IL CONFLITTO CHE PESA SULLA SFIDA ELETTORALE
di Ezio Mauro (la Repubblica, 30 marzo 2006)
Nei giorni pari il Cavaliere fa il lupo, nei giorni dispari l’agnello. Oggi è dispari, perché è cominciato il lamento sulla sorte delle sue tre televisioni. "Le minacciano - dice Berlusconi - e questo dimostra che siamo ancora una democrazia incompiuta". In realtà il suo impero cresce, le televisioni godono di ottima salute, e non le minaccia per fortuna nessuno.
Semplicemente, il leader della destra italiana potrebbe perdere le elezioni, anche se tutto è ancora incerto. Ma questo basta perché tre intellettuali come Giuliano Ferrara, Piero Ostellino e Sergio Ricossa - dopo anni di ascetico silenzio sull’intreccio costituente tra la destra e le sue televisioni - facciano immediatamente eco al lamento berlusconiano, con un pubblico appello che chiede a Prodi un impegno a non varare alcuna legge che obblighi Berlusconi a scegliere tra azienda e politica.
Tutto questo, in realtà, ci porta direttamente davanti al peccato originale del decennio italiano: il conflitto d’interessi del Cavaliere. E cioè, per dirlo in termini di scuola, quell’insieme di cointeressenze proprietarie e di responsabilità politiche che coabitano nella figura e nell’azione del presidente del Consiglio, perché non si è voluto liberare delle prime mentre acquistava le seconde. È un conflitto plastico, nella sua evidenza clamorosa e conclamata, talmente esteso e su materie così sensibili da profilarsi come una turbativa strutturale del sistema politico e istituzionale italiano. Si può provare a parlarne seriamente come di un grande nodo della democrazia italiana, fuori dalla propaganda elettorale? Si può addirittura tentare di farne un tema bipartisan, fuori dalla ricerca di vendette assurde e vantaggi impropri, nella convinzione che sia interesse generale della nostra democrazia risolverlo?
Il conflitto d’interessi entra pesantemente nella politica italiana con l’ingresso in campo di Silvio Berlusconi. Non è vero che esistono nel nostro Paese altri conflitti tra potere privato e responsabilità pubblica anche solo lontanamente paragonabili a questo.
Né è vero che esistono in altri Paesi casi di Primi Ministri, o candidati a quella carica, che abbiano contemporaneamente in dote un impero industriale, finanziario e mediatico, accanto ad un partito. Lasciamo stare, per rimanere al nocciolo del problema, la disparità (economica, finanziaria, di mezzi di pressione) tra le forze politiche che pesa oggettivamente su ogni confronto elettorale. E tralasciamo anche, per brevità, l’analisi concreta dei molti interessi industriali, assicurativi, editoriali, finanziari, sportivi, che Berlusconi porta con sé ogni volta che siede al tavolo del Consiglio dei ministri, che deve pur deliberare su quelle materie. Limitiamo dunque l’analisi al campo più sensibile, quello delle televisioni, che coincide in gran parte con la percezione popolare dell’identità imprenditoriale del Cavaliere.
La questione, a mio parere, pone problemi rilevanti e oggettivi sotto due aspetti: uno in termini di fatto, e uno in termini di principio. Dal punto di vista dei fatti, purtroppo, c’è in questi giorni solo l’imbarazzo della scelta. Dall’8 al 21 marzo, le tre reti di Berlusconi (visto che lui ne è ancora il proprietario) si sono comportate così: Tg4, 82,7 per cento del tempo alla Casa delle libertà, 17,03 all’Unione; Studio Aperto, 79,3 contro 19,4; Tg5, 61,2 contro 38,6. Nello stesso periodo preso in esame, in Rai il Tg1 ha concesso il 54,6 per cento del tempo informativo alla destra contro il 45,2 alla sinistra, il Tg2 il 55,7 contro il 43,9, il Tg3 il 49,1 contro il 50,9. Nel dettaglio, sul telegiornale più importante delle reti Mediaset (il Tg5) dall’8 al 14 marzo Forza Italia ha avuto 50,30 minuti contro gli 8,55 dei Ds e i 4 della Margherita, mentre per An i minuti sono stati 23,49. Infine, i leader: dall’11 febbraio al 12 marzo il Tg5 ha ospitato il Cavaliere per 2 ore, 3 minuti e 11 secondi, contro i 20 minuti e mezzo di Prodi.
