Se lo scrittore morde
di Roberto Saviano (la Repubblica, 3 maggio 2007)
Quanto pesa una parola. Quali calibri usare e su quali bilance misurarla. Domande che come febbri tropicali tormentano ogni particella di chi si avvicina da scrittore o da lettore alla letteratura. La prima volta che capii il potere della parola ero ragazzino, bande di bambini in bicicletta sulle ormai rottamate BMX scorrazzavano per i paesini dell’entroterra campano, raggiungevano i centri vicini e insultavano chiunque, sputacchiavano su tutti, signore, ragazzini, vecchi. Una volta un gruppetto si ribellò alle vessazioni e iniziò a correre verso i piccoli teppisti in bici, ma bastò solo una sola frase di questi: "Siamo di Casal di Principe" per fermare chiunque, terrorizzato. Come se si stesse giocando a "Un, due, tre, stella!", quando chi è "sotto" si gira e tutti devono fermarsi come pietre, e chi si muove perde. Allo stesso modo bastava pronunciare l’origine, il provenire da una realtà così ferocemente criminale da innescare immaginazioni mitiche così tragiche che faceva d’improvviso temere anche dei gracili ragazzini dalla faccia scura.
Da allora la potenza della parola non ha smesso di affascinarmi. La letteratura è un atleta, scriveva Majakovskij, e l’immagine di parole che scavalcano oltre la coltre d’ogni cosa, che superano ostacoli e combattono mi appassiona abbastanza. Il peso specifico della parola letteraria è determinato dalla presenza della scrittura nella carne del mondo o dall’assenza di carne, invece, per alcuni. Una volta Thomas Mann e Ignazio Silone si trovarono a discutere in Svizzera sul metro di paragone in base al quale giudicare i diversi sistemi politici. Silone rispose: "Senza dubbio: basta determinare qual è il posto che è stato riservato all’opposizione". Mann invece: "No, la verifica suprema è il posto che è stato riservato all’arte ed agli artisti".
Nelle lunghe discussioni con Vincenzo Consolo, Goffredo Fofi, Corrado Stajano, ho appreso che la necessità prima dell’intellettuale è presenziare al dolore umano, mantenersi sentinella della libertà umana, non delegare mai ad altro il proprio imperativo di difesa della dignità umana. Non all’interno di una sorta di nuova ideologia ma come unica capacità di fare del talento, della scrittura, necessità: «Esiste la bellezza e l’inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi», scrive Albert Camus. Fedele alla bellezza e all’inferno dei viventi, è il canone estetico che preferisco. La scrittura letteraria è labirintica, multiforme, non credo possano esserci strade univoche, ma quelle su cui credo debbano posare i miei piedi le riconosco. Primo Levi, in polemica con Giorgio Manganelli che rivendicava la possibilità di scrivere oscuro, affermò che "scrivere oscuro è immorale". Quando Philip Roth dichiara che dopo “Se questo è un uomo” nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz. Non di non sapere dell’esistenza di Auschwitz. Ma non si può più dire di non essere stati in fila fuori ad una camera a gas.
Questa la potenza di quelle pagine. Libri che non sono testimonianze, reportage, non sono dimostrazioni. Ma portano il lettore nel loro stesso territorio, permettono di essere carne nella carne. In qualche modo questa è la differenza reale tra ciò che è cronaca e ciò che è letteratura. Non l’argomento, neanche lo stile, ma questa possibilità di creare parole che non comunicano ma esprimono, in grado di sussurrare o urlare, di mettere sottopelle al lettore che ciò che si sta leggendo lo riguarda. Non è la Cecenia, non è Saigon, non è Dachau, ma è il proprio luogo, e quelle storie sono le proprie storie. Ed il rischio per gli scrittori non è mai di aver svelato quel segreto, di aver scoperto chissà quale verità nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene. Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Anna Politkovskaja hanno avuto in modalità fortemente diverse la responsabilità di fare delle storie che raccontavano vicende riguardanti ogni essere umano e non più circoscritte alla geografia di un territorio. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto. Può arrivare ovunque attraverso una parola che non trasporta soltanto l’informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, smentita, ma trasporta qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare.
Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano che la scrive. La forza letteraria continua ad essere questa sua incapacità a ridursi ad una dimensione, ad essere soltanto qualcosa, sia essa notizia, informazione o sensazione, piacere, emozione. Questa sua fruibilità la rende in grado di andare oltre ogni limite, di superare le comunità scientifiche, gli addetti ai lavori, e di andare nel tempo quotidiano di chiunque, divenendo strumento ingovernabile e capace di forzare ogni maglia possibile. La potenza stessa che faceva temere di più ai governi sovietici Boris Pasternak e Il dottor Zivago e I Racconti di Kolyma di Salamov che gli investimenti del controspionaggio della Cia. Mentre i saggisti venivano isolati, relegati in riviste accademiche, lasciati sfogare, gli scrittori dovevano essere eliminati, le pagine nascoste, le parole rese cieche e mute.
Quando mi capita di ascoltare le litanie sulla vacuità della scrittura, o quando io stesso mi lascio convincere dal vizio della letteratura come palestra per onanisti con poco talento per la vita, penso sempre alla figura di Kostylev, personaggio del libro di Gustaw Herling Un mondo a parte, un libro per anni marginalizzato e boicottato. Kostylev era stato un uomo che aveva dedicato la sua vita alla causa bolscevica. Poi iniziò a leggere Balzac, Stendhal, Constant e trovò in quei testi "un’aria diversa, mi sentivo come un uomo che, senza saperlo, era stato soffocato tutta la vita". Kostylev abbandonò il lavoro di partito, concesse tutto il suo tempo alla lettura desideroso di conoscere le verità che gli erano state nascoste. I libri stranieri che si procurava clandestinamente lo fecero arrestare. La polizia segreta lo accusò d’essere una spia e torturandolo fu costretto a confessare la mendace accusa. Kostylev si ustionava di sua volontà il suo braccio esponendolo alle fiamme vive, preferiva avere un braccio piagato e gonfio, piuttosto che lavorare per i suoi carcerieri. Nella baracca dove, esentato dal lavoro, passava le giornate, non c’era attimo in cui non leggesse libri. La lettura che gli aveva cambiato l’esistenza portandolo nei campi di lavoro, continuò ad essere la maggiore espressione della sua umanità in quel girone infernale.
Non mi interessa la letteratura come vizio, non mi interessa la letteratura come debole pensiero, non mi riguardano belle storie incapaci di mettere le mani nel sangue del mio tempo, e di non fissare in volto il marciume della politica e il tanfo degli affari. Esiste una letteratura diversa, può avere grandi qualità e riscuotere numerosi consensi. Ma non mi riguarda. Ho in mente la frase di Graham Green: «Non so cosa andrò a scrivere ma per me vale soltanto scrivere cose che contano». Cercare di capire i meccanismi. I congegni del potere, del nostro tempo, i bulloni della metafisica dei costumi. Tutto diventa materia. Danaro, taglio della coca, transazioni, assessori, documenti, uccisioni, proclami, preti e capizona. Tutto è coro e materia, con registri diversi. Senza il terrore di scrivere al di fuori dei perimetri letterari, prescegliendo dati, indirizzi, percentuali e armamentari, contaminando con ogni cosa.
Se devo scrivere devo farlo in emergenza, dove le bestemmie sono più sincere delle preghiere. E dove la realtà ha slabbrature maggiormente in grado di mostrare verità. Il rap in Europa sembra essere anni luce più avanti della letteratura nella capacità di fare della parola parte della carne del presente, rapper parigini che si trasferiscono a Napoli per raccontare il mediterraneo, filippini e gallaratesi che si lanciano in slang comuni e codificano nuovi sguardi, foggiando nuove grammatiche del racconto. E narrano di un mondo dove tutto è meccanismo di potere, danaro, affermazione, dove la politica è sempre tradimento e dove la parola è il discrimine capace di raccontare tutto questo senza negarlo, senza considerarlo inevitabile ma sentendo necessaria la bellezza di narrarlo e di corroderlo. Con le parole e con i succhi gastrici.
Molta scrittura invece sembra fare tarantelle intorno alle questioni centrali del nostro vivere. Tutto sommato non mi interessa far evadere il lettore. Mi interessa invaderlo. E mi interessa la letteratura più simile al morso di vipera che ad un acquarello di fantasie.
Arrovellarsi sui territori delle definizioni di ciò che è letterario e di ciò che non lo è, tra combattimenti di accademici e filologi, ruzzolando nell’aia degli scrittori, può essere un’attività infinita senza soluzione alcuna. Una risposta credo risolutiva la diede l’autore del Viaggio al termine della notte e di Morte a credito.
Una giovane giornalista andò a trovare un ormai vecchio, isolato e sempre più accidioso Louis Ferdinand Céline. Andò a Meudon, a pochi chilometri da Parigi, dove lo scrittore si era rintanato con sua moglie e i suoi animali. La giornalista dopo le solite domande di circostanza trovò il coraggio e gli chiese, quasi come se stesse pretendendo che lo scrittore gli svelasse il segreto del suo mestiere: «Ma quanti modi ci sono di fare letteratura?». Céline rispose, secco senza titubare: «Ci sono solo due modi di fare letteratura». La giornalista così si aspettava lo scibile umano delle lettere divise in due correnti e Céline diede la sue sintesi insuperabile: «Fare letteratura o costruire spilli per inculare le mosche».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’urlo di Pier Paolo Pasolini (1974)
Intellettuali e democrazia. La lezione di Saviano e Rushdie
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
La criminalità dell’ex Urss è un arcipelago pieno di misteri
Roberto Saviano lo ha indagato con l’aiuto di un infiltrato speciale
Il ragazzo guerriero
della mafia siberiana
di ROBERTO SAVIANO *
Quando ero ragazzino scrissi un racconto metafisico e surrealista e lo inviai a Goffredo Fofi. Dopo qualche giorno mi arrivò un foglio di poche righe in una busta di carta riciclata: "Mi piace come scrivi, peccato che scrivi idiozie, ho visto da dove mi hai spedito la lettera. Affacciati alla finestra e raccontami cosa vedi, scendi giù, attraversa cosa vedi. Poi rispediscimi tutto, e ne riparliamo". Da allora affacciarsi e attraversare le cose mi sembrò l’unico modo per poter scrivere parole degne di essere lette.
Nicolai Lilin (guarda il suo sito) non ha fatto altro che affacciarsi, fuori dalla casa in cui è nato, dentro la sua stessa vita e raccontare ciò che ha visto, sentito, il mondo in cui è stato educato. E lo ha fatto in un libro, Educazione Siberiana. Un romanzo come se ne leggono pochi, che racconta di un mondo scomparso, quello degli Urka siberiani, la comunità di criminali deportata da Stalin al confine con l’attuale Moldavia, in una terra di nessuno che è la Transnistria.
Ho incontrato Lilin nella stanza anonima di un hotel milanese. Corpo minuto ma tonico, viso slavo, colori chiari, occhi luminosi. Parla un italiano preciso, impastato con una cadenza slava unita a un accento piemontese. Quando si infervora gli esce un "Dio bono" che lo rende divertente. Lilin è un discendente degli Urka siberiani con un intercalare sabaudo e racconta proprio di gente come lui, gli ultimi discendenti di questa stirpe guerriera, uomini che usano definirsi "criminali onesti" atavici nemici dei "criminali disonesti". "Volevo raccontare storie che rischiavano di perdersi, che conoscono in pochi, e renderle storie di molti. Le storie della mia gente, distrutta dal capitalismo di oggi, gente che aveva regole sacre, che viveva con dei valori". Per leggere questo libro bisogna prepararsi a dimenticare le categorie di bene e di male così come le percepiamo, lasciar perdere i sentimenti come li abbiamo costruiti dentro la nostra anima. Bisogna star lì: leggere e basta.
Così dopo un po’, intorno alle pagine di Educazione Siberiana, inizierà a materializzarsi un intero mondo. Sembrerà lontanissimo, altro, ma bevuto tutto lascerà un gusto in cui si ritrovano in forma diversa molti sapori simili al nostro mondo e questo genererà un brivido difficile da dimenticare. Non ci si aspetti un libro sulla mafia russa, né un trattato sul crimine, né alleanze tra clan, imperi economici, faide e sparatorie. È il contrario. È un romanzo che racconta di un popolo scomparso, di una tradizione guerriera che Nicolai conservava dentro di sé e che non riusciva più a tacere. Continuamente lui usa la parola "onesto", e continuamente ripete il termine "disonesto". Può apparire strano che parlando di una comunità criminale si parli di onestà; noi abbiamo imparato a dimenticare che un codice etico condiviso possa esistere anche al di fuori della società civile.
Tra gli Urka non si stupra, non si fanno estorsioni, non si fa usura. Si può rapinare e uccidere, ma solo in presenza di un valido motivo. Si può truffare, ma solo lo stato e i ricchi. E ci sono anche regole pratiche da osservare: le armi per la caccia, per esempio, non devono essere messe accanto alle armi che servono per uccidere esseri umani. E quando un’arma tocca l’altra per purificarla bisogna avvolgerla in un panno con liquido amniotico, il liquido della vita. Seppellire il tutto e dopo un po’ arriva la purificazione. È assolutamente vietato agli uomini parlare con le forze dell’ordine. In Educazione Siberiana ci sono pagine di arresti e retate in cui la polizia non riesce a rivolgere la parola a nessun siberiano. Ogni Urka ha sempre al proprio fianco una donna che faccia da tramite. Lilin racconta che dalle sue parti si dice che chi non ha voglia di lavorare e non ha il coraggio di delinquere fa il poliziotto. Nelle comunità criminali degli Urka, diversamente da quanto accade in Italia, esistono regole talmente forti da fermare il business, vincolare il potere.
Sono regole che seppur calate in un contesto discutibile hanno profonde radici morali. In Italia, fino a qualche decennio fa, per le mafie regole come non uccidere bambini, non trattare e vendere droga, non assumerne, ora sistematicamente disattese, nascevano dalla necessità di cercare quel consenso nella popolazione che adesso appare dovuto, che ora sono il timore e la forza ad assicurare. "Non è il crimine la nostra forza - diceva il nonno a Nicolai - ma il consenso ed il bene che la gente ci vuole". Lilin precisa: "Sono regole di giustizia non scritte, come la divisione equa dei beni, l’aiuto reciproco e la difesa dei più deboli". E continua con una nota autoironica che aggiunge credibilità al suo racconto: "Se nasci in quella realtà non puoi certo divenire Ghandi ma almeno vivi un una società che ha regole e diritti, non solo soprusi dove vince il più corrotto e il più forte come tra i lupi".
E gli anziani nel romanzo hanno un ruolo centrale. Non sono solo i depositari delle tradizioni, ma tramandano di generazione in generazione le storie più avvincenti di rapine e di sfide. Indirizzano le nuove generazioni anche sul modo di trattare il denaro. I soldi fanno schifo ai siberiani, la considerano roba sporca. "Mio nonno in tutta la sua vita non ha mai portato soldi addosso, li tenevano in posti lontani dai luoghi della vita. I soldi sono sempre stati considerati sporchi". E le figure di questi anziani nel libro sono davvero meravigliosamente epiche. A tratti si avverte, e Nicolai conferma, che il libro è passato a vaglio dell’attento lavoro degli editor pur conservando, a volte, delle asperità, dei punti dove la lingua inciampa; ed è proprio lì che lo stile ibrido di un uomo che pensa in siberiano e scrive in italiano, lo stile personalissimo che gli scrittori migranti elaborano, esce in tutta la sua pura ingenuità e bellezza. Lilin costruisce un mondo con la sua scrittura e questo fa di lui non un semplice testimone ma uno scrittore vero e proprio.
A volte viene da pensare, ascoltando Nicolai, che serbi una visione mitizzata degli Urka, parola che a chiunque abbia letto i libri di Solgenicyn, Herling o Salamov sui gulag ricorda invece il peggior incubo per i detenuti normali: stupro, furto, percosse. Eppure il mondo che Lilin racconta sembra essere un altro, sembra partire da premesse differenti offrendo la possibilità di osservare quel mondo da una prospettiva inedita. Essere un Urka, racconta Lilin, era un marchio che ti portavi dietro ovunque: "Quando ero piccolo e uscii dalla Moldavia con mia madre, alla dogana un ufficiale vide che ero nato in Transnistria e, seppure fossi un bambino, mi fissò negli occhi e disse, ’Delinquente!!!’. Bastava venire da lì". Eppure c’è nel codice degli Urka siberiani l’assoluta necessità di dire sempre la verità. La menzogna è punita. "Devi essere vero, sempre e comunque devi essere vero. Mi hanno insegnato a dire la verità sempre. Spesso i poliziotti russi quando arrestavano degli Urka li riprendevano mentre li interrogavano. Quando dicevano sei un criminale loro dovevano rispondere si, se rispondevano no era una condanna a morte tra tutti gli Urka. Un Urka non mente mai". Anche quando la verità significa una condanna alla galera.
