di Furio Colombo *
La frase chiave per capire la storia che stiamo narrando è quella del deputato della Margherita Renzo Lusetti che «ha invocato più rispetto per il santo Padre e per quello che lui rappresenta». (Il Corriere della sera, 12 gennaio).
È una frase ovvia e giusta, che provoca però una inevitabile domanda: e il rispetto per la Repubblica italiana? Infatti la presa di posizione di Lusetti era una risposta alle proteste di alcuni esponenti della Rosa nel Pugno (Villetti, Angelo Piazza) che avevano detto: «I vertici istituzionali italiani devono ignorare il discorso del Papa e proseguire esclusivamente per il bene della comunità e dei cittadini».
Ma quegli esponenti della Rosa nel Pugno sono stati i soli in tutto il Parlamento a sollevare il problema di ciò che il giorno prima il Papa aveva detto, ricevendo per una visita di auguri il sindaco di Roma, il presidente della Provincia di Roma e il presidente della Regione Lazio.
«I progetti per attribuire impropri riconoscimenti giuridici a forme di unioni diverse dal matrimonio sono pericolosi e controproducenti e finiscono inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima fondata sul matrimonio».
Ci sono tre problemi in questa frase, detta a rappresentanti delle istituzioni italiane, con i verbi all’indicativo e la formulazione di una sentenza definitiva. Il primo è che il Papa non governa la Repubblica italiana e non è stato eletto dagli italiani. Non sta parlando di religione ma di codice civile. Infatti non ha detto: «Noi vi diciamo... Noi vi raccomandiamo...». Presenta come dati di fatto incontrovertibili le sue convinzioni. Quella che avrebbe dovuto essere una conversazione in cui ciascuno ha il suo punto di vista, è diventato un editto. Ma nelle repubbliche democratiche non esistono editti, esistono opinioni che gradatamente si trasformano in posizioni, e poi in proposte di legge e poi in un dibattito (o in tanti dibattiti, con tutti i liberi pareri che la democrazia ammette e richiede). E poi segue, unico sigillo, il voto.
Il secondo problema è che il Papa è certamente un personaggio molto autorevole, ma è il Capo di un altro Stato, e questo fatto diventa evidente quando si rivolge a persone che rappresentano le istituzioni italiane.
Ha tutto il diritto di dire ciò che pensa. E, se lo desidera, anche di aggiungere le ragioni che possono fare luce sulle sue affermazioni. Per esempio: perché, se si attribuisce un diritto a chi ne è privo, si destabilizza una istituzione come il matrimonio che è due volte sostenuta, dal vincolo religioso e da quello civile? Ma può il Capo di un altro Stato indicare alle istituzioni italiane, con i verbi all’indicativo presente, ciò che deve essere fatto, adesso e subito, pena un «pericolo» di cui non ci dice niente? «Pericolo» per chi, in quale ambito o sfera? Detto da un personaggio influente a istituzioni di governo, le parole «controproducente» e «pericoloso» sono gravi. Definiscono irresponsabile chi si avventurasse per una simile strada, ovviamente «controproducente» e «pericolosa». E allora le domande si moltiplicano. Può un argomento come il dibattito in corso nella società, nella vita civile, nella politica e nel Parlamento italiano essere trattato alla stregua di un pericolo oggettivo, come una malattia, una guerra, un atto di terrorismo («pericoloso, destabilizzante»)?
Il terzo problema è la completa mancanza dei tipici espedienti di cautela che caratterizzano il linguaggio diplomatico. La Chiesa di Ratzinger è contro la pena di morte. Eppure dopo l’esecuzione di Saddam Hussein le fonti ufficiali vaticane si sono limitate a dire che «ogni vita umana è preziosa». Niente di più, per non lasciarsi coinvolgere nel sospetto di un sentimento antiamericano.
I lettori sanno che non sto parlando di un intervento occasionale e sfortunatamente male espresso dal Papa, parole che danno l’impressione di mettere liberamente le mani nella macchina politica italiana. Sto riflettendo su una fitta sequenza di editti, di enunciazioni, di intimazioni, tutte con il verbo all’indicativo, tutte privi della forma esortativa e di invocazione che è tipica della predicazione religiosa, tutte fermamente basate sull’intento di dettare legge, senza mostrare alcun margine di tolleranza per posizioni diverse.
Ciò non accade nei confronti di altri Paesi, pur altrettanto cattolici e con opinioni pubbliche altrettanto inclini a considerare alta e autorevole la voce del Papa. Ciò non accadeva con Giovanni Paolo II, le cui affermazioni, anche nette, anche aspre, erano sempre dirette al mondo, alla coscienza di tutti i credenti, non a una particolare Repubblica, non per esercitare pressione diretta sempre sullo stesso governo, quello italiano.
A me sembra giusto e anzi urgente ripetere la frase del deputato Lusetti con una correzione: non sarebbe giusto avere rispetto per l’autonomia democratica della Repubblica italiana, lo stesso rispetto riservato alle istituzioni di altri Stati, tra cui alcuni afflitti da mali e problemi ben più drammatici?
Noi (intendo dire coloro che mentre leggono si associano a quanto sto scrivendo) sappiamo benissimo quanto siano profonde le venature di autentica religiosità, di sentimento cattolico in questo Paese. Ma questa è una ragione in più per evitare di dettare legge direttamente alle istituzioni. Ovvio che non si tratta di chiedere silenzio.
Ovvio, anche, che la forma, la scelta delle parole da parte di un grande personaggio che è Capo di una Chiesa, ma è anche Capo di uno Stato, hanno un’importanza molto grande quando si interviene sulle questioni civili di un altro Stato.
Rivolgersi continuamente, come sta avvenendo in Italia, ai vertici delle istituzioni, e in certi casi anche degli schieramenti e dei partiti, dà la sgradevole sensazione di non tenere in alcun conto la struttura democratica di un Paese in cui ciascuno decide in coscienza con il voto. Ricorda la brutta prova del referendum sulla procreazione assistita, in cui il rischio che la volontà popolare risultasse diversa dalle istruzioni emanate dalla Chiesa ha portato all’espediente di ordinare ai credenti di non votare. In tal modo ogni verifica della effettiva volontà popolare è diventata impossibile anche perché l’ordine di non votare rendeva pubblico il comportamento delle persone. In altre parole, tutti potevano sapere se eri andato alle urne, disobbedendo al Santo Padre o se ci eri andato, comportandoti da cittadino italiano. Senza dubbio un bel dilemma per i credenti.
Adesso si ha l’impressione che l’Italia sia stretta in una morsa tra astensione di base e interventismo sui vertici, così che, invece che attraverso un consenso democratico liberamente raggiunto, si procede per decisioni preventive e assolute su ciò che è bene e ciò che è male per i cittadini, dando disposizioni direttamente ai governanti.
La conseguenza purtroppo è chiara: con interventi ormai consueti, come quello dell’11 gennaio, Papa Ratzinger, che se ne renda conto o no, che lo voglia o no - indipendentemente dalle sue intenzioni - sta rendendo ingovernabile l’Italia. Infatti le sue parole incoraggiano spaccature profonde e inconciliabili fra cittadini all’interno di ognuno degli schieramenti politici. Sta separando in modo drammatico credenti da non credenti e dilaniando la coscienza di molti credenti.
So che queste osservazioni saranno deliberatamente fraintese e definite una «richiesta di silenzio del Papa». Oppure, come dice Lusetti, saranno scambiate per una «mancanza di rispetto».
