La prima produzione con il sì ufficiale della Fondazione intitolata alla ragazza
Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Calderon di Madrid da fine febbraio
Anna Frank diventa un musical
"Anche così si tiene vivo il ricordo"
Il produttore: "Ho promesso a mio figlio di onorare la memoria
di un simbolo della lotta alla xenofobia e per i diritti dei bambini"
di ALESSANDRA VITALI *
E’ la voce più conosciuta della Shoah, un’icona tragica, una conoscenza condivisa attraverso la traduzione in sessanta lingue e quaranta milioni di copie vendute. E anche se riesce difficile associare Il Diario di Anna Frank a un musical, forse - come accaduto con tante opere che raccontano il dramma, da Schindler’s List a La vita è bella a Train de vie per citare i titoli più celebri - è anche una strada per evitare che l’orrore finisca nell’oblìo. Questo è uno dei motivi che hanno spinto il regista Daniel Garcìa Chavéz a portare in scena, al Teatro Calderon di Madrid, dal prossimo 28 febbraio, El Diario de Ana Frank, un Canto a la Vida, primo musical autorizzato dalla Fondazione che cura il ricordo della ragazza ebrea.
Protagonista dello spettacolo la tredicenne cubana Isabella Castillo, scelta fra 800 giovani attori e cantanti selezionati su internet, che durante una presentazione informale del musical ad Amsterdam, proprio nella casa-museo, ha detto di sentire "qualcosa in comune" con Anna Frank: figlia di un’esule fuggita da Cuba, la cantante Delia Diaz de Villegas, Isabel ha vissuto in Belize con la madre nascondendosi, in attesa di poter raggiungere Miami, dove oggi vive. "Non potevamo fare rumore, avevamo paura che la polizia ci trovasse - ha spiegato - non è la stessa storia dei Frank, ma ha qualcosa in comune con essa".
Anna Frank sapeva di avere il dono della scrittura, e aveva riveduto e ricorretto più volte "Kitty" - così aveva deciso di chiamare il suo Diario - nei primi anni Quaranta, durante la segregazione nella casa di Prinsengracht, ad Amsterdam. L’intenzione era quella di pubblicarlo durante la guerra. Un sogno che non riuscì a realizzare, così come non poté assistere alla trasposizione teatrale della sua vita, messa in scena nel 1955 dal drammaturgo americano Alfred Hackett.
Quattro anni dopo, sarebbe stato un compatriota di Hackett, George Stevens, a utilizzare quell’adattamento per realizzare The Diary of Anne Frank, film da tre Oscar uno dei quali, quello vinto da Shelley Winters per il ruolo di Petronella Van Daan, oggi esposto nella casa-museo sui canali di Amsterdam.
Negli anni Ottanta Steven Spielberg cercò di riportare la storia al cinema ma non riuscì a ottenere i diritti, sebbene membro di una famiglia ebrea ortodossa decimata dai nazisti. Per raccontare la tragedia girò nel 1993 The Schindler’s List, anch’esso pluripremiato agli Oscar. E comunque, fu lui a finanziarie alcuni recenti lavori di ristrutturazione e ampliamento della casa-museo.
"Questa versione rispetta il messaggio di tolleranza, insito nella tragedia, che a noi interessa tener vivo" spiega Jan Eric Dubbelman, capo del Dipartimento internazionale della Anne Frank Foundation in un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais, motivando così la decisione del via libera al musical. "Il fatto, poi, che sia in lingua spagnola - aggiunge - può contribuire a far conoscere la figura di Anna Frank al mondo latinoamericano, una comunità che ha sempre dimostrato grande interesse nei confronti della sua storia".
Quanto ai realizzatori dell’opera, Rafael Alvero, direttore generale della Federaciòn de Cines de Espana e produttore esecutivo del musical, racconta: "E’ stato un lavoro al quale ho dedicato dieci anni, tanti ne sono serviti per convincere la Fondazione a dare il via libera al progetto. Ma anche la realizzazione di una promessa fatta a mio figlio, quella di mantenere vivo un simbolo della lotta alla xenofobia e per i diritti dei bambini, qual è Anna Frank".
* la Repubblica, 5 gennaio 2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il nazista che arrestò Anna Frank diventò 007 della Germania Ovest
di Mario Avagliano ( Nuovo Monitore Napoletano, 18 Marzo 2017)
Karl Josef Silberbauer, l’ufficiale nazista che scovò e fece arrestare la quindicenne Anna Frank, ha lavorato durante gli anni della Guerra Fredda per i servizi segreti della Germania Federale (Bundesnachrichtendienst - BND) come informatore e reclutatore.
A rivelarlo è stato il settimanale tedesco Focus, che ha citato le ricerche effettuate dal giornalista Peter-Ferdinand Koch negli archivi delle SS e della Cia. Ricerche che hanno dato luogo al libro Enttarnt (Smascherato).
