VIOLENZE E CONNIVENZE: IN UN DELITTO «ESEMPLARE» DEL ‘53 LE RAGIONI DELLA NASCITA E DEL PROLIFERARE DELLA MALAVITA ORGANIZZATA IN CAMPANIA
Boss di camorra
così regnano i signori di Napoli
di Giovanni De Luna (La Stampa,18.08.2006)
Nel 1953, Lorenzo Rago era sindaco socialista di Battipaglia. Un ometto simpatico, industriale conserviero, con una vasta masseria verso il mare, nel cuore della Piana del Sele, terra ricca di frutti e di contrabbandieri. Sparì nella notte del 20 gennaio. Non fu mai ritrovato. Il mistero dura ancora oggi: nessun processo, nessun colpevole, nessun cadavere. Era un cugino di mia madre. Di quella sparizione mi restano ancora molti ricordi, tutti segnati dal sapore dell’infanzia: la macchina (abbandonata con le portiere spalancate e i fari accesi davanti alla fabbrica) fu portata nel nostro garage; ne seguì un indaffarato andirivieni di poliziotti, rilievi della «scientifica» a caccia di impronte digitali, giornalisti. Fremiti di eccitazione accompagnavano questa inedita notorietà di un piccolo paese, scaraventato di colpo sulle prime pagine dei giornali nazionali.
Si ventilò l’ipotesi di una pista politica: era l’anno della «legge truffa», il clima era teso, Lorenzo Rago era stato prima monarchico, poi dell’Uomo Qualunque, poi socialista, sempre portandosi dietro i voti di una vasta clientela plebea e piccolo-borghese. Qualcuno voleva fargliela pagare? Scartando altre ipotesi, più inquietanti e appena sussurate nel nostro salotto, le indagini si orientarono verso la camorra.
Sui terreni della costa dove dieci anni prima, nel ‘43, erano sbarcate le truppe anglo-americane, si svolgeva ora un fiorente contrabbando di sigarette; la masseria di Rago era in una posizione cruciale. Non solo: anche la sua fabbrica era inserita al centro di quella attività di trasformazione dei prodotti agricoli che era l’altra grande riserva di caccia della camorra. Si trattava della vendetta per uno sgarbo? Entrarono quindi in scena i grandi boss camorristici, nomi quasi fiabeschi per un bambino di allora: ‘O malommo, Pascalone ‘e Nola e, soprattutto, Vito Nappi, ‘O studente.
Nappi era rispettato e temuto, era di ottima famiglia e aveva fatto il liceo classico alla Badia di Cava dei Tirreni, vantava un curriculum notevole in cui spiccavano un conflitto a fuoco contro i tedeschi, a Scafati, al momento dello sbarco e lo schiaffo al gangster italo-americano Lucky Luciano, all’ippodrono di Agnano. Fu sospettato per il caso Rago, fu anche messo in carcere, ma ne uscì beffandosi a modo suo degli inquirenti.
Rivelazioni dagli archivi
Ora, però, un documento inedito, ritrovato da Carmen Pellegrino all’Archivio centrale dello Stato - un rapporto dei carabinieri dell’aprile ‘54 - getta una nuova luce sul suo ruolo in quella vicenda e soprattutto ci permette di capire la contiguità tra un boss camorristico e le forze dell’ordine. A un certo punto, dopo più di un anno di fallimenti, i sospetti degli inquirenti si appuntarono sul fratello dello scomparso, Fiorentino Rago. Per stanarlo si escogitò un grottesco stratagemma; Nappi lo invitò a un colloquio in cui gli ingiunse di versargli quattro milioni di lire come risarcimento per tutte le grane giudiziarie e i fastidi subiti, intimandogli di tenere la bocca chiusa su queste minacce. Al colloquio, per spiare le reazioni del sospettato, presenziarono anche due ufficiali dei carabinieri (spacciati per guardiaspallle del guappo). La trappola non scattò, Fiorentino Rago denunciò subito al commissariato di polizia il tentativo di estorsione.