Ora, bisogna rispondere subito a un’obiezione classica della destra: con lo stesso controllo sull’apparato televisivo Berlusconi ha perso nel ‘96, e ha ancora perso ultimamente in tutte le elezioni, dunque è inutile scandalizzarsi per l’abuso tivù del premier. È un’obiezione che non prova nulla. Si potrebbe rispondere, usando quel metro, che senza lo strapotere televisivo avrebbe perso di più, avrebbe perso altre volte. Ma soprattutto, in termini di sistema, non importa il punto d’arrivo dell’uso televisivo distorto, perché è inaccettabile il punto di partenza. Meglio: in una democrazia liberale non è accettabile (non è nemmeno concepibile) che uno dei due contendenti parta per la gara con il vantaggio garantito dalla condizione proprietaria di tre televisioni. E non è accettabile, per un pensiero liberale, che durante la gara le usi in questo modo totalmente squilibrato a suo vantaggio. Un solo dato a consuntivo. In sei settimane di campagna elettorale del 1994 - l’anno miti co della "discesa in campo" - Berlusconi parlò sulle sei reti televisive nazionali per 1.286 minuti, mentre per il suo rivale, Occhetto, i minuti furono 395.
Una domanda. C’è in giro qualche liberale che considera equa, ragionevole, democratica o anche semplicemente decente questa proporzione che squilibra di per sé una campagna elettorale? Perché nessuno ha sentito il bisogno di dire una verità fondamentale, quasi tautologica, eppure taciuta in Italia, e cioè che il conflitto d’interessi berlusconiano è gravissimo anche e proprio per l’uso concreto e materiale che se ne fa a vantaggio del Cavaliere? È un vantaggio, vorrei far notare, preliminare, quasi una precondizione, come se fosse un dono di natura, un talento particolare, uno stato di grazia. Così connaturato ed intrinseco, consustanziale, che ha consentito a Berlusconi, il 26 gennaio del 1994, di fondare insieme Forza Italia, la destra che non esisteva, la sua identità di politico e la futura premiership non con un congresso di partito o un confronto pubblico, ma con una videocassetta, strumento e simbolo di un’alterità onnipotente e post-moderna, tutta giocata nell’iper-realtà dello spazio televisivo.
C’è poi, più importante dei fatti, la questione di principio. È chiaro, almeno per me, che Berlusconi ha vinto per un insieme di ragioni che stanno nella politica, non nella tivù. Ma abbiamo visto che non importa la spinta grazie alla quale si taglia il traguardo, se le condizioni di partenza sono comunque disuguali e il vantaggio di uno dei contendenti è chiaro e può essere squilibrante al momento del via. Ma c’è di più. Il punto topico di ogni ciclo politico, cioè la sfida elettorale, è sempre più confiscato dalla televisione, in anni in cui è scomparso il comizio, il volantinaggio, il contatto casa per casa, persino l’intervista, e sopravvive a stento qualche manifesto, a far da quinta slabbrata al vero paesaggio politico, quello televisivo. Questa legge proporzionale, addirittura, è una prova al quadrato della politica-tv: cancellando le preferenze, ha cancellato anche i candidati e ha abolito addirittura la campagna elettorale vera e propria, a favore di una surroga verticistica tra i leader, tutta nazionale, piramidale, e interamente giocata sullo schermo e sotto le luci della televisione.
Si deve dunque ragionare sulla televisione come moderna agorà, cioè lo spazio privilegiato dove si svolge il mercato - delicatissimo e decisivo - del consenso, il luogo politico dove si forma quel soggetto fondamentale e sensibile delle società contemporanee che è la pubblica opinione. Ora, come è possibile che in Italia quel mercato così cruciale sia l’unico che non è regolato, ai fini di renderlo libero? Di conseguenza, siamo l’unico Paese dell’Occidente dove un soggetto politico di assoluta rilevanza che guida un partito, guida la maggioranza del Parlamento legislativo e guida il legittimo governo del Paese, controlla nello stesso tempo anche l’universo televisivo: le tre reti private per via proprietaria, le tre reti pubbliche per via politica. È qualcosa che la nostra democrazia - abituata alle peggiori lottizzazioni, di destra, di centro e di sinistra - non ha mai conosciuto. Peggio, è qualcosa che non conosce nessuna democrazia occidentale.