Nel suo libro, Koch sostiene che furono circa 200 gli agenti di Adolf Hitler reclutati in tempi diversi dai servizi della Germania Federale.
Silberbauer era nato a Vienna nel giugno del 1911. Entrò nella Gestapo nel 1939 e nelle SS nel 1943. L’anno dopo arrestò Anna Frank e la sua famiglia ad Amsterdam.
Koch cita documenti statunitensi e rivela che l’uomo fu localizzato da Simon Wiesenthal nel 1963. L’anno seguente Silberbauer venne sospeso dal servizio e posto sotto investigazione, ma venne successivamente liberato in quanto non avrebbe avuto niente a che fare con l’Olocausto. Secondo Focus, invece, l’uomo utilizzò nel lavoro da agente per il servizio segreto tedesco proprio i contatti con i vecchi camerati nazisti. Silberbauer morì nel 1972, a 61 anni.
Annelies Marie Frank, dopo aver passato due anni nascosta in una casa di Amsterdam, venne arrestata, in quanto ebrea, da Silberbauer e dai suoi camerati nell’agosto del 1944. Morì alla fine di marzo dell’anno seguente nel campo di concentramento di Bergen-Belsen per tifo esantematico. Aveva quindici anni. Il suo diario, scritto mentre viveva in clandestinità ad Amsterdam, è uno dei libri più letti dell’era contemporanea.
Mario Avagliano
Spogliati della propria umanità
di Zygmunt Bauman (Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2012)
Ognuna delle sei milioni di vittime del più grande genocidio dell’umanità aveva una storia da raccontare. Una storia raccapricciante, orripilante: una storia di umana disumanità verso esseri umani. Pochi, tra coloro che attraversarono quell’inferno, ebbero la possibilità di mettere per iscritto la loro storia, pochi seppero trovare parole adatte per descrivere orrori che il linguaggio umano non era pronto a rappresentare. Ancor meno numerosi furono coloro che riuscirono a consegnare le loro storie scritte a chi più che mai aveva e ha bisogno di ascoltarle: le generazioni post-Olocausto, ossia quelle generazioni che si trovarono gravate dall’onere di apprendere e trasmettere a loro volta ai propri figli la lezione di ciò che può fare la disumanità degli esseri umani quando è libera e senza controllo, oppure, ma è ancor peggio, quando è posta al servizio delle più vili, abiette e malvagie intenzioni. Tra coloro che riuscirono in questa impresa, e che contribuirono a far sì che i loro figli potessero sostenere quell’onere, vi fu anche Anna Hyndráková-Kovanicová.
Pienamente consapevole dell’importanza di quel che faceva, cercando di conservare ricordi che altrimenti sarebbero stati destinati a seguirla nella tomba, ella diede alla sua storia la forma di una Lettera ai figli... . La sua testimonianza è di inestimabile valore, per lo meno (o forse a maggior ragione) nella misura in cui chi è nato nel mondo post-Olocausto ha non poche difficoltà a immaginarsi il mondo che ella descrive e che testimonia.
L’inizio dell’orrore coincide sempre con un venir meno dell’umanità: un vuoto che si va ingrandendo e che si condensa sempre di più, sino a divenire palpabile come una nebbia che ammanta chi, con marchio infamante, si ritrova escluso dal consorzio umano, anticamera della distruzione. «Molte persone smisero di conoscerci: quelle più oneste guardavano dall’altra parte facendo finta di non vederci, soltanto pochissime persone avevano il coraggio di rischiare e ci salutavano per strada, anche solo con un cenno del capo». Questo muro apparentemente invisibile, ma quanto mai reale, di separazione spirituale si dimostrò avere effetti non meno devastanti rispetto ai muri di mattoni, cemento e filo spinato, sfacciatamente imponenti, duri e impenetrabili: «Quanto più a lungo uno restava lì», in quel luogo abbandonato dall’umanità, «tanto meno assomigliava a un essere umano».
Janina Bauman (moglie del sociologo, scrittrice polacca, morta a Leeds nel 2010, ndr), un’altra donna sopravvissuta agli orrori del l’Olocausto, notò nelle sue memorie che il compito più difficile per lei e per chi le stava intorno era «restare umani in condizioni disumane». Anna Hyndráková- Kovanicová spiega perché: i prigionieri di un mondo inumano si trovano costretti a guardarsi l’un l’altro con diffidenza angosciosa, le vessazioni e le umiliazioni cui sono sottoposti li spogliano, strato per strato, dell’armatura morale che protegge la loro umanità. «Se avessero conservato un po’ di umanità, forse non sarebbero sopravvissute a lungo in quelle condizioni».