Nappi non era, come si direbbe oggi, un collaboratore di giustizia. Aveva deciso di aiutare gli inquirenti affiancandosi alla legge, da potere a potere, alla pari, forte di un’autorità illegale legittimata anche dai carabinieri che avrebbero dovuto combatterla.
Della sparizione di Rago e di Vittorio Nappi parla ora un bel libro, scritto da Isaia Sales in collaborazione con Marcello Ravveduto (Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, L’ancora del Mediterraneo, pagg. 305, euro 16, 50). Su Nappi, in particolare, si leggono pagine interessanti, in una galleria di «ritratti» di boss camorristici (compreso ovviamente Raffaele Cutolo) delineata anche con un certo gusto letterario, attingendo a documenti eterogenei e suggestivi, compresi film indimenticabili come La sfida di Francesco Rosi e quel piccolo capolavoro di Eduardo De Filiuppo che è Il sindaco del rione Sanità.
La cupola? Non c’è
Quei ritratti, messi in serie, ci restituiscono i contorni di una definizione originale e convincente: la camorra non è un’organizzazione unitaria e centralizzata come la mafia. Il suo tratto distintivo è essere un insieme di clan uniti dal fatto di svolgere tutti le stesse attività criminali (contrabbando, «mediazione» sul commercio dei prodotti agricoli, prostituzione e, ora, soprattutto droga), tutte nello stesso ambito territoriale (Napoli e il suo hinterland, più altri pezzi del «piano campano») e tutte con gli stessi metodi operativi (omicidi, estorsioni...).
Questa frammentazione, questo suo disporsi come una galassia di bande con significative differenze tra le camorre specificamente napoletane e quelle che operano in provincia, le ha dato una fluidità organizzativa, la capacità di adattarsi a tutte le fasi che hanno scandito la storia di Napoli, tanto da transitare sostanzialmente senza soluzione di continuità dalla fine del Settecento a oggi. «Se fosse rimasta un’organizzazione centralizzata - scrive Sales - non avrebbe superato la soglia del Novecento, come avvenne per tutte le forme di criminalità urbane preindustriali delle grandi capitali dell’Europa».
È questo il cuore interpretativo del libro, che fa di Napoli la vera, assoluta protagonista delle sue pagine. Tutte le capitali europee si definirono, a suo tempo, intorno alla presenza di uno sterminato ceto di sottoproletari, segnati da comportamenti violenti e criminali. Le loro strade si affollarono di una plebe attirata da miraggi di ricchezze e scaraventata in un contesto di miseria e degrado. Furono le «classi pericolose» che, a Parigi come a Londra, si affiancarono alle «classi laboriose», costruendo mondi separati e minacciosi che erano città nelle città; dovunque questa fase finì con i grandi riassetti urbani, con gli sventramenti che bonificarono le antiche «corti dei miracoli», distruggendo le economie dei vicoli per riassorbire il tutto nello sviluppo delle industrie e dei commerci.
In 25 anni, 3.500 morti
A Napoli questo non è successo. I ricchi e i nobili non erano lontani, separati, divisi, ma condividevano con la plebe gli stessi spazi pubblici e gli stessi luoghi; le differenze si manifestavano nella vita e negli spazi privati, dove interni lussuosi si contrapponevano alla miseria dei bassi. La sporcizia dei vicoli, il quadro di precarietà che prorompeva dalle strade si fermava alle soglie di case principesche e sfavillanti, ma la plebe era lì, incombente, se ne avvertiva la minaccia, alimentando il ricordo dei lazzari e di Masaniello.
Invece di affrontarla e di sradicarla, si scelse di conviverci. Si rinunciò allo scontro politico, si rifiutò la possibilità di riassobirla in un altro ordine urbano, in un diverso sistema produttivo. Si arrivò anzi a una sorta di compromesso esistenziale: per blandirla, nobili e borghesi ne accettarono i modelli di comportamento cercando solo di evitarne gli eccessi, di depurarli dagli elementi più volgari e più violenti.