Nicolai Lilin si riconosce assolutamente nella tradizione degli Urka: "Sono un criminale onesto" dice, contrapponendo un mondo ormai tramontato, che cerca di far rivivere attraverso il suo racconto, alla Russia di oggi, completamente allo sbando. "Nelle mie zone tutti chiedono il pizzo, per qualsiasi cosa bisogna pagare. È lecito aspettarsi una richiesta di tangente per documenti, viaggi, permessi, per tutto ciò che nel mondo occidentale, in un mondo che si dice civile, dovrebbe essere dovuto". Nicolai è grato all’Italia, o almeno alla parte d’Italia dove lui vive, e nel suo discorso è possibile rintracciare anche quanto relativo sia il concetto di diritto. "Qui puoi avere un documento senza pagare tangenti, qui se vieni derubato puoi sporgere regolare denuncia, e sai che ci sarà qualcuno ad ascoltarti, a difenderti, a far valere i tuoi diritti di cittadino. In Russia e in Moldavia tutto è corruzione, politica, burocrazia, tanta prostituzione, racket, droga. Paesi marci. Mio nonno diceva spesso: credo che non esista né inferno né paradiso, semplicemente se ti comporti male rinasci in Russia".
Nessun urka siberiano vorrebbe essere chiamato mafioso. La mafia russa è una categoria generica, enorme, quasi inesistente. Ci sono le famiglie di Mosca, quelle di San Pietroburgo, la mala cecena e quella georgiana potentissima in Usa, poi ci sono le famiglie dell’Azerbaigian. I siberiani non si riconoscono in nessuna di queste organizzazioni, non sentono neanche di essere gang, clan o organizzazioni. Il loro codice di vita è la loro casa. "Una volta mio nonno mi ha raccontato che fu arrestato un pedofilo, uno di quelli a cui piacevano molto le bambine piccole e anche i bambini. Gli Urka quando fu arrestato lo trattarono con rispetto. Andarono da lui, gli diedero una corda fatta con le lenzuola e gli dissero: ’Hai cinque ore per impiccarti, se non lo fai ognuno di noi prenderà un pezzo di te e lo strapperà"".
Una delle parti più belle del libro è il racconto dei tatuaggi. Il tatuaggio è un codice per raccontare il carattere di una persona e il percorso della sua vita, il tatuaggio degli urka siberiani è un’eredità antica che viene da molto lontano. Il tatuaggio tradizionale siberiano è un codice segreto, nato in epoca pre-russa e pre-cristiana. I primi briganti nomadi della foresta, gli Efei, si tatuavano per potersi riconoscere, lungo le grandi strade della Siberia dove assaltavano i convogli provenienti dalla Cina e dall’India. I tatuaggi quindi erano un modo per non farsi assalire da "colleghi", e un modo muto per rendersi fratelli. Quando si diffuse il Cristianesimo, il tatuaggio criminale siberiano adottò i simboli della nuova religione: gli Efei si confondevano così con i pellegrini, che erano poveri e, non potendo acquistare croci, catene e immagini sacre, se le tatuavano. Con la formazione dello stato russo, lo Zar decise di sbarazzarsi degli Efei; ma i più irriducibili di loro, gli Urka, ostili a qualsiasi potere, si rifugiarono nella Taiga dove organizzarono una dura resistenza che fu spezzata soltanto dopo secoli, dai comunisti. Nel libro sono meravigliose le pagine dove Lilin racconta come il tatuatore sia una figura speciale, quasi un sacerdote. Per i siberiani puoi diventare tatuatore solo su autorizzazione di un anziano maestro; Lilin scelse all’età di 12 anni di divenire allievo del più esperto della sua città. Era bravo a disegnare, i suoi disegni venivano richiesti per farne tatuaggi, ma aveva bisogno di imparare l’antica arte del tatuaggio tradizionale, eseguito a mano con le bacchette, non con la macchinetta elettrica. A 18 anni, ultimato l’apprendistato, il suo maestro lo nominò tatuatore.
Un corpo siberiano tatuato è un libro misterioso, che pochi sanno leggere: i singoli simboli assumono un preciso significato solo se messi in relazione tra loro, nelle rispettive posizioni. "Si tratta di una grande tradizione, - dice Nicolai - alla quale sono orgoglioso di appartenere". Per un siberiano il tatuaggio è un processo lungo che dura tutta una vita. Iniziano a tatuarsi all’età di dodici anni e soltanto dopo aver passato una vita, con tutto ciò che può essere a vita di un Urka, la loro storia potrà essere letta sui loro corpi. Schiena e petto sono tatuate solo alla fine, dopo i cinquant’anni.
Nicolai è completamente rivestito di tatuaggi. Imprudentemente gli chiedo di raccontarli e ottengo una risposta che non mi aspetto. "Raccontare i tatuaggi è disonesto. I tatuaggi sono un linguaggio muto, ci si tatua proprio per evitare di parlare. Solo un siberiano può capire. Chi racconta uccide la tradizione, e rischia di essere ucciso". Il tatuaggio siberiano è divenuto quasi un tatuaggio pop e il cinema ha cercato di raccontarlo, ma Nicolai è molto scettico: "Il film di Cronenberg ("La promessa dell’assassino", ndr) è tutta una farsa. Il tatuaggio siberiano è morto con i siberiani. È una menzogna, dal film sembra quasi che tutti gli affiliati russi si tatuino, ma non è così. Quei tatuaggi li hanno solo alcuni, come per esempio Seme Nero". Seme Nero è un clan che si tatua ma è un gruppo che vive in carcere. Non possono avere rapporti sessuali, non possono avere famiglia, quando escono dalla galera fanno di tutto per rientrarci. Sono cosche di criminali spesso create dalla polizia per controllare le carceri, criminali comuni entrano in Seme Nero e divengono come una casta che governa in cella su tutti. Ma queste storie che rimbalzano intorno al libro di Lilin sono satelliti rispetto al suo obiettivo, quello di raccontare la palestra, la tana delle tigri siberiane in cui viene a formarsi un giovane Urka, stirpe estinta di antico guerriero.
L’educazione siberiana è un’educazione antica quasi sciamanica, disciplinata. Chiedo a Nicolai della morte, che per tutto il libro è sempre vista come una compagna di vita, come qualcosa che sta lì pronta ad aspettarti né terribile né amica. C’è e basta. "Io ho ucciso Roberto, ho ucciso un bel po’ di persone. Ma non sento dolore, o meglio sento che ero costretto a farlo, ero un militare in Cecenia, e dovevo sparare. Ho ucciso e ho sentito la morte tante volte vicina a me. Ma anche su questo la mia gente mi ha insegnato a capire la morte, a conoscerla e a non sentirla come qualcosa di strano. Qui nessuno vuole morire. Io se voglio la vita so che devo volere anche la morte". Gli chiedo se ora vuol solo fare lo scrittore e vuole smettere di tatuare. "Mi sono un po’ stancato. Continuare a raccontare storie con le parole mi piacerebbe di più che continuare a bucare pelle...".
Me ne vado con la certezza che il racconto e la memoria possono salvare un mondo e permettere di mappare una sorta di percorso che pericolosamente ci dice: il peggio è ancora da venire e laddove si perdono le regole si perde tutto ma, come scrive Lilin, il motto degli Urka siberiani è ancora vivo: "C’è chi la vita la gode, chi la subisce, noi la combattiamo".
© 2009 by Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara
Literary Agency
* la Repubblica, 3 aprile 2009
“Non si scherza con i santi. Sul declino dello spirito critico in Italia”. “Eroi di Carta”, seconda edizione.
di Alessandro Dal Lago (fb, 27 settembre alle ore 7:15
La bestia contro Saviano - Forse qualcuno si ricorderà che nel 2010 un mio libretto sul libro Gomorra (“Eroi di carta”) è stato accolto da roventi polemiche. Peggio: da giornalisti di “Repubblica” (Sofri), “Il fatto quotidiano” (Travaglio), l’”Espresso” (Goldkorn) sono stato accusato di vari crimini critici, e in sostanza di gettare fango sull’eroe anti-camorra. Nessuna di queste testate si è sognata di concedermi una replica, né ha analizzato le mie posizioni. Anzi, in un intervento sul “Fatto quotidiano” che non esito a definire infame, Paolo Flores d’Arcais ha dichiarato anche non avrebbe letto il mio libro e invitava chiunque a non leggerlo. Secondo me la piaggeria nei confronti di “Repubblica” e del suo eroe da parte di noti giornalisti ha toccato vertici surreali, come quando Deaglio ha dichiarato: “Sarebbe capace Dal Lago di scrivere “Gomorra”? Persino “Il manifesto”, su cui pubblicavo da 35 anni, ha preso posizione contro di me, pur dandomi lo spazio per replicare.
Ma non voglio riesumare una questione ormai invecchiata (se qualcuno è interessato può consultare la mia postfazione a “Eroi di Carta”, seconda edizione, dal titolo “Non si scherza con i santi. Sul declino dello spirito critico in Italia”). Tuttavia, le reazioni del gruppo "Repubblica- Espresso” alla feroce stroncatura di “ZeroZeroZero” da parte di “Daily Beast” meritano un commento. Nessuno è intervenuto nel merito. A cominciare da Saviano che si arrampica sugli specchi e alla fine chiama in causa la solita volontà di bloccare il suo “discorso” contro il crimine (e perché mai lo farebbe il “Daily Beast”?). Una difesa lagnosa e fuori fuoco esattamente come la reazione di Gad Lerner sul suo blog che, invece di entrare nel merito delle critiche, se la prende con il “gregge di giornalisti scopiazzatori, altro che Saviano”.
Le accuse di plagio a Saviano del “Daily Beast” sono circostanziate e chiunque può consultarle online. Ma quello che ni è interessa è l’’incapacità in Italia di criticare l’eroe e i suoi due libri. Mark Bowden aveva parlato più o meno negli stessi termini di “ZeroZeroZero” sul “New York Times”. Non è escluso, conoscendo il giornalismo Usa, che le stroncature si moltiplichino. E che qualche causa sia intentata contro Saviano da parte degli autori dei testi saccheggiati.. Ma ci esce peggio da questa vicenda sono i giornalisti alla Lerner, Fazio, Travaglio, Flores ecc. che, da quando Saviano è diventato un eroe anti-berlusconiano, vero o presunto (perché ha continuato a incassare i diritti di Mondadori), hanno chiuso gli occhi sui due libri, “Gomorra” e “ZeroZeroZero”, assolvendoli a prescindere da qualsiasi critica - avrebbe detto Totò .. Il potere mediale non è solo berlusconiano...
Roberto Saviano, il Marchio Civile Multimediale
Non basta essere simbolo, guru o profeta per avere uno stile
di Aldo Grasso *
Il presente di Roberto Saviano non è piacevole, il futuro pieno di incognite. Com’è noto, il giornalista Michael Moynihan, sul Daily Beast, ha accusato Saviano di plagio e altre scorrettezze apparse nel suo ultimo libro sul narcotraffico: ZeroZeroZero. In verità, qualche accusa era già uscita in Italia (anche ai tempi di Gomorra, con strascichi in tribunale). La risposta di Saviano (grande rispetto per la condizione in cui vive) è parsa molto fragile. Prima l’ha buttata su una discutibile forma di deontologia professionale: «Le informazioni sono di dominio pubblico e non appartengono a nessun giornale perché sono fatti. Le analisi appartengono a chi le elabora e quelle vanno citate».
Con buona pace di chi le notizie le scova. Poi sul suo ruolo di Coscienza Sociale: «Perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole... diventano visibili... Fiero dell’odio e della diffamazione... difenderò sempre il mio stile letterario». Stile letterario? Uhm! Non basta essere simbolo, guru o profeta per avere uno stile. Quello del primo libro è ben diverso dal secondo (che di letterario ha poco, anche se si presenta come romanzo-verità). Il problema sta nel terzo libro: Saviano sarà il corifeo di un New Journalism, uno scrittore in cerca d’Autore o un Marchio Civile Multimediale?
Il bisogno di mandare in galera gli scrittori
di Ascanio Celestini (comune-info, 21 settembre 2015)
Erri De Luca se ne va in galera?
È un bravo scrittore o un incitatore di violenti?
E quale peso hanno le parole?
E quanto ci si accanisce contro di esse per paura di confrontarsi con la realtà?
Qualche giorno fa scriveva “lunedì prossimo, 21 settembre, entra l’autunno e io rientro nell’aula del processo” questo scriveva quello scrittore qualche giorno fa.
Oggi il pm Rinaudo ha chiesto otto mesi di galera perché “nelle interviste rilasciate pubblicamente ha commesso incitazione a commettere il sabotaggio” e “quando De Luca parla, le sue parole hanno un peso determinante soprattutto sul movimento”.
Allora le scrivo io caro Rinaudo. Signor pm lei ha letto i libri che doveva leggere per passare gli esami. Certamente era uno bravo e si è preso una laurea importante. Ma davvero crede che una rete venga tagliata perché Erri De Luca dice che non è un reato farlo? È così che si gioca con la legge? Sono giochi di parole?
Io scrivo e vorrei che le parole degli scrittori fossero davvero così tanto potenti, ma purtroppo non è così. I poeti possono dire quel che vedono, ma non prevedono molto e tanto meno muovono le masse. E per fortuna!
Ora vada a farsi un giro in valle (non la sto mandando a quel paese, ma solo in quella valle). Vada a parlare con quelli che ci vivono e comprenderà che in quella valle si tagliano le reti perché gli abitanti si sentono derubati della loro terra, non perché glielo dice Erri De Luca.
Ci vada. Non ci stia a ragionare troppo. I libri con le leggi li conosce a memoria. Ora porti le sue leggi tra le persone vive e non le applichi come se fossero teorie equilibristiche buone per passare gli esami e portarsi un pezzo di carta a casa.
Sappia che gli scrittori possono raccontare la realtà, ma difficilmente riescono a provocarla. Lei vuole condannare De Luca e si dimentica (o non lo sa e non lo vuole sapere) che ha detto semplicemente ciò che accade. Ma quale paura c’è dietro la sua richiesta di condanna? Ci pensi. Lo faccia per un minuto, poi torni alle sue sacre scritture penali. Ha paura della realtà o delle parole che la raccontano? Baci!
LE IDEE. Lettera a Renzi: lei ha il dovere di intervenire e ancora prima di ammettere che nulla è stato fatto. Ci sono tante persone che resistono: le ringrazi una a una. Liberi gli imprenditori capaci da burocrazia e corruzione.
Caro premier, il Sud sta morendo. Se ne vanno tutti, persino le mafie
di Roberto Saviano (la Repubblica, 01.08.2015)
Caro Presidente del Consiglio Matteo Renzi, torno a scriverle dopo quasi due anni e lo faccio nella speranza di poter ottenere una risposta anche questa volta. La prima volta Le scrissi quando il suo governo aveva appena iniziato la propria azione di "riforma radicale della società italiana". Oggi non si può certo pretendere dal Suo esecutivo la soluzione di problemi endemici come la "questione meridionale": ma non ci si può neppure esimere dal valutare le linee guida della sua azione.
Game Over. Questa è la scritta immaginaria che appare leggendo il rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno. Game Over. Per giorni i media di tutti il mondo sono stati con il fiato sospeso in attesa di un accordo che scongiurasse l’uscita della Grecia dalla zona euro: oggi apprendiamo che il Sud Italia negli ultimi quindici anni ha avuto un tasso di crescita dimezzato rispetto a quello greco. La crisi è ben peggiore: ed è nel cuore dell’Italia. Il lavoro come nel 1977, nascite come nel 1860.
Tra i fattori di grave impoverimento della società meridionale ci sono il decremento del tasso di natalità e l’aumento esponenziale della emigrazione che coinvolge sopratutto i giovani più brillanti: quelli formati a caro prezzo, nelle tante Università meridionali, funzionali più agli interessi dei docenti che a quelli degli studenti.
Ci sono meno nascite perché un figlio è diventato un lusso e averne due, di figli, è ormai una follia. Chi nasce, poi, cresce con l’idea di scappare: via dalla umiliazione di non vedere riconosciute le proprie capacità. Questo è diventato il meridione d’Italia: spolpato dai tanti don Calogero Sedara che non si rassegnano ad abbandonare il banchetto dell’assistenzialismo.
