Una sera di maggio del ’34 il poeta Osip Mandelshtam recitò davanti al funzionario della polizia segreta queste parole: "Viviamo senza fiutare più sotto di noi il paese". Firmò così la sua fine: Stalin non lo perdonò e lo mandò a morire in un gulag. Ora dagli archivi emergono i documenti degli interrogatori Che mostrano come si costruisce una sentenza politica senza appello
Urss, la fabbrica delle condanne perfette
L’arresto avvenne anni dopo
Tra le sue carte, una poesia giovanile:
"Perché mai così poca musica? Perché mai un tale silenzio?"
di Nicola Lombardozzi (la Repubblica, 06.06.2010)
Mosca. Il poeta sapeva che il dittatore non l’avrebbe mai perdonato. Il poeta era stanco, rassegnato, sicuro che qualcuno tra i suoi amici più cari l’avesse tradito, consegnato alla macchina spietata del terrore staliniano. Mormorò un verso, il primo: «Noi viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese».
Dall’altra parte della scrivania, in quel tetro ufficio della Lubjanka, il funzionario addetto agli interrogatori cominciò a scrivere su un foglietto di carta da quaderno con la sua penna blu. Lentamente, burocraticamente, senza cambiare espressione del viso.
Il poeta continuò tutto di un fiato la sua confessione in rima: «I nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza...». Il funzionario annotava, e la voce del poeta si faceva sempre più sicura mentre il testo proibito che non aveva mai osato mettere per iscritto prendeva forma, tra tutte quelle informative e rapporti di polizia che servivano a dimostrare la sua pericolosità «per l’autorità dei Soviet» e segnare la sua fine. Il poeta lo firmò.
Quel testo, dettato in una sera di maggio del 1934, è l’unico manoscritto autografo del più famoso epigramma del poeta custodito per più di settant’anni negli archivi dell’allora Nkvd, la polizia segreta sovietica, in una cartellina beige con la scritta: "Fascicolo personale n.662 del detenuto Osip Emileevic Mandelshtam".
Dentro c’è la storia della lotta senza speranza tra uno dei più grandi poeti di Russia e il potere. Un gioco di minacce, isolamento e repressione, che si concluse il 27 dicembre del 1938 con la morte di Mandelshtam nel gulag di Vtoraja Recka, alle porte di Vladivostok. Aveva quarantasette anni. La sua storia sta per apparire in un dossier della Fondazione Mandelshtam e dalla Novaja Gazeta, basato su documenti inediti.
Scomodo, Mandelshtam lo era stato da sempre e per tutti. I suoi primi arresti risalgono al 1920 e l’accusa è paradossalmente opposta a quella che lo avrebbe portato al gulag. La prima volta fu interrogato a lungo a Feodossia, nella Crimea che resisteva al comunismo. Fu torchiato dagli agenti del generale Vranghel, uno dei comandanti della Guardia Bianca, che lo sospettavano di collaborazione con i bolscevichi. «Spirito ribelle. Tendenze anticonformistiche», erano l’unica fonte di sospetto. Di sicuro turbava la sua biografia: ebreo nato a Varsavia, studente prima a Parigi, poi a Heidelberg e infine a San Pietroburgo. Scagionato in qualche modo dalle guardie bianche fu arrestato pochi mesi dopo a Batumi, in Georgia. Questa volta furono i menscevichi georgiani ad accusarlo di essere una spia bolscevica. Accuse che avrebbero dovuto valere in seguito come medaglie al merito nell’Unione Sovietica del dopo guerra civile. Ma non fu così.
Protagonista dei circoli letterari, amico della poetessa Akhmatova, fondatore con lei del Movimento Akmeista, Mandelshtam era comunque considerato un personaggio inaffidabile per il regime. L’inizio della fine fu un viaggio con la moglie in Ucraina nel 1933, nell’orrore dell’Holomodor, la spaventosa carestia programmata da Stalin nella furia della sua guerra contro i kulaki, che provocò milioni di morti. Della sua indignazione resta un altro verso segreto dettato all’inquisitore nell’interrogatorio del 1934: «Primavera fredda, la timida Crimea è senza pane...».
Ma più di tutto vale il rapporto della polizia segreta custodito nel fascicolo 662: «Al rientro dall’Ucraina gli umori di Mandelshtam hanno preso sfumature antisovietiche. Si è isolato, tiene le tende sempre abbassate. È avvilito dalle scene di fame ma anche dai suoi fallimenti letterari. La casa editrice Gikhl (prontamente allineata agli umori del Partito, ndr) vuole togliere dai cataloghi le vecchie poesie. Delle nuove opere non se ne parla neanche».