Sul silenzio del Papa dirò che si tratta di una interpretazione assurda. La sua capacità-possibilità, ma anche il suo privilegio (data la totale disponibilità mediatica italiana) è un dato di fatto, prima ancora che un diritto-dovere che nessuno potrebbe contestare, persino se ne avesse l’intenzione.Come sapete, il Papa ha acquisito un diritto di presenza in ogni telegiornale italiano, ogni giorno, più volte al giorno, su tutte le reti.
Quanto al rispetto, ognuno ha le sue preoccupazioni. Io chiedo rispetto per la Repubblica italiana, per le sue istituzioni elette, per i cittadini credenti e non credenti che votano, per i politici credenti e non credenti che sono eletti, ciascuno esattamente con gli stessi diritti e doveri e lo stesso grado di rispettabilità. E sembra giusto tentare di ristabilire nella vita pubblica italiana un sistema del tutto reciproco di riguardo e rispetto. Non la persuasione o la predicazione del Papa appare discutibile, dunque, ma l’intimazione, basata su un punto di vista che però viene dettato come unico percorso possibile. Non è fuori posto ricordare che il diritto civile italiano è un patrimonio di tutti, credenti e non credenti.
«I progetti per attribuire impropri riconoscimenti giuridici a forme di unione diverse dal matrimonio» saranno forse discutibili. Ma io mi azzardo a pensare che sia più discutibile il gesto di autorità e di egemonia del Papa sul diritto italiano, l’impossessamento e la manomissione di norme che sono di pertinenza dello Stato italiano e dei suoi cittadini, non della Chiesa. Ho già detto che il Papa non può governare l’Italia, ma può fare in modo che diventi ingovernabile. È permesso dirgli che ciò che sta facendo, mentre getta tutto il suo peso su questo solo Paese, è «pericoloso» e «destabilizzante»?
* l’Unità, Pubblicato il: 14.01.07 Modificato il: 14.01.07 alle ore 11.08.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
FLS
Circolare del Ministero
Nelle scuole arriva il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità
di Alessia Tripodi (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Un Sillabo per introdurre strutturalmente nelle scuole secondarie italiane l’educazione all’imprenditorialità. Costruendo percorsi didattici per sviluppare nei ragazzi conoscenze, abilità e competenze utili non solo per un’eventuale futura carriera da imprenditori, ma in ogni contesto lavorativo e nelle esperienze di cittadinanza attiva. È la novità lanciata dal ministero dell’Istruzione e contenuta in una circolare inviata a tutti gli istituti.
Iniziativa in linea con obiettivi Ue
L’iniziativa, spiega il Miur, è in linea con l’obiettivo chiave di promuovere e sviluppare le abilità imprenditoriali, definite dalla Commissione Europea con la Comunicazione 2012 «Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici» e rinnovate nella Comunicazione 2016 «A new skills agenda for Europe». Per la prima volta si introduce quindi nella scuola italiana l’Educazione all’imprenditorialità, tramite un Sillabo costruito attraverso il coinvolgimento di circa 40 stakeholder (tra cui rappresentanze nazionali, fondazioni, attori del mondo dell’innovazione, imprese, mondo cooperativo e altri attori della società civile).
Cinque macro aree
Il Sillabo, fa sapere il ministero, è suddiviso in 5 macro aree di contenuto: Forme e opportunità del fare impresa; la generazione dell’idea, il contesto e i bisogni sociali; dall’idea all’impresa: risorse e competenze; l’impresa in azione: confrontarsi con il mercato; cittadinanza economica. L’Italia, sottolinea ancora Viale Trastevere, è inoltre tra i primi paesi in Europa ad adottare strutturalmente il modello concettuale "EntreComp" (Entrepreneurship Competence Framework), il Quadro di Riferimento per la Competenza Imprenditorialità, prodotto dalla Commissione Europea. Questo intervento è legato ai finanziamenti dedicati all’Educazione all’imprenditorialità e previsti dal bando Pon 2775, in corso di valutazione, per un investimento complessivo di 50 milioni di euro.
Ideologia sillabica
di Giorgio Mascitelli (Alfabeta-2, 29.04.2018)
La nostra vita pubblica è costellata di piccoli incidenti che sarebbero stati in altre fasi storiche insoliti se non impensabili, ma che diventano oggi, più semplicemente, l’attestazione indiretta della tendenza a ricondurre senza esitazioni ogni singolo aspetto della vita sociale alle cosiddette leggi inesorabili del profitto. È il caso, per esempio, delle controversie seguite alle critiche che diversi accademici della Crusca, riuniti nel gruppo Incipit, tra i quali figurano illustri linguisti i cui insegnamenti, in tempi normali, dovrebbero essere piuttosto il punto di riferimento per l’uso dell’italiano in ambiti ufficiali, ha riservato alla lingua usata in un documento del ministero dell’istruzione, il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria. In particolare la constatazione degli accademici che nel Sillabo vi era stata una ‘meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari’ ha suscitato la reazione piccata dello stesso ministro.
Del resto già da alcuni anni molti documenti ministeriali sono redatti in una lingua aziendalistica infarcita di stereotipi e anglismi pletorici. Si tratta di una lingua chiaramente affetta da quello che Calvino chiamava il terrore semantico, ossia la fuga di fronte a ogni termine cha abbia un significato chiaro, tipico dell’antilingua delle burocrazie. I rapporti del gergo ministeriale con l’antilingua calviniana sono evidenti e tuttavia più articolati di quanto si potrebbe pensare: se da un lato esso ne è l’omologo contemporaneo quanto all’uso e alla fruizione sociali, dall’altro appare come l’esito deviato e malsano di quello sforzo di modernizzazione dell’italiano che avrebbe dovuto salvarlo dall’antilingua.
Infatti, mentre Calvino vedeva illuministicamente in una lingua pienamente comunicativa e di immediata traducibilità lo strumento linguistico di una modernità razionale, è probabile che gli estensori di questi documenti vedano in quegli aspetti del loro linguaggio che lo rendono un pidgin difficilmente traducibile tanto in italiano quanto in inglese i tratti di una comunicazione moderna che rispetta standard scientifici. Nella fiducia, nonostante tutte le evidenze di segno opposto, della sua efficacia comunicativa si rivela indirettamente uno degli aspetti dell’ideologia contemporanea ossia l’idea che il successo della scuola coincida con il suo adeguamento a determinate pratiche e concezioni internazionali o meglio promosse da alcune organizzazioni internazionali. -Siccome questi organismi presentano spesso le loro politiche scolastiche non come una strategia nascente da una certa opzione politico-culturale, ma come l’applicazione di criteri scientifici all’avanguardia politicamente neutrali, ecco allora che la lingua dei documenti ministeriali pullulerà di tecnicismi anglicizzanti.
Del resto l’antilingua burocratica di cui parlava Calvino cinquant’anni fa, in cui ‘timbrare’ si doveva dire ‘obliterare’ secondo il suo celebre esempio, veniva ricalcata su allocuzioni e sintagmi tipici della lingua giuridica, sentita come più autorevole perché emanazione della legge e dello stato; così, nel gergo dei documenti sulla scuola, l’assemblaggio di espressioni provenienti dall’informatica, dalla pedagogia anglosassone e dall’economia serve a incutere nel lettore il rispetto verso discorsi che traggono origine dalle vere autorità del nostro tempo ossia il mercato e la tecnologia. Calvino sognava la modernizzazione dell’italiano come lingua al servizio della società ossia di tutti, in un’utopia nobile anche se dalle forme un po’ tecnocratiche, perché la lingua risentirà sempre dei rapporti di potere in una società e nel contempo li rappresenterà, mentre l’antilingua di oggi, come quella di ieri, enfatizza questi rapporti di potere e si fa strumento per lasciarli inalterati.