Ed è in questo contesto che si ripopongono nostalgie borboniche: l’incapacità del governo e la non linearità della sua azione resuscitano bassi istinti già protagonisti della nostra storia.
"Fate Presto" era il titolo de Il Mattino all’indomani del terremoto del 1980. Andy Wharol ne fece un’opera d’arte. E oggi quella prima pagina si trova a Casal di Principe, in un immobile confiscato alla criminalità organizzata, che ospita una esposizione patrocinata dal Museo degli Uffizi di Firenze. Le consiglio di andarci, caro premier: Le farebbe bene camminare per le strade del paese, Le farebbe bene vedere con i suoi occhi quanto c’è ancora da fare e come il tempo, qui, sia oramai scaduto. Per com’è messo, oggi, il Sud Italia, anche quel "Fate Presto" è ormai sintesi del ritardo.
Potrei dunque dirLe che agire domani sarebbe già tardi: ma sarebbe inutile retorica. Le dico invece che - nonostante il tempo sia scaduto e la deindustrializzazione abbia del tutto desertificato l’economia e la cultura del lavoro del Mezzogiorno - Lei ha il dovere di agire. E ancora prima di ammettere che ad oggi nulla è stato fatto. Solo così potremo ritrovare la speranza che qualcosa possa essere davvero fatto.
Le istituzioni italiane devono infatti chiedere scusa a quei milioni di persone che sono state considerate una palla al piede e, allo stesso tempo, sfruttati come un serbatoio di energie da svuotare. Sì, qualche tempo fa c’è stato pure chi ha pensato di tenere il consiglio dei ministri a Caserta, a Napoli. Ma di che s’è trattato? Di pura comunicazione: nient’altro. Che cosa ha invece opposto la politica italiana al dissanguamento generato dalla crisi? Dal 2008 a oggi contiamo 700mila i disoccupati in più. Sono certo che Lei mi risponderà che la Sua riforma del mercato del lavoro va in questa direzione: vuole fermare il dissanguamento. Ma a me corre l’obbligo di dirLe che anche una buona riforma - e se quella attuale lo è lo capiremo solo negli anni - può generare effetti perversi se calata in un sistema-Paese claudicante.
Nel frattempo, la retorica del Paese più bello del mondo ha ridotto il Mezzogiorno a una spiaggia sulla quale cuocere al sole di agosto: per poi scappar via. Ammesso che ci si riesca ad arrivare, su quella spiaggia, dato che - come è accaduto alla Salerno-Reggio Calabria - si può incapparei interruzioni sine die (secondo le indagini, tra l’altro, frutto ancora una volta della brama di denaro da parte di funzionari infedeli). Non creda che nelle mie parole ci sia rancore da meridionalista fuori tempo: ma, mi scusi, che cosa crede che sarebbe successo se le interruzioni avessero riguardato un’arteria cruciale del nord Italia?
Troppe volte ho sentito dire che è ormai inutile intervenire. Che il paziente è già morto. Ma non è così. Il paziente è ancora vivo. Ci sono tantissime persone che resistono attivamente a questo stato di cose e Lei ha il dovere di ringraziarle una ad una. Sono tante davvero. E tutte assieme costituiscono una speranza per l’economia meridionale. E Lei che ha l’ingrato ma nobile compito di mostrare che è dalla loro parte: e non da quella dei malversatori. Tra i quali, purtroppo, si annidano anche coloro che dovrebbero rigenerare l’economia.
Massimiliano Capalbo si definisce imprenditore "eretico" e legge nella desertificazione industriale un elemento positivo. Se desertificazione significa che impianti come l’Ilva di Taranto o la Pertusola di Crotone o l’Italsider di Bagnoli scompariranno dalle terre del Sud, questa - argomenta gente come Capalbo - può essere anche una buona notizia: vuol dire che il Sud potrà crescere diversamente. Aiutare il Sud non vuol dire continuare ad "assisterlo" ma lasciarlo libero di diventare laboratorio, permettergli di crescere diversamente: con i suoi ritmi, le sue possibilità, le sue particolarità. Non dare al Sud prebende, non riaprire Casse del Mezzogiorno, ma permettere agli imprenditori con capacità e talenti di assumere, di non essere mangiati dalla burocrzia, dalle tasse, dalla corruzione. La corruzione più grave non è quella del disonesto che vuole rubare: la vergogna è quella dell’onesto che - se vuole un documento, se vuole un legittimo diritto, se vuole fare impresa o attività - deve ricorrere appunto alla corruzione per ottenere ciò che gli spetta. A sud i diritti si comprano da sempre: e Lei non può non ricordarlo.
No, non mi consideri alla stregua del radicalismo ciarliero tipico dei figli dei ricchi meridionali, i ribelli a spese degli altri. Il vittimismo meridionale, quello che osserva gli altri per attendere (e sperare) il loro fallimento e giustificare quindi la propria immobilità è storia vecchia. Va disinnescato dando ai talenti la possibilità di realizzarsi. Provi a cogliere le mie parole come la "rappresentanza" di una terra che smette di essere al centro dell’attenzione qundo non si parla di maxiblitz o sparatorie (tra parentesi, perché non è questo l’oggetto di della discussione: tanti studi ormai spiegano che certi exploit della violenza criminale al Sud siano anche l’"effetto" di "cause" dall’origine geografica ben più lontana).
Caro Presidente del Consiglio, parli al Paese e spieghi che cosa pensa di fare per il Sud. Lei deve dimostrare di saper comprendere la sofferenza di un territorio disseccato: solo allora avrà tutto il diritto di chiedere alla gente del Sud di smetterla con la retorica della bellezza per farsi davvero protagonista di una storia nuova - costruita camminando sulle proprie gambe. A Lei, quale più alto rappresentante della politica italiana, spetterà dunque il compito di levare ogni intralcio a questo cammino. E i progetti dovranno naturalmente essere concreti. Permette un paradosso? E’ un tristissimo paradosso. Dal Sud, caro primo ministro, ormai non scappa più soltanto chi cerca una speranza nell’emigrazione. Dal Sud stanno scappando perfino le mafie: che qui non "investono" ma depredano solo. Portando al Nord e soprattutto all’estero il loro sporco giro d’affari. Sì, al Sud non scorre più nemmeno il denaro insaguinato che fino agli anni ’90 le mafie facevano circolare...
Il Sud è scomparso da ogni dibattito per una semplice ragione: perché tutti, ma proprio tutti, vanno via. Quando milioni di italiani partirono da Napoli per le Americhe. Lei lo sa che cosa succedeva al molo dell’Immacolatella? Le famiglie si presentavano con un gomitolo di lana: le donne davano un filo al marito, al figlio, alla figlia che partiva. E mentre la nave si allontanava, il gomitolo si scioglieva, girando nelle mani di chi restava. Era un modo per sentirsi più vicini nel momento del distacco. Ma anche per dare un simbolo al dolore: al distacco immediato. La speranza era che quel filo che i migranti conservavano nelle tasche potesse continuare a essere mantenuto dai due capi così lontani.
Faccia presto, caro Presidente del Consiglio, ci faccia capire che intenzioni ha: qui ormai s’è rotto anche il filo della speranza.
La lectio al Salone del libro di Torino
L’oscura forza della parola fra dogmi e dissenso
di Franco Cordero (la Repubblica, 15.05.2015)
I GRECI disponevano d’un magnifico strumentario lessicale, sintattico, stilistico. Dio sa quanta fatica vi abbiano speso, rileva Nietzsche: la semplicità satura e limpida, rara nello scambio linguistico, è eroicamente artificiale; in natura la parola esce confusa, sconnessa, ridondante, oscura (...). I verbi oráo, e idon, oida descrivono effetti visivi: e idos è la cosa vista; siamo nel mondo delle forme, ma alla visione intellettuale ostano barriere emotive, oblio, sonno amniotico.
E poi postulati rassicuranti, comodi automatismi, ogniqualvolta l’argomento sia insopportabile, cominciando dalla condanna biologica sotto cui ogni animale viene al mondo. Nel frammento d’Anassimandro (sesto secolo ante Christum) il mondo terrestre è flusso perpetuo: gl’individui escono dalla matrice e vi tornano; individuandosi commettevano adikía, un sopruso punito dal deperimento letale, sicché ogni esistente nasce bacato. Sotto, pulsa una materia viva smisurata, ápeiron, da cui emergono in strutture varianti gli scenari mondani per riaffondarvi: eravamo pesci; e niente assicura un futuro all’homo sapiens; forse ominidi microcefali serviranno sotto squali, corvi, topi. Non l’ha detto ma è arguibile.
Sappiamo come nasca la tragedia: Prometeo o Edipo impersonano Dioniso dilaniato dai Titani, allegoria d’una scissione nella materia primitiva. La sapienza dionisiaca cerca riflussi all’indistinto. Il coro danza, suona, canta, scatenando tempeste emotive: gli attori recitano trame, uno, poi due, infine tre (il quarto rimane muto); e l’arte apollinea fissa l’evento. Euripide addomestica la musica in melodramma: finissimo critico, psicologo, dialettico, narratore, porta gli spettatori sulla scena (un Flaubert più abile nel dipanare storie); istruisce il coro, regista ante litteram.
Nei prologhi un deus ex machina rievoca l’antefatto e talora interviene con effetti risolutivi (ad esempio, Atena nell’ Ifigenia in Tauride ). L’artista vela la realtà. Lo sguardo analitico opera disvelamenti senza venirne a capo, illuso d’averla afferrata e addirittura corretta. Desta sgomento l’Io profondo. Non esiste tormento più spietato dell’insonnia «tête-àtête avec soi-même», dove non valgono consolazioni diurne (Emile Cioran, gnostico disfattista: Exercises d’admiration, Oeuvres, « Pléiade», 2011, 1234s.); e qui fa testo Pascal. È impresa temeraria l’abisso introspettivo (...). La Morte e il Diavolo accompagnano gli uomini, la cui futile difesa consiste nel fingere che non esistano. Lo spirito dionisiaco soffia nell’impassibile Cavaliere inciso da Albrecht Dürer. Insomma, il pensiero ha motivi inibitori endogeni. Arte, conforto intellettuale, divertimenti forniscono un malinconico placebo al male d’esistere.
L’imposizione dogmatica è prassi diffusa in ambiente ecclesiastico, teista o ateo, qual era il Partito comunista (...). Richard Simon e Alfred Loisy, biblisti in chiave critica, escono quasi incolumi, ma dove l’ ecclesia sia abbastanza forte, l’affare diventa grave. L’aragonese Miguel Serveto a vent’anni confutava le sciarade teologali, De Trinitatis erroribus libri septem, e nel quinto descrive la circolazione del sangue precedendo d’un secolo William Harvey. In Francia professa l’arte medica. En passant sfida Calvino al contraddittorio pubblico: se viene, è uomo morto, sibila lo sfidato; esiste l’orribile lettera a Guillaume Farel, 13 febbraio 1546. Sette anni dopo, pubblica a spese sue, più 100 scudi, Christianismi restitutio in 800 copie, e l’avversario complotta un perfido intrigo epistolare presso l’inquisitore cattolico. Evaso dalla prigione, Serveto gli cade sotto le unghie. Aveva il rogo nei cromosomi. L’unico dubbio è se meriti una pena capitale addolcita (taglio della testa): a maggioranza, il consiglio ginevrino gliela nega; e venerdì 27 ottobre 1553 lo bruciano vivo.
È sanguinario l’ homo ecclesiasticus. Da Berna, Zurigo, Sciaffusa, autorità religiose chiedevano una condanna esemplare. Esulta Melantone, delicato umanista luterano: era iudicium Dei ; Gesù Cristo incorona il vincitore; grazie a nome della Chiesa presente e futura. Tre secoli dopo, Benedetto Croce narra che fosse in pericolo il futuro della libertà, insidiato dall’anarchia intellettuale, e Calvino l’abbia difeso ( Vite d’avventure, di fede e di passione , Laterza, 1953, terza ed., 217-20). Così declamano gli ecclesiarchi, siano Roberto Bellarmino S. J. o György Lukács, cardinali nelle rispettive chiese, come Andrey _ danov, Palmiro Togliatti, Alfredo Ottaviani et ceteri . Che i roghi calvinisti portino progresso, diversamente dagli spagnoli, è dialettica da Politburo. Cappellani stalinisti giustificano le purghe sostenendo che salvino l’Urss da Hitler. Gli avvocati del diavolo hanno l’argomento facile. Stavolta appare tale anche Benedetto Croce: dogmi, spie, polizie segrete, censure, anatemi, patiboli non allevano culture né industria o commerci, tanto meno «pensiero libero» o «etica moderna»; altrettanto indecorosa suona l’apologia dell’Inquisizione, «veramente santa» quale forma storica d’una salutare pressione sui «manipolatori d’errori» ( Filosofia della pratica, Laterza, 1963, ottava ed., 240s.).
Salvano l’onore umano i dissidenti. Mani anonime (Sebastiano Castellione, Celio Se- condo Curione, Lelio Sozzini) compilano una summa delle opinioni liberali in materia d’idee, dai Padri agli autori contemporanei ( De haereticis an sint persequendi , per Georgium Rausch, Magdeburgi, sotto lo pseudonimo Martinus Bellius, primavera 1554).
Meglio vivere nascosto in Italia che sotto la polizia calvinista, esclama Camillo Renato in un carme latino. È Matteo Gribaldi Mopha l’«Italus iurisconsultus celeber» evocato da Castellione nel Contra libellum Calvini: disputava in duro e rischioso dissenso dai persecutori nei giorni del processo; aveva cattedra a Padova. Due anni dopo se ne va, «ob monachorum insidias»: lo chiama Tubinga ma ormai è vita impossibile; subirà l’ultimo sfratto dal cattolico Francesco Guisa, Governatore del Delfinato nella cui Università insegnava ius civile, in guerra con i praticoni. Gli antitrinitari italiani lasciano un’eredità gloriosa. Spicca la componente piemontese: Gribaldi nasce a Chieri; Curione a Ciriè; Giorgio Biandrata, insigne medico, viene da Saluzzo. (...).
I dogmi inducono atrofia logica. La censura espelle idee confiscando le parole con cui pensarle, ma non impedisce i rumori vocali, anzi li moltiplica fornendo una lingua automatica, i cui utenti differiscono solo nel gesto, dal bisbiglio all’ululato: fosse autentica, la verità ufficiale s’imporrebbe da sola; invece le formule suonano tanto più perentorie quanto meno dicono. I programmi regolano un sonnambulismo diurno dove ogni cosa muta secondo decreti dall’alto; e magari tra le verità imposte c’è che il relativismo sia vizio imperdonabile. Gli assuefatti bevono tutto, anche 2+2=5, né basta dirlo; devono esserne convinti (càpita a Winston Smith in Nineteen eightyfour). L’effetto selettivo tocca i cromosomi a livelli profondi, oltre le consuete categorie sociali, quali politica o religione. L’apparato teme lo sguardo intellettuale, quindi condanna arsenale analitico e parola chiara. Contese cannibalesche vagliano il personale: è concorrente idoneo chiunque abbia toupet, loquela, spiriti animali, intuito delle occasioni; vigono i canoni «amico»-«nemico», con larghi spazi aperti al dialogo diplomatico.
Verità nascoste
Todorov: “Se il capolavoro nasce in un clima di terrore”
Da Bulgakov a Pasternak, a Vasilij Grossman i grandi romanzi sovietici scritti in segreto
di Tzvetan Todorov (la Repubblica, 04.07.2013)
I regimi totalitari che hanno proliferato in Europa nel corso del XX secolo hanno impedito ai loro popoli di cercare da soli la verità: quella relativa alla società in cui vivevano, quella nascosta nell’intimo di ognuno o anche quella riguardante il mondo fisico circostante. Al posto della libera e autonoma ricerca della verità, vigeva la docile sottomissione ai diktat del Partito al potere.
Vittime di un tale sistema coercitivo, gli artisti e gli scrittori sudditi degli Stati totalitari sono stati costretti a scegliere tra linee di condotta diverse. Alcuni hanno sposato il dogma ufficiale, come se esso corrispondesse alle loro più profonde convinzioni in materia di verità e di giustizia. Altri hanno optato per il silenzio, ossia hanno rinunciato a qualunque tipo di libera espressione, vale a dire alla loro vocazione primaria. Altri ancora hanno scelto l’esilio (...). In ultimo, un gruppo relativamente poco numeroso di scrittori e di artisti si è adoperato a percorrere una strada diversa, quella che consiste nel vivere una doppia vita: un’esistenza pubblica conforme agli obblighi ufficiali, e un’altra del tutto privata, interiore, nascosta, votata alla produzione di un’opera libera da ogni condizionamento esterno.