Informatissima anche da persone molto vicine a Mandelshtam la polizia continuava a costruire il castello di prove. Ecco un’altra informativa: «Mandelshtam intende scrivere al compagno Stalin ma le sue intenzioni sono chiare. Ha detto che se solo potesse fare un viaggio all’estero sopporterebbe qualsiasi disagio pur di restare lì. Inoltre si è recentemente espresso così: da noi la letteratura non esiste più, lo scrittore è ormai un burocrate, registratore delle menzogne».
Ma a far precipitare le cose fu una riunione con amici che credeva fidati. Mandelshtam recitò a memoria la sua poesia contro Stalin Noi viviamo senza.... La voce arrivò puntualmente a chi di dovere. L’arresto scattò la notte del 13 maggio 1934. Mandelshtam fu tenuto per quattro giorni a tormentarsi in una cella della Lubjanka prima di essere portato davanti al suo inquisitore, Nikolaj Shivarov, il funzionario dei servizi esperto di questioni letterarie. L’uomo che annoterà i suoi versi.
Per quella evenienza Mandelshtam si era preparato. Aveva passato lunghe serate con il suo amico Arkadij Furmanov, ex cekista, a giocare all’inquirente, per imparare come aggirare le domande. Ma servì a poco. Convinto che il testo fosse già noto alle autorità finì per autoaccusarsi ripetendolo ad alta voce. Fece anche i nomi degli amici presenti alla audizione privata. Tre di questi furono successivamente arrestati.
Per sua fortuna però i tempi non erano ancora maturi. Il direttore delle Izvestjia, Bukharin, intercedette presso Stalin ma facendo un’altra delazione, segnalandogli cioè che anche lo scrittore Boris Pasternak difendeva il suo collega e che cominciava a lamentarsi pubblicamente. Il dittatore amava queste situazioni e si esibì in una delle sue performance preferite. Telefonò a Pasternak e gli disse secco: «Il caso Mandelshtam è stato riesaminato. Andrà tutto a posto». E poi aggiunse bonario per tranquillizzare lo scrittore terrorizzato: «Anch’io avrei fatto di tutto per salvare un amico nei guai. Inoltre lui è un genio, no?». Confuso Pasternak chiese di essere ricevuto per chiarire. Stalin riattaccò il telefono.
Così nel ’34 Mandelshtam sfuggì alla pena di morte e se la cavò con tre anni di esilio forzato a Cerdyn, negli Urali, e poi a Voronez. Ma il soggiorno alla Lubjanka lo aveva ormai devastato. Soffriva di allucinazioni, improvvisi stati febbrili. Tentò il suicidio. Nel ’37 inviò a Stalin un’ode riparatrice che ebbe un effetto devastante. Al Cremlino i versi apparvero chiaramente irrisori e carichi di doppi sensi.
La fine arrivò il 15 ottobre del 1937. Per quella data Mandelshtam aveva organizzato una serata presso l’Unione scrittori. Una mossa pubblicitaria per rientrare nel giro e uscire dagli incubi. Nel fascicolo dei servizi segreti è conservato un messaggio della Lubjanka al segretario dell’Unione scrittori. Eccola: «Stimato compagno. Il giorno 15 alle sei di sera, si terrà la lettura delle poesie di Mandelshtam. Prego provvedere alla presenza in sala!». Firmato: il segretario del Bureau della sezione Poeti, Surkov. Ordine eseguito. Mandelshtam arrivò, carico di speranze, in una sala completamente vuota. L’arresto definitivo qualche mese dopo, il 2 maggio del ’38. Processato per «comportamenti antisovietici» fu condannato ai lavori forzati a vita in un gulag. Morì poco dopo. Tra le sue carte, una poesia giovanile. «E sopra il bosco quando si fa sera/si alza una luna di rame/perché mai così poca musica/perché mai un tale silenzio?».
In quei versi così russi l’arma del tirannicidio
di Viktor Erofeev (la Repubblica, 06.06.2010)
Osip Mandelshtam scrisse i versi politici più coraggiosi e più riusciti di tutta la storia della letteratura russa. È un record. Quel proiettile di poesia diretto contro Stalin, quale può essere considerato il suo componimento del 1933 Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese, è di una precisione micidiale. A tutt’oggi, benché siano centinaia i libri su Stalin, Mandelshtam rimane il nostro più grande tirannicida poetico. Il suo talento era pari al potere dispotico di Stalin. Era una lotta tra due giganti. Due giganti che appartenevano a due generi opposti di esseri umani. Mandelshtam era un meraviglioso strumento della cultura russa, che odiava il potere russo e anelava alla sua distruzione.
