VENT’ANNI DOPO, IL RICORDO DI FERDINANDO CAMON
Lo scrittore torinese moriva l’11 aprile 1987. Testimone di Auschwitz, negli ultimi tempi dal rifiuto del divino era passato a un «Lo cerco, ma non lo trovo»: un’apertura?
Sulla soglia dell’indicibile.
Primo Levi
«Tre giorni dopo il "suicidio" mi arriva la sua ultima lettera: ecco, adesso mi spiega perché si è ucciso. La apro: un inno alla vita»
di Ferdinando Camon (Avvenire, 01.04.2006)
Primo Levi è morto di sabato, il martedì dopo m’è arrivata una sua lettera. Mi viene addosso una tristezza infinita e mi dico: «Ecco, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi». Mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega, che lui si uccide adesso ma doveva farlo quarant’anni prima, e che dunque le spiegazioni non vanno cercate in quel che succede adesso, ma in quel che era successo 45-40 anni prima. Questo m’aspetto, aprendo la lettera, che dev’essere stata l’ultima che ha scritto e imbucato. Se m’è arrivata al martedì, doveva averla imbucata il sabato: dunque durante la passeggiata che faceva ogni mattina.
La apro: un inno alla vita, un vortice di programmi, speranze, attese, da riempire settimane, mesi e anni. In quei giorni stavo cercando di farlo tradurre in Francia da Gallimard: con mia enorme sorpresa, il libro di Levi, il suo capolavoro assoluto: I sommersi e i salvati, non era passato. Da Parigi mi chiamava al telefono il direttore della Gallimard, Hector Bianciotti, grande scrittore argentino di origine italiana, ora membro dell’Académie Française, e mi diceva: «Ferdinando, non ci piace». Non potevo crederci. Chiamai il quotidiano Libération e concordai di scrivere un intero paginone, per spiegare ai francesi perché dovevano tradurre Primo Levi. È in questo frattempo che Levi muore.
Nella sua ultima lettera, mi chiede se Gallimard vuole un’altra copia de I sommersi e i salvati, mi chiede una copia di Libération con l’articolo che lo presenta ai francesi, si mette a disposizione per tutto quel che può servire. L’articolo è uscito due giorni dopo la morte di Levi, e da quel momento il destino delle sue opere in Francia ha avuto un andamento grottesco: chiama la Gallimard, m’informa che l’editore Albin Michel ha preso I sommersi e i salvati, anche loro vogliono I sommersi e i salvati. Una settimana chiamano per dirmi che loro «sono disposti a prendere di Primo Levi tutti i libri che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro». Albin Michel protesta: «Lo avevate rifiutato, io l’ho preso, perché mi ostacolate?». Mi chiedono una fotocopia della lettera di Primo Levi: la prova che Primo Levi voleva Gallimard. E così la faccenda s’è chiusa. Primo Levi rifiutato in Francia è la ripetizione di Primo Levi rifiutato in Italia. Se questo è un uomo era stato letto, nella casa Einaudi, da Natalia Ginzburg, e respinto.
Quando Levi morì, Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: «È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale». Come possono due editori importantissimi non capire opere che varranno fino al Giudizio Universale compreso? La risposta che mi viene è che c’è "troppo", in quelle opere.
Questa risposta è legata a mia valutazione di Primo Levi scrittore, che è la seguente: Primo Levi ha vissuto la massima colpa della storia, non al grado massimo in cui la colpa fu commessa, ma al grado massimo in cui poteva essere raccontata. Levi era un chimico. Un chimico studia le reazioni nel contatto tra elemento ed elemento. Levi ha osservato e descritto le reazioni nel contatto tra l’uomo più potente e il più debole. Il primo fa della propria volontà la legge della storia. Se il potente uccide, il delitto è giusto perché il potente lo vuole. Questo sistema è riassunto nell’incontro fra Levi e il dottor Pannwitz. Il dottore sta esaminando Levi, è proprio un esame di Chimica. A un certo punto alza gli occhi e lo guarda. Anche Levi lo guarda. Levi cerca di capire il proprio pensiero e il pensiero dell’altro. L’altro pensa: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». Nel proprio cervello, Levi sente formarsi questo pensiero: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi». Levi doveva rendere quel che di utile conteneva, e morire. Non doveva né sopravvivere né scrivere.