È un tipo di sdoppiamento che si è verificato perlopiù in Unione Sovietica. Ci sono tre famosi romanzi sovietici che sono stati scritti in queste condizioni: Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, Il Dottor Zivago di Boris Pasternak, Vita e destino di Vasilij Grossman. Tutti e tre gli scrittori nominati ammettono la possibilità che della loro opera venga vietata la pubblicazione, o quella di essere puniti per l’audacia dimostrata nel dedicarvi la propria vita; eppure tutti e tre procedono instancabilmente nella sua stesura.
Bulgakov concepisce l’idea del proprio romanzo intorno al 1928, scrive una prima versione frammentaria e ne dà subito lettura a un gruppo di amici - tra i quali, secondo una legge statistica dell’Urss, è presente almeno un delatore. E infatti nello stesso 1928 un rapporto dettagliato sulle reazioni degli ascoltatori alla lettura di Bulgakov approda negli uffici della polizia politica: i presenti si sono resi conto all’istante che il libro è impubblicabile in quella forma, e che gli attacchi contro la società contemporanea in esso contenuti sono troppo brutali.
Dopo aver terminato una prima versione, Bulgakov la fa avere alla moglie con la seguente annotazione:«Mettila nel comò, dove già riposano in pace le mie commedie assassinate ». Tuttavia non manca di aggiungere: «In ogni caso non conosciamo il futuro che ci aspetta». E continua a correggere il romanzo fino alla morte, avvenuta nel 1940.
Ventisei anni dopo, nel 1966-1967, le sue speranze si realizzano. La vedova - la quale avrebbe dichiarato: «Pur di far pubblicare i libri di Misha mi sarei concessa a chiunque» - riesce a vincere le resistenze e a far uscireIl Maestro e Margherita, sia pure con qualche taglio, nella stessa Unione Sovietica. Il libro è talmente in contrasto con tutte le pubblicazioni ufficiali che l’effetto è esplosivo: scrivendo in segreto, senza mirare alla pubblicazione immediata, lo scrittore ha prodotto un’opera più vera di tutte quelle dei colleghi.
Pasternak sogna di scrivere un’opera in prosa dedicata alla storia della sua generazione, quella degli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, ma solo all’indomani della vittoria sul nazismo e della presa di coscienza che tale trionfo non sta arrecando alcun miglioramento alle condizioni di vita della popolazione sovietica, s’impegna nella realizzazione del progetto che gli sta a cuore.
Ancor più di Bulgakov, sul cui destino non ha mancato di riflettere, è consapevole di dover scegliere tra due obiettivi: cercare la verità in piena solitudine o proporsi di raggiungere il pubblico del suo tempo. «Devo rinunciare a una parte della mia identità, se intendo realizzare qualcosa di autentico», scrive alla ex moglie, facendole capire che, se vuole sentirsi libero, il prezzo da pagare è quello. E aggiunge: «Per la prima volta in vita mia ho voglia di scrivere qualcosa divero» - il che equivale a tenerlo nascosto. È una decisione che procura a Pasternak uno stato di beatitudine della durata di dieci anni, dal 1945 al 1955, in pratica il decennio della stesura del romanzo.
Dopo aver rinunciato alla propria personalità pubblica, Pasternak ha la sensazione di coincidere pienamente con se stesso, sa dove si trova la verità e quale ruolo gli sta riservando il destino. La morte di Stalin, nel 1953, il timido processo di destalinizzazione inaugurato da Kruscev scuotono un poco la sua decisione, ma non al punto da farlo desistere dall’impresa. «Il mio romanzo non può essere accettato per come è ora», scrive a un amico, e aggiunge: «Eppure deve essere stampato così com’è: inaccettabile».
Sappiamo com’è andata: il clima di “disgelo” gli fa ritenere che la pubblicazione sia diventata in qualche modo possibile e manda il manoscritto a una rivista, mentre il corrispondente italiano dell’Unità a Mosca, Sergio d’Angelo, lo convince a prestargliene una copia. La rivista sovietica rifiuta di pubblicarlo e Pasternak deve arrendersi all’evidenza: criticare il dogma ufficiale è inaccettabile e il divieto durerà finché durerà la dittatura del proletariato imposta dal comunismo.
Nel frattempo d’Angelo ha spedito il manoscritto a Feltrinelli, che lo pubblica in italiano nel 1957. E l’anno successivo l’autore riceve il premio Nobel per la Letteratura. (...) Grossman ha deciso di raccontare l’epopea di Stalingrado e della guerra condotta dai sovietici contro l’esercito tedesco nel momento stesso in cui hanno luogo le battaglie, che segue da vicino in qualità di corrispondente militare. Si mette al lavoro fin dal 1945, ma deve ben presto prendere atto che le autorità intendono scomporre in due il suo progetto. Un primo volume, intitolatoPer una giusta causa, è portato a termine nel 1949 e viene proposto al direttore di un rivista. Dopo molti tira e molla sarà pubblicato nel 1952, e immediatamente attaccato dalla stampa ufficiale. Nel frattempo Grossman ha iniziato la stesura del secondo volume dell’opera, quello che si chiamerà Vita e destino.
Ne ha rivelato l’esistenza e il contenuto solo a pochi amici intimi. Conclude il romanzo nel 1960 e, come Pasternak, s’illude che l’antistalinismo di Kruscev possa renderne possibile la pubblicazione. Il redattore capo della rivista alla quale spedisce il manoscritto si spaventa a tal punto per quello che sta leggendo da avere l’impressione di esserne contaminato; per evitarlo lo mette subito nelle mani della polizia politica. La quale, poco dopo, fa irruzione in casa dello scrittore, confisca tutte le copie del manoscritto di cui dispone e non risparmia neppure la macchina per scrivere (...).
Grossman non viene destinato al gulag, come sarebbe accaduto sotto la dittatura di Stalin. Un amico intimo dichiara: «Si tratta dell’arresto dell’anima senza il corpo - ma che cos’è mai un corpo senz’anima?» Le autorità si accontentano di convocarlo e di annunciargli che un’eventuale pubblicazione del suo libro sarebbe più nociva al regime di una bomba atomica (il più grosso complimento mai rivolto a un libro); potrà essere pubblicato, ma non prima di 250 anni! Perprudenza, Grossman ha nascosto altre due copie del libro in casa di amici fidati.
Dopo la sua morte (nel 1964), uno di loro decide di spedire il manoscritto all’estero, impresa che, in assenza di strumenti elettronici - e anche di fotocopiatrici - presuppone l’attivazione di una vera e propria rete di solidarietà. Il romanzo esce in Occidente nel 1980, in Urss nel 1988, ventotto anni dopo il suo compimento.
Tutti e tre i romanzi nominati, ognuno dei quali ha qualità e difetti di differente natura, sono stati scritti in piena libertà di coscienza, con la speranza pur fuggevole di una loro pubblicazione, ma anche con la ferma decisione dei loro autori di non scendere a patti, in caso di rifiuto. (...) Nel mondo della creazione artistica l’illusione della libertà atrofizza la ricerca personale; e le catene visibili diventano, per i più audaci, uno stimolo a impegnarsi nella ricerca della verità. Sta a noi trovare un mezzo meno doloroso di quello sperimentato dagli artisti del passato, per scuotere quell’illusione. (Traduzione di Sergio Arecco)
Anna Politkovskaja e gli altri trecento
Quanto costa la libertà in Russia
di Ludmila Ulitskaya (Corriere della Sera, 08.10.2012)
Prima di Eltsin in Russia - in Unione Sovietica - non c’erano mai stati omicidi politici di giornalisti. Perché non c’era libertà di parola. Paradossalmente, gli omicidi di giornalisti sono cominciati nell’era eltsiniana, che - comunque si consideri questo semi-riformatore - ha dato alla Russia la libertà di parola. Una libertà enorme, che il Paese non aveva mai conosciuto. La censura in Russia è stata abolita. Ed è difficile dire quando fosse nata. In ogni caso, il primo testo antico-russo che comprende un indice dei libri proibiti fu scritto nel 1079. Quasi mille anni fa.
La censura nel nostro Paese è quasi più antica dello Stato stesso. E tutt’a un tratto, dopo dieci secoli di controlli e divieti, dopo la censura religiosa e laica, imperiale e burocratica, dopo la crudele censura sovietica, ecco che nel 1991 la libertà di stampa è piovuta quasi dal cielo. Bisogna riconoscere che nell’ambito della creazione letteraria la fine della censura non ha avuto conseguenze particolarmente evidenti. E si capisce: la libertà interiore dello scrittore non dipende dall’autorizzazione dei potenti. In compenso nel giornalismo, nel campo dell’informazione di massa ci fu una rivoluzione. I giornali e le riviste divennero talmente interessanti che in quei primi anni Novanta la gente quasi smise di leggere libri.
La parola lasciata in libertà divenne un’arma a doppio taglio: le indagini giornalistiche rivelavano casi di corruzione, minacciavano i leader politici, scoprivano piccoli e grandi «bubboni» del nuovo potere che si andava affermando. Quanto più alto era il livello professionale raggiunto dai giovani giornalisti, tanto più rischiosa diventava la loro posizione. L’epoca degli assassinii politici di giornalisti ebbe inizio già nel 1993, e oggi la Russia è al terzo posto nel mondo per numero di giornalisti uccisi, dopo l’Iraq e l’Algeria.
La carriera giornalistica di Anna Politkovskaja cominciò proprio negli anni in cui si definiva la nuova contrapposizione fra i giornalisti e un potere che non aveva imparato a dialogare civilmente con i suoi oppositori. Anna Politkovskaja reagiva con passione e perfino con furia quando si scontrava con la corruzione, la menzogna e i crimini dei potenti. Fu la prima giornalista a dare un ritratto politico di Putin: un ritratto non certo lusinghiero. La pubblicazione in Gran Bretagna e successivamente in altri Paesi del suo libro La Russia di Putin segnò una nuova fase dei suoi rapporti con il potere.
Anna difendeva con coerenza le sue posizioni, e le sue qualità umane erano il senso di giustizia e la disponibilità ad andare fino al limite, fino alla porta chiusa, fino al muro di cemento. Non era una persona malleabile, ed era impossibile mettersi d’accordo con lei: non accettava alcun compromesso. Il suo era una sorta di massimalismo giovanile, unito a un alto senso della propria dignità. Proprio su questo terreno si era sviluppata la sua attività in difesa dei diritti civili. Ogni volta che si scontrava con l’ingiustizia e la crudeltà, si sentiva offesa personalmente e si gettava nella lotta. Sempre impari.
Anna Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre 2006, sei anni fa. È passato quasi un anno, prima che fossero arrestati dei ragazzi ceceni sospettati dell’omicidio, i fratelli Makhmudov e alcuni complici. Nell’autunno del 2008 è cominciato il processo. Nel febbraio 2009 i giurati hanno assolto gli imputati per insufficienza di prove, ma quattro mesi dopo la Corte suprema ha annullato la sentenza, riaprendo il caso.
Nella primavera del 2011 è stato arrestato il presunto assassino, Rustam Makhmudov. Nell’agosto del 2011 è stato arrestato l’ex tenente colonnello della polizia Dmitrij Pavljuchenkov, che era già stato testimone al processo. In ottobre sono state notificate accuse ai presunti organizzatori dell’omicidio di Anna Politkovskaja, il boss criminale ceceno Lom-Ali Gajtukaev e l’ex agente dell’UBOP (Direzione lotta alla criminalità organizzata) di Mosca, Sergej Khadzhikurbanov. Come sempre nel caso di indagini così lunghe, nasce il sospetto che l’inchiesta sia «frenata» dall’alto.
Nondimeno, qualcosa si sta chiarendo: si conosce il nome dell’assassino, si conosce la catena degli organizzatori. Pavljuchenkov si è riconosciuto colpevole di aver organizzato l’omicidio, ora promette di collaborare alle indagini. Ci sarà un nuovo processo. Ma non c’è più la giornalista Anna Politkovskaja, che avrebbe saputo denunciare con sdegno chi conduce questo processo annoso, lento e sospetto, e avrebbe fatto il nome del principale mandante di questo omicidio. Ma Anna non c’è, e senza di lei è impossibile sbrogliare la matassa...
Per ora non è stato individuato un mandante. Ma ci sono tante versioni.
1. Le tracce dei mandanti vanno cercate in Occidente. I mandanti si nascondono all’interno dei servizi segreti americani, e l’omicidio è stato compiuto per gettare ombra sulla figura di Putin.
2. Una pista porta all’oligarca in disgrazia Boris Berezovskij, che vuole seminare la discordia fra Putin e il popolo.
3. È possibile che a Berezovskij si sia unito Ahmet Zakaev, nel tentativo di guastare i rapporti fra Putin e il leader ceceno Ramzan Kadyrov.
4. Il responsabile è lo stesso Ramzan Kadyrov, più volte denunciato negli scritti di Anna Politkovskaja.
5. Secondo un’altra versione, mandanti dell’omicidio furono i dirigenti dell’operazione per la liberazione degli ostaggi al teatro Dubrovka, accusati da Anna Politkovskaja per l’uso del gas nervino che portò alla morte di oltre centoventi persone.
Può bastare?
Non mancano neppure le supposizioni piccanti e i dettagli sensazionali:
1. Agli esecutori furono pagati 2 milioni di dollari. Vero è che nessuno li ha visti.
2. Sulla pistola con cui fu uccisa Anna sono state scoperte tracce del Dna di una donna. Da ulteriori indagini è però emerso che si trattava delle tracce di uno starnuto.
3. Si suppone che l’omicidio di Anna Politkovskaja fosse stato fissato per il 7 ottobre - come regalo di compleanno per Vladimir Putin.
Voci insistenti affermano che il caso sia oggi a una svolta. Temo si tratti di un’illusione. Queste indagini interminabili dimostrano in modo eloquente che la libertà di parola è morta e sepolta, che stiamo tornando a quei tempi tristi in cui la parola libera poteva esistere solo nella clandestinità, nel sottosuolo. E il sottosuolo oggi ha cambiato indirizzo: si chiama Internet.
Sono passati sei anni dal giorno della morte di Anna Politkovskaja: a lei vengono intitolate vie e piazze in molti Paesi - ma non nel suo. Anna ha speso la sua vita per difendere la libertà di parola e la giustizia. Sulla tomba della parola libera si potrà innalzare un monumento con i nomi di quanti per essa hanno pagato con la vita. In Russia dall’inizio degli anni Novanta sono stati uccisi più di trecento giornalisti. Un caro prezzo. Cari giornalisti. In questo elenco Anna Politkovskaja è una delle figure più coraggiose e di maggior talento.
(Traduzione di Emanuela Guercetti)
FURIA ISLAMICA - LO SCRITTORE NEL MIRINO
Rushdie: la mia vita in fuga dall’Islam
Esce oggi in tutto il mondo "Joseph Anton": racconta la storia dell’autore e il dramma della sua condanna a morte decretata nell’89 da Khomeini
ANDREA MALAGUTI
corrispondente da Londra (La Stampa,18/09/2012)
Bloomsbury, quartiere centrale di Londra. E’ lì che il 12 settembre, a poche ore dall’assalto all’ambasciata Usa a Bengasi, Salman Rusdhie dà appuntamento a La Stampa per raccontare il suo nuovo libro, "Joseph Anton", che esce oggi in tutto il mondo (in Italia è pubblicato da Mondadori). E’ un’autobiografia. Parla della sua famiglia, di suo padre, degli studi, del rapporto con l’Islam, ma sopratutto di come, il 14 febbraio del 1989, una fatwa dell’Ayatollah Khomeini, leader spirituale dell’Iran, cambiò radicalmente la sua vita.
Condannato a morte. E’ una giornalista della BBC che glielo comunica. "Signor Rushdie, come commenta la fatwa?". Lui, indiano naturalizzato britannico, cade dalle nuvole. Impallidisce. Balbetta una risposta confusa. "Pensai immediatamente: sono un cadavere che cammina". La sua colpa? Avere scritto un romanzo - I Versi Satanici - considerato blasfemo. Empio. Sacrilego. Da quel momento in avanti "ogni buon musulmano è autorizzato a prendersi la sua vita". Una storia di ventitré anni fa che continua oggi e che - come dimostrano le violenze in Libia o in Tunisia - non è più solo una questione personale, ma è diventata un’onda globale fuori controllo. "La mia storia non innescò questo scontro gigantesco, ne fu solo il prologo.