Il primo tiratore che prese di mira il potere fu Aleksandr Radishov, che con il suo racconto del Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) suscitò le ire di Caterina II, che mandò l’autore in esilio. Radishov però era un letterato mediocre. Forse solo Pushkin era riuscito a scrivere degli straordinari versi d’amore per la libertà, ancora ben lontani però dall’audacia dell’epigramma di Mandelshtam che annientò il carisma politico di Stalin, lo mise a nudo e fece vedere il suo orribile corpo di mostro. Stalin apprezzò la forza del suo nemico e mostrò nei suoi confronti un’eccezionale indulgenza. Stalin incarnava e riassumeva in sé tutti gli aspetti più ripugnanti della storia del potere russo, e per giunta era determinato a riplasmare la natura umana con inaudito sadismo sul proprio modello politico. Avrebbe ucciso un uomo per peccati molto più lievi, aveva già sulla coscienza la più grave carestia dell’Urss, l’Holomodor; eppure la sfida lanciatagli dal poeta suscitò in lui, a quanto pare, un’involontaria ammirazione.
Stalin, che in gioventù era stato un poeta fallito, comprendeva la grandezza di Mandelshtam. Sentendosi sfidare per nome, egli capì che quanto più si fosse mostrato magnanimo, tanto minor forza avrebbe assunto la verità dell’avversario. Mandelshtam se la cavò con un esilio a Voronez. Vero è che quattro anni più tardi Stalin lo avrebbe schiacciato come una mosca.
D’altronde, nel 1938, l’anno del grande terrore, Stalin punì Mandelshtam cancellandolo dalla lista dei tesori della cultura russa, e il poeta andò incontro alla morte certa nel gulag non più come un genio, ma come un coccio di una civiltà in frantumi.
Insomma, perché la cultura russa è così straordinaria e lo Stato russo è così ripugnante, praticamente lungo tutto il corso della storia? Vi svelerò un segreto, il motivo è questo: la cultura russa, la parola letteraria russa sono splendide proprio perché si contrappongono allo Stato russo, facendo passare tutti i loro temi, dall’amore alla morte, attraverso un fiero rifiuto della menzogna. Per parte sua, lo Stato russo è così orribile perché si oppone crudelmente alla cultura che si oppone a esso, nel tentativo di dimostrare la propria verità di supremo paternalismo. Lo Stato russo è fermamente convinto di essere nel giusto e odia la parola che sfugge alla censura. Da tempo ormai si è trasformato in un mostro che divora i poeti, e correggerlo è altrettanto difficile che costringere Mandelshtam, in preda a un terrore animale, a comporre un’ode per Stalin. Stalin e Mandelshtam sono una coppia perfetta di ballerini che in un valzer di sangue volano attraverso i secoli della nostra storia gloriosa, strangolandosi e uccidendosi a vicenda.
(Traduzione di Mirella Meringolo)
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La «Divina Commedia» : un’opera biologica e musicale
Il poeta Mandel’stam interpretò il capolavoro di Dante su base scientifica
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 09.01.2011)
Il grande poeta russo Osip Mandel’-stam scrive il Discorso su Dante nel 1933, cinque anni prima di morire in un gulag presso Vladivostok. Come ogni saggio davvero innovativo, il suo (uscito solo nel ’ 67) non è equilibrato ed ecumenico, ma radicale e arbitrario; anche se l’arbitrio è sostenuto con una logica interna inesorabile. - per Mandel’stam, Dante deve essere anzitutto liberato dalla sua fama. Poeta difficile ma appagante per i suoi contemporanei, è stato poi sopraffatto dalle vaghezze dell’arcano e dall’ossessione esegetica: «Presi dalla grammatica scolastica e dall’ignoranza allegorica, abbiamo perso di vista le danze sperimentali della Commedia» . «Danza» è termine decisivo, che evoca sia la musica sia la fisica (le «danze» degli atomi) e si lega a un altro termine, «onda» , che - ricorda Mandel’stam - «permea tutta la nostra teoria del suono e della luce» .
La Commedia sarebbe così - nella sua essenza profonda - un incontro di musica e scienza, unificate e cadenzate dalla struttura rigorosa e flessibile, esatta e dinamica- dal tessuto «resistentissimo» e «liquido» , come fosse seta - del verso dantesco. La prospettiva musicale serve a mostrare come la narrazione lineare del poema (il «viaggio» col suo portato allegorico psicologico) sia inseparabile dalla sua orchestrazione; come ne sia, anzi, un’emanazione.
E’ così possibile, secondo l’uso romantico, astrarre da quel tessuto la singola «aria» di un personaggio (come fa Mandel’stam stesso nel paragonare la confessione di Ugolino a un lancinante largo per violoncello, fitto di chiaroscuri affettivi), ma non è possibile scorporarla dal suo fondale timbrico e tonale. Non a caso, viene evocato più volte il nome di Bach, come se Dante, al tempo in cui non esisteva l’organo sei-settecentesco - ma solo i suoi «prototipi-embrioni» -, ne impiegasse già la «potenza smisurata» e tutti i registri e colori. Qui- sviluppando Mandel’stam- ci si può spingere oltre. Il legame Dante-Bach non è infatti avvertibile solo nella comune concezione «contrappuntistica» e nell’equivalenza tra la terzina e il «fugato» , ma in una sorprendente omologia tra il Paradiso e l’ultimo Bach delle Variazioni Goldberg, dell’Offerta musicale e soprattutto dell’Arte della fuga.