Nella fattispecie del sopraccitato Sillabo, l’idea che tutta l’attività scolastica debba essere imperniata sull’educazione all’imprenditorialità, sulla quale verte il documento, non può che essere presentata all’interno del quadro concettuale dell’antilingua ministeriale, perché in qualsiasi altra forma linguistica rivelerebbe subito gli aspetti ideologici, totalitari e assurdi di questa idea. Non si tratta allora di qualcosa di analogo al latinorum con cui Azzeccagarbugli cerca di approfittare della propria superiorità culturale e contro il quale protesta Renzo, ma del fatto che il ricorso all’antilingua garantisce una verniciatura di moderna oggettività tecnocratica a una serie di idee e concetti, le cui matrici storicamente date sono reazionarie. Così per esempio il silent coaching, evocato nel sillabo ministeriale per stimolare forme di autoconsapevolezza imprenditoriale, se fosse stato reso con la traduzione di ‘allenamento o addestramento silenzioso’, avrebbe finito con l’istillare il dubbio nel lettore che quella che si va imponendo è una scuola unidimensionale, fortemente ideologizzata e poco incline allo sviluppo delle capacità critiche dello studente.
Che un documento del genere sia intitolato con un termine arcaico e desueto quale sillabo, che sembrerebbe essere inconciliabile con le sue velleità rinnovatrici, è curioso; infatti il termine ‘sillabo’ richiama oggettivamente nella cultura italiana il documento, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, nel quale venivano condannate tutte le dottrine progressiste dell’epoca in nome del tradizionale assolutismo pontificio. Del resto è curioso, ma non sorprendente che un testo redatto in chiave accattivante e futuristica incorra in una svista simile, perché è caratteristica di ogni antilingua quella di ignorare le sfumature storiche del linguaggio. Non occorre, però, prendersela per questo, anzi dobbiamo essere grati agli incauti estensori del nuovo sillabo di questa gaffe storica che suggerisce, sia pure in modo preterintenzionale, quali siano i veri modelli sociali a cui si ispirerà la scuola del futuro.
NOTA:
UNA "RISPOSTA"
Il documento del ministero dell’istruzione, il “Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nella scuola secondaria”, dice della punta di un “iceberg” (lodi alle “sentinelle” della Crusca e, ovviamente, a Giorgio Mascitelli e ad “Alfabeta” per la “segnalazione”) , del lunghissimo “abbraccio” culturale-politico che ha la sua parte emersa nell’art. 7 della Costituzione e la sua parte sommersa e profondissima negli apparati “scritturali” dei funzionari ministeriali dei “due Stati”, Stato d’Italia e Stato della Chiesa cattolico-romana.
Con tutte le conseguenze del caso, sia per la Costituzione della Repubblica italiana, sia per la “Costituzione dogmatica” della Chiesa. Manzoni, con i suoi “Promessi Sposi”, ha ancora lezioni da dare su tutti e due i “livelli”, sia laico sia religioso: siamo ancora alla teologia-politica del “latinorum”! Per restare sul tema della storia d’Italia e del “Sillabo” (vale a dire, l’ “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo” di Pio IX (8 dicembre 1864), molto utile potrebbe essere la lettura dei saggi presenti nel libro “Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel’900” (Il Mulino, Bologna 1972): in particolare, “Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «il Frontespizio»" di Luisa Mangoni, e, “Alcune lettere di Mons. Giuseppe De Luca a Giuseppe Bottai” a cura di Renzo De Felice; e, ancora, sia lecito, di alcune mie note su “un rinato sacro romano impero” (Gramsci, 1924): I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882).
Federico La Sala
Quei due libri in attesa di una sacra sentenza
Il processo ai giornalisti in Vaticano ricorda i tribunali sovietici
di Ezio Mauro (la Repubblica, 06.07.2016)
DA una parte la croce, incastonata nel legno che regge gli scranni della Corte. Dall’altra il busto severo di Pio XI, “professore di sacra eloquenza”, che sorveglia l’aula. Sul soffitto, il simbolo sacro delle chiavi di Pietro che normalmente aprono il regno dei cieli, ma oggi possono rinserrare anche la porta del carcere vaticano, perché qui, nel Tribunale della Santa Sede, si stanno celebrando gli ultimi atti del processo Vatileaks per la fuga di notizie riservate dai sacri palazzi.
Sulla panca degli imputati che ha sullo schienale un cordolo in rilievo, in modo che nessuno possa appoggiarsi ma tutti rimangano protesi verso la Corte, siedono due funzionari vaticani (monsignor Lucio Vallejo Balda, segretario della commissione nominata da Papa Francesco per l’indagine sulle finanze vaticane, il suo collaboratore Nicola Maio) e una donna, Francesca Immacolata Chaouqui, membro anche lei della commissione.
Nuzzi e Fittipaldi sono accusati del reato di «associazione criminale» per la rivelazione di notizie e documenti che riguardano interessi fondamentali dello Stato. Con loro, imputati di «concorso» nella divulgazione di documenti, due giornalisti, Emiliano Fittipaldi dell’Espresso e Gianluigi Nuzzi, conduttore televisivo. Ma sarebbe più giusto dire che sul banco degli imputati, nella grande sala al pianterreno del Tribunale, ci sono due libri, portati alla sbarra in mezzo all’Europa malandata e all’Occidente distratto del 2016, anno terzo dell’era Bergoglio.
Quei due libri, frutto di due separate inchieste giornalistiche, hanno in realtà molto poco a che fare con quelli che nelle democrazie vengono comunemente considerati gli «interessi fondamentali» dello Stato. Sia Via Crucis di Nuzzi che Avarizia di Fittipaldi riguardano invece la gestione disinvolta e per nulla trasparente dei fondi del Vaticano e degli istituti collegati alla Santa Sede, dai 70-80 milioni annui dell’obolo di San Pietro che finiscono ai poveri solo in minima parte, secondo la Commissione europea, alla fondazione Bambin Gesù che spende quasi mezzo milione di euro non per l’ospedale infantile ma per ristrutturare l’attico del cardinal Bertone, allo Ior che non dichiara a chi appartenevano quei quattromila conti che sono stati chiusi, e ha ancora oggi misteriosi laici intestatari dei suoi conti, al mercato delle case dei cardinali e all’immensa proprietà immobiliare della Santa Sede, al prezzo della cause di beatificazione dei santi, che arriva anche a 500mila euro per ogni anima venerabile canonizzata. Uno scandalo? Certo. Una materia che per la Curia doveva rimanere coperta, secondo quel culto del segreto avviato in Vaticano da Bonifacio VIII? Probabile. Ma cosa c’entrano la Patria e l’interesse nazionale con la denuncia del malgoverno delle sacre finanze?
In realtà due terrori congiunti pesano su San Pietro da quando sulla cupola della basilica, dove una volta nei mosaici s’innalzava immacolata la fenice, vola alto il corvo. La prima paura riguarda la dimensione dei guai economici della Santa Sede, strettamente legati alla gestione oscura di troppi interessi. La seconda paura è che la mancanza di trasparenza su questa materia favorisca un gioco incrociato di ricatti, vendette e avvertimenti, diventando strumento di lotte di potere interne, amplificate dal clamore profano che gonfia ogni rivelazione all’esterno, rimandandola ingigantita dentro i sacri palazzi: soprattutto in un momento in cui l’opera di rinnovamento di Papa Francesco incontra forti resistenze nella Chiesa. Quando La Curia al completo gli si è presentata davanti per gli auguri di Natale, il 23 dicembre di due anni fa, Francesco ha dato un posto d’onore a queste due “malattie” nelle 15 piaghe che affliggono la Chiesa: il «terrorismo delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi» che trasforma gli uomini in «seminatori di zizzania, simili a Satana» e l’accumulo di beni materiali per profitto mondano, «perché il sudario non ha tasche».