Il primo passo che portò poi al disastro dell’11 settembre". Per oltre dieci anni è costretto a nascondersi. A fuggire. Cambia casa continuamente, vede raramente i suoi figli, la sua esistenza va in frantumi. E’ scortato giorno e notte da quattro poliziotti. Poi un intervento di Bill Clinton porta a un accordo tra Londra e Teheran. La fatwa non viene ritirata, ma il governo iraniano dice che lo scrittore non è più un obiettivo priortiario. Si è mai pentito di avere scritto I Versi Satanici?: "Sono 23 anni che rispondo allo stesso modo. No. Credo anzi che sia uno dei miei libri migliori". Oggi Salman Rushdie spiega di essere un uomo sereno. E persino di sentirsi libero. Eppure meno di 72 ore fa una fondazione iraniana ha aumentato di altri 500 mila dollari la taglia sulla sua testa. Tre milioni e trecentomila dollari per chi gli farà la pelle.
Salman Rushdie
Una “mille e una notte” per sconfiggere l’odio
Esce oggi in Italia il romanzo "Due anni, due mesi e ventotto notti"
Elogio della ragione contro gli oscurantismi antichi e moderni
di Gianni Riotta (La Stampa, 08.09.2015)
Avere superato almeno un esame di Filosofia Medievale rende scettici per sempre sulla corrente polemica tra «Occidente liberale e Islam oscurantista», che filtra dai romanzi alla Houellebecq, dai saggi di Huntington popolarizzati da Oriana Fallaci, fino ai siti dei feroci reclutatori Isis, con i loro paladini astuti, ben camuffati nel nostro mainstream. Per comprendere che la linea di frattura non è mai Noi-Loro, ma sempre Tolleranza-Intolleranza, basta studiare l’antico Averroè, nato Abu l-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd,, (1126-1198) che a Cordova rifonda gli studi su Aristotele, conciliando Islam e ragione, fino a rompere con il rivale Al Ghazali e finire in esilio a Marrakesh.
Profeta vivente di questo credo è lo scrittore Salman Rushdie, da una generazione ormai condannato a morte da una maledizione, fatwa, dell’ayatollah Khomeini, cui ha opposto - pur nelle impossibili condizioni di vita cui è stato costretto - ironia e raziocinio. Rushdie deve il cognome proprio a Ibn Rushd, suo padre era così devoto al razionalismo del filosofo islamico da adottarne il nome, «Quando lanciarono la fatwa contro di me - racconta lo scrittore - mi feci coraggio, Almeno mi chiamo nel modo giusto!».
Lo strepitoso, nuovo, romanzo dell’autore de I versetti satanici, si intitola Two Years Eight Months and Twenty-Eight Nights, due anni otto mesi e 28 notti, che un semplice calcolo equipara a Mille e una notte, il ciclo delle fiabe orientali caro al nostro canone.
L’amore di Averroè
Averroè-Ibn Rushd, il filosofo saggio del XII secolo, appare qui in una posa che i Manuali di Filosofia non riportano, perché si sposa e fa l’amore - per la prima volta nell’opera di Rushdie, il sesso è scottante - con un Genio Donna, una Jinn, la principessa Dunia. I Geni non sprizzano da una Lampada come in Aladino, ostaggi di un Padrone e dei suoi Desideri, sono malevoli, capricciosi, pieni di pregiudizi, violenza, ostilità per gli umani, con l’eccezione di Dunia che ama possederli. Dalle sue nozze con Averroè nasce una specie ibrida, Umani e Geni, finché in una notte di tregenda a New York, i Geni Jinn, furiosi, non ritornano sulla Terra dopo 800 anni e gli umani devono affrontarne il poderoso jihad, pronto a divorare perfino il traghetto dei pendolari verso Staten Island.
Salman Rushdie ha scritto un libro bellissimo (è stagione felice per le lettere in lingua inglese dopo l’altrettanto efficace Purity di Jonathan Franzen), con saggia consapevolezza di come nel nostro tempo la guerra santa di Isis e del terrorismo fondamentalista islamico abbia il suo doppio nell’intolleranza che dilaga sul web (deriva di cui si è parlato pochi giorni or sono al Meeting di Cl a Rimini). Ragione e Odio si affrontano e confondono in una dimensione magica, che irresistibilmente ricorda (e torna qui il parallelo con Franzen) Internet.
Rushdie comprende, col tono favolistico da Mille e una Notte del XXI secolo, che la nostra generazione vive in una dimensione magica, dove Reale e Virtuale si incrociano e annullano a vicenda, come Uomini e Geni. E ci invita dunque a un momento di meditazione, a prendere le distanze, a ricordarci che i valori fondanti della nostra civiltà, compresi gli ideali di un aristotelico islamico di Spagna come Ibn Rushd Averroè, non devono smarrirsi, né davanti al populismo nichilista degli odiatori di professione online, né davanti ai loro cugini sanguinari, i fondamentalisti di Isis, Boko Haram, Al Qaeda.
La Rabbia di Tutti Sempre
«Scrivere significa non piacere a tutti - ammonisce Rushdie contro la melassa dei politicamente corretto - http://goo.gl/QJrf5E -. Ma la nostra è l’era della Rabbia di Tutti Sempre. Internet, basta dare un’occhiata, gronda di ossessi che urlano contro chiunque non la pensi come loro. Dobbiamo spegnere quel rumore di fondo, allontanarci da quel chiasso e fare il nostro dovere. Ho scritto un libro divertente, non dimenticate che il senso dell’umorismo serve a capire la mia narrativa». Un esempio? «La pratica della violenza estremistica, nota con il nome comune, spesso impreciso, di terrorismo, ha sempre attratto i maschi costretti a rimanere vergini, o che, insomma, non hanno saputo trovare qualcuno con cui fare l’amore». Isis è una legione di frustrati senza Eros, secondo la satira di Rushdie.
Come in una favola orientale antica un giardiniere eremita cammina nel vuoto, uno scrittore di graphic novel alla moda si ritrova nel tinello - vivo - un suo micidiale personaggio (Rusdhie sfotticchia il genere graphic novel oggi incensato), un bambino contagia con la rogna gli adulti disonesti e la dolce signora di un finanziere avido e allupato scaglia fulmini dalle dita affusolate. Non ci sono Buoni e Cattivi in questa saga, solo valori e loro nemici. Contro chi vuole cancellare nel sangue la civiltà, Rushdie è aspro «Banda di assassini e asini... esperti nell’arte di proibire tutto... pittura, scultura, musica, il teatro, i film, il giornalismo, l’hashish, le elezioni, l’individualismo, il disaccordo, il piacere, la felicità, un tavolo da biliardo, un volto ben rasato, il volto delle donne, il corpo delle donne, l’istruzione per le donne, lo sport femminile, i diritti delle donne».
Asini Assassini
Ma chi si strugge ancora a capire perché ragazzi e ragazze educati, e ben integrati, nelle città dell’Occidente si arruolino tra i terroristi «asini assassini», legga il monito di Salman Rushdie che da anni fronteggia l’odio islamico: «Sono sempre meno coloro che, tra di noi, generazione dopo generazione, riescono ancora a sognare... Noi leggiamo di voi, O Sogni, nei libri antichi, ma le fabbriche di sogni son chiuse. È il prezzo che paghiamo per pace, prosperità, tolleranza, comprensione, saggezza, bontà e verità: il nostro essere selvaggi, che una volta si liberava nei sogni, è domato, per sempre». I libri di Rushdie e Franzen, letti e amati, si chiudono con un solo rammarico: ma perché da noi, in Italia, nessuno ha il fegato di provare a raccontare il mondo grande terribile che ci circonda, affrontandolo a viso aperto, fuori dalle beghe piccine di casa?
CAMORRA
Il pm: minacce a Saviano
processate quei legali
Chiesto il giudizio per due avvocati e due boss del clan dei Casalesi
di DARIO DEL PORTO *
Due avvocati e due boss sul banco degli imputati: i penalisti Michele Santonastaso e Carmine D’Aniello dovranno difendersi, insieme ai padrini del clan dei Casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, dalle accuse di diffamazione e minacce aggravate ai danni dell’autore di Gomorra, Roberto Saviano, e della cronista del Mattino Rosaria Capacchione. I fatti si riferiscono alle affermazioni riportate nell’istanza choc letta in aula, il 13 marzo 2008, durante il giudizio d’appello del processo Spartacus.
Il pm Antonello Ardituro ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio. L’udienza preliminare è fissata per il 21 settembre davanti al giudice Maria Vittoria Foschini. L’istanza, che chiedeva la remissione del procedimento alla Corte di Cassazione ai sensi della legge Cirami, era firmata da Bidognetti e Iovine, il primo detenuto, il secondo in quel momento ancora latitante, e fu letta davanti a una sbigottita Corte d’Assise dall’avvocato Santonastaso, all’epoca difensore di entrambi i malavitosi, da quasi due anni detenuto con l’accusa di collusioni con la camorra.
Le indagini condotte successivamente hanno indotto la Procura a chiamare in causa anche l’avvocato D’Aniello, che durante l’udienza si trovava nel sito da dove Bidognetti, suo assistito, era collegato in videoconferenza. Il penalista (che sarà poi condannato in primo grado con rito abbreviato per favoreggiamento reale ma con esclusione della finalità mafiosa) avrebbe contribuito a mettere insieme i documenti utilizzati nell’istanza dall’impatto definito dalla Procura "offensivo e intimidatorio" nei confronti dello scrittore e della giornalista.
L’obbiettivo dell’iniziativa, scrive il pm Ardituro, era diffamare e minacciare "gli operatori dell’informazione impegnati nell’azione di divulgazione e di esercizio dei diritti costituzionalmente tutelati in relazione all’operato del clan dei Casalesi poiché - si legge - ne mettevano in risalto la dimensione ultraprovinciale, nazionale e internazionale, circostanza quest’ultima da ritenersi particolarmente invisa ai capi del clan".
Sulla vicenda era stato istruito un primo procedimento trasmesso per competenza alla Procura di Roma in quanto tra le vittime figurano anche due magistrati napoletani, l’ex pm anticamorra Raffaele Cantone, oggi giudice in Corte di Cassazione, e il procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho.
* la Repubblica, 07 agosto 2012)
FACOLTA’ DI LINGUAGGIO, LINGUA, E GRAMMATICA:
"La cosa grave è che arrivi nelle scuole l’idea di un genere superiore all’altro"
Quattromila persone hanno sottoscritto una petizione ripresa da "Le Monde" chiedendo nuove regole
Nei plurali il femminile risulta penalizzato, l’Académie Française però si oppone a ogni riforma
di Anais Ginori (la Repubblica, 24.01.2012)
«Que les hommes et les femmes soient belles!», che gli uomini e donne siano belle. Nessuno può pronunciare questa frase senza venire immediatamente bacchettato dai puristi della lingua. Eppure è questo il titolo di un appello per riformare la grammatica che sta circolando in Rete, ripreso anche da Le Monde. Da secoli infatti la concordanza dell’aggettivo prevede che il genere maschile prevalga su quello femminile. Si dice "gli uomini e le donne sono belli", non il contrario.
Sembra una di quelle tipiche sfumature che appassionano studiosi e accademici. Invece, secondo i gruppi che hanno promosso la petizione già firmata da oltre 4mila persone, questa regola nasconderebbe un immaginario maschilista duro a morire e avrebbe addirittura conseguenze nella vita di tutti i giorni. «Se neanche nella lingua esiste la parità di genere - spiega Clara Domingues, docente di letteratura e presidente di un’associazione femminista - come sperare che la condizione delle donne faccia progressi in famiglia o negli uffici?».
La forza delle parole. Nonostante pari diritti e dignità per entrambi i sessi siano iscritti nella Costituzione, argomentano le promotrici dell’appello, esiste ancora una grammatica "sessista". «La cosa più grave - si legge nella petizione - è il fatto che questa idea di un genere superiore all’altro venga trasmessa anche a scuola nell’insegnamento del francese ai bambini». Le associazioni militano per un cambio dei manuali nel quale sia prevista la possibilità di accordare aggettivi e participi secondo il genere del nome più vicino. Ad esempio: «Un cappello e una giacca nere». Oppure: «Laura, Giacomo e Paola sono simpatiche».
Femminismo a parte, una grammatica meno schiacciata sul maschile, offrirebbe più libertà nella costruzione delle frasi e sarebbe esteticamente più elegante, aggiungono le promotrici. Contrariamente a quel che si pensa, già nel greco antico e nel latino funzionava così. La petizione è stata inviata all’Académie Française, guardiano della purezza della lingua, con scarse speranze di essere accolta.
L’istituzione fondata nel 1635 dal cardinale Richelieu ha sempre fatto argine ad ogni cambiamento in questo senso. Già dieci anni fa, l’organismo si era rivolto con allarmismo al capo dello Stato. Le socialiste Martine Aubry e Elisabeth Guigou, appena nominate nell’allora governo, avevano osato farsi chiamare "Madame la Ministre". Da allora, ci sono state molte altre ministre e prima o poi l’Académie dovrà registrare la novità.
Per tradizione, si tratta di un’istituzione esclusivamente maschile, sette donne tra i quaranta membri, la prima fu la scrittrice Marguerite Yourcenar nominata solo nel 1980. «Non abbiamo mai seguito le mode. La superiorità del maschile esiste almeno da tre secoli e non ho l’impressione che sia rimessa in discussione nell’uso comune del francese» spiega Patrick Vannier, che si occupa del dizionario dell’Académie. La parità di genere può aspettare, almeno in senso linguistico.
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi (l’Unità, 09.06.2011)
Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».
il mio maestro Josè
Accettare il rischio della parola l’ultima lezione del mio maestro
di Roberto Saviano *
Di tutte le cose che poteva fare Josè Saramago morire è quella più inaspettata. Se conoscevi Josè proprio non lo mettevi in conto. Sì, certo tutti muoiono, anche gli scrittori Ha sempre espresso solidarietà nei miei confronti e mi aveva invitato a trasferirmi da lui Non era affatto stanco della vita e mi aveva detto: "Potessi decidere, non me ne andrei mai" Ma lui non ti dava proprio alcuna impressione di essersi stancato di vivere, respirare, mangiare, amare. Si era consumato negli ultimi anni, tra la carne e le ossa sembrava esserci sempre meno spessore, la sua pelle sembrava un sottile mantello che ricopriva il teschio. Ma diceva: «Potessi decidere, io non me ne andrei mai».
Parlare della morte di qualcuno cui si è voluto bene, molto bene, rischia di essere solo un esercizio retorico, una proclamazione di memoria e virtù del defunto. L’unico modo che si ha per mantenersi sinceri, è quello di tentare di descrivere lo spazio di vita in più che ti ha dato chi ha finito di respirare. Questo vale la pena fare. Vedere quanto ti è stato sommato alla tua vita, ciò che ti è rimasto dentro, che riuscirai a passare a chi incontrerai, e questo sì, ha il sapore della vita eterna. In fondo molto non è andato via, se molto sei riuscito a trattenere.
Avevo conosciuto Saramago per la prima volta come tutti, leggendolo. Il Vangelo secondo Gesù era il suo libro che mi aveva cambiato, trasformando il modo di sentire le cose. Quel Gesù uomo, che sbaglia, ama, arranca, cerca di essere felice, mi era sembrato essere un personaggio del tutto nuovo nella storia della letteratura. Era una sintesi dei vangeli apocrifi, dei vangeli ufficiali, dei racconti pagani e delle leggende materialiste sul Cristo socialista. Era il Gesù dell’amore carnale verso Maria Maddalena. Su questo Saramago ha scritto parole incantevoli come solo il Cantico dei Cantici era riuscito a creare: «Guarderò la tua ombra se non vuoi che guardi te, gli disse, e lui rispose "Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi"».
E’ un Gesù umano che non vuole morire: è il contrario della santità, è uomo con i suoi errori, peccati, talenti e con il suo coraggio. Sembra dire al lettore che basta esser fedeli a se stessi per conoscere la vita e non diventare dei servi, o degli schiavi. «Allora Gesù capì di essere stato portato all’inganno come si conduce l’agnello al sacrificio, che la sua vita era destinata a questa morte, fin dal principio e, ripensando al fiume di sangue e di sofferenza che sarebbe nato spargendosi per tutta la terra, esclamò rivolto al cielo dove Dio sorrideva, Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto». Proprio così: il Gesù di Saramago rivolgendosi all’uomo chiede di perdonare Dio, ribaltando la versione evangelica del "Padre perdona loro".
E poi ho letto Cecità, altro suo romanzo che ho amato molto e che spesso mi torna in mente. In una frase. Pronunciata da lui per rispondere a me che maledivo certe scelte che mi avevano rovinato la vita. «Arriva sempre un momento in cui non puoi fare altro che rischiare». E la parola di Saramago era sempre una parola rischiosa, non cercava mai di farsi comoda.