I due universi condividono nell’insieme la struttura radiale (evidenziata da Glenn Gould nelle Goldberg) e la luce nivea e diafana, la progressiva rarefazione della materia; e nel dettaglio, l’intreccio di riflessi e rifrazioni, con la figura dello specchio di certe fughe bachiane (una il rovescio simmetrico dell’altra) che si ritrova sia nella microstruttura del verso dantesco (vedi il chiasmo sulla Trinità, in XIV, 28-29: «Quell’uno e due e tre che sempre vive/e regna sempre in tre e due e uno» ) sia nella macrostrutttura del montaggio: nell’XI canto il domenicano Tommaso elogia San Francesco, e nel XII il francescano Bonaventura elogia San Domenico.
Strettamente connessa a quella musicale, la prospettiva scientifica permette a Mandel’stam alcune analogie penetranti, come quella «cristallografica» , che equipara la Commedia a un immenso poliedro di 14.000 facce (tante quante i versi), lavorato da migliaia di api in un brulichio cooperativo crescente con la complessità del favo, e in cui ogni ape lavora al particolare senza perdere di vista l’insieme.
E’ una comparazione «dantesca» , un vero omaggio, cui il poeta russo fa seguire un chiarimento sul carattere non solo descrittivo, ma estetico e conoscitivo, delle similitudini nella Commedia. Un pensiero metaforico che ritroveremo a quel grado solo in uno scrittore-scienziato (Robert Musil) che condivide con Dante anche la dialettica tra «anima ed esattezza» e il carattere del suo non-protagonista: il Dante-personaggio spaesato e tormentato descritto da Mandel’-stam sarebbe- senza la protezione della Provvidenza - un antefatto dell’Uomo senza qualità.
Ma anche qui, grazie alla sua esortazione di metodo («Il futuro dell’esegesi dantesca appartiene alle scienze naturali» ), Mandel’stam ci spinge ad andare oltre. A usare le scienze per decifrare non solo la tessitura del verso (l’ «orchestra chimica» ) ma anche la sua dimensione cognitiva: lui stesso cita del resto il canto XXVI del Paradiso, dove risalta il rapporto tra la luce e la fisiologia dell’occhio. Prendiamo, per esempio, due sequenze chiave del Purgatorio.
Nel canto XXV lascia meravigliati la descrizione- per bocca di Stazio e basata su Alberto Magno- degli stadi dell’embrione dopo il concepimento: simile a «spungo marino» (incrocio di spugna e fungo) dispiega tutte le sue membra, ma il passaggio decisivo avviene solo quando si è sviluppato il cervello («l’articular del cerebro è perfetto» ) e l’intervento divino immette l’ «anima intellettiva» , base della consapevolezza (di un essere «che vive e sente e sé in sé rigira» ). Oggi sappiamo quanto sia diversa l’embriogenesi -l’azione concertata della selezione, degli interruttori genetici e della scrematura neurale -; eppure, la descrizione dantesca sembra già contenerla per slancio immaginativo e grazia poetica: per tacere del fatto - casuale, ma non per questo meno emozionante -, che la neurobiologia ha dimostrato come le proteine di connessione dei nostri neuroni (del nostro pensiero) coincidano proprio con quelle di adesione cellulare in certe spugne.
Nel canto XVI - all’esatto centro del poema - Dante chiede invece conto a Marco Lombardo della crudeltà-opacità umane (perché il mondo sia «diserto/ d’ogne virtute» ) e gli viene risposto che la mente infantile è una tabula rasa soggetta -se non educata- a piaceri ingannevoli e pericolosi, e che quei piaceri -diventati nell’adulto infrazioni e crimini - dovrebbero essere contrastati da un diritto purtroppo mal amministrato («Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» ).
La sintesi è una terzina-invettiva densa come un trattato («Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che ’ l mondo ha fatto reo/e non natura che n’voi sia corrotta» ) in cui cade ogni alibi per le nostre azioni, per il nostro «libero voler» . Oggi sappiamo che il libero arbitrio e la volontà sono molto più limitati di quanto pensasse Dante (basti ricordare che tante scelte istintive affiorano alla coscienza dopo mezzo secondo) e che non sono così elevate le possibilità di plasmare la natura (i vincoli biologici) con la cultura. Ma questo, anziché ridurle, acuisce le nostre responsabilità, a partire da quelle educative. E poi, se anche la nostra libertà fosse solo un’illusione, la forza di quella sequenza la persuasività visionaria e musicale, ancora una volta, del verso dantesco riuscirebbe a darle la consistenza di una speranza.