È evidente che in termini di principio questa anomalia non è accettabile. È chiaro che non è un problema giacobino, ma una questione liberale. È pacifico che Berlusconi e la sua maggioranza non lo hanno voluto affrontare, perché l’attuale legge sul conflitto d’interessi è una burletta. Né lo vogliono affrontare oggi, nel momento delle geremiadi anticipate contro la sinistra liberticida. Ma chiedere a un leader che vuole concorrere per le due più alte cariche del Paese di liberarsi dal carico confliggente delle sue aziende, di scegliere tra la dimensione politica e quella imprenditoriale non è un gesto illiberale: è un gesto di chiarezza e di garanzia per tutti. E tuttavia, senza arrivare a questo: si può correggere l’anomalia separando seriamente - dico seriamente - la proprietà dalla gestione? Che cos’ha da dire in proposito la destra, visto che l’anomalia è evidente ed è un problema della democrazia, non della sinistra? Che proposta hanno gli intellettuali preoccupati solo dell’inesistente "esproprio"? Dopo dodici anni, può il partito-azienda aiutare l’azienda ad essere un po’ meno partito, almeno nella divisione degli spazi? Ecco la questione capitale. Tocca alla destra rispondere, se vuole essere credibile.
Anche perché in tutti questi anni tra i tanti appelli terzisti o pseudoliberali che spuntano ad ogni elezione, ne è mancato uno di poche righe, semplice e tuttavia doveroso: «Poiché il conflitto d’interessi esiste, ed è un’anomalia evidente, Silvio Berlusconi prenda un impegno d’onore a non usare le sue televisioni in modo da squilibrare - dalla maggioranza o dall’opposizione - il normale confronto politico». È certo una dimenticanza, che però è durata dodici lunghi anni. Con la televisione accesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Conflitto d’interessi, il 14 maggio in aula la nuova legge
Da Bertinotti un calendario rigido e Forza Italia protesta: "Tempi ridicoli" *
ROMA - Il ministro Di Pietro fa una battuta ecclesiale: «Berlusconi», spiega, «deve decidere se essere prete oppure sacrestano, se fare il politico o l’imprenditore». Non sono parole causali. La questione del conflitto di interessi torna ai primi posti dell’agenda politica.
Dopo mesi di estenuante confronto nelle commissioni parlamentari, le nuove regole proposte dall’Unione arriveranno il 14 maggio all’esame dell’aula. Dario Franceschini, capogruppo dell’Ulivo, lascia capire che la vicenda Telecom, con il possibile ingresso di Fininvest in una cordata di compratori italiani, non permette altri rinvii. Franceschini vuole anche rassicurare forze minori dell’Unione come il Pdci preoccupate che Berlusconi accetti una riforma elettorale a patto di una ritirata del centrosinistra su conflitto d’interessi e legge tv. In questo scenario, Fausto Bertinotti, presidente della Camera, stringe i bulloni e fissa tempi certi per l’approvazione del testo sul conflitto: 10 ore potranno essere spese nella discussione generale ed altre 16 ore nell’esame dei singoli articoli. E’ un tempo abbastanza ampio, visto che le misure sulle intercettazioni hanno ricevuto solo 14 ore. Ma Elio Vito, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio, lo considera davvero troppo breve, anzi: «Ridicolo».
Bertinotti non gradisce, chiede a Vito di ritirare l’aggettivo e osserva che i tempi «sono ormai maturi per l’approdo in aula». Ma Forza Italia non arretra e avverte che alzerà alte barricate prima alla Camera e poi al Senato. Dice l’ex ministro La Loggia che l’Unione ha costruito un «testo illiberale, inquisitorio, lesivo degli interessi dei singoli e dei loro familiari, soprattutto concepito per colpire un solo uomo, Silvio Berlusconi». Larga parte dell’Udc è con Forza Italia. Spiega Maurizio Ronconi: «Il provvedimento non lascia scampo al Cavaliere, che dovrebbe cedere le sue aziende nel giro di poche settimane oppure affidarle ad un soggetto indipendente, a un "blind trust" che avrebbe pieni poteri, compreso quello della vendita».