Fu un impasto da cui discendono molti degli stereotipi che oggi si affollano sulla «napoletanità». Quel che importa, però, è che proprio quel compromesso sociale e esistenziale fu (ed è) l’humus su cui ha prosperato la camorra. La convivenza tra nobili e plebei mise a stretto contatto i percettori della rendita agraria e una torma famelica di cocchieri, portinai, domestiche, artigiani che sui rivoli di quelle rendite riuscivano a vivere, a «campare». Il camorrista si afferma taglieggiando quelli che «campano» sui rivoli della ricchezza dei ricchi. Non è un brigante, non è un bandito urbano; egli vive parassitariamente estorcendo quei mestieri che ruotano attorno al consumo della rendita agraria, ma vive la stessa vita delle sue vittime, ha uno status riconosciuto, regole che rispecchiano i valori diffusi nella comunità del vicolo.
Esiste quindi nella storia della camorra un’intrinseca territorialità che è insieme la sua forza e la sua debolezza: c’è una simbiosi fortissima con il contesto sociale da cui nasce e in cui opera (oggi i ghetti urbani tipo Secondigliano), il suo potere territoriale è totale e asfissiante, ma fuori dal territorio in cui è insediata si diluisce, non è in grado di esercitare un controllo e un’influenza altrettanto capillare. La camorra, sostiene Sales, resta dunque un problema tutto napoletano, un problema che assume i contorni tragici della carneficina: negli ultimi 25 anni, le bande di camorra hanno commesso più di 3.500 omicidi, cifre da guerra civile.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Papa ai sindaci: siate vicini alla gente, mediatori e non intermediari *
Vicini al proprio popolo fino a stancarsi, ma felici di aver svolto con dedizione e correttezza il proprio lavoro di amministratori comunali. Questo dovrebbe essere ogni sindaco, secondo Papa Francesco, che stamattina ha accolto in Vaticano un’ampia delegazione dell’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni italiani.
Com’è un sindaco alla fine della sua giornata lavorativa? Stanco ma felice di aver fatto in pieno il proprio dovere a servizio della collettività, o forse meno stanco e anche con la coscienza meno a posto per aver sfruttato la propria posizione per fini personali? Sulle luci e le possibili ombre di questo ruolo si sofferma Papa Francesco, che al discorso preparato per l’incontro con l’Anci preferisce un flusso spontaneo e più genuino di considerazioni e ricordi, che richiama da vicino la sua visione del vescovo come servitore in mezzo al suo popolo. In qualche modo, afferma, anche il sindaco di una città deve nutrire questo desiderio di vicinanza alla gente che amministra:
“Il sindaco, in mezzo alla gente. Non si capisce un sindaco che non sia lì, perché lui è un mediatore, un mediatore in mezzo ai bisogni della gente. E il pericolo è diventare un sindaco non mediatore, ma intermediario. E qual è la differenza? E’ che l’intermediario sfrutta le necessità delle parti e prende una parte per sé, come quello che ha un negozio piccolo e uno che gli fornisce e prende di qua e prende di là; e quel sindaco, se esiste - lo dico come possibilità - quel sindaco non sa cosa è fare il sindaco”.
Al contrario, prosegue Papa Francesco, il “mediatore” è fatto di una ben diversa pasta:
“E’ colui che paga con la sua vita per l’unità del suo popolo, per il benessere del suo popolo, per portare avanti le diverse soluzioni dei bisogni del suo popolo. Dopo il tempo dedicato a fare il sindaco, quest’uomo, questa donna finiscono stanco, stanca, con la voglia di riposarsi un po’, ma con il cuore pieno d’amore perché ha fatto il mediatore. E questo vi auguro: che voi siate mediatori. In mezzo al popolo, per fare l’unità, per fare la pace, per risolvere i problemi e anche risolvere i bisogni del popolo”.
