GRAZIE ALLA VITA
di VIOLETA PARRA*
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato due stelle che, quando le apro,
io vedo e distinguo il nero dal bianco
e nell’alto cielo il fondo stellato,
e in mezzo alla folla l’uomo che amo.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato l’udito che in tutto il suo raggio
sente notte e giorno grilli e fringuelli,
martelli, turbine, latrati, tempeste
e la dolce voce di colui che amo.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato il suono e l’abecedario,
come le parole che penso e proclamo,
figlio, madre, amico e sentiero chiaro
che mi porta al cuore di chi sto amando.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato la marcia dei miei piedi stanchi;
con essi ho varcato pozzanghere e spiagge,
citta’ e deserti, montagne e pianure,
e la strada tua, la casa, il cortile.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato il cuore che vuole fuggire
quando guardo i frutti del cervello umano,
quando vedo il bene lontano dal male,
quando vedo dentro il tuo sguardo chiaro.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto;
cosi’ io distinguo la pena e la gioia,
i due elementi che fanno il mio canto,
che e’ il vostro canto, il mio proprio canto,
e il canto di tutti, il mio stesso canto.
Gracias a la vida, que me ha dado tanto
Me dió dos luceros, que cuando los abro
Perfecto distingo, lo negro del blanco
Y en el alto cielo, su fondo estrellado
Y en las multitudes, el hombre que yo amo
Gracias a la vida, que me ha dado tanto
Me ha dado el oído, que en todo su ancho
Graba noche y día, grillos y canarios
Martillos, turbinas, ladridos, chubascos
Y la voz tan tierna, de mi bien amado
Gracias a la vida, que me ha dado tanto
Me ha dado el sonido, y el abecedario
Con el las palabras, que pienso y declaro
Madre, amigo, hermano y luz alumbrando
La ruta del alma del que estoy amando
Gracias a la vida, que me ha dado tanto
Me ha dado la marcha, de mis pies cansados
Con ellos anduve, ciudades y charcos
Playas y desiertos, montañas y llanos
Y la casa tuya, tu calle y tu patio
Gracias a la vida, que me ha dado tanto
Me dió el corazón, que agita su marco
Cuando miro el fruto del cerebro humano
Cuando miro el bueno tan lejos del malo
Cuando miro el fondo de tus ojos claros
Gracias a la vida, que me ha dado tanto
Me ha dado la risa y me ha dado el llanto
Así yo distingo dicha de quebranto
Los dos materiales que forman mi canto
Y el canto de ustedes, que es el mismo canto
Y el canto de todos, que es mi propio canto
Y el canto de ustedes, que es mi propio canto.
*
In Meri Franco-Lao, Trovatori dell’America Latina, Borla, Roma 1977, pp. 110-111.
Violeta Parra fu pittrice, poetessa, musicista, ricercatrice e interprete di canzoni della cultura popolare cilena. Nata nel 1917 da padre professore di musica e madre contadina, sorella di Nicanor, si suicida nel 1967. Ha scritto Eduardo Galeano in Memoria del fuoco: "... quella cantante contadina, dalla voce flebile, che nelle sue canzoni provocatorie seppe celebrare i misteri del Cile. Violeta era peccatrice e piccante, amava la chitarra, le chiacchiere e l’innamoramento, e spesso, per ballare e fare la buffona, le si bruciavano le empanadas. ’Grazie alla vita, che mi ha dato tanto’, canto’ nella sua ultima canzone; e un sussulto d’amore la sbalzo’ nella morte".
Una raccolta di testi delle sue canzoni e’: Violeta Parra, Canzoni, Newton Compton, Roma 1979
(da: LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA. Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino", Numero 66 del 26 marzo 2006)
MERCEDES SOSA, GRACIAS A LA VIDA (Video)
L’MP3 della versione interpretata da Mercedes Sosa è scaricabile da questa pagina. Da quest’altra pagina si scarica invece la versione più "classica" interpretata da Claudia López Bascuñán. Anche la versione di Joan Baez può essere scaricata. Video You Tube
(Fonte: CANZONI CONTRO LA GUERRA).
Federico La Sala
Una spregiudicata combattente
Ricorrenze. Sono iniziate in questo mese le celebrazioni del centenario di Violeta Parra, che cadrà il 4 ottobre 2017. Cantante, compositrice, artista e poeta, ha incarnato l’anima più sovversiva del Cile tanto che Pinochet fece togliere il suo nome da un quartiere di Santiago
di Francesca Lazzarato *
A pochi passi da Plaza Italia, nel centro di Santiago del Cile, c’è un edificio basso e imponente (visto dall’alto, potrebbe assomigliare a una chitarra tagliata a metà in verticale), fatto di immense vetrate: è il museo Violeta Parra, che, inaugurato nel 2015, a partire da questo mese sarà il fulcro di almeno trecento iniziative nazionali organizzate in vista del 4 ottobre 2017, centenario della nascita di colei che il fratello Nicanor, poeta tra i più grandi, chiama Viola piadosa, admirable, volcánica, nei versi del lungo poema Defensa de Violeta Parra, oggi incisi lungo la rampa d’ingresso al museo.
Non va dimenticato, però, che in una delle strofe della «Difesa» (pubblicata per la prima volta nel 1958, e apparsa in una versione ampliata nel 1969), aggiunte dopo la morte dell’amatissima sorella, Nicanor la definisce anche «Viola funebris», aggettivo che sembra far presente un secondo anniversario, quello della morte di Violeta, suicida con un colpo di pistola nel febbraio del 1967; tra la venuta al mondo di una donna straordinaria e la sua scomparsa corrono dunque solo cinquant’anni, durante i quali ha preso vita un’opera vastissima che l’ha resa celebre non solo nel suo paese, ma in tutta l’America latina e in Europa, dove è vissuta per alcuni anni tra Francia e Svizzera, visitando instancabilmente altre nazioni per portarvi la sua musica.