Sognavo di trasferirmi da lui, come mi aveva consigliato, esprimendomi solidarietà nei giorni più difficili. Non lo dimenticherò mai. E non dimenticherò mai l’imbarazzo estremo in cui mi trovai quando mi definì "maestro di vita". Io che da lui cercavo continuamente indicazioni, esperienza, per galleggiare in un oceano di difficoltà, bile, rabbia, ostilità. Lui era un maestro che insegnava per farsi a sua volta insegnare. A Stoccolma disse che nella sua vita le persone più sagge che avesse mai conosciuto erano i suoi nonni. Entrambi analfabeti. La loro saggezza era stata costretta a rinunciare per povertà al libro, alla musica, ai teatri, ai dipinti, ma che era riuscita a conoscere la vita, a sentirne con generosità quello che José chiamava sussurro. «Tutte le cose, le animate e le inanimate, stanno sussurrando misteriose rivelazioni».
Una volta scambiandoci alcune riflessioni sullo stile, citai Albert Camus convinto che «lo scrittore che decide di scrivere chiaro vuole lettori, lo scrittore che scrive oscuro vuole invece interpreti». E la risposta fu: «ecco cos’hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare». Trovare parole semplici è il mestiere più complicato che sceglie di fare uno scrittore. Avevi ragione, José: «il viaggio non finisce, solo i viaggiatori finiscono". E ora tocca a noi qui. Continueremo a camminare con le tue parole a indicarci la strada senza fine.
©2010 Roberto Saviano/
Agenzia Santachiara
* la Repubblica, 19.06.2010
Le parole possono cambiare il mondo
di Roberto Saviano (la Repubblica, 25 marzo 2010)
L’autore di "Gomorra" torna con un libro e un dvd dal titolo "La parola contro la camorra". Ne anticipiamo un brano.
Spesso mi si chiede come sia possibile che delle parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti, capaci di contare su centinaia di uomini armati e su capitali forti. E come è possibile - questa domanda mi viene ripetuta spessissimo, soprattutto all’estero - che uno scrittore possa mettere in crisi organizzazioni capaci di fatturare miliardi di euro l’anno e di dominare territori vastissimi?
È complicato dare una sola risposta e, in verità, l’unica risposta che mi viene in mente, la più plausibile è che sia proprio la diffusione della parola a mettere paura. Non è lo scrittore, l’autore, non è neanche il libro in sé, né la parola da sola, che riesce ad accendere riflettori e per questo a mettere paura. Quello che realmente spaventa è che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e, soprattutto, che si possano finalmente intravedere i meccanismi che li hanno provocati.
Quel che spaventa è che qualcuno possa d’improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che svelino quel che sta dietro. E soprattutto avere la possibilità di percepire determinate storie come le proprie storie. Non più come storie lontane, non più come vicende geograficamente distanti, ma come facenti parte della propria vita. Allora ciò che più temono le organizzazioni criminali non è soltanto la luce continua che gli viene posta addosso, ma soprattutto che migliaia, forse milioni di persone in Italia e nel mondo, possano sentire le loro vicende e il loro destino come qualcosa che riguarda tutti.
Qualcuno può credere che questa sia una visione troppo mediatica e quindi distante dalla realtà. Ma non è così. Molti episodi dimostrano che l’attenzione, anche degli intellettuali e degli artisti, data alle organizzazioni criminali e a quello che accade intorno a loro ha realmente cambiato le cose e il destino di molte persone. La storia di Giuseppe Impastato, giornalista ucciso a Cinisi in Sicilia nel 1978, ne è un esempio. Quando Impastato fu ucciso, l’opinione pubblica venne inconsapevolmente condizionata dalle dichiarazioni che provenivano da Cosa Nostra. Che si fosse suicidato in una sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un binario. Questa era la versione ufficiale, data anche dalle forze dell’ordine. Poi, dopo più di vent’anni, esce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato - ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello, dalla mamma - ma, addirittura, la rende a tutti, come un dono. Un dono allo stato di diritto e alla giustizia. Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all’epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un processo. Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista.
È successo per molte persone. Pippo Fava, giornalista de I Siciliani, una rivista che stava dando molto fastidio a Cosa Nostra, viene ucciso mentre sta andando a prendere la nipotina a teatro. Gli sparano in testa, lo sfregiano. Gli omicidi delle organizzazioni criminali hanno sempre una sintassi simbolica. Sparare in faccia, per esempio, ha un significato diverso rispetto a sparare al petto. A Pippo Fava lo sfregiano, gli sparano alla nuca e pochissime ore dopo iniziano a diffondere la notizia, che poi diventerà la versione ufficiale nella società civile catanese - o forse bisognerebbe definirla incivile - che era stato ucciso perché «puppo», ovvero omosessuale, come dicono in Sicilia. Perché aveva messo le mani addosso a dei ragazzini fuori dalla scuola. Si erano inventati questa balla per delegittimarlo, per suscitare fastidio al solo pronunciare il suo nome. Per suscitare quella sensazione di diffidenza nelle persone, che trova terreno fertile in simili circostanze.
Chiunque si occupi di mafie sente questa melma intorno a sé: la melma della diffidenza. Io ci convivo da anni; dal primo giorno. Va di pari passo con la mia quotidianità sentire diffidenza, soprattutto quella degli addetti ai lavori, infastiditi spesso per il solo fatto che sei arrivato a molte persone. Questo, soprattutto, a intellettuali e giornalisti non torna. «Come mai sei arrivato a tante persone?» In un Paese dove chi arriva a tanti spesso è sceso a patti con qualche potere o ha scelto di compromettere le proprie parole. «Dove hai tradito? Dove ti sei venduto? Con chi ti sei alleato?». Il cinismo degli addetti ai lavori è sempre questo: arrivare a un pubblico vasto di lettori, di ascoltatori, di osservatori, significa tutto sommato accettare i codici più bassi, più biechi della comunicazione.
Ebbene, le organizzazioni criminali non sono tanto diverse nel valutare e nel delegittimare i propri nemici. Le organizzazioni criminali hanno necessità di portare avanti un assioma: chi è contro di noi lo fa per interesse personale. Chi è contro di noi sta diffamando il territorio, perché noi non esistiamo come loro ci raccontano. Chi è contro di noi è pagato da qualcuno per essere contro di noi. E, nella migliore delle ipotesi, sta facendo carriera personale su di noi.
Le parole, quando arrivano a molte persone, quando raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose. Assai pericolose perché il rischio è che a difenderle debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa carne. È successo a moltissimi scrittori, a moltissimi giornalisti. L’Italia ha una caratteristica che in genere, quando raccontano di noi, non viene riportata: l’Italia è un Paese cattivo. Molto cattivo. Perché è un Paese dove è difficile realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio.
La storia dell’antimafia spesso è una storia di enormi cattiverie e quando me ne rendo conto non riesco a capire come sia possibile, di fronte a delle vicende tragiche e tutto sommato chiare.
La morte di don Peppe Diana, per esempio. La morte di un uomo, un ragazzo, ammazzato poco più che trentenne, sul cui conto, per anni, si è detto di tutto. Che fosse stato ucciso per presunte relazioni con delle donne, che avesse collaborato con un clan. Che era morto perché anche lui colluso e non perché aveva scritto un documento, Per amore del mio popolo non tacerò, che aveva dato molto fastidio ai poteri criminali. In quel documento, don Diana, segnalava la strada che avrebbe seguito in quanto prete di Casal di Principe. Lì dichiarava quale fosse il compito di un prete in quelle terre, cioè raccontare, denunciare e, appunto, non tacere.
La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto sino in fondo. Questo mio è un ragionamento difficile da capire e mi rendo conto che chiedo uno sforzo enorme a chi mi sta leggendo. Però è uno sforzo che vale la pena fare per capire come funzioni il meccanismo della parola. Anna Politkovskaja, scrittrice e giornalista russa, viene uccisa e il giorno stesso della sua esecuzione il marito dichiara di provare, oltre a un profondo dolore, anche un sentimento di serenità, quasi di sollievo. Stupisce tutti. Perché serenità? Perché sollievo? Com’è possibile? «Perché so», spiega lui «che almeno con la morte non potrà più essere diffamata». Pochi giorni prima che Anna morisse, avevano tentato di sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche da diffondere sui giornali di gossip. Di fronte a una delegittimazione del genere puoi invocare solo la morte. Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non possono consentire che tu abbia contemporaneamente autorevolezza e vita. O l’una o l’altra. Se hai la vita non hai l’autorevolezza, se hai l’autorevolezza non hai la vita.
Tantissimi scrittori e magistrati si sono trovati nella necessità di dover scegliere. Io stesso ho avuto a che fare, in questi anni, con molti magistrati che hanno affrontato la paura, il terrore di dover morire ma ancor più di essere delegittimati. Come si può salvare la parola da questa terribile doppia condanna? Facendo sì che non appartenga più a una singola persona. La parola, se smette di essere mia, di altri dieci, di altri quindici, di altri venti e diventa di migliaia di persone, non si può più delegittimare, perché anche se si delegittima me quelle parole sono già diventate di altri. E se anche si dovesse eliminare fisicamente la persona che per prima le ha pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi.
So bene che si rischia di essere tacciati di eccessivo romanticismo se si pronunciano espressioni come «parola usata da molti», «parola contro il potere». Ma sono convinto che far diventare concreta una parola significhi innanzitutto consentirle una piena realizzazione nel quotidiano. E affinché la parola diventi realmente efficace contro le mafie non deve concedere tregua. Il grande sogno che hanno alcuni scrittori è quello che le loro parole possano mutare la realtà, che le loro parole, magari nel tempo, possano effettivamente indirizzare il percorso umano verso nuove strade.
Certo mi rendo conto che nessuno può isolare il momento esatto in cui Dostoevskij o Tolstoj hanno modificato, indirizzato o semplicemente suggestionato il pensiero umano. Non è che un mese dopo l’uscita dei loro scritti qualcosa immediatamente sia cambiato. Nessuno può dire quale sia il peso reale della Metamorfosi di Kafka oppure delle parole di Ovidio. Nessuno può dire quanto abbiano reso migliori o peggiori o indifferenti gli esseri umani.
Ma chi ha la possibilità e lo strano e drammatico privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà, quando ancora è in vita, quando ancora il suo libro è caldo, allora questo scrittore può accorgersi di quanto effettivamente il peso specifico delle sue parole stia entrando nella quotidianità, contribuendo a modificare i comportamenti delle persone. Quando questo accade ti rendi conto che il potere reale che hanno le parole è davvero infinito, ancor di più perché è un potere anarchico. Un potere che si basa sulla condivisione e sulla persuasione non è più un potere e la parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e paura. E quando questo accade, significa che qualcosa sta cambiando, che qualcosa è già cambiato, che nessuno può più permettersi di ignorare certi argomenti, di relazionarsi a certi territori e a certe logiche.
Io vengo da una terra complicata dove ogni cosa è gestita dai poteri criminali. Tutto è a loro sottoposto e tutto è loro espressione, dalla sessualità alla cronaca locale. Ed è proprio partendo dalla cronaca locale che ho voluto raccontare il mio territorio per mostrare che esiste un modo di raccontare giorno per giorno la cronaca, nelle edicole, sui giornali che poi arriveranno nei bar, che circoleranno nelle salumerie, dai barbieri, che aderisce completamente al linguaggio e alle logiche delle organizzazioni criminali.
Si dirà che sono giornali che hanno tirature molto basse e diffusione limitata a quelle zone. Ma è esattamente in quelle zone che loro devono circolare. È lì che devono comunicare, costruire opinioni e far aderire il lettore alle logiche di camorra. È lì che deve essere considerato normale che un pentito venga definito infame. Che chi muore combattendo le organizzazioni criminali venga immediatamente riportato alla sua dimensione mediocre di uomo come tutti.
Perché chi si oppone - secondo la loro ottica - non si sta opponendo al sistema di cose, si sta opponendo perché vuole guadagnare di più, perché vuole spazio maggiore. Si è pentito perché non è diventato capo. Ci sta denunciando perché non l’abbiamo fatto guadagnare, perché vuole prendere il nostro posto. Ne sta scrivendo perché non ha il fegato o le capacità per diventare uno di noi e allora fa l’anticamorrista.
L’elemento fondamentale per questi poteri è dimostrare che tutti abbiamo vizi, tutti siamo sporchi, tutti seguiamo due cose: il potere, e dunque fama e denaro, e le donne. O gli uomini, naturalmente. Segnalare che si possa non essere santi o eroi, ma uomini diversi, con tutte le contraddizioni del caso, questo, invece, dà fastidio, mette paura, perché sarebbe come ammettere che si può cambiare anche senza dover compromettere la propria vita o dover raggiungere chissà quali gradi di perfezione o sacrificio. Che non si può essere, non si deve essere soltanto marci, soltanto disposti ad accettare il compromesso.
Molti chiedono a chi si pone contro le organizzazioni criminali perché lo faccia. C’è un corridore, un atleta, un recordman dei cento metri, a cui hanno chiesto una volta perché avesse deciso di correre. E la sua risposta è la risposta che io do a me stesso e a chi ogni volta mi chiede perché mi occupi di certi temi e perché continui a vivere questa vita infernale. A questo corridore chiesero: «Ma perché corri?» E lui rispose: «Perché io corro? ... perché tu ti sei fermato?». Anche a me piace rispondere così. Quando mi chiedono perché racconto, rispondo semplicemente: «... e perché tu non racconti?».
Dal 6 all’8 ottobre e a febbraio lo scrittore sarà al Piccolo di Milano con "La bellezza e l’inferno"
"Dopo Gomorra, le minacce, la scorta mi sono convinto che vale la pena parlare"
"Ora salgo sul palco e vado in scena
sono stanco della mia solitudine"
di ROBERTO SAVIANO *
Ho scelto di raccontare sul palcoscenico del Piccolo di Milano quello che mi è capitato in questi tre anni. Lo faccio attraverso il teatro perché sono stanco di tanta solitudine, perché vorrei provare ad avere un rapporto diretto con i miei lettori. Voglio che possano guardarmi e, soprattutto, vorrei io poter guardare loro.
Poter sentire il calore e la forza che ti dà uno sguardo. Poter condividere lo spazio della parola. Sentire e vedere dove arriva. A chi arriva. Per fare questo avevo bisogno della piattaforma più adatta a me come persona e come scrittore. Di un luogo pregno di storia eppure dinamico, di un luogo coraggioso nel suo poter diventare metaforico della comprensione del nostro tempo.
Tutto ciò che la mia vita è diventata dalla pubblicazione di Gomorra in poi, le minacce, la scorta, l’isolamento, la diffamazione, si sono rivelati il carburante e lo sprone che mi hanno convinto che vale la pena parlare, che la letteratura e l’arte non sono attività superflue, ma fondamentali e che soprattutto possono salvare la vita.
In questi anni mi sono accorto dell’enorme capacità che ha il teatro di difendere e rendere salda la comunicazione non costringendola al ritmo televisivo e tenendola al riparo dall’intrusione delle immagini. In qualche modo, mi sembrava capace di restituire quel che la televisione aveva sottratto: carne, parola viva e soprattutto, tempo di riflessione.
Tuttavia, non credo che tra televisione e teatro vi sia alcuna contrapposizione, anzi mi convinco sempre di più che debbano tornare a contaminarsi, o iniziare a farlo in modo totalmente nuovo. La televisione riappropriandosi di tempi più umani, il teatro della specifica funzione informativa che da sempre gli appartiene e che evidentemente manca altrove. Qualcuno definisce la forma di teatro che veicola informazioni "teatro civile". E gli attori e i registi si sentono spesso infastiditi da questa aggiunta. Io che non sono né attore né regista, ma che mi definisco, in questo senso, un abusivo del teatro, sono felice di poter praticare una forma di civiltà attraverso la parola portata sopra un palcoscenico.
Sono estremamente stimolato dalla prospettiva che il teatro possa essere un’alternativa, che possa non soltanto intrattenere e rappresentare, ma perfino informare, aggiornare. Nel mio sogno di uomo cresciuto nel sud Italia, il teatro continua a essere uno spazio della polis, uno spazio non a margine o al lato della vita quotidiana, inteso come una sottospecie di passatempo per colti, ma come una necessaria e unica opportunità di riappropriarsi dello spazio pubblico.
Da qui la collaborazione col Piccolo che è conseguenza di un’empatia fortissima nata con il suo direttore, Sergio Escobar, e con uno "spazio" che negli anni è riuscito a considerare la forma teatrale come una specie di sistema immunitario di cui il corpo sociale dispone per difendersi dagli attacchi alla dignità. Come se il teatro salvasse quanto di umano c’è ancora, e attraverso la parola, mezzo fortissimo e al tempo stesso fragile, permettesse di riconoscere chi ci assomiglia e di voler conoscere chi è diverso da noi.