Bergoglio sa che nel suo mandato in conclave c’è il recupero del ruolo della Chiesa consumato attraverso gli scandali, i peccati contro il sesto e il settimo comandamento, la rete di ricatti che da tutto questo è cresciuta avviluppando il visibile e insidiando l’invisibile della sacralità vaticana fino a deturparne il volto, come ha denunciato lo stesso Ratzinger. Anche la rinuncia di Benedetto XVI è infatti un obbligo testamentario, perché denuncia la fragilità papale davanti al peso di una responsabilità di governo diventata intollerabile, quando manca «il vigore del corpo e dell’animo ».
Il nuovo Papa è dunque consapevole fin dall’apparizione sulla Loggia di essere stato eletto in un rovesciamento geografico del potere curiale, quasi a dire basta agli intrighi e ai ricatti italiani del Palazzo, tanto che appena quattro mesi dopo la sua elezione cerca di frenare il volo dei corvi e i piani dei loro addestratori. Lo fa mettendo mano al codice penale vaticano, in particolare al paragrafo sui “Delitti contro la Patria”, aggiungendo un nuovo articolo, il 116 bis. «Chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni - dice la norma - Se la condotta ha avuto a oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede o dello Stato, si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni».
Quando escono i due libri, l’indagine della Gendarmeria scopre una «squadra operativa» che si è formata proprio nella Prefettura per gli Affari Economici, con l’obiettivo di raccogliere materiali riservati e diffonderli all’estero. Il Promotore di Giustizia, cioè il Pubblico Ministero Vaticano, individua in Balda, Chaouqui e Maio il «sodalizio criminale organizzato col presupposto di una missione da seguire per realizzare la vera volontà del Papa», attraverso la raccolta e la diffusione di notizie e documenti sensibili. Con loro, finiscono a giudizio i due giornalisti, prima con l’ipotesi di minacce sui funzionari vaticani per avere i materiali, poi col sospetto di pressioni, infine semplicemente - e incredibilmente - soltanto per aver manifestato un interesse professionale alle notizie che dal Vaticano venivano fatte filtrare. Non potendo bloccare i libri (che hanno autori ed editori italiani, e sono tutelati e soggetti alle leggi italiane) si accusano i loro due autori di «concorso» con i tre principali imputati, accusati di «associazione criminale».
Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo, ma non esiste la Costituzione, non c’è nemmeno l’articolo 21 che nella nostra Carta tutela la libertà di espressione dei cittadini, in quanto «tutti hanno diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con parole, scritti e ogni altro mezzo di diffusione», mentre «la stampa non può essere oggetto di autorizzazione o censura ». Nel tribunale vaticano, così, lunedì i Promotori di Giustizia Gian Pietro Milano e Roberto Zannotti hanno potuto accusare Nuzzi e Fittipaldi di concorso morale nella divulgazione per «l’impulso psicologico » che con la loro «presenza e disponibilità » ha «contribuito a rafforzare il proposito della rivelazione delle notizie» nei funzionari vaticani. I Promotori hanno precisato che «chi riceve notizie normalmente non è punibile». Ma hanno aggiunto: «Lo diventa se rafforza il proposito di chi le rivela. I giornalisti sono stati una ragione essenziale per divulgare le notizie». Quindi siamo davanti a questo paradosso: due giornalisti sono portati in Tribunale perché con la loro semplice «presenza e disponibilità » hanno rafforzato la decisione di divulgare le carte da parte di un «sodalizio criminale» già organizzato a tal fine in Vaticano; la pura presenza diventa una colpa; la disponibilità a raccogliere notizie un comportamento da censurare. E il mestiere di giornalista finisce sotto accusa.
Quasi una vendetta per il passato, e un monito per il futuro: qui la libertà di stampa non esiste, fare giornalismo secondo le regole e i comandamenti di ogni democrazia dietro le mura leonine può diventare un reato. E infatti mentre per Fittipaldi il Promotore ha proposto l’assoluzione per insufficienza di prove, per Nuzzi ha chiesto la condanna a un anno, con sospensione condizionale. Per Chaouqui 3 anni e nove mesi, per Balda tre anni e un mese, per Maio un anno e nove mesi.
Così finisce lo strano processo in cui gli imputati non hanno potuto avere copia del fascicolo che li riguarda, per la difesa hanno dovuto obbligatoriamente scegliere due nomi nell’elenco presso la Santa Sede degli avvocati rotali, mentre monsignor Balda ha negato in aula di aver ricevuto qualsiasi minaccia dai giornalisti, nessuno ha presentato una querela per affermazioni non veritiere nei due libri, le fonti erano istituzionali. È l’ultimo paradosso di un processo in uno Stato straniero che vede coinvolti tutti cittadini italiani (giudici, Promotori e avvocati compresi) salvo il monsignore segretario della Prefettura per gli Affari Economici. Tanto che Nuzzi ha chiesto al premier Renzi «perché il governo italiano tace, visto che sono intervenute organizzazioni internazionali a tutela della libertà di stampa».
Resta una domanda: e il Papa? Francesco ha parlato due volte di Vatileaks. La prima all’Angelus dell’8 novembre 2015, festa di San Goffredo: «So che molti di voi sono turbati dalle notizie che riguardano documenti riservati della Santa Sede sottratti e pubblicati. Voglio dirvi che rubare questi documenti è un reato, è un atto deplorevole che non aiuta. E voglio assicurarvi che questo fatto non mi distoglie dal lavoro di riforma che sto portando avanti». La seconda il 30 novembre 2015, Sant’Andrea, rispondendo ai giornalisti: «La stampa libera laica e confessionale ma professionale (perché le notizie non devono essere manipolate) per me è importante, perché la denuncia delle ingiustizie e della corruzione è un bel lavoro. Ma la stampa deve dire tutto, senza cadere nei tre peccati più comuni: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione».
In questo caso non c’è calunnia, non c’è diffamazione, non c’è disinformazione. C’è una verità scomoda, che qualcuno dal Vaticano ha voluto far conoscere all’esterno, e che i giornalisti hanno ovviamente pubblicato, verificata la fonte. C’è la fattispecie surreale dell’«impulso psicologico », trasformata in un atto d’accusa. È bastato questo al direttore di Radio Maria, Padre Livio Fanzaga, per condannare con grande anticipo Nuzzi e Fittipaldi, il 6 novembre 2015: «Quelli che mi scandalizzano sono i giuda, i giornalisti dalla lingua e dalla penna biforcuta mi fanno nauseare. Mi fa fatica pregare per loro, perché io li impiccherei, quasi quasi».
Alla fine, restano due libri sugli scranni di un Tribunale, come nel processo sovietico ai romanzi di Sinjavsky e Daniel nel 1966, quando gli imputati provarono invano a spiegare in aula che a un libro non si possono applicare categorie giuridiche. Due libri, che aspettano ormai la sacra sentenza.
I volumi di Fittipaldi e Nuzzi sono frutto di inchieste giornalistiche: nessuno ha presentato querela per affermazioni non veritiere Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo ma non esiste la Costituzione non c’è nemmeno l’articolo 21 che tutela la libertà di espressione dei cittadini.