È stata davvero lunga la strada percorsa dalla bambina nata in una famiglia assai povera (dieci figli, una madre sarta; un padre stroncato dalla tubercolosi e dall’alcolismo), dall’adolescente cresciuta in campagna ed emigrata nei quartieri popolari di Santiago, dalla giovane donna sposata con un ferroviere comunista e incapace di trasformarsi in casalinga rassegnata, dalla piccola cantora che si guadagnava la vita esibendosi per strada e nei bar.
E il museo, insieme alla Fondazione che porta lo stesso nome, dà conto di questo percorso tumultuoso accostando immagini e suoni, documenti, oggetti, musica (una sala è occupata da un «bosco sonoro» dove, appoggiando l’orecchio a tronchi d’albero cavi, si possono ascoltare le canzoni di Violeta) e infine opere d’arte, ossia i quadri, le ceramiche, le sculture in filo di rame e soprattutto le stupende arpilleras (grandi arazzi di juta ricamata) che «la Viola» produceva a getto continuo e che nel 1959 espose a Parigi, in un padiglione del Louvre.
Se quella di artista visuale è una delle meno note tra le tante identità di Violeta, più celebre è quella di musicista, compositrice e cantante, nonché di folclorista che ha registrato e salvato almeno tremila canti popolari del suo paese, e che nutriva il sogno di offrire a tutti il frutto del lavoro suo e di altri nell’ormai leggendaria Carpa de la Reina, un tendone da circo alla periferia di Santiago: un progetto difficile, osteggiato da molti, che le costò duro lavoro e amare delusioni, e finì per essere lo scenario del suo congedo definitivo.
Ancor meno conosciuta della Violeta pittrice e ricamatrice è poi, almeno in Europa, l’autrice dei versi raccolti finalmente in Poesia, un volume di oltre quattrocento pagine curato da Paula Miranda, docente presso l’Università Cattolica del Cile e già autrice nel 2013 di un saggio notevole, La poesía de Violeta Parra. Presentato il 4 ottobre presso il museo per dare inizio all’anno parriano, il libro include, oltre ai contributi di grandi poeti e scrittori che la stimarono e le furono amici, come de Rokha, Arguedas, Rojas, Neruda, i testi delle 118 canzoni composte da Violeta (tra esse, alcune varianti sconosciute di Gracias a la vida, la più famosa e la più fraintesa), ma anche molti testi inediti e un’autobiografia in versi intitolata Decimas, scritta tra il 1954 e il ’58 per incitamento di Nicanor. Pubblicata due anni dopo la morte di Violeta, Decimas utilizza un metro arcaico e tipico del folclore, che incatena strofe di dieci versi ottosillabi, in rima e con l’obbligo di trattare un medesimo argomento per ogni strofa.
Un esercizio complicato, che Violeta praticava con meravigliosa naturalezza, fondendo poesia popolare e letteratura colta, memoria personale e collettiva, e aprendo così la strada alle sue creazioni musicali più significative, come le canzoni splendide e a volte strazianti riunite nel disco Ultimas composiciones (un vero e proprio congedo, prima del suicidio già altre volte tentato).
Proprio dalle pagine di Decimas, Violeta sembra venirci più che mai incontro: dotata di innumerevoli talenti e di energia spropositata, orgogliosa, iraconda e autoritaria, generosa all’estremo; qualcuno, scrive Nicanor, che «non si veste da pagliaccio, non si compra e non si vende, parla la lingua della terra». Ma anche qualcuno che certi settori della società cilena di allora, profondamente classista e oligarchica, e della sua cultura ufficiale, elitaria e votata al mantenimento dello status quo, non sapevano né potevano accettare, e non solo per via delle posizioni politiche di Violeta, espresse in canzoni mai rassegnate che trasudavano indignazione, dolore, rabbia e ironia. Se per una parte del Cile «la Viola» è stata troppo a lungo una nemica alla quale negare ogni sostegno e riconoscimento - uno dei primi gesti della dittatura di Pinochet fu quello di togliere il suo nome a un quartiere popolare di Santiago -, lo si deve anche al suo rigore, alle sue scelte di vita, al suo essere incredibilmente in anticipo sul proprio tempo.
Il suo approccio al folclore, per esempio, non era certo quello più diffuso e ufficialmente accettato, che considerava cultura e usanze del popolo come un pittoresco cadavere da imbalsamare per garantirne l’incorruttibilità, pronto per essere esibito in occasione di qualche festa patronale. Invece lei, la Viola, non intendeva semplicemente «salvare» la musica e la cultura popolare, anche se dedicò tempo ed energia a sottrarre all’oblio canzoni, leggende, musiche registrate nei suoi infiniti viaggi attraverso il Cile; quello che voleva era rivitalizzare e usare materiali e forme del folclore, come nota Arguedas, «nel modo più lucido e aggressivo», per creare qualcosa di originale che parlasse a tutti, uscisse dal ghetto in cui si voleva rinchiuderlo e creasse contaminazioni continue tra mondo contadino e urbano, tra «alto» e «basso», tra vecchio e nuovo, in modo da evitare che ogni diversità venisse cancellata dall’imposizione di un modello culturale unico.
Il tratto più eversivo di Violeta, la sua provocazione più grande, era però il suo modo di essere donna: libera, spregiudicata, avventurosa, insofferente a ogni costrizione - lo testimonia, tra le altre cose, la sua intensa e instabile vita amorosa, mai sacrificata alla strada che vedeva tracciata davanti a sé -, lontana dai modelli di femminilità domestica e conciliante proposti e imposti a quell’epoca, non solo in America Latina.
Sono le donne del popolo, impegnate come sua madre Clarisa in un lavoro continuo e logorante, pietre angolari di una sopravvivenza difficile, quelle cui Violeta dà voce e che incarna scegliendo panni modesti, ignorando la moda, rifiutando il trucco e le apparenze, vivendo in case dal pavimento di terra battuta, scrivendo canzoni e cantandole, trovando le parole per raccontarsi, ricamando, modellando ceramiche, trasformando le tradizionali forme espressive femminili in arte autentica e personale, mai puramente popolare o colta, sempre lontana da ogni compiacenza o criterio commerciale.