* la Repubblica, 25 APRILE 2007
Politica e crimine
di Furio Colombo *
Cittadini attenzione. Il giorno 24 gennaio, il coordinatore nazionale di Forza Italia Sandro Bondi ha lanciato al Paese il seguente messaggio: «Prodi e gli altri non devono scherzare col fuoco. Esiste un limite oltre il quale un equilibrio democratico si può rompere. E al punto di rottura siamo quasi arrivati. Allora sono guai per tutti. Perché con Forza Italia al 32 per cento, come dicono tutti i sondaggi anche quelli commissionati dal centrosinistra sarebbe pericoloso tirare troppo la corda. Potrebbe provocare reazioni nel Paese, sommovimenti. Tutto ciò può determinare reazioni molto gravi della gente». (La Stampa, 24 gennaio 2007)
Siamo di fronte a un ultimatum: o rinunciate a governare o ci saranno rivolte nel Paese. Considerato il ruolo politico dell’autore di queste parole, è naturale immaginarsi una reazione giornalistica immediata, una serie di quelle tormentose interviste che seguono di solito una frase pronunciata dentro l’Unione sui Pacs, sul testamento biologico, sulla pretesa dei gay di non essere esclusi dalle unioni legittime. Invece (e forse persino Bondi si sarà meravigliato) silenzio.
Per capire ciò che sto dicendo immaginate per un momento che una frase così arrischiata («ci saranno rivolte») fosse stata pronunciata da un Diliberto o da un Giordano. Si sarebbero scatenati giornali e istituzioni. Si sarebbe parlato francamente del ritorno del pericolo comunista. Bondi invece brandisce i sondaggi contro le elezioni, e «vede» - certo da un punto di vista privilegiato, dato l’enorme potere economico a cui è vicino - sommovimenti e rivolte di tipo libanese.
Eppure alle parole di Bondi è seguito un cauto silenzio dei media, e un composto aplomb delle istituzioni che, a quanto pare, non si sono sentite turbate dall’annuncio (certamente autorizzato dal leader-padrone di Forza Italia) di sommosse descritte come inevitabili («se questi non se ne vanno...») e implicitamente approvate («esiste un limite»). «Questo decreto sulle nuove regole che vogliono imporre alle mie televisioni è un piano criminale verso il capo della opposizione e verso le sue proprietà private. Sono sicuro tuttavia che il governo non troverà complici per realizzazione questo progetto criminale. Vincendo le prossime elezioni amministrative dimostreremo i brogli elettorali che ci sono stati».
C’è anche un riferimento interessante per chi scrive nella dichiarazione di guerra qui trascritta: «Ho visto Ballarò. Dobbiamo fare anche noi a Mediaset un programma simile. Dobbiamo rispondere agli attacchi». (La Repubblica, 25 gennaio). Naturalmente avete riconosciuto la voce. È Silvio Berlusconi, il quale considera un attacco personale imporre regole di mercato alle sue televisioni. È una protesta comprensibile, se si tiene conto che lui è l’unico grande proprietario di televisioni private in Italia. Ed è l’unico politico al mondo che ha governato sostenuto da un partito formato dalle sue televisioni. Ma lui, senza pudore, annuncia che se si toccano gli interessi delle televisioni private di Silvio Berlusconi si attacca in modo grave e inaudito il capo della opposizione Silvio Berlusconi. Chiunque direbbe: risolviamo il problema con una buona legge sul conflitto di interessi. Berlusconi invece definisce «criminale» ogni intervento sulle sue proprietà. Lo costringerebbe a uscire dalla doppia illegalità: servire se stesso servendosi del Paese. Come vedete sono tre frasi esemplari, illogiche, prepotenti, minacciose. C’è l’orgogliosa identificazione del proprietario con il politico. Chi tocca l’uno tocca l’altro.
Questo spiega in che senso una testata è «omicida», (come i suoi dipendenti hanno detto de l’Unità, quando denunciava il conflitto di interessi di Berlusconi). Tra politica, proprietà e protezione di se stesso lui non vede alcuna differenza. Attacca e morde con una dichiarazione di guerra alle istituzioni a costo di autodenunciarsi come titolare del conflitto di interessi che ha passato anni a negare e altri anni a «risolvere» con la risibile legge Frattini che non prevede, per il pericoloso fenomeno alcuna sanzione.
