un altro giro di giostra») chiama il secondo («La fine è il mio inizio»). E a volte i due Terzani si scambiano il posto.
Sostengo che c’è qualcosa di mai accaduto, in questo evento e in questa sequenza, qualcosa che dice molto sul tempo e luogo in cui viviamo. E contraddice un bel po’ i luoghi comuni su ciò che tante voci autorevoli e tante notizie e tanta sociologia spiegano del nostro Paese.
La domanda più importante è: chi è il popolo di Terzani, chi sono coloro che lo leggono, lo amano, lo seguono, gli credono, in un Paese di squallida disonestà, furibonde litigate sul niente e miti e inascoltate testimonianze di tolleranza?
Diciamolo francamente, fino a un momento prima di un esile risultato politico che forse cambierà l’Italia, siamo stati il peggior Paese d’Europa, il più egoista, il più razzista, il più autoritario nell’imporre "valori" senza ascoltare ragioni, l’unico in cui si decide chi deve amarsi e chi no, che cosa è o non è una famiglia, mentre si sopporta benissimo la predicazione della gloria di morire in guerra, come se fossimo rimasti nei crepacci di un altro secolo. È un Paese che ha avuto un partito di governo, e ministri e seconde cariche dello Stato, che hanno passato anni a dare la caccia agli immigrati, sventolando presunte civiltà superiori (come quella che ha portato alla Shoah) o una "identità cristiana" in cui il solo comandamento che conta è "sembrare" o "proclamare" o "fingere" senza rapporto alcuno con la propria vita e, meno che mai, con la vita e la sopravvivenza degli altri.
Eppure i libri di Terzani stanno diventando un fenomeno raro in Italia, sono "long sellers", libri a lunga durata. Non se ne vanno eppure non sono una moda. Controprova: il mondo delle mode non se ne accorge, quello del pettegolezzo ha ben altri impegni e la cultura seria è ancora impegnata a discutere, nel Paese in cui ha avuto origine il fascismo di tutto il mondo e di tutte le persecuzioni, quali colpe abbia e rifiuti di confessare la sinistra.
C’è dunque una Italia solida e tenace, impenetrata dalla peggiore televisione (che ormai è tutta la televisione) e dal nuovo festoso trotto dei quotidiani politici intenti a trasformarsi ogni giorno in settimanali attenti alla cellulite e al rapporto fra l’insalata e la depressione (fare "magazine" non è tanto facile). C’è una Italia che non si lascia trasportare da febbri religiose mediatiche, dove si lancia il Papa a spot, come in una televendita quotidiana, dove si stenta a distinguere tra potere e bravura, e si scambiano continuamente le peggiori qualità con i merito e le virtù costruendo addosso ad alcuni un "cursus honorum" che include processi, condanne e grande ossequio.
Nel mezzo di questa scena, mentre si canzonavano come codardi coloro che non avevano fiducia nella guerra e si considerava un pericolo mortale che avrebbe distrutto Firenze, un milione di ragazzi che, in quella città, hanno sfilato per dire pace, è arrivato, solo e disarmato, Tiziano Terzani.
E subito si è formata folla e attesa attorno a lui. Perché tornava dal mondo, e il mondo non era quello diviso esclusivamente fra terroristi disposti a tutto e già infiltrati dovunque, e difensori spavaldi, e altrettanto disposti a tutto, della democrazia. Il mondo raccontato da Terzani è una grande avventura di esseri umani veri, doloranti, felici,capaci di gioia e di sogni, che non hanno voglia di diventare reclute del rigoroso esercito dei consumi, senza convertirsi al supremo ordine del profitto.
Tiziano Terzani, che da giornalista-scrittore aveva raccontato un mondo vero, tremendo e bellissimo, tutto al di fuori di ciò che sapevamo "da fonti ufficiali", ha scritto per la sua folla, che è andata moltiplicandosi in pochissimo tempo, due ultimi libri.
Nel primo libro racconta la vita dal punto di vista di uno che vive. E c’è una tale pienezza di vita, un tale colmo di esistenza, un tale legame - come una legge di natura fra esseri umani - che il libro rovescia il senso della morte in un punto di transizione e di nuova partenza.
Il tema non è la consolazione. Ciò che rende straordinario il primo libro è di avere trasformato in fraterna esperienza vicina ciò che, prima di Terzani, è il lontano, il diverso, l’esotico.