La tonaca e il Parlamento
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 07.10.2015)
LA RIUNIONE del Sinodo segue al viaggio del Papa a Cuba e negli Stati Uniti. Un viaggio nel quale il tema del Sinodo - la famiglia e il matrimonio - è stato al centro tanto delle sue omelie e dei suoi discorsi pubblici quanto dell’opinione che lo ha interpellato - sulla sessualità e la pedofilia nella Chiesa, sul matrimionio di coppie dello stesso sesso, sul ruolo dei divorziati. Tante attese per il Sinodo sono dunque giustificate dalla forte presenza del Papa sulla scena dell’opinione pubblica mondiale. È comprensibile dunque che ci sia attenzione per le risoluzioni del Sinodo e speranza che esse non siano indifferenti all’opinione del mondo. Il comunicato rilasciato all’apertura dei lavori mostra preoccupazione per questo rapporto di reciproca influenza quando osserva che su questi temi, sul matrimonio e la famiglia, «è del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano pressioni».
Il gioco dell’opinione è orizzontale e senza esiti predeterminati. Nel tentativo di influenzare l’opinione delle persone a seguire o a respingere alcune pratiche di vita, non possiamo evitare di essere a nostra volta interpellati e portati a riflettere sulle nostre posizioni. Il gioco dell’opinione è un ping pong, chi lo mette in moto e lo anima ne viene tirato dentro e influenzato. La corrente che determina non è mai unidirezionale. Questo rende l’opinione una forza formidabile, in virtù della quale, scriveva David Hume, i molti sono governati dai pochi e i pochi non possono sottrarsi al controllo dei molti. Lo vediamo accadere ogni giorno, con qualunque leader si metta in relazione al pubblico. Anche quando a parlare è il rappresentante di Dio.
Papa Francesco ha attraversato l’America per entrare in contatto diretto con la gente di tutte le religioni e le convizioni morali, parlando a milioni di persone dei problemi che sentono vicini, dalla povertà e disoccupazione alla libertà sessuale e di relazioni matrimoniali. Egli vuole contribuire a formare l’opinione pubblica su questi temi centrali per la Chiesa e l’opinione preme a sua volta per farsi ascoltare. È davvero “inaccettabile” che questo avvenga o che i Pastori della Chiesa sentano la pressione da parte dell’opinione del mondo? Se la subiscono o meno dipenderà da loro, ma non c’è scandalo se quell’opinione alla quale essi si rivolgono ogni giorno non cerchi di influenzare la loro verità. La quale è certamente indifferente all’opinione del mondo. E tuttavia, se entra nella sfera pubblica e vuole diventare opinione diffusa a livello globale, al di là della comunità dei fedeli, essa si espone ai “rischi” del dialogo, ovvero ad essere influenzata e interpellata a sua volta.
In età predemocratica i papi scrivevavo encicliche che giungevano ai fedeli tramite i pastori e gli interpreti. Oggi scrivono encicliche che diventano bestseller e vanno direttamente al lettore e al grande pubblico del quale essi si fanno oratori. Questo comporta accettare la sfida di entrare nel circolo dell’opinione, che come sappiamo non ha riguardi nei confronti dell’autorità e interviene, cercando di discutere e influenzare, mettendosi cioè sullo stesso piano, come appunto nel ping pong. I commenti sulla pretesa dell’opinione di influenzare le verità dei prelati chiusi nel Sinodo non possono che destare stupore. È comprensibile che i prelati debbano restare fedeli alla verità e che si sentano compressi dalle pressioni dell’opinione, alla quale non devono rendere conto come i politici. Tuttavia, è altrettanto comprensibile che quell’opinione cercata con l’intento di modellarla esprima se stessa a sua volta. Difficile gioco democratico, ma impossibile da mettere a tacere una volta cominciato.
Il Sinodo, ha detto il Papa proprio per spiegare la distanza tra l’opinione del mondo e la verità dei Pastori della Chiesa, non è come il Parlamento dove «per raggiungere un consenso o un accordo comune si ricorre al negoziato, al patteggiamento o ai compromessi ». Ma da questa comparazione il Parlamento ne esce bene, poiché la discussione tra diversi e la ricerca di una soluzione per via di compromessi è segno di una pratica nobile e civile - l’opposto sarebbe la violenza o l’unanimità, la quale, a meno di non emergere spontaneamente in un solo afflato, deve comunque essere conquistata. E per muovere le convinzioni degli interlocutori verso un esito unanime non è escluso che non si usino forme di persuasione e di mediazione. Il fatto è che il Sinodo lavora a porte chiuse per non mostrare come discute e non essere sotto l’occhio giudicante del mondo, mentre il Parlamento non può esimersi da questo controllo e mostra al mondo tutti i pregi e i difetti della deliberazione pubblica.
Papa Francesco e lo stato del mondo spiegato agli americani
di Furio Colombo *
Quando la voce tonante del “marshall” del Congresso americano ha annunciato “the Pope of the Holy See”, nell’aula del Campidoglio di Washington che ospitava i deputati, i senatori, i giudici della Corte Suprema e i vertici militari del Paese, c’era benevola attesa, e un lieve, diffuso imbarazzo. L’ho sentito dire dai commentatori americani e mi è sembrato di percepirlo da spettatore che conosce il rito. Piccoli schiarimenti di voce, e una sedia o due che si muovono. Poi il silenzio teso, che non è tipico delle assemblee politiche. Salvo gli applausi, brevi e intensi ma raramente comuni a tutti, e le ovazioni (sette) non tutte unanimi. Ma il silenzio è stato il vero tributo.
Quest’uomo ha qualcosa da dire e bisogna ascoltarlo. C’era una sfida implicita nell’evento. Nessun Papa ha mai parlato al Congresso degli Stati Uniti, e benché introdotto come un capo di Stato, ci si aspettava che la sua sarebbe stata una omelia ricca di apprezzamenti, di ammonimenti, di incitamenti a sperare, insomma la religione. Francesco invece ha parlato, col passo un poco rallentato dalla lingua estranea e la voce appena sotto tono, in un luogo di voci stentoree. E con le sue parole ben misurate e senza un solo inciampo o ripetizione, ha presentato al Congresso americano lo stato del mondo. Il suo è stato un grande discorso politico. E chi, fra i commentatori americani, ha provato a usare l’argomento come rimprovero, si è trovato isolato. Il silenzio, gli applausi quasi mai unanimi ma forti, le ovazioni non al Papa ma al leader che sta attraversando un’epoca e il mondo, il pianto commosso e impossibile da nascondere dello speaker della Camera Boehner (cattolico, ma capo di una destra rigida da cui, dopo aver ascoltato Francesco, ha deciso di dimettersi) quando ha accompagnato il Papa per il saluto alla folla hanno confermato la cosa strana e mai accaduta: chi ascoltava, da un luogo privilegiato e potente, si è accorto di essersi spostato a un livello più alto non perché religioso, ma perché ti mostra l’intero orizzonte di un’epoca e ti chiede di scegliere. Bello il titolo del New York Times del 25 settembre: “Il Papa chiama ad agire”, che dato il luogo, la sede e i protagonisti, mostra la qualità straordinaria dell’evento.
Il discorso di Francesco è grande perché rovescia il discorso politico. Invece di annunciare, raccoglie la voce di chi non ha la voce. Invece di accusare spiega che ciascuno di noi è il nemico nel momento in cui diventa spietato e crudele credendo di rimettere in ordine la civiltà. Invece di decidere che cosa è bene o male, indica dei percorsi, e li segue insieme a chi lo ascolta. Nomina Lincoln, che è la libertà, Martin Luther King, che è il grande protagonista della nonviolenza ma anche del non rassegnarsi, Dorothy Day, la donna oggi ignorata da tanti americani, iniziatrice del Movimento dei Lavoratori Cattolici per organizzare la difesa del lavoro anche quando lo sfruttatore del lavoro era la Chiesa cattolica. E Thomas Merton che crea, nel discorso del Papa, due legami, con il mondo della cultura che lo ha sempre riconosciuto come un grande, e con quello del monachesimo contemplativo.