Nel citato programma Rai Ballarò tutto lo schieramento berlusconiano negava che «lui» prendesse parte agli affari dell’azienda durante i Consigli dei ministri. «Ogni volta “lui” usciva. Ha affermato testualmente la ex ministro Prestigiacomo: «Do la mia parola d’onore che mai si è occupato dei suoi interessi». Simpatico, canagliesco e brutale, nella classica tradizione post romantica, il suo capo, benché così fedelmente assistito (fino all’impegno del proprio onore) la smentisce. Infatti dice: «Ho visto Ballarò e bisogna fare anche noi una trasmissione così a Mediaset. Dobbiamo rispondere a questi attacchi». In questo modo smentisce anche il suo rappresentante Confalonieri (che un po’ compare come vice ministro, un po’ come presidente Mediaset) che si era affannato a ripetere: «Le nostre tv al servizio di “lui” in politica? Mai, garantisco, mai!».
Ma lo spavaldo padrone non bada all’onore dei suoi e preannuncia una nuova battaglia di televisioni nella sua guerra infinita che tormenta l’Italia ormai da dieci anni. Durante questi dieci anni di doppio governo (affari e politica) Berlusconi ha raddoppiato la sua ricchezza.Eppure, forse per prudenza, nessuno accetta di considerarlo un pericolo. Anzi ti dicono, anche da sinistra, «non esageriamo, è un politico come gli altri». C’è una piccolissima differenza: Berlusconi è la quattordicesima ricchezza più grande del mondo, e due o tre capricci a quanto pare, se li può togliere quando crede. Però non si capisce perché, spargere intorno a lui il sussurro che più lo agevola: ma quale emergenza? Ma quale pericolo per la democrazia? E continuano a nascere proposte di cose da fare insieme. Prima o dopo le rivolte di popolo annunciate da Bondi?
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«Si riapre la catena di processi della Sme», titolano alcuni giornali più coraggiosi. Si riferiscono alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la «legge Pecorella». Con essa il presidente della commissione Giustizia della scorsa legislatura (e avvocato personale di Berlusconi in tutte le legislature), aveva confezionato la liberazione di Berlusconi dai giudici di Milano. Il pm non poteva più proporre appello contro un imputato assolto. Ora che questa normale competenza è stata restituita alla pubblica accusa, alcuni processi contro Berlusconi (a parte i nuovi) potranno continuare in secondo grado.
Qual è la risposta dell’ex Primo ministro noto nel mondo per aver aperto il semestre europeo italiano dando del «kapò» all’eurodeputato tedesco Schultz che aveva osato accennare alla cacciata di persone libere dalla Rai e al conflitto di interessi? Eccola, da statista: «Questa sentenza dimostra che tutte le istituzioni sono in mano alla sinistra». Come vedete il senso del ridicolo è scomparso da tempo. Quel che disorienta è che sia scomparso dal giornalismo. Non un accenno, da nessuna parte, alla portata eversiva del commento a questa sentenza, specialmente se collegata alle parole di Sandro Bondi, che annunciano una imminente rivolta di popolo. Eppure tutto ciò in fondo è poco se confrontato a quello che è accaduto e sta accadendo con la vicenda Mitrokhin. Provate a immaginare la mobilitazione che si sarebbe scatenata se - per puro e sfortunato caso - fosse stato presente, nello stesso albergo e nella stessa stanza, uno sbadato passante in qualche modo legato all’Unione, mentre stavano avvelenando al polonio l’ex spia sovietica Litvinenko. È certo che ogni giorno, in ogni talk show, con ricostruzioni e modellini, quell’atroce delitto sarebbe sugli schermi pubblici e privati di tutte le reti italiane.
Invece mentre assassinavano Litvinenko era presente chissà come, chissà come mai, il prof. Scaramella. Che non è professore ma, di professione, spia personale della Commissione Mitrokhin, cioè spia retribuita dalla Repubblica italiana. Missione: svelare che Romano Prodi era stato «uomo del Kgb», ovvero preparare, in caso di perdita delle elezioni, una buona ragione per la rivolta di piazza di Bondi e la rivincita di Berlusconi sulle leggi criminali contro le sue aziende e le sentenze criminali contro la sua persona. Scaramella,a nome e per conto della commissione Mitrokhin e del Senato della Repubblica italiana,il suo lavoro l’ha fatto, benché sia finito in prigione per calunnia e vi resti tuttora. Litvinenko è morto di una morte spaventosa avvelenato chissà da chi. Ma, guarda caso, ha lasciato una testimonianza. Prima di morire ha detto: «Prodi era un nostro uomo», le esatte parole commissionate a Scaramella dalla Commissione Mitrokhin (come risulta dalle intercettazioni pubblicate). Dopo morto non ha niente da dire.