Ciò che rende straordinario il secondo libro è di averlo narrato al figlio. Folco, che ho conosciuto da bambino a Singapore e da giovane studente di cinema a New York, è stato "figlio" in questa esperienza di scrivere e trascrivere il dialogo col padre, nel modo delicato e profondo che - puoi pensare - appartiene solo al mondo ideale e inventato della narrazione epica.
Tiziano è stato "padre" nel senso grande e classico dell’Odissea e della Bibbia, consapevole e deciso a non abbandonare suo figlio, un Abramo che passa al figlio l’arma contro la morte, la coscienza e conoscenza della vita degli altri.
Ma le avventure di un nuovo Kipling, dalla Cina all’India, la narrazione di un nuovo Remarque con questo suo «Niente di nuovo sul fronte orientale», l’esperienza di attraversamento del confine di qua e di là dalla dignità della vita, l’ingresso nel fiume indiano di esperienza che ti rende più irrilevante e grande come il mondo, ti lava via parti di identità e ti fa affacciare su un senso nuovo e strano dell’universo, tutto ciò ha dato luogo a un trasferimento di forza dal padre al figlio, e dunque dalla morte alla vita, alla continuazione dell’avventura, che diventa per forza libro di culto.
Tranquillizziamo i credenti. Culto, qui, vuol dire una specie di amore. Non sarà grande come la fede, ma è forte come un abbraccio e c’è chi in quell’abbraccio si sente meno solo e vuole rispondere.
Sono decine di migliaia, racconta «La Stampa» (14 maggio) i pellegrini, più o meno autorevoli, più o meno identificati in un punto o nell’altro del percorso detto "la vita", che si sono recati a Udine in questi giorni. A Udine c’è stata la seconda edizione del «Premio Terzani». Si va per parlare di notizie al di fuori dei giornali, di politica al di fuori della televisione, di mondo al di fuori della politica, di popoli al di fuori degli Istituti e dei convegni universitari. Insomma, la profezia del titolo del secondo libro si sta avverando. «La fine è il mio inizio». Un padre racconta al figlio, e in tanti, padri e figli e figlie e madri, vogliono essere parte del racconto, vogliono essere vicini, perché qui, lontano dal mondo gelido dell’organizzazione, c’è calore. Qui si viene per non perdere una parola, visto che ogni parola è carica di vita gremita di gente che in qualche modo sta attraversando con noi il mondo.
Ma se qualcuno prende in mano il libro magico dei due Terzani in questo momento e lo apre per farsi includere, vada a pagina 300. Il figlio vuole sapere come suo padre e sua madre si sono incontrati, che cosa ha legato le loro vite.
È una storia d’amore in tre righe, dentro un libro che non finisce, perché nessuno vuole smettere di tenerlo in mano, di tenersi vicino.
(L’Unità, 20.05.2006, pp.1/29)
TESTIMONIANZA Così il giornalista agnostico narrò l’incontro con la suora morta 10 anni fa. E la difese dalle accuse
Terzani: credo a Madre Teresa
«Se c’è grandezza è nella semplicità. Non è intellettuale e le cose che dice sono elementari, ma hanno un fondo di verità come le parabole e restano impresse»«Nel 1994 un libro volle attaccarla in nome della ragione, eppure basta andare alla "casa dei morenti" a Calcutta e il "miracolo" è davanti agli occhi»
di Tiziano Terzani (Avvenire, 04.09.2007)
Nel decimo anniversario della scomparsa di Madre Teresa, riproponiamo il reportage dell’incontro che il giornalista e scrittore Tiziano Terzani ebbe con lei a Calcutta nel 1996, poi confluito in gran parte nel volume «In Asia» (Longanesi).
Avevo appena spento il registratore e la stavo ringraziando per il tempo che mi aveva dedicato, quando lei, guardandomi fissa coi suoi occhi azzurri arrossati dall’età, mi ha chiesto: «Ma perché tutte queste domande?». «Perché voglio scrivere di lei, Madre». «Non scriva di me. Scriva di Lui...», ha detto, alzando gli occhi al cielo. Poi s’è fermata, ha preso le mie mani nelle sue - grandi, tozze e già un po’ deformi - e, come volesse confidarmi un gran segreto, ha continuato: «Anzi, la smetta di scrivere e vada a lavorare in uno dei nostri centri... Vada a lavorare un po’ nella casa dei morenti». Madre Teresa era tutta lì.