Mi piace l’idea di poter parlare - nell’alchimia che si crea tra parola, palco e spettatore - di ciò che mi è accaduto negli anni di reclusione e isolamento. Di tutte le situazioni che ho vissuto, dei libri che ho letto e soprattutto delle persone che ho incontrato, che sono entrate a far parte della mia vita come sporadiche luci nei miei lunghissimi bui. Luci fatte, però, di talenti, deboli e forti, evidenti e nascosti, ma sempre grandi.
Raccontandoli, attraverso una forma che sento particolarmente congeniale, quella del monologo, potrò mostrare come la parola, da sola, possa rappresentare l’unica alternativa di resistenza in una vita blindata. E magari riuscirò anche a convincere il mio pubblico che il talento e la forza impegnata da Anna Politkovskaja, Miriam Makeba, dei pugili di Marcianise, di Lionel Messi, di Michel Petrucciani e di Enzo Biagi sia la forma attraverso cui la bellezza è capace di contrapporsi e resistere all’inferno.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
Ansa» 2009-03-26 10:02
SAVIANO: CAMORRA UCCIDE CON SILENZIO E DIFFAMAZIONE
(di Bianca Maria Manfredi)
MILANO - Il silenzio e la diffamazione sono armi terribili in mano alla camorra e l’ordigno adatto per combatterli è quello della parola. Anche la parola, o meglio le parole, dette questa sera da Roberto Saviano allo speciale di ’Che tempo che fa’. Lui stesso si è definito una "operazione mediatica", nata e portata avanti perché si conoscano gli orrori della camorra e si capisca che riguardano tutti. Il suo "sogno" è che la lotta alla criminalità organizzata diventi una vera e propria moda. E’ quello che "i grandi editori, le televisioni, trovassero un punto comune, anche conveniente. Perché non creare una moda?". E’ una provocazione, quella dell’autore di Gomorra (che dal 13 ottobre 2006 vive sotto scorta), ma non più di tanto. In un’intervista al Tempo, Carmine Schiavone ha profetizzato che la camorra tenterà di far fuori Saviano quando cadrà nel dimenticatoio. "La cosa più grave che può fare la politica - ha detto lo scrittore - è il silenzio. La cosa più grave che possono fare gli elettori è scegliere il silenzio".
Questo "colpevole silenzio" riguarda però anche i giornali. Saviano ha fatto un monologo di una quarantina di minuti proprio per parlare della forza della scrittura ed è partito per parlarne dai titoli dei giornali locali delle zone di guerra dove si combattono le battaglie della camorra. Sono titoli che fanno da cassa di risonanza alla criminalità organizzata, che mostrano un modo inquietante di vederla, con parole come ’sindacalista giustiziato’ per parlare di un assassinio. E poi ci sono le voci, che fanno dubitare dell’onestà di don Beppe Diana, che hanno fatto ventilare la possibilità di una connivenza con la camorra di Salvatore Nuvoletta, un carabiniere di 20 anni ucciso mentre era disarmato e con un bambino sulle ginocchia da una squadra di camorristi. "Perché non avete mai sentito questo nome? - si è chiesto Saviano - E’ un carabiniere di 20 anni. Non lo avete mai sentito, perché quando la camorra uccide non lo fa con le pallottole ma con la diffamazione". Così il suo monologo è stato un elenco di persone, di storie, di accuse per le infiltrazioni della camorra, che ad esempio nell’edilizia non opera solo al Sud, ma tanto anche al Nord, in città come Milano, Parma, per non parlare di Berlino. Queste storie di omicidi giornalieri non arrivano quasi mai sulle pagine nazionali. Ogni tanto la notizia arriva, quando si sparge molto sangue e ci sono grandi tragedie.
Ci sono due o tre persone uccise al giorno e la cronaca nazionale le ignora. Allora, l’invito è a non smettere di parlare, come lui stesso non smette di fare nella sua vita non più privata ma "blindata". Più del racconto di questi ultimi tre anni con i Carabinieri, che definisce come una nuova famiglia, ha detto tanto l’immagine dei militari che lo hanno scortato fuori dallo studio televisivo. "Io - ha detto - esisto ora, poi vado in una stanza e non ho più vita fino al prossimo appuntamento".
George Orwell a palazzo Madama
di Stefano Rodotà, (la Repubblica, 27 marzo 2009)
Ricordate George Orwell e la «neolingua» che compare nel suo "1984"? Parole manipolate per soddisfare le «necessità ideologiche» del regime, per «rendere impossibili altre forme di pensiero». È esattamente quello che è accaduto ieri al Senato della Repubblica, che ha battezzato come «dichiarazioni anticipate di trattamento» il loro esatto contrario, cancellando ogni valore vincolante del documento con il quale una persona indica le sue volontà per il tempo in cui, essendo incapace, dovesse trovarsi in stato vegetativo permanente. Sarà inutile seguire un tortuoso iter burocratico, da ripetere ogni tre anni, perché con esso si approderà semplicemente al nulla. E la maggioranza dei senatori ha fatto la stessa operazione battezzando come sostegno vitale l’alimentazione e l’idratazione forzata contro l’opinione larghissima del mondo medico internazionale che le considera trattamenti. È lo stesso consenso informato, uno dei grandi risultati civili del tempo recente, perde il suo valore fondativo del diritto di costruire liberamente la propria personalità. Il sequestro di persona, di cui ha parlato ieri Adriano Sofri, ha trovato il suo compimento. Missione compiuta, potrà dire il presidente del Consiglio al cardinale Bagnasco a tre giorni appena dall’ingiunzione dei vescovi a chiudere senza indugi e senza aperture la discussione sul testamento biologico.
È con grande amarezza che scrivo queste parole. Non si sta parlando di una vicenda marginale, ma del modo in cui si stanno delineando i rapporti tra le persone ed uno Stato che, abituato da sempre a legiferare sul corpo della donna come «luogo pubblico», rende ora «pubblici» i corpi di tutti, li fa tornare sotto il dominio del potere politico e si serve abusivamente della mediazione dei medici, di cui viene restaurato un potere sul corpo del paziente che era stato cancellato proprio dalla «rivoluzione» del consenso informato. Ora non sarà più la persona a decidere per sé. Altri lo stanno facendo, e lo faranno, al suo posto. Dov’era un «soggetto morale», quello nato appunto dall’attribuzione a ciascuno del potere di accettare o rifiutare le cure, troviamo di nuovo un «oggetto».
Non è solo una questione di costituzionalità, allora, quella che si è ufficialmente aperta. È una questione di democrazia, perché stiamo parlando del modo in cui si esercita il potere. Sono in discussione il diritto all’autodeterminazione e i limiti all’uso della legge.
Torniamo così alla costituzionalità del testo appena approvato, di cui la maggioranza appare sicura probabilmente perché alla Costituzione e alla sue logiche si mostra sostanzialmente estranea, come provano molte vicende degli ultimi tempi, e dei tempi meno recenti. Ma la Costituzione e i suoi guardiani sono ancora lì. Alla maggioranza conviene far sapere che, mentre si arrabattava in tutta una serie di espedienti legali per impedire che avesse attuazione la sentenza della Corte di Cassazione sull’interruzione dei trattamenti a Eluana Englaro, la Corte Costituzionale (sentenza numero 438 del 23 dicembre 2008) scriveva le seguenti parole: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Da qui bisogna partire già in questi giorni, mentre il disegno di legge passa dal Senato alla Camera. Non è retorica dire che il punto forte è costituito dal sentire delle persone, testimoniato da tutti i sondaggi, da quelli appunto sulle decisioni relative al morire a quelli sull’uso del preservativo, che mostrano non solo una distanza netta dalle posizioni delle gerarchie vaticane, ma soprattutto una consapevolezza profonda della libertà e della responsabilità che devono accompagnare le scelte di vita. Ai deputati bisogna far sentire la voce di questo paese, che la maggioranza politica non ascolta, chiusa com’è nelle sue convenienze e nei suoi ideologismi, e che il Partito democratico rischia di non sentire, lasciando così senza avere rappresentanza parlamentare proprio un mondo che potrebbe essergli vicino.
Italiani brava gente
di Barbara Spinelli (La Stampa, 21/12/2008)
Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre - la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» - che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità. Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c’è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d’Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
I due scrittori invitati dall’Accademia di Svezia
Rushdie-Saviano a casa Nobel
La rabbia, la solitudine, la furia cieca: è possibile combattere con le parole?
di CONCHITA SANNINO *
STOCCOLMA - "La parola fa paura solo quando supera la linea d’ombra". Applaudono tutti, qualcuno è commosso. Sono quasi le otto di sera, in una Stoccolma candida e gelida, quando Roberto Saviano parla alla Reale Accademia di Svezia. Sorride e infine stringe la mano e abbraccia Salman Rushdie, "compagno di fatwa", come lo chiama dietro le quinte, per allentare la tensione prima dei loro discorsi paralleli.
Due scrittori lontani e diversi, eppure accomunati dalle conseguenze delle loro parole. Entrambi invitati, pur non essendo premiati, a parlare di un tema che torna ad appassionare lettori e comunità internazionale. Quello che è andato in scena ieri, a pochi passi dalla città antica e dagli allori di cui è disseminata la sede dell’Accademia, è un appuntamento che sembrava impensabile fino a poco fa. Un’analoga iniziativa di sostegno in favore degli scrittori minacciati dai totalitarismi fu infatti respinta dai "padri" del Nobel nel 1989, quando lo scrittore anglo-indiano Rushdie venne condannato dalla fatwa islamista. Una bocciatura che spinse alcuni giurati a voltare le spalle all’Accademia. Proprio una di quelle voci più coraggiose ed "eretiche", l’autrice Kerstin Ekman, si è levata di nuovo, invitando l’istituzione a mostrare pubblico sostegno sul tema della letteratura e della testimonianza di impegno civile. Ma erano seguite le iniziali riluttanze del segretario permanente dell’Accademia, Horace Engdahl, secondo cui l’Accademia non poteva occuparsi dei seguiti "giudiziari", di risvolti prevalentemente "politici" di pur valorosi libri, ritenuti in fondo problemi privati di alcuni scrittori.
Ce n’era abbastanza perché dalle colonne dell’Expressen la signora Ekman tuonasse contro Engdahl: "Ma questo è un problema anche nostro, anche tuo". Una mobilitazione su cui aveva pesato anche l’appello lanciato su Repubblica da numerosi Nobel: dal turco Orhan Pamuk al tedesco Günter Grass a Dario Fo, e con l’aggiunta di Mikhail Gorbaciov.
Qualche mese dopo, l’Accademia reale di Svezia spediva il suo invito non solo a Roberto Saviano, ma anche a Rushdie, per ripagare un torto vecchio di vent’anni, ma non per questo meno sedimentato. Ed è stato proprio Horace Engdahl, ieri sera, a presentare i due scrittori con un’introduzione molto lusinghiera, che ha sottolineato il valore letterario e civile della parola di Saviano e di Rushdie.
ROBERTO SAVIANO
Quei poteri che temono la letteratura
È davvero emozionante essere qui stasera. Quando mi è giunto l’invito dell’Accademia di Svezia, ho pensato che questa era la vera protezione alle mie parole. È una domanda complessa quella che ci interroga stasera: perché una letteratura mette in crisi potenti organizzazioni criminali, che fatturano 100 miliardi di euro l’anno, che massacrano innocenti. Io penso che una delle risposte sia: perché la letteratura ha il potere di svelare i meccanismi, di rappresentare questi crimini non in maniera tipizzata o stereotipata, come molte volte ha fatto anche il cinema - penso alla ferocia glamour de Il padrino di Scarface. Ma li svela parlando al cuore, allo stomaco e alla testa dei lettori.
Ma c’è una differenza tra quanto accade qui in Occidente e quanto accade nei regimi totalitari rispetto alla stessa parola che appare "scomoda" o pericolosa. Nei regimi oppressivi qualunque parola, o verso contrario a ciò che quel dettame impone, diventa condizione sufficiente per essere messo all’indice. Non è così in Occidente. Dove tu scrittore, o artista puoi fare, dire e pensare ciò che vuoi. A patto però di non superare la linea dell’indifferenza o del moderato ascolto. Quando invece buchi la soglia del rullo compressore, quando superi la soglia dell’ascolto e vai in alto, o in profondità, a quel punto e solo allora diventi un bersaglio. Qualcuno ha detto che dopo Primo Levi, e dopo Se questo è un uomo, nessuno può più dire di non esser stato ad Auschwitz. Non di non esserne venuto a conoscenza, ma di non esserci stato. Ecco ciò che i poteri temono della letteratura, quello criminale e gli altri poteri. Che i lettori sentano quel problema come il loro problema, quelle dinamiche come le loro dinamiche.
Quando i carabinieri ti dicono che la tua vita cambierà per sempre, oppure quando un pentito svela in quale data, a suo parere, cesserai di vivere, la prima sensazione, la prima domanda che ti fai è: che cosa ho fatto?
Inizi a odiare le parole che hai scritto, e pensi che siano le tue parole ad averti tolto la libertà di camminare, di parlare, di vivere.
Penso a una giornalista come la Politkovskaja, che ha dato una dimensione universale alla tragedia cecena, non era più solo un problema locale. Penso a uno scrittore come Salamov che ha raccontato l’inferno dei gulag, e con esso l’intera e universale condizione dell’uomo. Dopo quella letteratura, il mondo si sente rappresentato nella sua dimensione più profonda, e quindi non può prescindere più da quella parola. Allora non c’è più Russia o Cecenia o Mosca o Napoli. La mafia può condannarti, ma quello che ti ferisce sono le accuse della società civile, Dicono che stai speculando sul successo, che hai fatto tutto per visibilità. E che stai rovinando il paese. Sono ferito da quest’ultima affermazione. Perché penso che raccontare sia resistere. E stare vicino alla parte sana del Paese, a quella parte che non si arrende, che combatte le organizzazione criminale che hanno in mano grandi fette dell’economia, non solo nazionale. Qualcuno dice anche che sono ossessionato dal sangue, dalle ingiustizie. Ma chi ha dentro un’idea di bellezza e di giustizia, non può non sentire questa esigenza. Penso a quello che diceva Albert Camus: "Esiste la bellezza ed esiste l’inferno. Vorrei rimanere fedele ad entrambi".
SALMAN RUSHDIE
C’è anche chi dice: "Te la sei cercata"
Sono nel posto più geograficamente vicino al cuore della letteratura. Ed è molto importante che qui stasera si discuta della libertà della parola e del terrore che la minaccia. Un terrore vasto e diffuso, che non conosce confini. Talvolta, neanche confini di stupidità, di bizzarria.
Con Saviano ci siamo già incontrati una volta a New York. Abbiamo conversato a lungo e ho potuto rendermi conto di quanto la sua situazione fosse anche peggiore di quella che avevo vissuto io all’epoca, circa venti anni fa. Ricordo che non poteva muovere un passo senza avere almeno tre o quattro persone intorno. Quell’immagine rappresentava per me qualcosa di molto vicino e increscioso, purtroppo.
Il terrore minaccia, in questi anni, tutte le espressioni che hanno a che vedere con la manifestazione di un pensiero libero, che sia fuori dal coro, magari fuori dagli incasellamenti del politically correct. Non sono gli Stati a imporre il rispetto, ma anche le Chiese del mondo in passato hanno sempre teso a mettere dei punti fermi. Purtroppo non ci sono frontiere che tengano, per il terrore. Ma dobbiamo dare il minor potere, il minore spazio possibile a questo nemico. In questo più vasto scenario, esistono singoli casi di scrittori che diventano bersagli di paura, di minacce.
Ma c’è un modo più subdolo di delegittimare e colpire chi ha scritto parole che danno fastidio: è la delegittimazione della tua genuinità. Ci sono quelli che pensano e dicono che non è stato tutto un caso, che te lo sei cercato, che stai facendo tutto quello che fai, o che hai scritto quello che hai scritto, per un vantaggio personale. E non vedono il prezzo che paghi: anche economicamente, per proteggerti. Dal momento in cui fui raggiunto dalla condanna, questa è la ferita più profonda che mi è rimasta: perché mirava alla mia credibilità, all’integrità morale.
Qui ci stiamo chiedendo se gli scrittori hanno diritto a sconvolgere la vita delle persone, con le loro storie. Ma dal primo momento in cui noi veniamo al mondo, chiediamo storie. Non soltanto le grandi storie, ma anche piccoli fatti, o favole, o leggende, o racconti personali o corali. Anche storie imbarazzanti...