Occorre leggere e rileggere queste testimonianze, e non bisogna chiedersi per chi suoni quella particolare campana. Essa suona per noi, che a nostra volta ci troviamo in un mondo non meno disumano. Noi, che abbiamo il compito di togliere la disumanità dal mondo, per la nostra salvezza, nostra e dei nostri figli dei figli dei nostri figli.
Memoria
Nell’inferno di Auschwitz c’è un bambino che disegna
L’infanzia nel lager di Thomas Geve in 79 tavole. Realizzate nel 1945, solo ora sono diventate un libro *
Un tredicenne che si trova gettato nella bocca dell’inferno, solo e senza istruzioni. È un tema adatto a uno scrittore dell’orrore dalla fantasia perversa. Ma è esattamente la sorte toccata a Thomas Geve, un bambino ebreo di Stettino deportato ad Auschwitz nel 1943. Thomas era vissuto con la mamma e i nonni, esercitando gli unici mestieri possibili per un ebreo come lui, il giardiniere e il becchino. Il padre, espatriato a Londra, faceva vani tentativi per richiamare a sé i suoi cari. Ad Auschwitz, Thomas fu deportato con la madre, che resistette pochi mesi al lavoro forzato. In base alle norme vigenti nel Lager, tutti i bambini inferiori ai quattordici anni (e tutti i vecchi) venivano mandati direttamente alle camere a gas. Thomas, sottratto al forno crematorio perché giudicato robusto, costituì dunque un’eccezione. E a quest’eccezione allude il terribile titolo dell’opera di Thomas Geve (Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz, traduzione di Margherita Botto, Einaudi, pp. 186, 24).
Libro straordinario perché sulla sua esperienza di bambino c’informa, soprattutto, con i disegni. Infatti, dopo la liberazione da parte degli alleati (Thomas era finito a Buchenwald, in seguito all’evacuazione di Auschwitz), nei quindici giorni di convalescenza Thomas si procurò carta, matite colorate e acquerelli, e gettò giù in fretta settantanove disegni, con spiegazioni in tedesco che documentano con esattezza architettura e organizzazione del Lager, ma anche il funzionamento interno, i tipi di lavoro, i regolamenti disciplinari, i problemi igienici, l’alimentazione. Tutto questo per comunicare al padre, poi finalmente raggiunto, come aveva passato i due anni di prigionia. I disegni di Thomas trovarono scarso interesse, e solo quarant’anni dopo, depositati allo Yad Vashem di Gerusalemme, città nella quale Thomas abita dal 1950, hanno cominciato a circolare con una mostra itinerante e poi in pubblicazioni parziali. Questa è la prima completa.
Sarebbe frivolo affrontare questi disegni come opere d’arte. Ben più importante notarvi i segni di una dura esperienza, l’attenzione alle misure, agli spazi, alle prospettive di un mondo artificiale e perverso che il ragazzo viene a conoscere e cerca di memorizzare. Le baracche realizzano e contengono i mezzi per una tortura implacabile; il filo spinato è reclusione e insieme assassinio; le fognature propongono sogni di evasione; gli orari sono un cilicio per il tempo, e le annotazioni non attenuano nulla: «Nel reparto di chirurgia i detenuti venivano semplicemente legati e poi operati senza anestesia. Da quel luogo uscivano grida barbare». C’è persino lo schema delle camere a gas.
Ma Thomas ha un orizzonte morale maturo: sente pietà per i deportati zingari, capisce la vergogna delle prostitute al servizio del comando militare, non certo dei detenuti, fa amicizia con qualche altro ragazzo, ma spesso li vede morire; le canzoni dei deportati lo commuovono sempre più intensamente. Date le misure ristrette delle illustrazioni, i personaggi di Thomas sono tutti omini, ma non sfuggono all’occhio attento né i lavori inutili, né la caccia ai pidocchi, né gli espedienti per trovare un tozzo di pane in più, né le bastonature o le impiccagioni. Sullo sfondo i canti dei deportati, e le marce militari degli aguzzini. Gli omini di Geve ricordano a volte, certo per caso, Klee. E alla fine le sorprendenti qualità artistiche di Thomas non possono più essere taciute. Se ossessionano le file di vagoni e di baracche che Thomas rappresenta, altre volte sintetizza in pochi riquadri minacciosi i temi di questa sopravvivenza disperata, oppure costruisce figure a schema circolare che rispecchiano la coerenza criminale del disegno realizzato con il Lager. Memoria e giudizio vengono a coincidere.
Cesare Segre
* Corriere della Sera, 25 gennaio 2011:
La Giornata della Memoria contro il negazionismo ancora diffuso
Autore: Colombo, Furio
Claudia Mura intervista il promotore della “giornata della memoria” per il giornale online Tiscali, 26 gennaio 2010
Furio Colombo "La Giornata della Memoria contro il negazionismo ancora diffuso"
Il 27 gennaio del 1945 venne liberato il campo di sterminio nazista di Auschwitz. Cinquantacinque anni dopo in Italia si celebrò la prima Giornata della Memoria, per rendere omaggio alle vittime dell’Olocausto e come monito alle future generazioni. La legge 211, che ha istituito e ufficializzato questo anniversario fu tenacemente voluta dall’allora deputato Furio Colombo per ricordare le vittime della carneficina e gli uomini giusti che vi si opposero.