«Uccello in volo che nessuno può fermare», pronta a correre i rischi che la sua etica rigorosa, la sua assoluta coerenza e le sue scelte audaci comportavano, logorata infine dall’enorme stanchezza del combattente solitario e ostinato (troppo facile ricondurne il suicidio a un amore deluso, piuttosto che a un’ultima sfida), Violeta Parra è oggi onorata da un paese che l’ha misconosciuta a lungo, eppure non rischia di trasformarsi in un’immaginetta stereotipata o di lasciarsi imprigionare nel museo che giustamente la celebra: la qualità eversiva della sua opera è ancora così evidente, così palpabile, da non poter essere del tutto metabolizzata neppure adesso, nel tempo del suo centesimo compleanno.
* il manifesto, 20.10.2016 (ripresa parziale - senza foto).
IL SALUTO DELL’ALBA *
Guarda a questo giorno!
In esso è la vita, la vera vita della vita.
Nel suo breve corso
È riposta tutta la verità e la realtà del tuo esistere:
la felicità del crescere
la gloria dell’azione
lo splendore della bellezza;
poiché ieri non è che un sogno
e domani una visione;
ma l’oggi ben vissuto rende ogni ieri un sogno di felicità
e ogni domani una visione di speranza.
Guarda bene, perciò, a questo giorno!
Tale è il saluto dell’alba.
*
Kālidāsa (sanscrito कालिदास, lett. "servitore della dea Kali") (IV secolo - V secolo) è stato un poeta e drammaturgo indiano. È il più grande poeta della letteratura classica indiana, vissuto probabilmente tra il III e il V secolo. Si ritiene che sia vissuto alla corte del sovrano Gupta Chandragupta II.
Kālidāsa è considerato accanto a Amaruka (o Amaru) e Bhartṛhari come il maggior rappresentante della poesia sanscrita. Goethe era affascinato dalla Sakùntala di Kālidāsa, che il poeta Arthur Symons nominava il più bel dramma del mondo. Sakùntala fu una delle prime opere della letteratura indiana che vennero conosciute in occidente. Venne tradotta nel 1789 da Sir William Jones in inglese. La storia di Sakùntala viene trattata anche in Mahābhārata e in Puranas, tuttavia non con la stessa maestria stilistica.
Le storie di Ujjayini, l’antica città dove con i calendari ha origine il tempo
di Amartya Sen (la Repubblica, 06 febbraio 2017)
L’immensa varietà di sistemi calendariali che si riscontra in India mette in luce un importante aspetto del paese: la sua diversificazione in termini di culture e regioni. Ma l’India non è solo questo. Accanto a tanta eterogeneità c’è anche l’idea di un paese che ha attraversato i secoli come una realtà unitaria. Un’idea, naturalmente, negata da chi continua a ripetere che l’India era solo un vasto territorio frammentato in piccole o medie entità, che solo la forza del dominio britannico è riuscito più tardi a unificare. Non di rado gli inglesi pensano di essere gli «autori» dell’India, una rivendicazione di fantasia creativa perfettamente in linea con le convinzioni di Winston Churchill, per il quale l’India non era una realtà unitaria più di quanto lo fosse l’equatore. Significativo, però, che anche chi nega ogni carattere unitario all’India prebritannica non abbia poi grandi problemi a generalizzare sulla qualità degli indiani come popolo (persino Churchill non poteva fare a meno di affermare che gli indiani erano «il popolo più animalesco del mondo, insieme ai tedeschi»).
Generalizzazioni sugli indiani sono state fatte dai tempi di Alessandro Magno e di Apollonio (uno dei primi «esperti d’India») all’epoca «medievale» dei viaggiatori arabi e iraniani (che sul territorio indiano e il suo popolo hanno scritto molto) fino ai tempi moderni, con Herder, Schlegel, Schelling e Schopenhauer. Va poi notato che ogni ambizioso dominatore - di volta in volta Candragupta, Asoka, ‘Ala ud-Din o Akbar - tendeva a ritenere che il suo impero non fosse completo finché gran parte del paese non fosse sotto il suo controllo. Ovviamente, guardando al passato storico non dobbiamo pensare di trovarvi una preesistente «nazione indiana» in senso moderno, ansiosa di diventare uno Stato nazionale. E tuttavia è difficile non cogliere le identità e i nessi socioculturali che ne sono stati la premessa.
Potremmo chiederci quale contributo possa apportare la riflessione sui calendari a questo dibattutissimo tema. La varietà dei calendari, divisi non solo dai loro riferimenti religiosi ma anche dalle diversità regionali, sembra in rotta di collisione con qualsiasi prospettiva di un’India unitaria. Bisogna però osservare in proposito che molti di questi calendari presentano forti analogie, sia per quanto riguarda i mesi sia per quanto concerne l’inizio dell’anno. Il Kaliyuga, il Vikram Samvat, il Saka, il Shôn bengalese e altri ancora, per esempio, iniziano tutti intorno a metà aprile. Evidentemente l’inizio è stato fissato in relazione allo stesso punto di riferimento, l’equinozio di primavera, dal quale hanno finito per discostarsi nel lungo arco di tempo degli ultimi due millenni, durante i quali la «correzione» relativa al valore intero della lunghezza dell’anno in giorni è stata leggermente inadeguata - ancora una volta in misura piuttosto simile.
Naturalmente, il fatto che per un anno il valore intero di 365 giorni sia solo approssimativo era ben noto ai matematici indiani che elaborarono quei calendari. L’aggiustamento periodico adottato normalmente per compensazione in molti calendari indiani consiste nell’aggiunta di un mese intercalare (definito un malamasa) per rimettere le cose in linea con quanto previsto dal computo. Per ottenere una correzione adeguata è però necessario calcolare la lunghezza dell’anno con precisione, operazione difficile da effettuare con gli strumenti e le conoscenze dell’epoca in cui i vari calendari furono concepiti o riformati. Nel VI secolo il matematico Varahamihira calcolò l’esatta lunghezza dell’anno in 365,25875 giorni, valore prossimo a quello esatto, ma ancora leggermente sbagliato, dal momento che la lunghezza dell’anno sidereo è di 365,25636 e quella dell’anno tropico è di 365,24220. Gli errori hanno finito per discostare i diversi calendari dell’India settentrionale dai punti fissi che avevano preso a riferimento, per esempio l’equinozio di primavera, ma in questo scostamento si sono mossi insieme.