Nella sua sopravvivenza e nella sua scrittura c’è stato un doppio fallimento del sistema lager. Il sistema lager non ha agito su Levi con tutta la sua forza. Perché Levi era un chimico, perché ha imparato il tedesco, perché non si è mai ammalato, e perché ha avuto la fortuna di ammalarsi negli ultimi giorni, evitando la marcia della morte, l’evacuazione dal lager (raccontata da Elie Wiesel).
Claude Lanzmann ha incontrato superstiti del lager che hanno sofferto di più, sono stati torturati o hanno lavorato ai forni. Davanti alla macchina da presa, si torcono, piangono, o svengono. Dicono qualche parola, non di più. Hanno passato il limite del dicibile. Levi è arrivato a quel limite. Forse non lo ha retto, e questo potrebbe spiegare la sua morte. Sono andato a trovarlo più volte, e ho raccolto in un librino i nostri dialoghi.
Nell’ultima risposta dice: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». Era una negazione drastica dell’esistenza di Dio. Quando gli ho mandato il testo per le correzioni, ha aggiunto, a matita: «Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo». Era una riapertura: non c’è, la cerco, non la trovo, la cerco ancora. Rigirandomi la sua ultima lettera fra le mani, mi dicevo: spero che l’abbia trovata.
Primo Levi *
Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 - 11 aprile 1987), è stato uno scrittore italiano autore di memorie, racconti, poesie e romanzi.
Indice
1 Biografia
2 Fortuna
3 Opere di Primo Levi
Biografia
Nato a Torino nel 1919, nel 1934 si iscrive al liceo classico Massimo d’Azeglio di Torino, noto per aver ospitato docenti illustri e oppositori del fascismo come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Zino Zini, Norberto Bobbio, Fernanda Pivano e molti altri. Per qualche mese ha Cesare Pavese come insegnante di italiano.
Nel 1937 si diploma e si iscrive ad un corso di laurea in chimica presso l’Università di Torino. Nel 1938 entrano in vigore le leggi razziali, che introducono gravi discriminazioni a danno della popolazione «di razza ebraica». Gli ebrei perdono il diritto di iscriversi all’università, ma con un’eccezione: a chi è già iscritto ed ha già completato il primo anno di corso viene concesso di proseguire gli studi. All’epoca Primo Levi è uno studente del secondo anno.
Le leggi razziali hanno un determinante influsso indiretto sul suo percorso universitario ed intellettuale. Levi si rende progressivamente conto di amare la fisica più della chimica, fino ad arrivare a prendere in considerazione un cambio di facoltà. Tuttavia, in quanto ebreo, non gli è permessa la possibilità di farlo: l’unica opzione che le leggi razziali gli concedono è di terminare il corso di laurea già iniziato. Levi è in regola con gli esami, ma ha difficoltà a trovare un relatore per la sua tesi; si laurea comunque nel 1941 a pieni voti e con lode, con una tesi in fisica. Il diploma di laurea riporta la precisazione «di razza ebraica».
Le leggi razziali del regime fascista lo costringono di fatto, in quanto ebreo, a lavori saltuari. La sua breve esperienza in un nucleo partigiano locale si conclude con l’arresto da parte della milizia fascista a Brusson, nel 1943, e la detenzione al campo di transito di Fossoli. Nel febbraio del 1944 viene consegnato dai fascisti italiani ai nazisti e deportato ad Auschwitz ed assegnato al complesso Auschwitz III - Monowitz, come Häftling (letteralmente prigioniero) numero 174.517.
Dopo un primo periodo di lavori forzati generici, lavora nei laboratori chimici della Buna, una fabbrica per la produzione di gomma sintetica di proprietà del colosso chimico tedesco I.G. Farben. Ammalandosi di scarlattina, scampa fortunosamente alla marcia di evacuazione di Auschwitz poco prima della liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa. Viene liberato il 27 gennaio del 1945, anche se il suo rimpatrio avverrà solo nell’ottobre successivo.
Rientrato a Torino, trova lavoro presso una ditta di produzione di vernici di cui in seguito assumerà la direzione fino al pensionamento, dedicando via via sempre più tempo alla scrittura.
Dalla sua esperienza nel lager nazista nascono Se questo è un uomo, il racconto della sua prigionia seguito, decenni più tardi, da I sommersi e i salvati, testo in cui Levi cerca di analizzare con distacco la sua esperienza, confrontando l’universo concentrazionario nazista con universi simili (quello sovietico in primis, dai racconti di Aleksandr Solženicyn) cercando radici comuni e differenze.