Per due settimane non ho fatto altro che seguirla; ho passato ore nella Casa Madre sulla Circular Road, ho visitato il centro per i lebbrosi, quello per gli orfani, quello per i moribondi, la casa per i ritardati mentali e quella per le ragazze mezzo impazzite nelle prigioni.
L’ho accompagnata a Guwahati, nello Stato dell’Assam, dove Madre Teresa è andata a inaugurare il primo rifugio in India per le vittime dell’Aids, un’altra categoria di disperati in questo Paese in teoria così tollerante, ma dove i pazienti che risultano sieropositivi vengono cacciati via dagli ospedali, ostracizzati dai villaggi e, una volta morti, non vengono neppure bruciati negli inceneritori comunali, ma buttati via assieme alle immondizie.
Son venuto a Calcutta, sulle tracce di Madre Teresa, spinto da una vecchia curiosità: quella per la grandezza umana. Esiste ancora? E come si esprime? Ho voluto farmi una mia idea della sua opera; sapendo che, per capire Madre Teresa bisogna capire Kaligath, è da lì che sono partito per rifare a grandi tappe il suo straordinario cammino. Già alla porta uno potrebbe bloccarsi, d isgustato: casa per i derelitti morenti dice un cartello sbiadito sulla porta. Ancora un passo e si legge: il fine più alto della vita umana è quello di morire in pace con Dio. Ci si potrebbe voltare e tornare indietro in disaccordo con questa interpretazione dell’esistenza, ma gli occhi cadono su una brandina dov’è disteso una sorta di fagotto d’ossa e pelle: un vecchio, ormai senza età, con gli occhi lucidi e sbarrati, lotta per prendere le ultime boccate d’aria. Una suora gli siede accanto e gli accarezza una mano. «L’hanno trovato ieri su un mucchio di spazzatura. Fra poco sarà in paradiso».
Forse il senso di quella scritta sul fine della vita non è, tutto sommato, sbagliato. Kaligath, nella periferia meridionale di Calcutta, è una città di per sé disperante e tragica che a volte sembra essere stata messa da Dio sulla faccia della terra solo per provare che Lui non esiste (oppure che c’è bisogno che esista?). Arrivarci a piedi, passando i due crematori municipali dove centinaia di cadaveri vanno ogni giorno in fumo, soffermandosi davanti ai vari templi e tempietti, bordelli e negozi, venditori di frutta e di amuleti è un perfetto esercizio spirituale per spogliarsi dei propri pregiudizi, per lasciarsi dietro quella «ragione» su cui noi occidentali contiamo così tanto per spiegarci tutto.
Oggi di queste case ce ne sono decine in tutto il mondo; ma è a questa che Madre Teresa è legatissima. «Una volta mi capitò di prendere un uomo coperto di vermi», mi raccontò. «Mi ci vollero delle ore per lavarlo e togliergli a uno a uno tutti i vermi dalla carne. Alla fine disse: «Son vissuto come un animale per le strade, ma muoio come un angelo» e, morendo, mi fece un bellissimo sorriso. Tutto qui. Questo è il nostro lavoro: amore in azione. Semplice».
Sì, semplice. Semplice com’è lei. A incontrarla, come nel caso del Dalai Lama, la prima cosa che colpisce è appunto questa: che, se c’è grandezza, è nella sua semplicità. Come il Dalai Lama, Madre Teresa non è un’intellettu ale, le cose che dice sono elementari, le storie che racconta sono sempre le stesse, ma, come le parabole, hanno un fondo di verità e restano impresse, accendono la fantasia. Alla base di tutta la sua opera c’è un’idea sola: «Servire i più poveri dei poveri» e su quell’idea ha fondato tutto, senza mai un dubbio, senza mai un tentennamento. «Come si possono avere dubbi su quel che si fa? Il lavoro è Suo», dice, sempre rivolgendosi al Cielo che sembra essere il suo vero interlocutore.
In tempi di liberalismo e di liberazione sessuale lei parla del senso dell’amore, del valore della verginità. Ora che l’acquisizione di beni materiali sembra la grande, unica grande ossessione comune a tutta l’umanità, ora che la ricchezza sembra il principale criterio di successo e di moralità, lei insiste sulla «santità dei poveri» e vuole che le sue suore vivano come quelli. Tre sari, un crocefisso, un rosario e una sporta son le uniche cose che una missionaria della Carità può possedere.