Questa dimostrazione di unità nei piccoli errori ha le sue eccezioni, dal momento che i calendari indiani del Sud (per esempio il Kollam) e i calendari lunari o lunisolari (come quello del Nirvana del Buddha) seguono regole diverse. Sarebbe del resto difficile immaginare una generale uniformità nella varietà di calendari - o di culture - riscontrabile in India. Ciò che bisogna cercare è piuttosto l’interesse che i vari utilizzatori dei diversi calendari sembrano aver avuto per le soluzioni adottate dagli altri.
Uno degli elementi che rivelano la presenza di una prospettiva calendariale unitaria è, come abbiamo visto, l’identificazione di un meridiano primo e di una località di riferimento principale (come Greenwich in Gran Bretagna). È allora interessante notare la posizione che l’antica città di Ujjayini (oggi Ujjain), capitale di varie dinastie induiste (e teatro di numerose attività letterarie e culturali nel corso del I mil- lennio d.C.), conservò a lungo come località di riferimento per molti dei principali calendari indiani. Pare che il calendario Vikram Samvat (con punto zero al 57 a.C.) abbia avuto origine in questa antica capitale. Ma Ujjayini è il luogo di riferimento fondamentale anche per il sistema Saka (punto zero al 78 d.C.) e per molti altri calendari indiani.
Anche oggi, anzi, alla posizione di Ujjaini si fa riferimento per fissare l’orario indiano (sotto questo aspetto la città svolge insomma la funzione di una Greenwich indiana). «L’ora ufficiale indiana», quella che governa le nostre vite, è ancora, con minima approssimazione, l’ora di Ujjayini - 5 ore e 30 minuti in anticipo sul Gmt. Per chi visitasse l’odierna Ujjain, ridotta a un modestissimo e sonnolento paesone, potrebbe forse essere di qualche interesse sapere che quasi duemila anni fa un celebre trattato astronomico, intitolato Paulisa Siddhanta, antesignano del capolavoro dell’Aryabhatiya, concentrava l’attenzione sulla longitudine di tre luoghi del pianeta: Ujjain, Benares e Alessandria. Ujjain resta un’ottima testimonianza del legame fra calendari e cultura.
La letteratura indiana ci ha lasciato splendide descrizioni di Ujjayini, in particolare nell’opera di Kalidasa (V secolo d.C.), forse il più grande poeta e drammaturgo della letteratura sanscrita classica. La raffinata bellezza della Ujjayini di Kalidasa persuase il romanziere britannico Edward Morgan Forster a visitare la città, nel 1914, con l’idea di ricostruire mentalmente come dovesse apparire ai tempi degli incantevoli racconti di Kalidasa. Raccolse vari passi di Kalidasa, fra i quali le emozionanti descrizioni delle sere in cui «le donne si recano in segreto dai loro amati» inoltrandosi in «un’oscurità che si potrebbe tagliare con un ago». Ma dalle antiche rovine della città non poté cavare granché, né gli riuscì di suscitare nella gente del luogo il benché minimo interesse per la sua ricerca storica e letteraria. Immerse le caviglie nel fiume sipra, cantato da Kalidasa con romantici accenti, e abbandonò il suo progetto, rassegnandosi all’idea che «i vecchi edifici sono edifici, le rovine sono rovine».
Senza voler sollevare la questione se in quella rinuncia al rigore storico ci sia un tratto comune, non si può non rimanere impressionati dalla costante centralità che Ujjain ha conservato come luogo di riferimento dell’orario indiano, nonostante il potere politico e il predominio letterario e culturale fossero migrati ormai da tempo altrove. La tradizione può essere grande alleata di un’unità partecipata.
Testo della canzone di
Fiorella Mannoia
Che sia benedetta
di Amara - S. Mineo - Amara
Ed. Edizioni Avarello/Edizioni Curci/Gianni Rodo/Iansà Ed. Mus. - Roma - Milano - Latina - Roma *
Ho sbagliato tante volte nella vita
Chissà quante volte ancora sbaglierò
In questa piccola parentesi infinita quante volte ho chiesto scusa e quante no.
È una corsa che decide la sua meta quanti ricordi che si lasciano per strada
Quante volte ho rovesciato la clessidra
Questo tempo non è sabbia ma è la vita che passa che passa.
Che sia benedetta
Per quanto assurda e complessa ci sembri la vita è perfetta
Per quanto sembri incoerente e testarda se cadi ti aspetta
Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta
Tenersela stretta
Siamo eterno siamo passi siamo storie
Siamo figli della nostra verità
E se è vero che c’è un Dio e non ci abbandona
Che sia fatta adesso la sua volontà
In questo traffico di sguardi senza meta
In quei sorrisi spenti per la strada
Quante volte condanniamo questa vita
Illudendoci d’averla già capita
Non basta non basta
Che sia benedetta
Per quanto assurda e complessa ci sembri la vita è perfetta
Per quanto sembri incoerente e testarda se cadi ti aspetta
Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta a tenersela stretta
A chi trova se stesso nel proprio coraggio
A chi nasce ogni giorno e comincia il suo viaggio
A chi lotta da sempre e sopporta il dolore
Qui nessuno è diverso nessuno è migliore.
