Strade della violenza...

CAMPANIA e CAMORRA.1953: il delitto "esemplare" di Lorenzo Rago, sindaco socialista di Battipaglia.

sabato 19 agosto 2006.
 

VIOLENZE E CONNIVENZE: IN UN DELITTO «ESEMPLARE» DEL ‘53 LE RAGIONI DELLA NASCITA E DEL PROLIFERARE DELLA MALAVITA ORGANIZZATA IN CAMPANIA

-  Boss di camorra
-  così regnano i signori di Napoli

di Giovanni De Luna (La Stampa,18.08.2006)

Nel 1953, Lorenzo Rago era sindaco socialista di Battipaglia. Un ometto simpatico, industriale conserviero, con una vasta masseria verso il mare, nel cuore della Piana del Sele, terra ricca di frutti e di contrabbandieri. Sparì nella notte del 20 gennaio. Non fu mai ritrovato. Il mistero dura ancora oggi: nessun processo, nessun colpevole, nessun cadavere. Era un cugino di mia madre. Di quella sparizione mi restano ancora molti ricordi, tutti segnati dal sapore dell’infanzia: la macchina (abbandonata con le portiere spalancate e i fari accesi davanti alla fabbrica) fu portata nel nostro garage; ne seguì un indaffarato andirivieni di poliziotti, rilievi della «scientifica» a caccia di impronte digitali, giornalisti. Fremiti di eccitazione accompagnavano questa inedita notorietà di un piccolo paese, scaraventato di colpo sulle prime pagine dei giornali nazionali.

Si ventilò l’ipotesi di una pista politica: era l’anno della «legge truffa», il clima era teso, Lorenzo Rago era stato prima monarchico, poi dell’Uomo Qualunque, poi socialista, sempre portandosi dietro i voti di una vasta clientela plebea e piccolo-borghese. Qualcuno voleva fargliela pagare? Scartando altre ipotesi, più inquietanti e appena sussurate nel nostro salotto, le indagini si orientarono verso la camorra.

Sui terreni della costa dove dieci anni prima, nel ‘43, erano sbarcate le truppe anglo-americane, si svolgeva ora un fiorente contrabbando di sigarette; la masseria di Rago era in una posizione cruciale. Non solo: anche la sua fabbrica era inserita al centro di quella attività di trasformazione dei prodotti agricoli che era l’altra grande riserva di caccia della camorra. Si trattava della vendetta per uno sgarbo? Entrarono quindi in scena i grandi boss camorristici, nomi quasi fiabeschi per un bambino di allora: ‘O malommo, Pascalone ‘e Nola e, soprattutto, Vito Nappi, ‘O studente.

Nappi era rispettato e temuto, era di ottima famiglia e aveva fatto il liceo classico alla Badia di Cava dei Tirreni, vantava un curriculum notevole in cui spiccavano un conflitto a fuoco contro i tedeschi, a Scafati, al momento dello sbarco e lo schiaffo al gangster italo-americano Lucky Luciano, all’ippodrono di Agnano. Fu sospettato per il caso Rago, fu anche messo in carcere, ma ne uscì beffandosi a modo suo degli inquirenti.

Rivelazioni dagli archivi

Ora, però, un documento inedito, ritrovato da Carmen Pellegrino all’Archivio centrale dello Stato - un rapporto dei carabinieri dell’aprile ‘54 - getta una nuova luce sul suo ruolo in quella vicenda e soprattutto ci permette di capire la contiguità tra un boss camorristico e le forze dell’ordine. A un certo punto, dopo più di un anno di fallimenti, i sospetti degli inquirenti si appuntarono sul fratello dello scomparso, Fiorentino Rago. Per stanarlo si escogitò un grottesco stratagemma; Nappi lo invitò a un colloquio in cui gli ingiunse di versargli quattro milioni di lire come risarcimento per tutte le grane giudiziarie e i fastidi subiti, intimandogli di tenere la bocca chiusa su queste minacce. Al colloquio, per spiare le reazioni del sospettato, presenziarono anche due ufficiali dei carabinieri (spacciati per guardiaspallle del guappo). La trappola non scattò, Fiorentino Rago denunciò subito al commissariato di polizia il tentativo di estorsione.

Nappi non era, come si direbbe oggi, un collaboratore di giustizia. Aveva deciso di aiutare gli inquirenti affiancandosi alla legge, da potere a potere, alla pari, forte di un’autorità illegale legittimata anche dai carabinieri che avrebbero dovuto combatterla.

Della sparizione di Rago e di Vittorio Nappi parla ora un bel libro, scritto da Isaia Sales in collaborazione con Marcello Ravveduto (Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, L’ancora del Mediterraneo, pagg. 305, euro 16, 50). Su Nappi, in particolare, si leggono pagine interessanti, in una galleria di «ritratti» di boss camorristici (compreso ovviamente Raffaele Cutolo) delineata anche con un certo gusto letterario, attingendo a documenti eterogenei e suggestivi, compresi film indimenticabili come La sfida di Francesco Rosi e quel piccolo capolavoro di Eduardo De Filiuppo che è Il sindaco del rione Sanità.