Questa, dice Papa Francesco, è la “spiritualità” del sindaco. La sua figura, afferma, lo riporta a quella di Gesù: “Non era sindaco - scherza - ma forse l’icona ci serve”. In particolare, lo riporta al frangente in cui Gesù era circondato dalla folla, che “lo spingeva al punto - dice il Vangelo - di quasi non poter respirare”:
“Così dev’essere il sindaco, con la sua gente, con lui, con lei, perché questo significa che il popolo, come con Gesù, lo cerca perché lui sa rispondere. Vi auguro questo. Stanchezza, in mezzo al vostro popolo, e che la gente vi cerchi perché sa che voi sempre rispondete bene”.
Un esempio di questa prossimità alla propria gente Papa Francesco lo trae dalla figura del cardinale Michele Pellegrino, citato all’inizio nel suo indirizzo di saluto dal presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino. Il cardinale Pellegrino - che guidò l’arcidiocesi del capoluogo piemontese dal 1965 al 1977 - stabilì un legame con la famiglia Bergoglio:
“Nel dopoguerra è stato lui ad aiutare la mia famiglia a trovare lavoro. E’ un bel gesto, il suo. Far ricordare questi uomini di Chiesa, questi uomini e queste donne di Chiesa - parroci, suore, laici - che sapevano camminare con il loro popolo, all’interno del popolo e con il popolo. E un po’ l’identità del sindaco è questa”.
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Fonte: www.vatican.va
L’ANALISI
Lo scandalo della democrazia
di ROBERTO SAVIANO *
DUE pistole che sparano, le pallottole che colpiscono al petto, un agguato che sembra essere anche un messaggio. Così uccidono i clan. Così hanno ucciso Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, in provincia di Salerno. Si muore quando si è soli, e lui - alla guida di una lista civica - si opponeva alle licenze edilizie, al cemento che in Cilento dilaga a scapito di una magnifica bellezza. Ma Angelo Vassallo rischia di morire per un giorno soltanto e di essere subito dimenticato.
Come se fosse normale, fisiologico per un sindaco del meridione essere vittima dei clan. E invece è uno scandalo della democrazia. Del resto - si dice - è così che va nel sud, accade da decenni. "Veniamo messi sulla cartina geografica solo quando sparano. O quando si deve scegliere dove andare in vacanza", mi dice un vecchio amico cilentano. In questo caso le cose coincidono. Terra di vacanze, terra di costruzioni, terra di business edilizio che "il sindaco-pescatore" voleva evitare a tutti i costi.
Questa estate è iniziata all’insegna degli slogan del governo sui risultati ottenuti nella lotta contro le mafie. Risultati sbandierati, urlati, commettendo il grave errore di contrapporre l’antimafia delle parole a quella dei fatti. Ma ci si deve rendere conto che non è possibile delegare tutto alle sole manette o al buio delle celle. Senza racconto dei fatti non c’è possibilità di mutare i fatti.
E anche questa storia meritava di essere raccontata assai prima del sangue. Forse il finale sarebbe stato diverso. Ma lo spazio e la luce dati alla terra dei clan sono sempre troppo pochi. I magistrati fanno quello che possono. I clan dell’agro-nocerino in questo momenti sono tutti sotto osservazione: quelli di Scafati capeggiati da Franchino Matrone detto "la belva", o gli uomini di Salvatore Di Paolo detto "il deserto", quelli di Pagani capeggiati da Gioacchino Petrosino detto "spara spara", il clan di Aniello Serino detto "il pope", il clan Viviano di Giffoni, i Mariniello di Nocera inferiore e Prudente di Nocera superiore, i Maiale di Eboli.