Al protagonista di quella battaglia civile chiediamo oggi, a 10 anni di distanza, quale peso abbiano queste celebrazioni e quanto siano utili.
“C’è da essere soddisfatti per il solo fatto che, a 10 anni dalla legge, la Giornata della Memoria esista ancora. Un’occasione così fragile, affidata alle mani dei cittadini e delle istituzioni che la possono usare per fare sì che davvero quel ricordo non muoia. C’è da essere contenti che sia ancora così viva una giornata che, per il solo fatto che c’è ancora, è utile.”
Dimenticare è un pericolo. Quali altri rischi intravede da parte di chi non ritiene degne di memoria le vittime dell’Olocausto?
“Il negazionismo è ancora molto diffuso, ma c’è anche la Chiesa cattolica, il cui Papa ha riammesso nel rito ufficiale quella preghiera del venerdì che invoca la ‘conversione’ degli ebrei, ha revocato la scomunica dei lefebvriani e alimentato la polemica sul vescovo negazionista. Posizioni negazioniste sono pubblicamente espresse e tollerate. All’Università di Roma La Sapienza c’è un docente di queste idee che ancora insegna. La tentazione di dire che non è successo niente c’è ancora.”
Cosa ha prodotto l’istituzione di questa giornata?
“Fra le altre cose ha prodotto una pubblicistica più obiettiva. Prima moltissima gente che sapeva della Shoa e che la giudicava criminale, credeva che si trattasse di un male cha ha colpito fuori dall’Italia. L’Italia non è mai stata comunista ma è stata fascista. Mussolini non era solo un alleato dei nazisti e il fascismo è stato l’altro grande promotore delle leggi razziali. La Giornata della Memoria è servita a ricordaci che, in Europa, solo due paesi votarono le leggi razziali: l’Italia e la Germania.
Ci racconti come è nata la Legge 221.
“Il 20 gennaio del 2000 alla Camera feci un discorso nel quale chiesi che la legge istitutiva della Giornata della Memoria fosse approvata all’unanimità perché, dissi, ‘noi sediamo nei banchi di chi quelle leggi ha approvato all’unanimità’. Fu un delitto italiano e per questo serviva una legge italiana.”
C’è una generazione che ancora deve fare i conti con le sue colpe quindi?
“In questi giorni esce un libro, L’alba ci colse come un tradimento, in cui l’autrice, Liliana Picciotto, dimostra che la grande maggioranza degli ebrei deportati e mai più tornati sono stati arrestati e identificati da italiani.”
Ogni celebrazione ufficiale rischia di diventare retorica, come arginare questo rischio?
“Una legge come questa non è per gli ebrei ma per i non ebrei. Loro ricordano, siamo noi che abbiamo bisogno di una norma per farlo. Come si ricordano le proprie glorie, si devono ricordare i propri misfatti. Non si tratta di alzare una bandiera. Non c’è qualcuno che è stato molto buono, ma qualcuno che è stato molto cattivo. E qui c’è un rischio minore di essere retorici.”
Da cosa dobbiamo ancora guardarci?
“Dal silenzio. Il complice fondamentale dello sterminio nazi-fascista è stato il silenzio, anche quello di Pio XII. Il silenzio aiuta questi crimini e non bisogna mai tacere di fronte alle violazione dei diritti. La ‘caccia al negro’ di Rosarno è avvenuta ai giorni nostri e un giorno potrebbe toccare a noi ciò che oggi sembra non riguardarci.”
16:08 Sonia Alfano:"La Lega condivide le dure parole di Radio Padania?" *
"La Lega condivide o si dissocia dalle affermazioni di Radio Padania quando dice: "Anna Frank non era una santa, crepate voi che ci date dei moralisti e dei bacchettoni, crepate assieme a Satana?". A chiederlo alla Lega è Sonia Alfano, europarlamentare dell’Idv che conclude: "Ciò che è stato affermato a Radio Padania (nella rubrica cultura padana) è di una gravità inaudita e una gravissima offesa alla memoria di Anna Frank e di tutti i sei milioni di ebrei assassinati"
* DIRETTA: Auschwitz, il giorno della memoria. Wiesel: "Ricordare i morti serve ai vivi", la Repubblica, 27.01.2010. (ripresa parziale)
"Si poteva dire no" i cinquanta fascisti che salvarono gli ebrei La Rai nel "Giorno della Memoria"
Col documentario presentato anche il film di Negrin "Mi ricordo di Anna Frank"
di Silvia Fumarola (la Repubblica, 22.01.2010)
L’abisso della crudeltà e il coraggio di chi non voltò la testa: la Rai celebra la Giornata della Memoria, mercoledì su RaiUno, con il film di Alberto Negrin Mi ricordo di Anna Frank e il documentario 50 Italiani di Flaminia Lubin, sulle storie di diplomatici, militari e gerarchi che salvarono migliaia di ebrei dai campi di concentramento. «Il ruolo della tv è essenziale per la Giornata della Memoria. Un grande impegno che pone problemi: come si può mantenere viva la memoria facendo in modo che l’inondazione di immagini, messaggi e parole non si riduca a una banalizzazione?», si chiede il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ospite alle anteprime alla Settimana della Fiction Rai a New York, con il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici e il presidente della Rai, Paolo Garimberti.