Bello il suo elenco dei fondamentalismi da cui stare lontani, quello religioso, che non è solo islamico ma anche cristiano, anche cattolico, e quello del capitalismo, quando vuole trasformare l’impresa in santuario, invece che riconoscere il luogo del rispettato lavoro insieme. Importante, e d’ora in poi dottrina della Chiesa, la condanna del più malvagio degli espedienti del potere: trasformare in nemico interno chi si oppone e non sta al gioco.
Il rifiuto della pena di morte giunge inaspettata e a metà di un applauso di chi credeva che finalmente il Papa stesse per parlare di aborto. Invece, in nome della sacralità della vita umana, ha chiesto all’America di abolire subito e per sempre la pena di morte. Ha voluto che la sua voce portasse forza e risonanza mondiale a quella di chi, da decenni (i Radicali italiani) ha iniziato e non ha mai smesso una campagna di liberazione dal boia che continua anche adesso all’Onu. La condanna delle armi che portano morte e si producono e si vendono con grandi profitti, detto in quel punto e in quel modo del suo discorso, ha affrontato un ostacolo molto grande che tormenta la democrazia americana, e a cui solo un leader come Obama ha il coraggio di opporsi. L’altro, il tentativo di respingere l’immigrazione, lo ha affrontato allargando le braccia, lo strano uomo in bianco in quella grande aula del potere per dire: “Io sono un emigrante. Sono nato da italiani sbarcati in Sudamerica. Voi tutti, in quest’aula siete emigranti, anche se di diverse generazioni. Come possiamo decidere chi non entra, chi lasciamo morire?”. Papa Francesco aveva di fronte un Congresso ammirato, disorientato, incerto tra l’ovazione e il dissenso. Ma anche stupito. Quel suo sguardo sul mondo era... è più grande della politica.
SEGRETI VATICANO/ 750 chiese di proprietà pubblica cedute gratis al Vaticano, che incassa pure le offerte. Alle spese di gestione invece ci pensa il Viminale
Probabilmente pochi lo sanno, ma chiese come Santa Croce e Santa Maria Novella a Firenze, San Gregorio Armeno a Napoli e Santa Maria del Popolo a Roma, sono di proprietà del Viminale. In tutto sono 750 le chiese patrimonio dello Stato. Ma a beneficiarne, in uso assolutamente gratuito, sono le istituzioni ecclesiastiche, che non pagano il benché minimo fitto. Né si occupano di spese di gestione, manutenzione e restauro: tutto a carico dello Stato. A riscuotere le offerte, però, è il Vaticano.
di Carmine Gazzanni *
È la storia - tutta italiana - del FEC, Fondo Edifici di Culto, nato il 20 maggio 1985 con la revisione del Concordato Lateranense ad opera dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi: una sorta di contenitore di tutto quel patrimonio ricco e variegato proveniente dagli enti religiosi discioltisi nella seconda metà del XIX secolo.
Da allora il ministro degli Interni si ritrova ad essere “legale rappresentante” di oltre 750 chiese, alcune delle quali di enorme importanza storica e religiosa. Solo per citarne alcune: San Domenico a Bologna; Santa Croce e Santa Maria Novella a Firenze; Santa Maria in Ara Coeli, Santa Maria del Popolo e la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo al Celio a Roma; Santa Chiara con l’annesso monastero e San Gregorio Armeno a Napoli; la Chiesa del Gesù a Palermo. Rientrano tra le proprietà del ministero non solo le strutture esterne, ma anche le opere d’arte e gli arredi in esse custoditi. E c’è di più: tra i possedimenti del Fec ci sono anche “immobili produttivi di rendite (appartamenti, negozi, caserme, cascine)”. E ben tre foreste. Come quella di Tarvisio, un complesso boschivo di circa 23 mila ettari.
Insomma, un patrimonio immenso. Peccato, però, che il Ministero sia un proprietario un po’ anomalo. Già, perché pur non utilizzando in alcun modo queste sue proprietà (cosa potrebbe farsene, d’altronde, di 750 chiese?), dal 1985 ha deciso pure di non guadagnarci nemmeno un soldo. Anzi, di rimetterci anche.
Le chiese e cattedrali che rientrano nel Fondo, infatti, sono cedute ad uso gratuito alle istituzioni ecclesiastiche. Non solo. Secondo quanto previsto dalle leggi in materia, non spetta nemmeno alle diocesi o al Vaticano occuparsi delle spese di gestione. Tutti i costi di manutenzione, infatti, sono a carico esclusivo del Fondo. Leggere per credere. “La Direzione Centrale per l’amministrazione del Fondo Edifici Culto - si legge sul sito - provvede, con le risorse a disposizione del Fondo, al finanziamento degli interventi di conservazione, manutenzione e restauro delle oltre 750 chiese possedute e concesse in uso gratuito all’Autorità Ecclesiastica per fini di culto, nonché delle opere d’arte in esse custodite, di cui cura anche la sicurezza (con sistemi antifurto, impianti rilevazione fumi, etc.)”.
Insomma, le autorità ecclesiastiche altro non fanno che dire messa, guadagnare, per di più, con le offerte dei fedeli e infischiarsene delle spese di manutenzione perché tanto sono a carico dello Stato.
Facciamo un esempio. Prendiamo una chiesa di grande importanza storica come può essere Santa Croce a Firenze, nella quale troviamo, tra le altre cose, “Le storie della vita di San Francesco” di Giotto e il crocifisso ligneo di Donatello. Qui, com’è facile immaginare, il flusso di turisti è ininterrotto. Se non tutti, perlomeno una grossa percentuale lascerà un’offerta. Di questa beneficerà esclusivamente l’istituzione Chiesa e non lo Stato, sebbene sia proprio quest’ ultimo ad occuparsi, come detto, della manutenzione.
Insomma, il paradosso: il proprietario cede le strutture gratis e poi, come se non bastasse, paga per le spese di gestione. E le uniche entrate previste - in questo caso le offerte dei fedeli - se le pappa tutte, per così dire, l’utilizzatore finale.
E non finisce nemmeno qui. Il Fondo, infatti, ha alle spalle una struttura robusta la quale, chiaramente, è ben stipendiata. In poche parole, il Fec costa. E non poco. Amministrato direttamente dalla direzione centrale del ministero (come detto, d’altronde, il ministro “né è rappresentante legale”), ha un direttore (il prefetto Lucia Di Mario) che coordina ben sei uffici (che vanno dal bilancio, al restauro fino alla documentazione) per un totale di circa 50 dipendenti. Non solo. A capo anche un consiglio di amministrazione formato da nove membri, che coadiuva il ministro degli interni.
Curiosa anche la composizione di questo cda: uno è il direttore del Fondo (la Di Mario), cinque sono nominati dai ministeri (tre gli Interni, uno a testa Lavoro e Cultura) e ben tre, invece, sono “designati dalla Conferenza episcopale italiana”. Cioè dai vescovi.
Strana natura questo Fondo. Tra sacro e profano. Tra pubblico e privato.