Dai ricordi del suo viaggio di ritorno in Italia nasce La tregua, diario di un viaggio dagli accenti picareschi attraverso la devastata Europa post-bellica. Tornato finalmente a casa, a Torino, continua a sentire il dovere bruciante di raccontare, di descrivere l’indescrivibile, di far confrontare l’uomo con quello che l’uomo è capace di fare.
Benché sia il racconto della sua esperienza nel lager a dargli la fama, Levi ha cercato successivamente di svincolarsi da questa eredità, ampliando i confini del suo scrivere. Ha scritto molti racconti in cui l’osservazione della natura e l’impatto della scienza e della tecnica sulla quotidianità diventano lo spunto per situazioni fantascientifiche.
Suo è anche il personaggio di Faussone, l’operaio specializzato trasfertista di La chiave a stella, che rappresenta quel gran numero di tecnici italiani che hanno lavorato in giro per il mondo a seguito dei grandi progetti di ingegneria civile portati avanti dall’industria italiana dell’epoca (anni sessanta e settanta).
Affronta anche la storia degli ebrei del centroeuropa nel romanzo "Se non ora, quando?".
Un esempio abbastanza rappresentativo dei temi della sua opera è la raccolta di racconti Il sistema periodico, in cui episodi biografici e racconti di fantasia vengono associati ciascuno ad un elemento chimico.
L’11 aprile del 1987 Primo Levi muore, forse suicida, gettandosi o cadendo dalla tromba delle scale della sua casa di Torino.
Fortuna
Al ritorno in Italia, Levi scrisse Se questo è un uomo di getto, con l’incubo di non essere creduto. Infatti nel clima di ricostruzione del dopoguerra non c’era la volontà di riaffacciarsi sull’orrore appena terminato e nel 1947 l’editore Einaudi rifiutò il manoscritto. Levi riuscì a trovare un editore, De Silva, che ne stampò appena duemilacinquecento copie, di cui soltanto millecinquecento vendute, soprattutto a Torino, nonostante la buona recensione di Italo Calvino su L’Unità.
Levi, convinto del suo fallimento come scrittore, si dedicò con impegno alla sola professione di chimico per quasi dieci anni, lavorando per una ditta (la Siva) di Settimo Torinese che produceva vernici. Nel 1956, a una mostra, trovò finalmente in un gruppo di ragazzi gli ascoltatori attenti che gli erano mancati e riprese coraggio. Questa volta Einaudi decise di pubblicare il libro, che da allora fu ristampato e tradotto in molte lingue del mondo (compreso il tedesco). Riprese a scrivere e la Einaudi pubblicò tutti i suoi lavori, che incominciarono ad ottenere riconoscimenti in Italia e all’estero: La tregua vinse la prima edizione del Premio Campiello, nel 1963. Nel 1979 il romanzo La chiave a stella vinse il Premio Strega, mentre nel 1982 Se non ora, quando il Premio Viareggio.
Nel 1997, a dieci anni dalla scomparsa, il regista Francesco Rosi ha tratto dal romanzo La tregua un film interpretato dall’americano John Turturro.
Alla festa del Cinema di Roma dell’ottobre 2006 è stato presentato il documentario La strada di Levi. Il film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti ripercorre ai nostri giorni l’avventuroso itinerario compiuto da Levi durante il ritorno dal Lager. Filo conduttore del documentario sono le citazioni tratte da La tregua.
Opere di Primo Levi
Se questo è un uomo (1947)
La tregua (1963)
Storie naturali (1966) racconti, sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila
Vizio di forma (1971) racconti
Lilìt e altri racconti (1971) racconti
Il sistema periodico (1975) racconti
La chiave a stella (1978) romanzo
La ricerca delle radici (1981) antologia personale
Se non ora, quando? (1982) romanzo
traduzione de Il processo di Franz Kafka (1983)
Ad ora incerta (1984) raccolta di poesie
L’altrui mestiere (1985) opera saggistica
I sommersi e i salvati (1986) opera saggistica
Conversazioni e interviste 1963-1987 (1997) (postumo)
L’ultimo natale di guerra (a cura di Marco Belpoliti) (2000) (postumo) racconti
* Da Wikipedia, l’enciclopedia libera - ripresa parziale.
Sito del Centro internazionale di studi su Primo Levi:
www.primolevi.it
"Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
SHOAH - STERMINIO DEL POPOLO EBRAICO. 27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA - LEGGE 20 luglio 2000, n. 211, DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Andrebbe riletta l’intervista dello scrittore e testimone della Shoah, in cui parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche» di Israele verso la Palestina. E molti altri suoi interventi sul tema
di Giulio Cavalli *
Andrebbe riletto Primo Levi. Andrebbe riletto il libro di Berel Lang in cui Levi dice: «Dal 1935 al 1940, rimasi affascinato dalla propaganda sionista, ammiravo il Paese e il futuro che stava pianificando, di uguaglianza e fratellanza».