Nel 1994 venne l’operazione «smitizzazione» guidata da Tariq Alì, un ex leader studentesco dell’ultrasinistra di origine pakistana, e da Christopher Hitchens, uno scrittore già noto per un suo velenosissimo libro contro la monarchia inglese. Senza entrare nel mondo di miseria dell’India, né in quello di fede di Madre Teresa, l’intera opera delle Missionarie della Carità viene smontata in nome della ragione, dell’efficienza e di una moralità che distingue fra benefattori buoni e cattivi. Quanto al «miracolo», è una bugia, scrive Hitchens.
Eppure basta andare a Kaligath e il «miracolo» è davanti agli occhi di tutti. Ogni mattina alle 7, una ventina di volontari si presentano alla «Casa dei morenti» per aiutare le suore. Per lo più sono occidentali, spesso studenti universitari, che, invece di passare le loro vacanze ad abbronzarsi sulle spiagge di Goa, scelgono di andare a lavorare lì. La prima volta che ci sono arrivato, anch’io per fare quell’esperienza, per cercare di capire, c’erano un tedesco impiegato di banca, una donna del mondo della moda di New York, alcune ragazze spagnole e una coppia d’italiani in viaggio di nozze. Pulivano i pavimenti, facevano il bagno ai malati, toglievano, in un puzzo rivoltante di escrementi, i lenzuoli sporchi e lavavano, a mano, le coperte e i materassini blu delle brande. «Questo è il posto più bello dell’India», diceva Andi, il tedesco.
«Una volta lei, Madre, ha detto che, se ci fosse di nuovo da scegliere fra la Chiesa e Galileo, lei starebbe ancora dalla parte della Chiesa. Ma non è questo un rifiuto della modernità, un rifiuto della scienza che oggi è invece la grande fede dell’Occidente?» ho chiesto. «Allora perché l’Occidente lascia morire la gente per le strade? Perché? Perché tocca a noi 135 a Washington, a New York, in tutte queste grandi città, aprire dei posti per dar da mangiare ai poveri? Diamo cibo, vestiti, rifugio, ma soprattutto diamo amore perché sentirsi rifiutati da tutti, sentirsi non amati è ancor peggio che aver fame e freddo. Questa è oggi la grande malattia del mondo. Anche di quello occidentale.»
Penso a Gandhi. Anche lui non credeva che i problemi dell’umanità potessero essere risolti da una rivoluzione sociale, politica o scientifica, ma solo da una rivoluzione spirituale. Peccato che, anche in India, quella rivoluzione non sia avvenuta. E il messaggio di Madre Teresa finirà, come quello di Gandhi, per essere dimenticato dopo la sua scomparsa? «Il futuro non è affar mio», mi ha risposto. «Nemmeno quello del suo ordine?». «No. Lui provvederà. Lui ha scelto me e allo stesso modo sceglierà qualcuno che continuerà il lavoro».
Le ricordo un sogno che lei stessa ha raccontato. Madre Teresa si presenta a san Pietro e quello, fermo sulla porta, dice: «Via, via. Questo non è un posto per te. In Paradiso non ci sono i poveracci e i baraccati». «Allora riempirò questo posto di quella gente, così poi avrò anch’io il diritto di venirci», gli risponde Madre Teresa. «Ora crede di avercene manda ti abbastanza da aver conquistato quel diritto, Madre? Si sente vicina?» le ho chiesto. «Aspetto che mi chiami». «Non ha paura della morte?». «No. Perché dovrei? Ho visto tantissima gente morire e nessuno attorno a me è morto male».
S’era fatto tardi e la campana era già suonata due volte per chiamare a raccolta nella cappella al primo piano le suore e i volontari per la preghiera della sera e lei voleva andare a prendere il suo posto, inginocchiata su un pezzo di balla. A guardarla quell’ultima volta, in mezzo alla sua gente, mi pareva che le preoccupazioni che tanti «ragionevoli» si fanno sul futuro delle Missionarie della Carità fossero superflue. Se il lavoro che lei e le suore fanno non è il «loro», ma il Suo, quel lavoro certo continuerà. Perché qui quel che più conta è credere.