«Eichmann, che è un genio del male - spiega Di Segni - sa che quando il numero delle vittime supera le centinaia diventa statistica e perde l’aspetto umano. Per questo il caso di Anna Frank è stato importante perché l’enormità del male è visto attraverso la storia di una singola persona, un’unica vittima simbolica». Nel film di Alberto Negrin prodotto da Fulvio Lucisano, interpretato dalla tredicenne Rosabell Laurenti Sellers, con Emilio Solfrizzi nel ruolo di Otto Frank, il padre di Anna, e Moni Ovadia in quello del Rabbino, spicca la figura Miep Gies (Bakonyi Csilla), la donna che nascose la famiglia Frank e salvò il diario di Anna, morta la scorsa settimana a 100 anni.
La storia è ispirata al libro di Alison Leslie Gold basato sulla commovente testimonianza di Hanneli Goslar, la grande amica di Anna. «Rappresentare lo sterminio è impossibile - spiega Negrin - si possono restituire solo i sentimenti. Nella storia di Anna contano le domande. Quelle dei bambini: "Perché tanta cattiveria?", e l’interrogativo del rabbino al comandante del campo: "Dov’è finita la tua coscienza?"».
Il documentario 50 Italiani prodotto da Francesco Pamphili racconta invece come esponenti di spicco del regime fascista, militari e diplomatici (fra cui il console Guelfo Zamboni, il commissario Guido Lo Spinoso e il sottosegretario al ministero degli Esteri, Giuseppe Bastianini), salvarono oltre 50 mila ebrei nei Balcani e a Salonicco, sottraendoli alle deportazioni con ogni mezzo, producendo documenti falsi come il "permesso di cittadinanza provvisorio". «50 Italiani fa capire che si poteva disobbedire agli ordini - osserva il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici - Far vedere uomini che hanno agito secondo coscienza smentisce quella che è stata la litania al processo di Norimberga: "Dovevamo eseguire gli ordini"».
Miep Gies la nascose in casa con la famiglia
Fu lei a trovare il diario: "La ricorderò sempre"
L’angelo custode compie 100 anni
"Dipendevano da me, ero il loro unico contatto con il mondo. Fu un periodo straziante"
di Alberto D’Argenio (la Repubblica, 21.02.2009)
BRUXELLES «Con il tempo tutto passa, ma fino a quando ci saranno dei sopravvissuti il ricordo continuerà ad esistere». Anna Frank la chiamava la sua «protettrice», poi è stata ribattezzata la «guardiana della memoria». Miep Gies era la giovane donna dal viso dolce che dal luglio 1942 all’agosto 1944 ha nascosto Anna Frank e la sua famiglia, l’angelo che li ha tenuti in contatto con il mondo e ha portato loro le provviste e gli oggetti capaci di rendere la vita meno soffocante. Era lei che comprava la preziosa carta con cui Anna ha scritto il suo diario, che la ascoltava e rispondeva alle sue mille domande. Domenica scorsa Miep ha computo 100 anni ed è tornata a parlare al mondo.
Via e-mail ha concesso a Repubblica qualche domanda in bilico tra passato e presente. Ricorda Anna - «era il sole di quella casa, il motore che ha unito tutti» - e parla di oggi, del negazionismo, delle polemiche sui lefebvriani: «Le parole e i precetti della Chiesa cattolica mi sono indifferenti. Posso però dire di non essere d’accordo con tutte queste cose». Poi si tuffa nel tempo e parte da dove tutto è cominciato. Ci porta ad Amsterdam, nel 1933, quando è diventata la segretaria di Otto Frank, proprietario del magazzino al 263 della Prinsengracht.