A chi ha perso tutto e riparte da zero perché niente finisce quando vivi davvero
A chi resta da solo abbracciato al silenzio
A chi dona l’amore che ha dentro
Che sia benedetta
Per quanto assurda e complessa ci sembri la vita è perfetta
Per quanto sembri incoerente e testarda se cadi ti aspetta
E siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta
A tenersela stretta
Che sia benedetta
*
http://www.sorrisi.com/musica/sanremo/il-testo-di-che-sia-benedetta-di-fiorella-mannoia/
*
“La storia di Siva e Parvati”
Cinquanta sfumature di 1700 anni fa
“Canta una danza in cui il microcosmo si unisce al macrocosmo, trasuda sessualità da ogni metafora
di Giuseppe Montesano (la Repubblica, 19.06.2018)
Quando la mente e i sensi non erano entità separate, in India si scriveva “La storia di Siva e Parvati”, poema ad alto tasso erotico di iniziazione ascetica e passione fisica. Tradotto adesso, ha ancora qualcosa da insegnare Un antidio appare nel perfetto mondo degli dèi dell’India, sconquassando l’ordine cosmico: che fare? C’è solo una possibilità di salvezza: il grande Siva, distruttore e creatore, libertino e ascetico, orribile e splendente, il grande ?iva che tiene connesso il mondo danzando e calpestando tutto nella morte e danzando e facendo rinascere tutto dalla morte, quello ?iva che come vero nome ha “il nato da sé stesso”, deve innamorarsi di una donna e concepire con lei il figlio che riporterà l’ordine nell’universo.
Così comincia La storia di Siva e Parvati, un poema scritto in sanscrito 1700 anni fa dal poeta Kalidasa e tradotto da Giuliano Boccali per Marsilio, un poema che ci trasporta in un mondo in cui Eros, Religione e Pensiero erano inseparabili. Per far cedere Siva il Tremendo, gli dèi affidano ad Amore il compito di colpire con la sua freccia il dio mentre è vicino a Parvati, la figlia del regale monte Himalaya appena passata dall’infanzia alla giovinezza: “L’un l’altro premendosi, i seni luminosi/della fanciulla dagli occhi di ninfea blu a tal punto crebbero/che tra loro, bruni i capezzoli,/neppure lo spazio per il filamento di una fibra di loto si sarebbe trovato”, Parvati che quando cammina risplende: “Con i lampi levati dalle unghie degli alluci, quasi emanassero appoggiandoli un bagliore vermiglio,/i suoi piedi acquisirono sul suolo/la bellezza di ibischi non fermi in un solo luogo”: e chi non si dannerebbe l’anima per quegli alluci smaltati?
Per spingere alla passione il dio, Amore suscita la Primavera in un tripudio di coppie di api che bevono nello stesso fiore, di elefanti che si porgono bocconcini di cibo a vicenda, di liane innamorate e accoppiate ai loro alberi: ma tutto è vano perché Siva, sprofondato nella meditazione ascetica che nega il desiderio, con uno sguardo riduce in cenere Amore. È allora che Parvati decide di imitare Siva diventando anche lei una yogin che medita: se amore è stato arso, lo yoga lo farà rivivere. Così la coccolata figlia di re intraprende la via dell’ascesi e mette a rischio bellezza e comodità: “Lei, che era afflitta persino dai fiori nella sua chioma/scompigliati mentre si rigirava nel letto preziosissimo,/giaceva appoggiandosi per cuscino alle braccia flessuose,/coricata sulla nuda terra...”.
La bellezza diventa fragile nelle privazioni ma non si spegne, fino a quando Siva non è turbato dall’unione tra concentrazione yogica e fascino seduttivo e si innamora di Parvati, celebrando le nozze nella città di Himalaya dove in mezzo alle nevi regna l’eterna giovinezza: “Dove nella notte le donne che, incuranti delle tenebre,/vanno a incontrare gli amanti,/pur con il tempo di burrasca hanno la via mostrata/dalla luminosità delle erbe magiche;/lì l’intera vita è tutta giovinezza,/unica pena Amore, l’armato di fiori,/perdita di coscienza il sonno/sorto dallo sfinimento del piacere;/dove gli innamorati, per via dello sdegno delle donne,/le sopracciglia aggrottate, le labbra che tremano,/le minacce deliziose delle dita,/non desiderano più la riappacificazione...”.
Ormai il poema a cui sembrano aver “posto mano e cielo e terra” è diventato la celebrazione dell’eros che permea l’esistenza, un eros che culmina nell’iniziazione all’amore di Parvati, che con i suoi gesti canta il “vorrei e non vorrei” di Zerlina nel Don Giovanni di Mozart: “La mano di Siva il Propizio posata vicino al suo ombelico/era da lei respinta con un tremito;/e poi da sé sole le sue cosce scioglievano/completamente il laccio della sottoveste”; più sottile di Zerlina, Parvati non brucia l’ascesa verso il sesso con la fretta di una sveltina ma accresce l’ardore nella lentezza sensuale, vuole che la sua bocca venga succhiata “ma senza morsi al labbro inferiore,/e il segno delle unghie che fosse senza ferita,/che il gioco d’amore col suo caro fosse tenero”: il sesso selvaggio non è il sesso brutale, è una scienza che va appresa; finché, nella tenebra rotta dalla luce lunare, non arriva l’insurrezione erotica nella coppia ormai di uguali in cui l’amore senza limiti scorre come il sangue nelle vene e i fiumi nel mare: “Come la sposa era innamorata del marito a lei eguale/così il marito lo era di lei.../Da lei, divenuta in segreto discepola/di Siva il Benefico che la istruiva nell’arte del sesso,/era insegnato a lui quello in cui è abile una giovane donna,/che certo rappresentava il compenso dell’allievo al guru...”.
La passione erotica, sviluppandosi dalla sua negazione attraverso l’ascesi, si è comunicata dalla fanciulla in fiore a Siva il Distruttore e all’universo: le nozze tra dèi e mortali sono nozze sacre, le nozze tra mortali lo specchio del divino totalmente immerso nel corpo erotico della natura.
E il poema di Kalidasa canta una danza in cui il microcosmo si unisce al macrocosmo, trasuda sessualità da ogni metafora, trasforma l’astratto in concreto: anche la forma della poesia si erotizza, il gioco perpetuo del desiderio guida il linguaggio, ogni gradino della discesa-ascesa erotica porta dove si trova Amore: come scrisse Nietzsche, sempre al di là del bene e del male.
E invece dove ci troviamo noi, oggi, rispetto a questo universo trascolorante e metamorfico in cui la mente e i sensi non sono separati e i concetti più profondi sono disciolti come lacrime di umori erotici nel mare del corpo? Nulla che ci riguardi ha più un contatto con il potere di Eros che disordina e riordina la vita, nulla di ciò che chiamiamo amore è pallidamente simile al vorticare lento in cui ci immerge Kalidasa.