Andrebbe riletta la Conversazione con Levi di Ferdinando Camon in cui Levi dice: «Lo Stato d’Israele avrebbe dovuto cambiare la storia del popolo ebraico, avrebbe dovuto essere un zattera di salvataggio, il santuario a cui sarebbero dovuti accorrere gli ebrei minacciati negli altri Paesi. L’idea dei padri fondatori era questa, ed era antecedente alla tragedia nazista: la tragedia nazista l’ha moltiplicata per mille. Non poteva più mancare quel Paese della salvezza. Che ci fossero gli arabi in quel Paese, non ci pensava nessuno. Ed era considerato un fatto trascurabile di fronte a questa gigantesca vis a tergo, che spingeva là gli ebrei da tutta Europa. Secondo me, Israele sta assumendo il carattere e il comportamento dei suoi vicini. Lo dico con dolore, con collera. Non c’è differenza tra Begin e Khomeini».
Andrebbe riletto il testo dell’appello pubblicato il 16 giugno 1982 su Repubblica (altri tempi, eh) che si intitolava “Perché Israele si ritiri” e iniziava con: «Facciamo appello, in quanto democratici ed ebrei, perché il governo israeliano ritiri immediatamente le sue truppe dal Libano». Lo firmarono Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen e Natalia Ginzburg, criticava «la soluzione militare» scelta da Israele perché evocava «un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo» e i firmatari affermarono di averlo scritto sperando di «combattere i germi potenziali di un nuovo antisemitismo che si verrebbe ad aggiungere alle vecchie e mai scomparse tendenze antiebraiche in seno alla società civile».
Andrebbe riletta la sua intervista al Secolo XIX in cui Levi parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche».
Andrebbe riletto l’articolo di Levi sulla prima pagina de La Stampa il 24 giugno 1982 in cui scrisse: «Israele, sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare, va acquisendo i comportamenti degli altri Paesi del medio oriente, il loro radicalismo, la loro sfiducia nella trattativa». Oppure la sua intervista a Giorgio Calcagno de La Stampa il 12 giugno 1982 in cui raccontava il suo allontanamento da Israele: «Ho giudicato il sionismo una forza e una necessità politica. Questa gente non poteva che seguire un verbo che aveva una forma biblica. Oggi la questione si è complicata, perché la Palestina è in un nodo geografico sotto tensioni spaventose, costretta a una difesa costosissima e logorante, che spinge anche ad azioni temerarie o politicamente sbagliate. Il sionismo di allora pensava a un Paese contadino. Israele, oggi è diventato un Paese militare e industriale».
Altrimenti si rischia davvero di credere a certi articoli, di questi tristi giorni, che raccontano di una guerra iniziata per una “manciata di case” a cui i palestinesi non vorrebbero rinunciare. La realtà è complessa e ognuno si porta dietro i segni sulla pelle della propria storia.
Buon venerdì.
*Fonte: Left, 14.05.2021.
ERMENEUTICA, PRINCIPIO DI "CARITÀ", E ... CERVELLO FUORI DALLA CAVERNA!
Semplicità insormontabili
La macchina dell’esperienza
di Roberto Casati e Achille Varzi *
Lui (in vacanza, seduto in riva al mare, con fare filosofico). Che bella cosa, la felicità!
Lei. Non ti facevo così saggio.
Lui. Non scherzare. La felicità è una bella cosa e non c’è niente di male nel ripetercelo, di tanto in tanto. E ti dirò di più: gli edonisti avevano perfettamente ragione. Non è forse massimizzando il piacere che si può essere felici? Il piacere provoca felicità, quindi, più si prova piacere, più si è felici.
Lei. Addio saggezza. Guarda che il nesso tra piacere e felicità è ben più spurio di quanto pensassero gli edonisti.
Lui. A me non sembra proprio. Per me è un piacere essere qui, ed è proprio perché sto provando questo piacere che sono felice.
Lei. C’è un argomento di Robert Nozick che dimostrerebbe il contrario. Mai sentito parlare della "macchina dell’esperienza"?
Lui. Sentiamo.