Una vita dopotutto felice, per lei che a soli 11 anni era scappata dalla povertà post-bellica dell’Austria. Ma poi è arrivata una nuova guerra, i nazisti e la memoria si tinge di tragedia. C’è quel giorno del 1942 in cui Otto Frank la chiamò: «Miep, ti devo dire una cosa importante, un grande segreto. Ci stiamo preparando a nasconderci, qui, in questa casa: ci vuoi aiutare?». Il suo «sì» fu dettato da un sentimento naturale, spontaneo e noncurante dei rischi. Poi arriva il 9 luglio, il giorno della fuga. E’ lei a portare nel nascondiglio Margot, la sorella maggiore di Anna finita nelle liste dei nazisti. Ricorda: «Margot e la madre erano sotto shock, stavano sedute lì con lo sguardo perso nel vuoto. Era orribile. Anna, invece, era allegra e contenta come sempre». Eppure la vita era diventata una prigionia.
In che misura lo capì tempo dopo, quando venne invitata a trascorrere una notte nel nascondiglio: «Non ho chiuso occhio: solo allora ho capito davvero cosa volesse dire nascondersi. Eri schiacciato da una forte pressione, dalla paura. Mi sentivo incatenata e ho pensato: domani sarò di nuovo libera».
Quella notte le insegnò più di due anni in cui tutte mattine andava a raccogliere la lista della spesa dei Frank: «Anna era sempre la prima a dire: «Hello Miep, cosa c’è di nuovo?». Era così, era normale ed impulsiva. Ma io sentivo che loro dipendevano da noi, che mi aspettavano con ansia per parlare, per avere notizie. Lo trovavo terribile. Il fatto che fossero docili mi faceva male, era straziante». Fu invece di pomeriggio che capì il legame tra Anna e la scrittura: era salita nel nascondiglio fuori orario e trovò la bambina che scriveva «con grande concentrazione». Quando la vide, Anna le rivolse «uno sguardo ostile» e chiuse il diario sbattendolo. Lei rimase sconvolta.
«Quella era la Anna che scriveva». Poi arrivò la tragedia, il 4 agosto 1944. Miep era in ufficio quando la porta si aprì ed entrò un uomo armato. Pensò: «Ci siamo». Seguirono densi minuti di angoscia. Lei fece scappare i complici e rimase da sola: «Avevo sentito qualcuno parlare in tedesco, con un accento che conoscevo. Quando entrò mi alzai e dissi: «Lei è di Vienna, anch’io lo sono». L’uomo rimase a bocca aperta. Gli diedi i documenti e lui sbraitò: «Non ti vergogni? Stai aiutando della spazzatura ebrea! Sei una traditrice e dovresti morire». Rimasi in silenzio e lui a muso duro disse: «Per me puoi rimanere, ma se scappi prenderemo tuo marito». Desolata sentì i passi dei Frank che scendevano le scale.
In quelle ore fu lei a trovare il diario di Anna e a custodirlo. Glielo voleva restituire di persona, ma la piccola non tornò: sette mesi dopo lei e Margot morirono a Bergen-Belsen. Così lo diede a Otto Frank, l’unico sopravvissuto della famiglia. Lui lo fece pubblicare ma per anni Miep non lo volle leggere. Poi trovò il coraggio: «Una sensazione bellissima si impossessò di me. Questa era l’Anna che conoscevo, la sentivo di nuovo vicina: quel diario è Anna». Fu quello il momento in cui capì che la sua vita sarebbe stata dedicata alla memoria.
Dagli archivi nazisti emerge il testo che racconta la detenzione dell’autrice del Diario. A cui le SS scrissero la parola fine
L’ultima pagina di Anna Frank
Ecco il documento sulla prigionia
.dal nostro inviato MARCO ANSALDO *
BAD AROLSEN - "Frank, Annelies Marie Sara. Nata il 12 giugno 1929 a Francoforte. Residente ad Amsterdam, in Piazza Mervede 37, II piano. Nubile. Genitori: Frank, Otto Heinrich Isra, 12.5.1889. Hollaender, Edith Sara, 16.1.1900. Sorella: Frank, Margot Betti Sara, 16.2.1926". Due segni di morte, incisi a penna in cima e in fondo al foglio, stilizzati come croci uncinate, bollano in maniera inequivocabile la provenienza del documento. Così, infatti, le SS erano solite marcare le schede dei prigionieri defunti.
Precisione ad efficienza. È grazie alla disciplina inflessibile di tanti scrivani del Terzo Reich che i frammenti che continuano a uscire dal grande archivio sui crimini nazisti di Bad Arolsen, nel centro della Germania, aperto dopo sessant’anni ai ricercatori, contribuiscono ad arricchire l’immagine di quel periodo storico. Come i due documenti presenti qui su Anna Frank, una deportata fino ad allora come tutti gli altri. Sul primo, in alto a destra, compare una cifra e una data: il numero del dossier "127.266", e "8 agosto 1944". Sono passati dunque appena sette giorni da quando Anna ha scritto, senza saperlo, l’ultima lettera del suo "Diario", che termina incompiuto il 1 agosto 1944. E questa carta è la scheda personale che i nazisti avevano compilato, in Olanda, subito dopo la sua cattura.