Proprio per questo il caleidoscopio del più grande poeta dell’India andrà letto con ardore pensante, ringraziando Giuliano Boccali per il regalo che ci fa con la traduzione della Storia di Siva e Parvati e ripetendoci qual è il luogo in cui ci suggerisce di andare lei che sa, l’allieva umana da cui anche il maestro divino deve imparare: “là sta fermo il mio cuore, che ha per essenza unica l’emozione:/chi ha l’amore come norma di vita non guarda alle censure...”. La musica comincia quando il silenzio è più minaccioso, la vita accade quando è sull’orlo di scomparire: Amore non è un dio facile.
Argentina, morta Mercedes Sosa
La leggenda del folk, costretta all’esilio negli anni della dittatura, aveva 74 anni
Ansa, 04 ottobre, 15:52
ROMA - E’ morta all’età di 74 anni la cantante argentina Mercedes Sosa, leggendaria voce del folclore e della coscienza dei popoli latinoamericani, il cui impegno politico contro l’ingiustizia sociale l’ha costretta all’esilio negli anni della dittatura militare argentina (1976-93).
Malata da qualche anno e costretta a rimanere fuori dalla scena, è morta in una clinica di Buenos Aires. Nata nel 1935 nella provincia di Tucuman, nel nord, città dove nel 1816 venne firmata l’indipendenza dell’Argentina, in un poverissimo sobborgo da una famiglia india, per il colore scuro della pelle e dei capelli venne soprannominata "La Negra". Mercedes Sosa era dotata di una voce bassa e potente e di un carisma universalmente riconosciuto. La sua carriera musicale attraversa cinque decenni, è punteggiata di quaranta dischi e l’ha vista più di recente duettare con artisti internazionali noti per il loro impegno politico, come Joan Baez e Sting e lo scorso anno, nell’ultimo album, il doppio "Cantora", con il cantautore brasiliano Caetano Veloso e la popstar colombiana Shakira.
Pur non definendosi mai apertamente attivista politica, ricorda in un articolo il Washington Post, partecipò lungo gli anni ’60 e ’70 al movimento della "Nueva cancion" che con una vaga ispirazione marxista univa al folklore tradizionale dei popoli latinoamericani una carica politica nel dare voce ai poveri, agli sfruttati, agli oppressi. Fra le sue canzoni di protesta più celebri, la scarna "Cantiamo ancora", in cui, accompagnata solo da un tradizionale tamburo andino (bombo), cantava in faccia al regime militare argentino "Sono stata uccisa mille volte/ sono scomparsa mille volte/ ed eccomi qui, risorta dai morti...eccomi ancora qui, sorta dalle rovine della dittatura lasciate dietro/ Cantiamo ancora".
YOUTUBE: Mercedes Sosa - Gracias a la vida
Gentilissimo Prof. La Sala, un po sono rimasto stupito di questa selezione, mi spiego meglio: credevo di condividere con pochissimi Violeta Parra, e vederla segnalata a quasi 40 anni dalla sua morte mi fa rivivere momenti trascorsi molto intensi.
Forse nel 1977, un incontro del movimento Comunione e Liberazione, con Don Giussani, a Margherita di Savoia, in provincia di Foggia. Un palazzetto dello sport gremito di ragazzi come me che la cantavano nella versione italiana. Poi la ricerca e la scoperta di Violeta Parra.
Complimenti, e grazie
Dr. Michele D’Apote, Lucera, Foggia.
Gent.mo dr. D’Apote La qualità del testo di Violeta Parra è altissima e profondissima e, a mio parere, tocca corde cosmiche che solo Dante, Shakespeare, o il Cantico dei cantici hanno saputo far vibrare... e mi è sembrato opportuno riattivarne la memoria. La ringrazio per la sua nota.... e mi congratulo per la sua felice curiosità e per la sua viva libertà.
M. cordialmente, Federico La Sala
L’ultima trincea della vita
di Vito Mancuso (la Repubblica, 31.10 2009)
Nei primi mesi del 1916 Ludwig Wittgenstein, volontario nell’esercito austriaco, si trovava in Galizia sul fronte orientale col reggimento impegnato a sostenere il più grande attacco nemico, la cosiddetta Offensiva Brusilov. In mezzo a perdite altissime la sua azione dovette essere di un certo rilievo visto che il 1° giugno venne promosso caporale e il 4 decorato al valor militare. Pochi giorni dopo, l’11 giugno, colui che diventerà uno dei più grandi logici e filosofi del Novecento, annota sul suo quaderno: «Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. Pregare è pensare al senso della vita».
Io penso che per ogni essere umano la vecchiaia sia paragonabile a una trincea della Prima guerra mondiale. Sono finite le cerimonie, le marce, le sfilate, gli inni, le retoriche che fanno da preambolo non solo alla vita militare delle retrovie, ma anche alla vita quotidiana nella gran parte dei suoi momenti. Giunge il momento del redde rationem, il leopardiano «apparir del vero». Chi arriva alla vecchiaia non ha più nessuno davanti, è in prima linea sul fronte dell’essere o del nulla. E penso sia naturale in questa stagione dell’esistenza guardare al senso complessivo della vita, della propria e di tutti gli amici che si sono visti cadere, con un’intensità esistenziale paragonabile a quella di un soldato in trincea. Ciò che Wittgenstein percepì a 27 anni di fronte al fuoco dell’esercito russo ogni uomo che prenda sul serio l’esistenza è destinato a sperimentarlo quando inizia a sentire arrivare il termine dei suoi giorni.
Non è un caso quindi che il cardinale Carlo Maria Martini, riflettendo sulla preghiera dall’alto dei suoi 82 anni, abbia sentito anzitutto il richiamo di un grande vecchio della letteratura biblica quale Qohèlet ricordandone la celebre descrizione allegorica degli effetti fisici della vecchiaia, quando le mani («i custodi della casa»), le gambe («i gagliardi»), i denti («le donne che macinano»), gli occhi («quelle che guardano dalle finestre»), le orecchie («i battenti sulla strada») non funzionano più come prima, preludio al momento in cui l’uomo se ne andrà "nella dimora eterna".