Lei. La macchina dell’esperienza è un vero e proprio prodigio tecnologico. Funziona così: tu entri nella macchina, e quella è in grado di procurarti qualunque esperienza tu possa desiderare. C’è un casco, con degli elettrodi, e se lo indossi ecco che il tuo cervello viene stimolato in modo, appunto, da farti provare le sensazioni che vuoi. Desideri sperimentare che cosa si prova a scrivere una bella poesia, vincere un premio, innamorarsi di una persona, sentirsi ricambiati del proprio amore? Indossa il casco e voilà: proverai esattamente quelle sensazioni in modo assolutamente realistico.
Lui. Ma un conto è provarle davvero, quelle sensazioni; altro conto provarle dentro una macchina del genere.
Lei. Funziona in modo tale che mentre le provi non hai alcuna consapevolezza del fatto di essere all’interno della macchina.
Lui. E se io non desidero niente in particolare?
Lei. Gli ingegneri che hanno progettato la macchina si sono ben documentati e hanno fatto in modo che la macchina disponga, per così dire, di un menù veramente ricco di possibilità. Quindi, se vuoi, puoi davvero provare ogni tipo di esperienza, non solo quelle che ti vengono in mente. E naturalmente il menù è richissimo di esperienze piacevoli, ovvero esperienze di piacere.
Lui. Quindi, se voglio, posso entrare nella macchina e starci dentro tutta la vita, pre-programmando le cose in modo tale da provare piacere per tutti i giorni che mi restano da vivere?
Lei. Esattamente. Il punto è: lo faresti? Entreresti in una macchina così con la garanzia di provare piacere per il resto della tua vita?
Lui. Ovvio!
Lei. Secondo Nozick, no. Non solo non ci entrerebbe lui, ma pensa che nemmeno noi ci entreremmo.
Lui. E perché mai?
Lei. Per tre motivi. Primo: generalmente vogliamo fare certe cose, non solo provare l’esperienza di farle. Anzi, è proprio perché le vogliamo fare che ci sottoponiamo all’esperienza di farle. Invece la macchina fa il contrario. Secondo, vogliamo essere felici di ciò che siamo. Cioè vogliamo essere delle persone felici. Ma che persone saremmo, se ci chiudessimo nella macchina per il resto della nostra vita?
Lui. Beh, per la felicità si può anche rinunciare a essere delle persone...
Lei. Terzo, nella macchina non avremmo alcuna esperienza della realtà: proveremmo esperienze realistiche, ma sarebbero comunque esperienze di una realtà del tutto artificiale, virtuale. Un po’ come i cervelli nella vasca ipotizzati da Putnam, o i personaggi del film Matrix, mentre "combattono" contro l’agente Smith stando sdraiati nelle loro poltrone in laboratorio.
Lui. Vieni al punto.
Lei. Il punto è che provare piacere non basta. Anche ammesso che sia un importante ingrediente in una ricetta per la felicità, bisogna provarlo nel modo giusto.
Lui. Sarà come dici. Però questi esperimenti mentali lasciano un po’ il tempo che trovano.
Lei. A me non pare affatto un esperimento mentale. Non ti sembra che questo nostro mondo si stia trasformando in una grande macchina dell’esperienza, non molto diversa da quella ipotizzata da Nozick?
* Il Sole-24 Ore, 24.11. 2013.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo,
Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione. Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovvero careo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello», kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino” 1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE DELLA "H".... "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia" (di Antonio Rainone).
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
"LA MACCHINA DELL’ESPERIENZA" NELLE "STORIE NATURALI" DI PRIMO LEVI.
UNA NOTA DA:
La tentazione del monito: etica e metaetica in Primo Levi
di Jacopo Berti *
"Trattamento di quiescenza è l’ultimo di sei racconti tecnologici che hanno per protagonista il signor Simpson, rappresentante della NATCA, multinazionale americana high-tech con filiale italiana a Olgiate Comasco. [...] è letterariamente più curato, presenta sperimentazioni tematiche e formali. Simpson, raggiunto ormai il pensionamento, riceve in usufrutto dalla NATCA un Torec, un Total Recorder.
L’apparecchio è una geniale anticipazione della realtà virtuale 30 e consiste in una serie di nastri e di un casco che permette di sperimentare
Nel corso del racconto, Simpson diviene completamente asservito alla macchina, e passa dalle due ore necessarie a gustare “Paestum e Metaponto visti da Quasimodo” alle dieci, diciotto, venti ore trascorse ad immedesimarsi in episodi di violenza, di malattia mentale, di morte. Anche in questo caso, nel momento del monito, il richiamo è al contesto biblico, all’Ecclesiaste e alla figura di Salomone:
Come Trattamento di quiescenza chiude Storie naturali [...]"