Il fatto è che il Cilento, terra magnifica, ha su di sé gli occhi e le mani delle organizzazioni criminali che, quasi fossero la nemesi della nostra classe politica, eternamente in lotta, si scambiano favori, si spartiscono competenze pur di trarre il massimo profitto da una terra che ha tutte le caratteristiche per poter essere definita terra di nessuno e quindi terra loro. I Casalesi sono da sempre interessati all’area portuale, così come i Fabbrocino dell’area vesuviana hanno molti interessi in zona. Giovanni Fabbrocino, nipote del boss Mario Fabbrocino, gestisce a Montecorvino Rovella, un paesino alle soglie del Cilento, la concessionaria della Algida nella provincia più estesa d’Italia, il Salernitano appunto. Il clan Fabbrocino è uno dei più potenti gruppi camorristici attualmente noti e intrattiene legami con i calabresi.
Oggi le ’ndrine nel Salernitano contano molto di più e hanno interessi che vanno oltre lo scambio di favori. Il porto di Salerno, su autorizzazione dei clan di camorra, è sempre stato usato dalle ’ndrine per il traffico di coca, soprattutto da quando il porto di Gioia Tauro è divenuto troppo pericoloso. Il potentissimo boss di Platì Giuseppe Barbaro, per esempio, è stato catturato a dicembre 2008 mentre faceva compere natalizie a Salerno.
In tutto questo, il cordone ombelicale che ha legato camorra e ’ndrangheta porta un nome fin troppo evidente: A3, ovvero autostrada Salerno-Reggio Calabria. Nel Salernitano sono impegnate diverse ditte dalla reputazione tutt’altro che specchiata. La "Campania Appalti srl" di Casal di Principe avrebbe dovuto costruire le strade intorno al futuro termovalorizzatore di Cupa Siglia. L’impresa delle famiglie Bianco e Apicella è stata raggiunta da un’interdittiva antimafia dopo le indagini della sezione salernitana della Direzione Investigativa Antimafia. Secondo gli investigatori, l’impresa rientra nel giro economico del clan dei Casalesi ed è nelle mani di uomini vicini a Francesco Schiavone.
È così diverso oggi dagli anni ’80 e ’90? Di che territorio stiamo raccontando? Di una Regione dove per la gare d’appalto per la raccolta rifiuti bisogna chiamare una impresa ligure perché in Campania non se ne trova una che non abbia legami con la camorra. Nemmeno una. Se da un lato si arresta dall’altro lato non c’è affatto una politica che tenda a interrompere il rapporto con le organizzazioni criminali. L’attuale presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro, soprannominato "Gigino a’ purpetta" (Luigino la polpetta), fu arrestato nel 1984 in un’operazione contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Nel 1985 il Tribunale di Napoli condannò Cesaro a 5 anni di reclusione "per avere avuto rapporti di affari e amicizia con tutti i dirigenti della camorra napoletana fornendo mezzi, abitazioni per favorire la latitanza di alcuni membri, e dazioni di danaro". Nel 1986 in appello il verdetto fu ribaltato e Cesaro venne assolto per insufficienza di prove. La decisione fu poi confermata dalla Corte di Cassazione presieduta dal noto giudice ammazza sentenze Corrado Carnevale. Ma, come ha raccontato L’Espresso, nonostante Cesaro sia stato scagionato dalle accuse, gli stessi giudici che lo hanno assolto hanno stigmatizzato il preoccupante quadro probatorio a suo carico. Durante il processo, in aula, furono infatti confermati gli stretti rapporti che l’attuale presidente della provincia di Napoli intratteneva con i vertici della Nco (incluso don Raffaele Cutolo). Si parlava di una "raccomandazione" chiesta a Rosetta Cutolo, sorella di Raffaele, per far cessare le richieste estorsive di Pasquale Scotti, personaggio tuttora ricercato ed inserito nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. (Consiglio caldamente di fare una piccola ricerca su youtube per "Luigi Cesaro esilarante", ascolterete un monologo del presidente della provincia che sarà più eloquente delle mie parole).