La cupola? Non c’è

Quei ritratti, messi in serie, ci restituiscono i contorni di una definizione originale e convincente: la camorra non è un’organizzazione unitaria e centralizzata come la mafia. Il suo tratto distintivo è essere un insieme di clan uniti dal fatto di svolgere tutti le stesse attività criminali (contrabbando, «mediazione» sul commercio dei prodotti agricoli, prostituzione e, ora, soprattutto droga), tutte nello stesso ambito territoriale (Napoli e il suo hinterland, più altri pezzi del «piano campano») e tutte con gli stessi metodi operativi (omicidi, estorsioni...).

Questa frammentazione, questo suo disporsi come una galassia di bande con significative differenze tra le camorre specificamente napoletane e quelle che operano in provincia, le ha dato una fluidità organizzativa, la capacità di adattarsi a tutte le fasi che hanno scandito la storia di Napoli, tanto da transitare sostanzialmente senza soluzione di continuità dalla fine del Settecento a oggi. «Se fosse rimasta un’organizzazione centralizzata - scrive Sales - non avrebbe superato la soglia del Novecento, come avvenne per tutte le forme di criminalità urbane preindustriali delle grandi capitali dell’Europa».

È questo il cuore interpretativo del libro, che fa di Napoli la vera, assoluta protagonista delle sue pagine. Tutte le capitali europee si definirono, a suo tempo, intorno alla presenza di uno sterminato ceto di sottoproletari, segnati da comportamenti violenti e criminali. Le loro strade si affollarono di una plebe attirata da miraggi di ricchezze e scaraventata in un contesto di miseria e degrado. Furono le «classi pericolose» che, a Parigi come a Londra, si affiancarono alle «classi laboriose», costruendo mondi separati e minacciosi che erano città nelle città; dovunque questa fase finì con i grandi riassetti urbani, con gli sventramenti che bonificarono le antiche «corti dei miracoli», distruggendo le economie dei vicoli per riassorbire il tutto nello sviluppo delle industrie e dei commerci.

In 25 anni, 3.500 morti

A Napoli questo non è successo. I ricchi e i nobili non erano lontani, separati, divisi, ma condividevano con la plebe gli stessi spazi pubblici e gli stessi luoghi; le differenze si manifestavano nella vita e negli spazi privati, dove interni lussuosi si contrapponevano alla miseria dei bassi. La sporcizia dei vicoli, il quadro di precarietà che prorompeva dalle strade si fermava alle soglie di case principesche e sfavillanti, ma la plebe era lì, incombente, se ne avvertiva la minaccia, alimentando il ricordo dei lazzari e di Masaniello.

Invece di affrontarla e di sradicarla, si scelse di conviverci. Si rinunciò allo scontro politico, si rifiutò la possibilità di riassobirla in un altro ordine urbano, in un diverso sistema produttivo. Si arrivò anzi a una sorta di compromesso esistenziale: per blandirla, nobili e borghesi ne accettarono i modelli di comportamento cercando solo di evitarne gli eccessi, di depurarli dagli elementi più volgari e più violenti.

Fu un impasto da cui discendono molti degli stereotipi che oggi si affollano sulla «napoletanità». Quel che importa, però, è che proprio quel compromesso sociale e esistenziale fu (ed è) l’humus su cui ha prosperato la camorra. La convivenza tra nobili e plebei mise a stretto contatto i percettori della rendita agraria e una torma famelica di cocchieri, portinai, domestiche, artigiani che sui rivoli di quelle rendite riuscivano a vivere, a «campare». Il camorrista si afferma taglieggiando quelli che «campano» sui rivoli della ricchezza dei ricchi. Non è un brigante, non è un bandito urbano; egli vive parassitariamente estorcendo quei mestieri che ruotano attorno al consumo della rendita agraria, ma vive la stessa vita delle sue vittime, ha uno status riconosciuto, regole che rispecchiano i valori diffusi nella comunità del vicolo.

Esiste quindi nella storia della camorra un’intrinseca territorialità che è insieme la sua forza e la sua debolezza: c’è una simbiosi fortissima con il contesto sociale da cui nasce e in cui opera (oggi i ghetti urbani tipo Secondigliano), il suo potere territoriale è totale e asfissiante, ma fuori dal territorio in cui è insediata si diluisce, non è in grado di esercitare un controllo e un’influenza altrettanto capillare. La camorra, sostiene Sales, resta dunque un problema tutto napoletano, un problema che assume i contorni tragici della carneficina: negli ultimi 25 anni, le bande di camorra hanno commesso più di 3.500 omicidi, cifre da guerra civile.


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

-  La "Camor-ra" ... e le "Camer-e" sgarrupate!!!
-  NAPOLI e LA CAMORRA. Vincenzo Cuoco insegna! E’ una storia di lunga durata. Un’analisi di Giancarlo Nobile.


Rispondere all'articolo

Forum