Bagnasco: "I politici non trascurino il family day" *
ROMA - Il "Family Day", avvisano i vescovi italiani, non potrà essere trascurato dai politici. "E’ la società civile che si è espressa in maniera inequivocabile e che ora attende un’interlocuzione istituzionale commisurata alla gravità dei problemi segnalati", ha detto oggi il presidente della Cei, monsignor Angelo Bagnasco, aprendo nel pomeriggio i lavori dell’Assemblea generale della Cei in Vaticano. La manifestazione di San Giovanni, ha aggiunto il presule, è "stato un fatto molto importante" "consolante per noi vescovi", e con "un’ottima riuscita". I vescovi italiani, ha aggiunto Bagnasco, non vogliono fare "da padroni", "parlare dall’alto", nè attentare alla laicità della vita pubblica. Il capo dei vescovi ha ricordato le minacce contro di lui e la Chiesa, e si è detto molto preoccupato riguardo "il rischio di una contrapposizione strumentale tra laici e cattolici". "Questa contrapposizione - ha detto oggi - in realtà non trova riscontro nel sentire della stragrande maggioranza del nostro popolo".
Quanto alle questioni sociali il presidente della Cei è stato altrettanto netto. "La nostra esperienza diretta - ha detto - registra una progressiva crescita del disagio economico sia di una larga fascia di persone sole e pensionate, sia delle famiglie che fino a ieri si sarebbero catalogate nel ceto medio". "E proporzionalmente - ha aggiunto - c’è un ulteriore schiacciamento delle famiglie che avremmo definite povere". Dalle segnalazioni ricevute, ha spiegato il presidente della Cei, "la situazione attualmente più esposta sembra essere quella della famiglia monoreddito con più figli a carico". "Spesso con difficoltà si arriva alla fine del mese. E’ da questa tipologia di famiglie che viene oggi alle nostre strutture una richiesta larga e crescente di aiuto- anche con i ’pacchi viveri’ che parevano definitivamente superati per lo più mascherata e nascosta per dignità".
* la Repubblica, 21-05-2007.
MONSIGNORE SI DIA UNA CALMATA
di Chiara Saraceno *
La gerarchia cattolica, come ogni autorità religiosa, ha sicuramente il diritto e persino il dovere di esprimersi sui temi che toccano la morale e il senso della vita. Ciò che dice va ascoltato con rispetto e con attenzione, anche quando non lo si condivide. Ma ci sono occasioni in cui è davvero difficile mantenere un atteggiamento di rispetto e ascolto. Le dichiarazioni di ieri di monsignor Betori, segretario della Conferenza episcopale italiana, a Gubbio sono una di queste - ormai sempre più frequenti - occasioni. Di fatto ha individuato come i peggiori nemici della umanità - «fomentatori di guerre e terrorismo», negatori «del riconoscimento dell’altro» a vantaggio del mantenimento di «situazioni e strutture di ingiustizia sociale» - le donne che abortiscono, le persone che riflettono sul testamento biologico e sul diritto a porre fine ad una vita che ha perso tutte le caratteristiche di vita umana, le coppie eterosessuali che convivono senza sposarsi e gli omosessuali in quanto attenterebbero alla dualità sessuale. Sono loro responsabili dei mali del mondo, non i dittatori politici ed economici, non coloro che fomentano guerre etniche e religiose, non gli sfruttatori di donne e bambini, non i mercanti di uomini e neppure coloro che in nome della morale sessuale si oppongono all’utilizzo di semplici precauzioni per evitare il diffondersi dell’Aids che da solo in alcune parti del mondo fa ancora più stragi delle guerre civili.
È difficile provare rispetto ed avere attenzione per chi confonde terroristi e violenti veri e persone che, assumendosene tutta la responsabilità e talvolta la sofferenza, compiono scelte eticamente motivate, ancorché in modo difforme dalla morale cattolica. Per chi, tra l’altro, non distingue neppure, dal punto di vista della gravità rispetto al suo stesso concetto di morale, tra aborto e convivenza senza matrimonio, tra eutanasia e approvazione dei Dico e ritiene (contro le stesse più recenti acquisizioni della Chiesa) che l’omosessualità sia uno stile di vita, e non una condizione umana in cui ci si trova a nascere e vivere. Perciò teme, un po’ grottescamente, che se si riconoscessero le coppie omosessuali nessuno più farebbe coppie (e matrimoni) eterosessuali. È una visione senza sfumature e senza distinzioni, oltre che senza rispetto. Per questo è intimamente violenta oltre che intellettualmente rozza.
Non credo che così si difenda veramente il cristianesimo. Certamente non è così che si può aspirare a ottenere rispetto e attenzione per le proprie posizioni. Si incoraggia soltanto l’escalation dell’insulto reciproco, dell’abuso del linguaggio, dell’incapacità a distinguere e ad ascoltare, della caccia al diverso. Non è né pedagogia civile né, tantomeno, pedagogia religiosa. È una chiamata alle armi. È questo che la gerarchia cattolica vuole per il suo popolo e per il nostro Paese? Chi sta davvero, per riprendere le parole di Betori, coltivando «sentimenti di arroganza e di violenza»? Un po’ di autocontrollo, per favore.
* La Stampa, 18/05/2007
Messico, approvano l’aborto Il Cardinale li scomunica
A 46 deputati: non entrate in chiesa *
L’arcidiocesi di Città del Messico ha scomunicato il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, e tutti i deputati del «Distrito federal» che hanno votato e approvato la settimana scorsa il provvedimento di depenalizzazione dell’aborto. La notizia è stata data ufficialmente dalla stessa arcidiocesi guidata dal cardinale Norberto Rivera Carrera, che in questi giorni si trova a Roma.
Il portavoce del cardinale, il sacerdote Hugo Valdemar, riferendosi ai parlamentari di Città del Messico - la capitale è governata da una maggioranza di sinistra - ha affermato: «Abbiano la decenza di non entrare in cattedrale né in nessuna altra Chiesa cattolica del mondo finché non saranno perdonati». La scomunica ha precisato Valdemar, «è un fatto, una legge della Chiesa che si applica ai cattolici».
Il Parlamento del Distretto Federale ha approvato la legge con 46 voti a favore e 19 contrari, il provvedimento ammette l’aborto entro le prime 12 settimane di gravidanza. La discussione della legge è stata accompagnata da forti polemiche e da dimostrazioni di piazza da una parte e dall’altra, mentre la Chiesa ha fatto sentire la sua voce. Anche dal Vaticano è arrivato un messaggio di Benedetto XVI che invitava i vescovi del Messico a difendere la vita.
Si tratta di una svolta in America Latina, in quanto l’unico Stato che fino ad ora si era dotato di una legislazione favorevole all’interruzione di gravidanza era Cuba. In questi mesi la discussione sull’aborto e quindi su leggi che ne permettessero la pratica, si è aperta in Paesi come il Brasile e l’Argentina, che insieme al Messico sono fra i paesi cattolici più grandi del mondo. La scomunica contro i politici che hanno votato la legge favorevole alla depenalizzazione dell’aborto rappresenta poi una presa di posizione particolarmente dura da parte della Chiesa messicana sulla quale lo stesso Vaticano nei giorni scorsi aveva espresso qualche perplessità.
Secondo il codice di diritto canonico infatti la scomunica latae sententiae appannaggio del vescovo, comprende chi ricorre alla pratica dell’aborto, cioè la donna, e chi lo rende possibile, cioè lo attua, vale a dire i medici. I politici fino ad ora non erano stati chiamati in causa per la scomunica ma solo richiamati con estrema fermezza a una coerenza di comportamenti con la dottrina della Chiesa in materia. Dunque quanto affermato dall’arcidiocesi della capitale messicana costituisce un ulteriore escalation nel confronto-scontro che in questi mesi divide la Chiesa da settori importanti della politica e delle istituzioni nell’area latinoamericana. Di fatto la linea di dura intransigenza inaugurata da Norberto Rivera Carrera sull’aborto viene messa in campo dalla Chiesa a pochi giorni dall’arrivo del Pontefice in Brasile a San Paolo e dall’inizio della V conferenza dell’episcopato latinoamericano.