Fino a quel momento la famiglia Frank era rimasta nascosta ad Amsterdam, insieme ad altri quattro ebrei, nel famoso "Alloggio segreto", sito al numero 263 della Prinsengracht, dove gli otto rifugiati riuscirono a strappare due anni di vita ai militari tedeschi che ignoravano la loro esistenza. Il 4 agosto però, dietro una "soffiata", il caporeparto austriaco delle SS, Karl Josef Silberbauer (poi scovato dal cacciatore dei nazisti Simon Wiesenthal), accompagnato da alcuni agenti olandesi della Gruene Polizei, faceva irruzione nell’ufficio di Otto Frank riadattato a rifugio. Celata da uno scaffale girevole, si apriva una porta segreta, con la lunga scala ripidissima - "la tipica rompigambe olandese", come aveva scritto Anna negli appunti tenuti in quel periodo - che dava accesso all’appartamento dove le famiglie avevano trovato riparo senza però più uscire di casa.
La scheda, redatta a macchina in lingua olandese, segna l’immediato internamento della giovane a Westerbork, il campo di raccolta destinato a radunare tutti gli ebrei dei Paesi Bassi, in attesa del trasferimento nei campi di sterminio in Polonia. Fra l’estate del 1942 e l’autunno del 1944, come ricorda lo studioso della Shoah, Frediano Sessi, nell’appendice al Diario pubblicata in Italia da Einaudi, partiranno 85 convogli, dei quali 19 diretti a Sobibor, e 66 verso Auschwitz.
"A Westerbork - dirà una sua compagna di prigionia, Lenie de Jong - Van Naarden, citata nel libro di W. Lindwer Gli ultimi mesi di Anna Frank (Newton Compton) - conoscemmo ben presto un gran numero di persone. Parlai con le ragazze Frank: Anne soprattutto era carina. Ti si spezzava il cuore, perché erano ancora così giovani e non si poteva fare niente per tenerle fuori da tutto ciò. Quelle ragazze si aspettavano ancora tanto dalla vita". "Otto Frank venne da me - racconta un’altra testimone, Rachel Van Amerongen-Frankfoorder - e chiese se Anne non potesse aiutarmi, il servizio interno era molto ambito. Anna era molto gentile e disse: "So fare tutto, sono pratica di tutto". Era davvero molto cara, un po’ più grande di quanto appaia sulle fotografie che conosciamo di lei, allegra e di buon umore. Credo che lei, dopo un paio di giorni, sia capitata con la sorella e la madre nel reparto batterie".
Il documento su Anna Frank compilato a Westerbork era perfetto nella sua essenzialità e accuratezza. Una scheda che, oltre a tenere tutti i dati fondamentali dell’internata, verrà aggiornata di continuo. Quel Lager verrà non a caso ricordato da molti come un esempio di brutalità e ottusità del regime nazista. "Di tanto in tanto - rammenta un altro compagno di sventura, Janny Brandes-Brilleslijper - scambiavamo due parole: per esempio quando spaccavamo batterie. Era un lavoro molto sporco, del quale nessuno capiva il senso. Dovevamo spaccare le batterie con uno scalpello e un martello e poi gettare il catrame in una cesta e la barretta di carbone che tiravi fuori nell’altra cesta. Oltre al fatto che questo lavoro ti faceva diventare terribilmente sporco, a tutti veniva la tosse perché si sprigionava una certa sostanza tossica. Il lato piacevole del lavoro con le batterie era che potevi parlare con gli altri. Le ragazze Frank spaccavano batterie sedute intorno ai lunghi tavoli. Si parlava, si rideva, il dolore lo tenevi dentro di te".
Non sappiamo se in quei pochi momenti di libertà che la ragazza trascorse in famiglia, e forse anche con Peter Schiff, il ragazzo di cui era innamorata del quale recentissimamente è emersa la foto, riuscì ancora a scrivere qualcosa per il suo diario. Gli storici propendono per il no. I nazisti riservavano pene durissime a chi cercava di tenere appunti.
Nella scheda personale su Anna si nota infatti una scritta più grande, aggiunta a mano, per traverso: "3-9-44". E’ la data dopo nemmeno un mese del suo successivo trasferimento, e quello della sua famiglia, ad Auschwitz, dove i Frank arrivarono assieme agli altri nella notte compresa fra il 5 e il 6 settembre. La selezione fu fatta subito, una volta fatti scendere dai binari, e uno degli otto rifugiati dell’Alloggio segreto, il signor Van Pels, fu immediatamente inviato alla camera a gas.