Tutto questo non si può tacere. E chi lo tace è complice. Mi viene da chiedere a chi in questo momento sta leggendo queste righe
se ha mai sentito parlare di Federico Del Prete, sindacalista ucciso nel 2002 a Casal di Principe.
Se ha mai sentito parlare di Marcello Torre, sindaco di Pagani ucciso nel 1980 perché cercava di resistere a concedere alla camorra gli appalti per la ricostruzione post terremoto. -E di Mimmo Beneventano vi ricordate? Consigliere comunale del Pci, trentadue anni, medico, fu ucciso nel 1980 a Ottaviano per ordine di Raffaele Cutolo perché ostacolava il suo dominio sulla città.
E di Pasquale Cappuccio? È stato consigliere comunale del Psi, avvocato, ucciso nel 1978 sempre a Ottaviano.
E Simonetta Lamberti, uccisa a Cava dei Tirreni nel 1982. Aveva dieci anni e la sua colpa era essere la figlia del giudice che andava punito. Le scariche del killer raggiunsero lei al posto del loro obiettivo. Qualcuno di questi nomi vi è noto? Temo solo ad addetti ai lavori o militanti di qualche organizzazione antimafia.
Questi nomi sono dimenticati. Colpevolmente dimenticati. Come, temo, lo sarà presto quello di Angelo Vassallo. Ai funerali di Antonio Cangiano, vicesindaco di Casal di Principe gambizzato dalla camorra nel giugno 1988 e da allora costretto sulla sedia a rotelle, non c’era nessun dirigente della sinistra. Tutto sembra immobile in territori dove non riusciamo nemmeno a ottenere il minimo, l’anagrafe pubblica degli eletti per sapere esattamente chi ci governa.
Le indagini sull’omicidio di Angelo Vassallo vanno in tutte le direzioni, si sta scavando nel passato e nel presente del sindaco. Perché, come mi è capitato di dire altrove, in queste terre quando si muore si è sottoposti a una legge eterna: si è colpevoli sino a prova contraria. I criteri del diritto sono ribaltati. E quindi già iniziano a sentirsi voci di ogni genere, ma nulla tralascerà la Dda. L’aveva scritto Bruno Arpaia (non a caso nato a Ottaviano) nel suo bel libro Il passato davanti a noi, che mentre i militanti delle varie organizzazioni della sinistra extraparlamentare sognavano Parigi o Pechino per far la rivoluzione e scappavano a Milano a occupare università o fabbriche, non si accorgevano che al loro paese si moriva per un no dato ad un appalto, per aver impedito a un’impresa di camorra di fare strada.
È in quei posti invisibili, apparentemente marginali che si costruisce il percorso di un Paese. Tutto questo non si è visto in tempo e oggi si continua a ignorarlo. La scelta del sindaco in un comune del Sud determina l’equilibrio del nostro Paese più che un Consiglio dei ministri. Al Sud governare è difficile, complicato, rischioso. Amministratori perbene e imprenditori sani ci sono, ma sono pochi e vivono nel pericolo.
In queste ore a Venezia verrà proiettato sul grande schermo "Noi credevamo" di Mario Martone, una storia risorgimentale che parte proprio dal Cilento, dal sud Italia. Forse in queste ore di sgomento che seguono la tragedia del sindaco Angelo Vassallo vale la pena soffermarsi sull’unico risorgimento ancora possibile che è quello contro le organizzazioni criminali.
Un risorgimento che non deve declinarsi come una conquista dei sani poteri del Nord verso i barbari meridionali: del resto è una storia che già abbiamo vissuto e che ancora non abbiamo metabolizzato. Ma al contrario deve investire sul Mezzogiorno capace di innovazione, ricerca, pulizia, che forse è nascosto ma esiste. Deve scommettere sulla possibilità che il Paese sappia imporre un cambiamento. E che da qui parta qualcosa che mostri all’intera Italia il percorso da prendere. È la nostra ultima speranza, la nostra sola risorsa. Noi ci crediamo.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
* la Repubblica, 07 settembre 2010