Anzi, a pensarci bene, tante storie interessanti sono imbarazzanti. Perché le storie sono le artefici della nostra crescita: sono quelle che ci aiutano a capire chi siamo, chi vogliamo essere davvero, in quale relazione ci poniamo con il mondo. È la stessa ritualità per eccellenza che distingue le storie delle singole famiglie e poi di una comunità.
Che cosa è, in fondo, la religione, da un certo punto di vista, se non la madre di tutte le storie? Ma questo fa paura a quelli che pensano, dentro di loro, che tu non devi raccontare quello che vuoi. Tu racconti quello che ti dico io, dice la mafia. E la libertà di raccontare la storia che uno ha in testa fa di uno scrittore uno scrittore libero e di un Paese un paese libero. Saviano racconta storie vere, ma fa i nomi e i cognomi. E questo lo costringe a vivere sotto scorta da tempo. Che poi Saviano sia anche un bel ragazzo, dispiace due volte.
Di solito la gente non pensa alle conseguenze. Che sono drammatiche e anche buffe. A parte che vivere con quattro uomini sotto lo stesso tetto genera spesso dubbi, domande. Io ricordo una volta a Parigi: per prendere un caffè, circondato da uomini di scorta, divenni il centro di un andirivieni, una curiosità infinita. Volevo sprofondare.
Tutti a chiedere: chi è, cos’è, che cosa succede? E chi dall’esterno vede il lato della vanità dello scrittore non sa che in quel momento egli vorrebbe solo dire: facciamola finita, portatemi via. Voglio entrare in un cinema.
* la Repubblica, 26 novembre 2008
La denuncia di Saviano: circondato dall’odio per le mie parole
Vado via perché voglio scrivere ed ho bisogno di stare nella realtà
"Io, prigioniero di Gomorra
lascio l’Italia per riavere una vita"
di GIUSEPPE D’AVANZO *
ANDRO’ via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...", dice Roberto Saviano. "Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. ’Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l’odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".
La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d’animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un’imprevedibile popolarità, dall’odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall’invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all’anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E’ come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell’attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell’energia sociale che - come un’esplosione, come un sisma - ha imposto all’agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E’ la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E’ una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?". Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E’ poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l’autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l’esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile. E’ poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l’ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l’inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.
Lo sento addosso come un cattivo odore l’odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l’onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell’infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell’esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell’infame ha scritto il libro. E quest’argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l’intera comunità può liberarsi della malattia che l’affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell’inciviltà e dell’impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E’ il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l’informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L’ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest’ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe’, tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là"".
A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana.
La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un’area d’indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.
* la Repubblica, 15 ottobre 2008
Risposta a Pamuk su letteratura e impegno
Il cuore freddo degli scrittori
di Claudio Magris *
I poeti - anche e soprattutto i più grandi come Omero e i tragici, che egli stesso tanto amava - vengono esclusi da Platone, in un famoso capitolo della Repubblica, dal suo Stato ideale e dalla formazione spirituale dell’ideale cittadino di questo utopico Stato. Solo la poesia «dorica» viene ammessa, l’arte severa che chiama alla virtù e se necessario alla battaglia, che forgia la moralità e i valori patriottici, sociali e civili; con terminologia odierna, potremmo dire che è permessa solo la letteratura impegnata.
Questa sentenza platonica è inaccettabile ed egli, autore fra l’altro anche di tragedie sia pur da lui distrutte, lo sapeva meglio di ogni altro, tanto da celebrare nello Jone la poesia quale divina mania, ispirazione che ha solo in se stessa, negli abissi e nei voli della fantasia e del sentimento, la propria sorgente e il proprio senso. Quell’espulsione platonica dei poeti dalla Repubblica è ovviamente inaccettabile, perché significherebbe totalitarismo, potere assoluto di uno Stato che non tollera espressioni difformi dal suo modello di valori e fa violenza all’individuo e al suo diritto alla diversità. Ma per respingere la condanna platonica è necessario fare i conti a fondo con essa e con la sua verità pur pericolosa e distorta, ignorando la quale è impossibile rendere giustizia alla letteratura, cogliere la sua seduzione e la sua ambiguità e dunque il significato che essa ha per la vita degli uomini, siano essi responsabili cittadini, randagi clandestini o naufraghi dell’esistenza in balia dei propri demoni e delle proprie follie.
La letteratura - ha scritto qualche giorno fa Orhan Pamuk sul Corriere, polemizzando con la politicizzazione dell’arte - non è giudizio morale bensì identificazione con un personaggio, col suo modo di essere (generoso o malvagio), con la sua fede, la sua passione, la sua violenza o il suo delirio. La letteratura non giudica né dà voti di condotta alla vita, che scorre al di là o al di qua del bene e del male; se rappresenta una rosa, sa - come diceva un gesuita e grande poeta mistico tedesco del Seicento, Angelus Silesius - che la rosa non ha perché e fiorisce perché fiorisce.
Ma identificarsi con la vita implica identificarsi con tutti i suoi aspetti e dunque non solo con la primavera in fiore ma anche con i terremoti e, per quel che riguarda gli uomini, non solo con i loro amori e i loro sogni, ma anche con il male che infliggono agli altri, le ingiustizie che commettono, le guerre che scatenano. Narrare l’esistenza di un trafficante di organi che li fa strappare ai bambini delle favelas comporta - per uno scrittore autentico, che non è un moralista - una certa identificazione, che a sua volta è sconcertante. Se l’arte è bellezza, quest’ultima non sempre è, come secondo Platone dovrebbe essere, l’apparizione del Bene e del Vero. Platone teme che l’arte, proprio perché deve prescindere da giudizi morali, possa rendersi complice dell’ingiustizia e delle violenze che regnano nel mondo; intuisce che l’individuo, dando voce ai propri sentimenti, finisce spesso per civettare col proprio egoismo, per mimare compiaciuto le miserie, le contraddizioni e talora la banalità del suo stato d’animo e per idolatrare la perfezione della sua opera a scapito dell’umano: se rappresenta commosso un incendio, un poeta rischia di commuoversi più per le mirabili rime in cui descrive le vittime tra le fiamme che per le sofferenze reali di quelle vittime.
I poeti esibiscono spesso grandi sentimenti, ma essi - dice un verso di Milosz, grande poeta - hanno spesso un cuore freddo, anche se danno ad intendere il contrario, in primo luogo a se stessi.
La cosiddetta letteratura impegnata ritiene invece che il suo compito sia anche - per taluni soprattutto - quello di portar aiuto alle vittime di quell’incendio, di contribuire a cambiare il mondo e non solo di rappresentarlo. Un impegno morale e dunque inevitabilmente politico, in quanto la politica è (o dovrebbe essere) la necessaria capacità di vedere - e lenire - non solo il bisogno del singolo individuo che conosciamo e che ci è caro, ma pure quello di tanti altri individui, a noi personalmente ignoti, che si trovano in condizioni analoghe e che sono cari ad altri, né più né meno importanti di noi. Un’opera letteraria, anche se nasce da un’irripetibile situazione individuale, si rivolge a tutti e dunque, se ha un messaggio morale, quest’ultimo diviene pure politico, perché entra nella vita, nei pensieri, nei sentimenti della polis, della comunità. La democrazia, così schernita quale astrazione ideologica dal pensiero reazionario, è invece la capacità fantastica di capire e sentire che anche i milioni che non conosciamo - e per i quali ovviamente non possiamo provare personalmente affetto o passione - sono altrettanto reali e concreti, fatti di carne e di sangue come noi e i nostri amici. In questo senso ogni romanzo, a prescindere dall’ideologia professata dall’autore, è democratico, perché ci mette nei panni e nella pelle degli altri. Ma l’impegno non riguarda gli scrittori o gli artisti in quanto tali e tanto meno li riguarda più di altre categorie.
Gli elementari doveri verso gli altri concernono ogni uomo; essere leali, soccorrevoli, sinceri, fedeli è un fondamento di ogni esistenza. Gli scrittori e gli artisti non sono un clero laico che amministri spiritualmente l’umanità né capiscono la vita e la politica necessariamente meglio di altri. Molti fra i più grandi scrittori del Novecento sono stati fascisti, nazisti, comunisti adoratori di Stalin; continuiamo ad amarli, a capire il tortuoso e spesso doloroso itinerario che li ha portati a identificarsi con la malattia scambiandola per una medicina e ad imparare da essi pure una profonda umanità che la loro aberrazione ideologica non è riuscita a soffocare, ma di politica essi capivano certo meno di milioni di loro sconosciuti contemporanei.
La responsabilità verso il mondo riguarda ogni persona, nel suo rapporto con gli altri, e coinvolge la sua vita e il suo lavoro, poco importa se da avvocato, scrittore o barbiere. Il romanzo, ha detto di recente Doris Lessing, non dev’ essere un manifesto politico; l’impegno politico, va aggiunto, non si esaurisce certo con la firma sotto manifesti che troppo spesso assomigliano alla lista degli iscritti a un club esclusivo. Il grande Ernesto Sábato non si è limitato a firmare proclami contro la dittatura dei generali argentini, ma ha sacrificato per un lungo periodo la sua attività di scrittore alla ricerca dei desaparecidos.
«Mettersi al servizio di una causa, ha detto Pamuk, distrugge la bellezza della letteratura». Forse è invece il modo in cui ci si mette al servizio di una causa che distrugge, potenzia o addirittura stimola a creare la bellezza. Lo scrittore non è un responsabile padre di famiglia, ma è piuttosto un figlio ribelle che obbedisce al suo demone; la letteratura ama il gioco, la libertà di inventare la vita come il barone di Münchhausen, di rendere la realtà leggera come un palloncino colorato che scappa di mano e se ne va per conto suo. Piegare tutto questo a un’ideologia, a una causa, a un dovere uccide la letteratura. Ma se mettersi al servizio di una causa diventa passione, potenza fantastica che identifica - a torto o a ragione - quella causa con la vita, allora pure l’impegno può diventare poesia, estro, libertà immaginosa. Virgilio che canta l’impero romano, Kipling quello britannico e Brecht il comunismo fanno poesia; il cattolicesimo - vissuto, non predicato - di Bernanos è indissolubile dalla sua epica; lo sdegno morale e l’ideale imperiale o metafisico di Dante creano vette non inferiori alla partecipe pietà per Paolo e Francesca. Se in passato occorreva contestare la soffocante pressione politica e ideologica sulla letteratura, oggi - come hanno osservato Alberto Asor Rosa e Franco Cordelli - è piuttosto il volgare o sgomento rifiuto della politica a minacciare la visione del mondo e indirettamente pure la poesia, a spegnere quella che Pierluigi Battista, sul Corriere, ha chiamato «una passione creativa ineguagliata nell’era del disincanto» e dovuta alla «stagione militante e ideologica precedente». L’eclissi del sole dell’avvenire sta comportando il tramonto del senso del futuro, della speranza del mondo.
I grandi fondatori di religioni, da Gesù a Buddha, hanno annunciato verità, ma per farle concretamente capire e sentire agli uomini hanno avuto bisogno della letteratura: hanno raccontato parabole, in cui la verità si incarna nella vita e diviene vita, e la dottrina diviene racconto. È questa l’autentica dimensione morale - e di conseguenza l’impegno politico - della letteratura, che non predica bensì mostra. Joseph Conrad non impartisce sermoni, ma leggendo le sue storie si capisce, si sente cosa vuol dire vivere nella lealtà o nella menzogna, nel coraggio o nella paura, nel buon combattimento o nella diserzione. In questo senso - ma solo in questo senso - la letteratura è un’educazione all’umano, efficace solo se non si propone di educare ma lo fa d’istinto, con la rappresentazione delle cose. Pure l’educazione in senso stretto, peraltro, è efficace solo se non predica, bensì mostra e fa sentire i valori. I miei genitori non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, ma non mi hanno mai nemmeno detto che non si pranza al gabinetto; semplicemente, il loro modo di vivere, lavorare, divertirsi rendeva impensabile che si potesse essere razzisti o mangiare gli spaghetti nella toilette. Se avessero dovuto dirmelo esplicitamente, sarebbe forse già stato troppo tardi.
La rappresentazione letteraria è anche giudizio, ma implicito e sempre comprensivo della totalità: in Delitto e castigo Dostoevskij riesce a comunicarci l’umana desolazione che induce Raskolnikov al delitto e a farci partecipi del suo destino, ma ci fa anche capire - e dunque giudicare - la stupida banalità delle idee che lo spingono al delitto e l’orrore di quest’ultimo. La letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dèi, e quella notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori. Sábato, che ha parlato di queste due scritture, dice, in un libro nobilmente impegnato, che le sue profonde verità non si trovano in quel libro bensì in altri suoi racconti tenebrosi - «verità anche orribili, che talora mi hanno tradito». Quando scende lì sotto, gli ho detto anni fa a Madrid, scopre che due più due fanno forse quattro, forse nove, e che è impossibile e insensato appurarlo con esattezza. Ma quando risale alla superficie non ne approfitta per imbrogliare il conto al ristorante.
Ogni romanzo, al di là delle ideologie, è democratico perché ci mette nei panni e nella pelle degli altri. Quando la causa sposata si identifica con la vita, allora pure l’impegno può diventare poesia
* Corriere della Sera, 21 ottobre 2007
Lo sguardo di De Certeau sul ’68 parigino
Un’antologia raccoglie gli scritti del gesuita, che nel maggio francese colse, con lungimiranza e un po’ di ironia, i primi sintomi del post-moderno
di Filippo Rizzi (Avvenire, 30.06.2007)
Il maggio del 1968 a Parigi? Rappresentò la «presa della parola» da parte degli studenti della Sorbona ed ebbe lo stesso valore simbolico della «presa della Bastiglia nel 1789». Fu l’immagine sferzante e allo stesso tempo suggestiva che utilizzò Michel de Certeau (1925-1986) in un saggio per la rivista Etudes per simboleggiare cosa significarono per la Francia laica e repubblicana e per il mondo intero i moti universitari del 1968. E oggi un libro - La presa della parola e altri scritti politici - a più di vent’anni dalla morte del noto intellettuale gesuita francese, storico, antropologo e psicanalista, ha voluto ripubblicare in una specie di collectanea tutti gli scritti profetici e inediti di quel tempo. Ma non solo. In queste pagine vengono riproposte le sferzanti analisi di De Certeau sulle dittature e le condizioni dei poveri e degli indios in America latina o sul ruolo dei media e della comunicazione nelle società occidentali. Merito di aver dato alle stampe questo piccolo gioiello letterario è dell’allieva di Michel de Certeau («il maestro che non voleva discepoli»), Luce Giard. «Cosa più preziosa di queste pagine - scrive la Giard nella prefazione - è l’assistere al lavoro di una intelligenza generosa e forte, capace di rispettare la differenza altrui, abitata da una segreta tenerezza per la folla anonima».
E infatti forse il merito indiscusso di questo volume sta nel permettere al lettore di conoscere un Michel de Certeau che non veste più i panni dello storico della spiritualità del Seicento ma quelli del sociologo che indaga sulle ferite e dinamiche del post-moderno. Certamente le pagine più acute sono quelle dedicate al maggio parigino, alla sua sferzante critica verso il sistema e incredibilmente anche verso uno dei fautori di quella protesta, il filosofo Jean-Paul Sartre, definito «un grande uomo, che invecchia così male».
Nei suoi saggi si sente l’eco implicito di ciò che avviene contemporaneamente a Praga e l’influsso di uno dei padri della sociologia moderna Alain Touraine. Nelle pagine successive De Certeau affronta le varie sfide della Francia che verrà, definita dallo stesso autore di origini savoiarde, come «prospera e insoddisfatta»: dal mito «dell’urbanizzazione del territorio», all’ingresso degli immigrati (algerini, vietnamiti) con il connesso problema delle identità nel tessuto vivo della società, al ruolo dei media (tv, radio, giornali) nella vita quotidiana dei francesi di ogni classe sociale ma anche all’affievolirsi, causa la secolarizzazione, del ruolo pubblico della Chiesa cattolica e del matrimonio ma anche delle autorità (da De Gaulle in giù).
Il merito indubbio di questo libro è quello di proporci un De Certeau meno conosciuto, meno indagatore della vita dei mistici del Seicento e più osservatore del suo tempo, di quella «folla anonima» e di quel «Mai senza l’Altro» che anche, in queste pagine, rimangono il filo conduttore e la traccia portante della sua ricerca di intellettuale e di gesuita inquieto.
Michel de Certeau
La presa della parola
e altri scritti politici
a cura di Luce Giard
Meltemi. Pagine 239. Euro 19,50