Il caso sconvolgerebbe qualunque Paese, anche fuori dalle tradizioni democratiche dell’Occidente. Infatti una commissione parlamentare con poteri giudiziari ha lavorato per anni e con abbondanti fondi dello Stato, assumendo consulenti che poi sono risultati «da galera», allo scopo dichiarato di eliminare il capo dell’opposizione. Se è «legge criminale» la mite legge Gentiloni perché tocca di striscio gli interessi privati di un uomo ricchissimo, che adesso è anche capo dell’opposizione, come definire la commissione Mitrokhin e i suoi scopi da colpo di Stato? Ma tutto questo ci da modo di verificare la vasta conseguenza del quasi completo controllo mediatico nelle mani non di una sola coalizione o di un solo partito ma di una sola persona.
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L’uso berlusconiano dei media pubblici e privati è così ferreo da cambiare la percezione degli eventi persino agli occhi degli esperti. E questo spiega la passione con cui Berlusconi si batte perché non glielo si limiti neppure marginalmente. E spiega perché non vuole sentire parlare di una vera legge sul conflitto di interessi nel senso del diritto occidentale. Infatti lo priverebbe della sua presunta magia carismatica. La persistenza negli anni di quel conflitto spiega anche qualcosa che altrimenti sarebbe davvero inspiegabile. Pensate che una rispettabile e rispettata docente associata di scienze politiche all’Università di Bologna, Donatella Campus, pubblica con le pregiate Edizioni del Mulino un testo scientifico intitolato «L’antipolitica al governo».
I tre personaggi esemplari proposti dalla prof. Campus sono De Gaulle, il generale che ha guidato la Resistenza francese e la rinascita di quel Paese, ha tenuto testa ai militari e fatto finire la guerra d’Algeria; Ronald Reagan, il personaggio che ha colto al volo l’occasione della Glasnost, ha aiutato il leader sovietico Gorbaciov a uscire senza danno dalle macerie del suo impero e ha - proprio lui, che parlava sempre di «impero del male» - portato Russia e America fuori dalla guerra fredda in modo dignitoso e indolore. E il terzo chi è? È Berlusconi, l’uomo che ha spaccato l’Italia e continua a spaccarla.
Nel libro della Campus Berlusconi è descritto come desidera essere Berlusconi, un audace liberal che si scrolla di dosso la politica tradizionale e inaugura un rapporto libero e inedito con la opinione pubblica. La Campus non nota che Berlusconi «entra in campo» con una cassetta, non in persona (dunque senza domande e senza dover rendere conto). E che da quel momento tiene costantemente i giornalisti a distanza e sotto intimidazione. A volte, fatalmente, e dopo gli esempi Biagi e Santoro, la categoria diventa ossequiosa. E incline alla celebrazione. Fenomeno irrilevante? È mai accaduto a De Gaulle o a Reagan? La Campus non nota le leggi ad personam, non nota le leggi vergogna, non nota l’uso degli avvocati difensori come deputati e senatori a capo di commissioni chiave per gli interessi personali del leader. Non nota la politica come finzione (Pratica di Mare), come repressione (Genova), come intimidazione ostentata e padronale (la messa in stato di accusa da parte dei suoi media, di chi gli tiene testa). Non nota l’illegalità di controllare e dirigere la Tv di Stato, mentre presiede controlla e dirige quella privata.
Il libro della Campus è il perfetto monumento al conflitto di interessi. Ci dice che quel conflitto di interessi, quando è abbastanza forte, colpisce soprattutto i media. Esso, infatti, cambia e riorganizza la percezione degli eventi anche gli agli occhi degli esperti. La controprova è nel libro di Marc Lazar uscito negli stessi giorni. Anche lui è un politologo ma, dalla Francia, lavora al riparo dal totale controllo mediatico che Berlusconi mantiene sull’Italia. Sentite che cosa scrive Lazar: «L’Italia è un grande malato e la terapia del dottor Berlusconi non gli ha permesso di ristabilirsi. L’economia ristagna e le prospettive sono fosche. Al di là dei proclami boriosi si perpetua una vecchia tradizione politica di immobilismo. Silvio Berlusconi non ha avviato alcuna liberalizzazione né innestato alcuna modernizzazione. Tuttavia ha verosimilmente significato un cambiamento completo dell’universo delle rappresentazioni mentali».