Il secondo riferimento ad Anna Frank presente nell’archivio tedesco esce invece da un corposo libro con la copertina nera contenente l’elenco di migliaia di ebrei, in transito da Westerbork verso Auschwitz. "Lista 40", dice l’intestazione in alto a sinistra. "Frank Annelise M.", si legge a metà della pagina. Ci sono i dati di nascita, l’indirizzo e la medesima data di trasferimento segnata sulla scheda personale: 3 settembre 1944.
Quindici righe più sotto compare anche il nome della madre: Frank - Hollaender Edith. Sono passati qui solo 33 giorni da quando la quindicenne Anna aveva redatto quel capolavoro di profondità e delicatezza che è la pagina finale del suo diario: "Ho molta paura che tutti quelli che mi conoscono così come sono sempre scoprano che ho anche un altro lato più bello e più buono. Temo che mi prendano in giro, mi trovino ridicola, sentimentale e non mi prendano sul serio. Sono abituata a non essere presa sul serio, ma solo la Anne "superficiale" ci è abituata e lo può sopportare, la Anne più "profonda" invece è troppo debole (...) Oh, vorrei tanto ascoltarli, ma non riesco, se sono silenziosa e seria tutti pensano che sia uno scherzo e devo salvarmi con una battuta di spirito, per poi non parlare dei miei familiari che pensano che io stia male, mi fanno inghiottire pastiglie per il mal di testa e calmanti, mi toccano il collo e la fronte per sentire se non ho la febbre, s’informano se sono andata di corpo e criticano il mio cattivo umore. Non sopporto, quando si occupano tanto di me, allora sì che divento prima sfacciata, poi triste e alla fine torno a rovesciare il cuore, giro in fuori la parte brutta e in dentro la buona e cerco un modo per diventare come vorrei tanto essere e come potrei essere se. nel mondo non ci fosse nessun altro".
Sono le sue ultime righe. Le due schede, con l’arresto e la deportazione, segnano l’inizio della fine di Anna. Alla fine di ottobre la ragazza prende la scabbia. Poco tempo dopo cade ammalata pure la sorella Margot. Sono in molti a notare l’aspetto pessimo delle due giovani Frank, che hanno macchie e vesciche sulla pelle, dove mettevano solo un po’ di pomata. La loro salute peggiora, e vengono trasferite al Kratzeblock, il blocco riservato agli scabbiosi. Sono separate dalla madre che, sola, morirà poco dopo, all’inizio di gennaio. Il 28 ottobre 1944 salgono su un vagone alla volta di Bergen-Belsen.
Nel nuovo Lager finiscono per essere ospitate in uno dei luoghi peggiori, le baracche destinate a raccogliere gli ultimi arrivi, per lo più donne giunte in uno stato di denutrizione e di spossatezza, dopo un viaggio durato giorni, stipate dentro vagoni bestiame zeppi di gente malata e dolente. In pieno inverno un’epidemia di tifo petecchiale colpisce i deportati. Senza cibo, senza medicine, deboli e affaticate, le due ragazze Frank vengono contagiate.
"Erano magrissime - ricorda ancora la sua compagna di prigionia Rachel - avevano un aspetto tremendo. Bisticciavano a causa della loro malattia. Avevano i posti peggiori della baracca, giù vicino alla porta". Anna, rammenta poi Janny, "stava davanti a me avvolta in una coperta e non aveva più lacrime. Raccontò che le bestioline nei vestiti la facevano rabbrividire e che per questo aveva gettato via tutti i suoi abiti. Radunai tutto quello che potevo per darlo a lei, affinché fosse di nuovo vestita. E da mangiare neanche noi avevamo molto. Ma ho cercato di dare qualcosa della nostra razione di pane".
I primi giorni di marzo del 1945 (la data è incerta), Janny va a controllare le ragazze. Margot è caduta dal letto sul pavimento di pietre, ormai senza vita. Anna muore il giorno dopo. La prima scheda compilata dalle SS porta infatti in fondo, accanto al segno che decreta il decesso del prigioniero, un ultimo appunto aggiunto a mano. Si legge: "Deceduta a B. B., ’45", cioè a Bergen Belsen.
Un unico documento contiene dunque tutta la tragedia di Anna Frank: il momento dell’arresto in Olanda, la schedatura assieme alla famiglia, la deportazione ad Auschwitz in Polonia, la morte in Germania nel campo di sterminio di Bergen Belsen. Solo molti anni più tardi la ragazza diverrà, del milione e mezzo di bambini morti nella Seconda guerra mondiale, il simbolo di tutti gli ebrei vittime del razzismo antisemita nazista. Il padre Otto fu l’unico dei rifugiati dell’Alloggio segreto a sopravvivere. Dedicherà il resto della sua vita alla diffusione del Diario, e alla vicenda di Anna, di cui queste carte continuano ancora oggi a ricordarne la storia.
* la Repubblica, 12 maggio 2008.