Il sindaco Marcelo Ebrard, Partito della rivoluzione democratica (Prd, di sinistra), intanto, ha chiesto alla Conferenza episcopale messicana le carte della sua scomunica ovverosia la «copia del procedimento di scomunica» per vedere se esso «è conforme con le procedure vaticane». Il sindaco della metropoli messicana si è dichiarato cattolico ma ha detto di essere alla guida di un «governo responsabile». «L’unica cosa che voglio dire ai vescovi messicani è che viviamo nel XXI secolo, non nel XVI», ha detto Ebrard.
Senza prendere in considerazione la richiesta di un referendum presentata da più di 76 mila cittadini, l’Assemblea Legislativa del Distretto Federale (ALDF) aveva approvato il 24 aprile scorso la proposta di riforma al Codice Penale che contempla appunto la depenalizzazione dell’aborto durante le prime 12 settimane di gestazione. La nuova legge, approvata con 46 voti a favore, 19 contrari ed una astensione, contempla la riduzione delle pene per le donne che decidano di interrompere la gravidanza dopo il termine delle dodici settimane. Nella stessa sessione l’Assemblea Legislativa ha approvato anche una serie di cambiamenti nella Legge Sanitaria locale secondo cui le istituzioni sanitarie pubbliche della città dovranno rispondere alle richieste di interruzione della gestazione da parte delle richiedenti, e obbliga il Governo a promuovere la salute sessuale ed i diritti riproduttivi, come la maternità e paternità responsabile.
Città del Messico si è così aggiunta a Cuba, Guayana e Porto Rico, che sono per il momento gli unici luoghi in America Latina e nei Caraibi che permettono questa opzione. Alla vigilia della votazione, i Vescovi di Oaxaca hanno pubblicato un comunicato nell’intento di chiarire alcuni aspetti e rispondere ad alcune domande che si usano come pretesto per giustificare e promuovere condotte contrarie alla vita. I Vescovi avevano ricordato che «benchè un governo depenalizzi l’aborto, questo continuerà ad essere un crimine abominevole e seguirà ad essere vigente il comandamento di Dio: "Non uccidere". Le alternative per la soluzione di questo problema dovranno ricercarsi nell’intensificare gli sforzi tesi a migliorare la salute e l’educazione autentica e completa».
* l’Unità, Pubblicato il: 30.04.07, Modificato il: 30.04.07 alle ore 13.48
Messico: la chiesa scomunica i politici che approvano l’aborto
La notizia è stata data ufficialmente dalla stessa arcidiocesi guidata dal cardinale Norberto Rivera Carrera*
CITTA’ DEL VATICANO L’arcidiocesi di Città del Messico ha scomunicato il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, e tutti i deputati del «Distrito federal» che hanno votato e approvato la settimana scorsa il provvedimento di depenalizzazione dell’aborto. La notizia è stata data ufficialmente dalla stessa arcidiocesi guidata dal cardinale Norberto Rivera Carrera, che in questi giorni si trova a Roma.
Il portavoce del cardinale, il sacerdote Hugo Valdemar, riferendosi ai parlamentari di Città del Messico - la capitale è governata da una maggioranza di sinistra - ha affermato: «Abbiano la decenza di non entrare in cattedrale nè in nessuna altra Chiesa cattolica del mondo finchè non saranno perdonati».
La scomunica ha precisato Valdemar, «è un fatto, una legge della Chiesa che si applica ai cattolici». il Parlamento del Distretto Federale ha approvato la legge con 46 voti a favore e 19 contrari, il provvedimento ammette l’aborto entro le prime 12 settimane di gravidanza. La discussione della legge è stata accompagnata da forti polemiche e da dimostrazioni di piazza da una parte e dall’altra, mentre la Chiesa ha fatto sentire la sua voce. Anche dal Vaticano è arrivato un messaggio di Benedetto XVI che invitava i vescovi del Messico a difendere la vita.
Si tratta di una svolta in America Latina, in quanto l’unico stato che fino ad ora si era dotato di una legislazione favorevole all’interruzione di gravidanza era Cuba. In questi mesi la discussione sull’aborto e quindi su leggi che ne permettessero la pratica, si è aperta in Paesi come il Brasile e l’Argentina, che insieme al Messico sono fra i paesi cattolici più grandi del mondo.
La scomunica contro i politici che hanno votato la legge favorevole alla depenalizzazione dell’aborto rappresenta poi una presa di posizione particolarmente dura da parte della Chiesa messicana sulla quale lo stesso Vaticano nei giorni scorsi aveva espresso qualche perplessità. Secondo il codice di diritto canonico infatti la scomunica latae sententiae appannaggio del vescovo, comprende chi ricorre alla pratica dell’aborto, cioè la donna, e chi lo rende possibile, cioè lo attua, vale a dire i medici.
I politici fino ad ora non erano stati chiamati in causa per la scomunica ma solo richiamati con estrema fermezza a una coerenza di comportamenti con la dottrina della Chiesa in materia. Dunque quanto affermato dall’arcidiocesi della capitale messicana costituisce un ulteriore escalation nel confronto-scontro che in questi mesi divide la Chiesa da settori importanti della politica e delle istituzioni nell’area latinoamericana. Di fatto la linea di dura intransigenza inaugurata da Norberto Rivera Carrera sull’aborto viene messa in campo dalla Chiesa a pochi giorni dall’arrivo del Pontefice in Brasile a San Paolo e dall’inizio della V conferenza dell’episcopato latinoamericano.
Senza prendere in considerazione la richiesta di un referendum presentata da più di 76 mila cittadini, l’Assemblea Legislativa del Distretto Federale (ALDF) aveva approvato il 24 aprile scorso la proposta di riforma al Codice Penale che contempla appunto la depenalizzazione dell’aborto durante le prime 12 settimane di gestazione. La nuova legge, approvata con 46 voti a favore, 19 contrari ed una astensione, contempla la riduzione delle pene per le donne che decidano di interrompere la gravidanza dopo il termine delle dodici settimane.
Nella stessa sessione l’Assemblea Legislativa ha approvato anche una serie di cambiamenti nella Legge Sanitaria locale secondo cui le istituzioni sanitarie pubbliche della città dovranno rispondere alle richieste di interruzione della gestazione da parte delle richiedenti, e obbliga il Governo a promuovere la salute sessuale ed i diritti riproduttivi, come la maternità e paternità responsabile. Città del Messico si è così aggiunta a Cuba, Guayana e Porto Rico, che sono per il momento gli unici luoghi in America Latina e nei Caraibi che permettono questa opzione.
Alla vigilia della votazione, i Vescovi di Oaxaca hanno pubblicato un comunicato nell’intento di chiarire alcuni aspetti e rispondere ad alcune domande che si usano come pretesto per giustificare e promuovere condotte contrarie alla vita. I Vescovi avevano ricordato che «benchè un governo depenalizzi l’aborto, questo continuerà ad essere un crimine abominevole e seguirà ad essere vigente il comandamento di Dio: ’Non ucciderè. Le alternative per la soluzione di questo problema dovranno ricercarsi nell’intensificare gli sforzi tesi a migliorare la salute e l’educazione autentica e completa».
* La Stampa, 30.04.2007