Berlusconi è certamente l’antipolitica. Ma in un senso distruttivo e vendicativo contro quella parte non piccola del suo Paese che non coincide con la sua proprietà. Solo il suo mondo inventato e strettamente sorvegliato dai media può avere indotto qualcuno, per quanto esperto, a scambiarlo per Reagan o De Gaulle.
* l’Unità, Pubblicato il: 28.01.07, Modificato il: 28.01.07 alle ore 8.24
Berlusconi: porterò 5 milioni in piazza. Prodi: «Per i suoi interessi» *
Eccolo là. Sono giorni che Sandro Bondi minaccia una sommossa di piazza contro il governo Prodi e ora arriva Silvio Berlusconi a minacciare addirittura di portare cinque milioni di persone in piazza. Contro cosa? Qual è il suo punto dolens, la sua priorità? Le televisioni, naturalmente. Cioè la riforma delle televisioni contenuta nel ddl Gentiloni, definito un «piano criminale» e una «aggressione» contro Mediaset fatto «in odio al leader dell’opposizione». Tanto da giustificare secondo il suo patron una manifestazione in cui promette di «portare in piazza 5 milioni di persone». È alla cena per la consegna dei Telegatti che Berlusconi si sbottona con i giornalisti televisivi e non. E minaccia
Tra un Telegatto e l’altro, dice: «Con un piano criminale di aggressione del genere - facendo riferimento alla riforma Gentiloni - è facile portare in piazza cinque milioni di persone». L’affondo va avanti. «Il collante» della sinistra «è il potere, ma secondo me hanno una gran voglia di liberarsi di Prodi. Penso che se ci fosse un incidente ci sarà modo di fare un governo tecnico». Silvio Berlusconi torna poi ad attaccare la Finanziaria dell’Unione che, a suo giudizio, è stata pensata in modo da dare «due tre miliardi a ogni ministro per le proprie clientele». Alla cena di gala il presidente di Fi ha aggiunto che l’Unione «ha trasformato il governo in un comitato d’affari». Parole durissime, alle quali replica il presidente del Consiglio Romano Prodi: «Berlusconi parla così per interessi personali, le manifestazioni popolari sono sinonimo di democrazia partecipata e vanno rispettate ma le mobilitazioni per il proprio tornaconto sono almeno opinabili».
* l’Unità, Pubblicato il: 26.01.07, Modificato il: 27.01.07 alle ore 12.10
Avanti sul conflitto d’interessi Berlusconi: «È killeraggio»
Il premier: il blind trust è americano
«È soltanto un provvedimento di killeraggio nei confronti degli oppositori». Così, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ha replicato da Trapani al premier Romano Prodi che da “Radio anch’io” ha ribadito che la legge sul conflitto di interessi andrà avanti.
La legge sul conflitto di interessi «è un impegno del governo» sul quale «è giusto che si vada avanti», ha spiegato il premier , sottolineando che la legge all’esame del Parlamento è anche «più blanda che in altre democrazie». Quanto al principio del blind trust, non si chiede all’individuo «di diventare San Francesco, ma di non amministrare direttamente la ricchezza» nel momento in cui entra in politica. È una cosa, ha sottolineato Prodi, «americana, americana, americana».
«Questo ddl -ha detto Berlusconi- sarebbe l’ulteriore dimostrazione di volontà di eliminare il più pericoloso concorrente, e cioè il leader dell’opposizione, cioè me stesso». Quindi, con un tono che suona come un avvertimento, ha aggiunto: «Credo che farà molto male alla sinistra questa volontà se attuata fino in fondo, perché gli italiani si renderanno conto di come questa sinistra vuole agire per eliminare gli avversari politici. Hanno tentato con la via giudiziaria e finora gli è andata male, ci ritentano con questo provvedimento che impedisce a chiunque abbia un’impresa e abbia perciò fatto bene nella vita sua anche procurando lavoro agli altri, di dedicarsi alle cose della politica e di dare il suo apporto al Paese».