In questa prospettiva la preghiera di chi è anziano per Martini è anzitutto ricerca di consolazione interiore di fronte alla crescente fragilità che la vecchiaia comporta, è richiesta della ragione e del sentimento che un senso definitivo della vita ci sia e che a questo senso si possa personalmente partecipare.
Il cardinal Martini però aggiunge un’ulteriore considerazione sulla preghiera di chi è anziano, rivolta ora non più al futuro ma al passato, e qui a mio avviso egli tocca il momento più alto del suo scritto. Mi riferisco a quando egli parla degli anziani come di coloro che hanno raggiunto «una certa sintesi interiore» e che per questo possiedono «uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza».
Aver compiuto un lungo cammino non significa solo vederne la fine, significa anche potersi voltare e vederne per intero il percorso. Da questa altezza può scaturire «una lettura sapienziale della storia e del mondo», per descrivere la quale Martini giunge a coniare in perfetto stile evangelico una vera e propria beatitudine, una nona beatitudine che non sfigurerebbe come prosieguo delle otto beatitudini proclamate da Gesù nel celebre Discorso della montagna: «Beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati!».
Martini sa bene che il giudizio negativo sul presente è una delle tipiche malattie che affliggono lo spirito della vecchiaia, quando la consapevolezza che presto per sé sarà la fine conduce spesso a un rapporto amaro e risentito con il presente, valutato solo come progressiva decadenza rispetto "ai miei tempi". Ma il cardinale aggiunge che a un uomo può capitare di peggio, cioè di guardare indietro alla propria esistenza e di vedere solo macerie (talora anche le ricchezze e gli onori ricevuti non sono altro che macerie perché costruiti con la frode e a prezzo dell’onestà personale). Ne viene che non solo il futuro ma anche il passato risultano avvolti da un disperato senso di vuoto. Può capitare, e se capita è forse la più grande disgrazia per la vita di un uomo. Per questo «beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio», cioè come dotato di senso, di logicità, di sincerità, di rettitudine.
Pregare è pensare al senso della vita, scriveva Wittgenstein; pregare è pensare con riconoscenza e con gioia alla storia della propria vita, aggiunge il cardinal Martini. Felice quindi chi ha lavorato su di sé per essere in grado di coltivare questi sentimenti, essendo diventato così libero dal proprio ego da poter dire grazie alla vita anche al cospetto della fine cui il proprio ego inevitabilmente va incontro. Per quanto concerne la modalità concreta della preghiera, Martini ne distingue due forme fondamentali, quella vocale fatta di recitazione di formule e di partecipazione alla liturgia comunitaria, e quella mentale, più personale, intima, colloquiale.
Egli dice che generalmente col progredire dell’età «diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione» e quindi aumenta la preghiera vocale, con la conseguenza che si ritorna a pregare quasi come si faceva da bambini, quando si ripetevano formule misteriose sentite dai grandi. Si tratta di una considerazione molto cattolica da cui emerge il valore della comunità.
Nella trincea di fronte all’essere e al nulla non si è da soli, ma si può contare sulla relazione con altri, su ciò che la dottrina chiama "comunione dei santi", e che a me, e penso anche al cardinal Martini, piace allargare abbracciando santi per nulla canonici, tra cui il caporale Wittgenstein e tutti i giusti che prima di noi hanno lasciato questo mondo.
La preghiera fragile dei vecchi vicini a Dio
di Carlo Maria Martini (la Repubblica, 31 ottobre 2009)
Pubblichiamo un’anticipazione di "Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera" del cardinale Martini
Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire. Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado. Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.
So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni. Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento.
Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano. Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto. / Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4. Ma anche fino al verso 8). In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.
La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola. Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre. Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento. Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.
Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso. Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata. Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità. Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani. Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca. Anzitutto nella Bibbia.
In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive. Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25). Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore». La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano. La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli. Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me. Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano. Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia - ho 85 anni - si distingue la preghiera di ringraziamento. Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire "a tempo pieno") a prepararmi alla morte. E ciò non è dato a tutti. In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14). Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze. Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto. E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati!
La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore. Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano. Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale. Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente. Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre. Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore. A noi non resterà che seguirlo docilmente.
La preghiera del cardinale e quella di un laico
di EUGENIO SCALFARI *
Sento viva gratitudine per il cardinale Carlo Maria Martini, per i suoi pensieri, per l’esempio che dà ed anche per l’amicizia che mi ha dimostrato. Infine per l’ultimo suo libro, "Meditazioni sulla preghiera" che tra pochi giorni sarà nelle librerie e di cui l’editore Mondadori ci ha autorizzato a pubblicare un’anticipazione, uscita ieri sul nostro giornale.
Stavo cercando un argomento del quale scrivere per i miei lettori della domenica e i pensieri mi si arruffavano mentre mi cresceva dentro un forte disagio. Il caso Marrazzo? L’omicidio dello sventurato Stefano Cucchi, ucciso a bastonate mentre era affidato ai carabinieri e alla polizia penitenziaria? Lo spettro della disoccupazione che avanza in Europa e nel mondo? La possibilità che D’Alema sia nominato ministro degli Esteri dell’Unione europea e Tremonti presidente dell’Eurogruppo oppure che entrambi restino dove sono? Infine lo stato miserevole della seconda Repubblica, avviata ormai verso un’agonia dalla quale difficilmente potrà salvarsi?
Mi sentivo stanco di visitare e rivisitare problemi importanti ma ripetitivi, che per di più dimostrano un tale stato di degradazione da esser diventati ripugnanti per ragioni estetiche prima che ancora morali e politiche. Sicché mi sono assai confortato leggendo la prosa del cardinale. Ho pensato di cogliere l’occasione che il suo scritto mi offriva e intervenire anch’io sullo stesso argomento. Penso che i miei lettori ne saranno contenti.
Il tema del cardinale riguarda la preghiera dei vecchi. Detto in altro modo - e lui stesso ne fa menzione - si tratta d’una meditazione sulla morte da parte di chi, pur in buona salute, la vede approssimarsi incalzata dal calendario.
Martini è profondamente religioso, ad un punto tale da potere e volere colloquiare anche con i non credenti e mettere in comune esperienze così disparate. Io sono per l’appunto uno di quelli e meditare assieme a lui mi ha dato grandissima pace tutte le volte che tra noi è accaduto. Gli anni continuano a passare e l’esperienza di quei pensieri aumenta. Ci si sente come sentinelle avanzate su un terreno incognito. Si assiste, sempre più dolenti e partecipi, alla scomparsa di tanti amici. Ci si allontana dal mondo e lo si vede più distintamente: la vista migliora con la lontananza; lo diceva Goethe e lo disse prima di lui Montaigne.
Perciò può essere utile a noi stessi e a tutte le persone consapevoli meditare insieme su un tema così presente alla coscienza. La morte, diceva Montaigne con il suo sobrio linguaggio, è il fatto più rimarchevole della nostra vita. Bisogna pregare. Bisogna pensare.
Il cardinale cita Qoelet in uno splendido suo passo pieno di sapienza e di bellezza poetica. Io citerò ancora l’autore degli "Essais" quando diceva che bisogna portare il pensiero della morte come i signori dell’epoca sua portavano il falcone sulla spalla per abituare se stessi e l’uccello cacciatore a vivere insieme e prender dimestichezza l’uno dell’altro.
Chi non crede in un altro mondo sa che in quel certo momento tutto si concluderà; non teme l’inferno e non spera in un paradiso. Non si aspetta premi né castighi. La preghiera non saprebbe a chi rivolgerla. Può solo augurarsi d’esser ricordato da chi lo ha amato: una sopravvivenza breve, che avrà se se lo sarà meritato.
Sa anche, chi non crede, che la vita è priva di senso se il senso consiste nell’avere un fine che sorpassa il nostro transito terreno. E dunque: una vita che non ha ulteriore sopravvivenza e naturalmente senza senso alcuno perché capricciosamente finisce lasciando una traccia che si cancellerà nel giro di pochi mesi o di qualche anno in memorie altrimenti affaccendate: ebbene una vita così desertificata di infinità dovrebbe essere disperata nel veder avanzare la Donna oscura che verrà a prendersela. Può esser serena, pacificata, confortata, una vita priva di fede? Avrà avuto un senso? Quale?
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"Laudato sì mi Signore / per sora nostra Morte corporale" scrisse Francesco nel suo Cantico. Socrate, mentre sentiva che il gelo della cicuta gli stava salendo dalle gambe al cuore, disse ai suoi allievi di sacrificare un gallo ad Esculapio perché così voleva il rito, e si coprì la testa con un lembo del mantello. Pascal morì sognando d’essere in comune con i poveri e i derelitti. Rilke, in una pagina terribilmente splendida dei suoi "Quaderni" racconta la morte di suo nonno, il Ciambellano. La Morte gridò per otto settimane dentro quel corpo, ma non era lui che gridava, era la Morte finché non uscì fuori da lui. Benedetto Croce morì leggendo e leggeva sapendo che Lei stava arrivando.
Si può anche esser disperati con la fede nel cuore e non esserlo senza alcuna fede, con il falcone sulla spalla che ti è diventato amico.
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Io sento da tempo che noi, come tutte le specie e gli individui viventi che le compongono, siamo forme che la natura incessantemente crea e disfa per far posto ad altre. Senza alcun disegno che non sia la vita.
È legge di ogni forma di realizzare al massimo le capacità di cui dispone. Le forme viventi non sono mai statiche ma dinamiche e ciò è vero perfino nelle forme apparentemente non viventi, è vero per gli atomi e per le particelle elementari della meccanica quantistica. È vero per ogni energia perché ogni energia è dinamica.
Non si tratta di fede ma di scienza sperimentale. Il senso sta in questo, sta in un eterno divenire. Ogni forma ha la propria legge e diviene secondo quella legge. Noi, nella nostra forma umana, siamo animati dal sentimento dell’amore, dal desiderio del potere e dalla coscienza morale. Le nostre vite individuali combinano come possono e sanno questi elementi e questo è il senso del nostro vissuto, queste sono le stelle che orientano il nostro viaggio. Non dico viaggio terreno ma soltanto viaggio perché non ne conosciamo altri. Possiamo certamente immaginarli se ci consola immaginarli.
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La vecchiaia restringe la nostra vitalità, limita le capacità del corpo e concentra quelle delle mente. In alcuni il desiderio del potere soverchia gli altri. È patetico vedere come alcuni vecchi restino aggrappati al potere, la loro zattera di salvataggio che non li porterà ad alcuna salvezza, la loro rabbia nel vederselo strappato brano a brano, la solitudine del loro io denudato giorno per giorno dagli orpelli dei quali l’avevano rivestito.
Altri si effondono nell’amore. Non dico nell’erotismo, dico amore. Amore per gli altri e per quelli a loro più prossimi, quelli dai quali hanno ricevuto amore e ai quali l’hanno restituito. Quando questo avviene, l’io non è solo, non è denudato, non è disperato, anzi è più ampio e più ricco. Non ha nessun bisogno di chiamarsi e di sentirsi io ma si sente noi e quella è la sua ricchezza.
Oggi è il giorno di tutti i santi, ma non ci sono santi laici, ci sono soltanto anime amorose che lasciano lungo la strada il pomposo mantello dell’egoismo e indossano quello della compassione con il quale ricoprono sé e gli altri.
Lei, carissimo cardinale Martini, ha un amplissimo mantello di compassione, di passione per gli altri. Col suo mantello ricopre anche me talvolta come il mio può ricoprire anche lei. Per questo la Nera Signora non ci spaventa. È per questo sia lei che io sentiamo nel cuore il messaggio che incita all’amore del prossimo. A lei lo invia il suo Dio e il Cristo che si è incarnato; a me lo manda Gesù, nato a Nazareth o non importa dove, uomo tra gli uomini, nel quale l’amore prevalse sul potere.
© la Repubblica, 1 novembre 2009