Il blind trust «è una cosa che non sta nè in cielo nè in terra», ha replicato immediatamente il leader di Forza Italia. «Vogliono fare come il sistema americano -ha osservato- ma noi non siamo in America, siamo in Italia e qui le cose funzionano in maniera diversa». E ha aggiunto: «Quello che loro mettono come soglia al di là della quale uno dovrebbe vendere tutto e affidare a un signore che può fare delle sue sostanze ciò che vuole, è appunto una cosa che non sta né in cielo né in terra».
* l’Unità, Pubblicato il: 04.05.07, Modificato il: 04.05.07 alle ore 15.15
Eterni ritorni in parlamento
di Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 12 maggio 2007)
È dal 1994 che la disciplina del conflitto di interessi passa e ripassa in Parlamento sempre ripetendo gli stessi argomenti, e per lo più le stesse stupidaggini. In materia la dose di stupidaggini è particolarmente elevata perché questa è la battaglia che più preme a Berlusconi. Così qualsiasi argomento, non importa quanto sballato, viene gettato nella mischia. E tanto meglio se fa soltanto confusione.
L’esito è stato che il governo di centrosinistra non arrivò a nulla, mentre il successivo governo Berlusconi ha varato una legge Frattini che, vedi caso, rendeva praticamente intoccabile Sua Emittenza. Era pertanto inevitabile che i beffati dalla legge Frattini riaprissero il problema. Ed eccoci qua. Il disegno di legge che propone una nuova disciplina intesa a disciplinare davvero il conflitto di interessi è stata varata in Commissione ieri e andrà in Aula, alla Camera, il 15 maggio. Invece di commentare un testo ancora incerto e modificabile sarà più utile ricordare quali sono i nodi fondamentali del dibattito.
Il primo è se il blind trust, l’affidamento cieco del patrimonio a un gestore indipendente, risolva il problema. La risposta è indubbia: per i pesci piccoli e soprattutto per un portafoglio differenziato di titoli, sì; ma per le balene e i beni visibili, no. Persino Frattini lo riconosce: un affidamento «cieco» presuppone un patrimonio di titoli che il gestore può cambiare, e così rendere invisibili e ignoti al proprietario; ma non può accecare beni visibili che restino tali. Eppure, e stranamente, il progetto continua a puntare sul blind trust. A quanto pare i nostri legislatori non solo non hanno tempo di leggere libri e giornali, ma nemmeno di leggersi tra di loro.
Secondo nodo: se il conflitto di interessi sia meglio impedito dall’ineleggibilità o dall’incompatibilità. Stranamente l’ultima versione di questo dibattito è che la sanzione più grave, o più risolutiva, sia la non-eleggibilità. Sarebbe così se si precisasse ineleggibilità «a cariche di governo». Ma se non si precisa così, allora la privazione dell’elettorato passivo lascia il tempo che trova. Nel nostro ordinamento non occorre che un presidente del Consiglio o un ministro siano parlamentari. Vedi il caso del primo governo Amato e del governo Ciampi. Questa precisazione elementare è stata fatta centinaia di volte. Pertanto dovrebbe essere chiaro che il problema è di incompatibilità. Ma da noi si direbbe che non c’è mai nulla di chiaro su nulla.
Terzo nodo: se l’esempio da seguire sia il modello Usa, e quale sia questo modello. A questo proposito la tesi dei Berlusconi boys, Frattini in testa, è che nemmeno negli Stati Uniti nessuno è mai obbligato a vendere (se dichiarato in conflitto di interessi). Ma non è così. È vero che i vari ethics board americani incaricati di accertare i conflitti di interesse non impongono nessuna vendita, ma impongono che l’interessato faccia una scelta tra patrimonio e carica politica. Pertanto se un Berlusconcino americano sceglie la politica, allora deve vendere. Se non lo fa, allora è costretto a dimettersi.
Dicevo che il dibattito sul conflitto di interessi è monotono. Mi correggo, una novità c’è: è l’introduzione del mammismo (o forse dovrei dire del «babbismo»). L’altro giorno Berlusconi ha detto: «Vorrebbero che affidassi il mio patrimonio a uno sconosciuto. Nessuno lo può chiedere a una persona che come me ha cinque figli». Poverini. Quasi quasi mi commuovo anch’io.