30 Cfr. a tal proposito Elémire Zolla, Un miracolo di Primo Levi: profeta della realtà virtuale, in “Corriere della sera”, 1 giugno 1993.
* Jacopo Berti, La tentazione del monito: etica e metaetica in Primo Levi, Etica & Politica / Ethics & Politics, XVI, 2015, 1, pp.62-75, PP. 72-73.
Federico La Sala
Teatro
Come Dante salvò Primo Levi dall’inferno: Roberto Herlitzka e il ‘Canto di Ulisse’
In scena il 31 agosto al Festival di Todi, ’Il Canto di Ulisse’ è liberamente ispirato ai testi ’Se Questo è un Uomo’ e ’L’Ultimo Natale di Guerra’ di Primo Levi.
di Giuseppe Cassarà (GdS Globalist, 30 agosto 2019)
L’aggettivo che maggiormente ricorre in riferimento alla scrittura di Primo Levi è ‘lucida’. Lucida è la sua testimonianza del Lager, lucida la sua mente che non si è persa, ma ha lottato per trovare le parole in grado di raccontare un Male tanto cieco. Della sua scrittura, lo stesso Levi parlava in questi termini: “ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro, come (mi pare che lo abbia detto Pirandello, non ricordo più dove) potrebbe fare una pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata: magari sterile”.
Nel Lager, dove la parola è castrata, ridotta a un rantolo, Primo Levi una mattina si dirige verso il refettorio accompagnato da un prigioniero di lingua francese. Per passare il tempo, per rimanere umani, Levi tenta di spiegare al compagno l’amata Divina Commedia. Sceglie un canto, il XXVI, in cui Dante incontra una lingua di fiamma che avvolge e tormenta lo spirito di Ulisse. I versi sfuggono alla mente di Levi, ma la memoria gli restituisce una terzina, la più nota del canto e una delle più citate di tutta la Commedia:
Ulisse canta, Dante ascolta, Levi racconta: la terzina per il prigioniero è “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.
Il Canto di Ulisse è il titolo dello spettacolo diretto da Teresa Pedroni, in scena il 31 agosto in occasione del Todi Festival 2019. Un testo liberamente ispirato al capolavoro di Levi Se Questo è un Uomo e alla sua raccolta di racconti postumi L’Ultimo Natale di Guerra, fortemente voluto dal direttore artistico Eugenio Guarducci e interpretato dal Maestro Roberto Herlitzka, nei panni di un Primo Levi che racconta momenti del suo vissuto tragico nel Lager con una grande limpidezza unita a fughe dell’immaginazione, quando la fantasia si libera per lenire il peso della realtà.
Maestro, vorrei partire proprio da quella terzina, una delle poche che Levi ricorda con chiarezza, quella che gli restituisce, anche solo per un attimo, la sua umanità. A chi, oggi, potrebbero essere rivolte quelle parole?
Senza dubbio a chi soffre come Levi e i suoi compagni stavano soffrendo. Penso a quelle anime disperate che attraversano il mare per cercare una vita migliore, per esempio. Anche se, a dire il vero, consigliare loro di ‘seguir virtute e canoscenza’ può sembrare un po’ una beffa: l’unica cosa che conta, tutto ciò a cui ti aggrappi in situazioni del genere, è sopravvivere. Ma è per questo che le parole di Levi sono una sfida. Dante, e Levi, non scelgono Ulisse a caso: quando pronuncia quelle parole, l’eroe dell’Odissea si trova in un momento in cui il pericolo di morte è più reale che mai. Ulisse, come Levi, dice quelle parole ai suoi compagni, li sprona a ricordare la propria umanità, a proiettarsi oltre la paura. Ed è un monito che rivolge anche e soprattutto a sé stesso.
Mi ha sempre colpito che Levi, quando scriveva ‘Se Questo è un Uomo’, parlava delle vittime, non dei carnefici. I ‘bruti’ danteschi sono i prigionieri, i ‘sommersi’ nel Lager. Se queste parole sono un monito per tutta l’umanità, quali sono le nostre prigioni, oggi?
Guardi, non penso che oggi, almeno nel nostro mondo occidentale, si possa parlare di ‘prigioni’: nel mondo accadono cose orribili ma credo che nulla possa essere paragonabile a ciò che è stato il nazismo. Il nazismo non aveva la morte come mezzo, la morte era il fine del Lager. Una morte prima spirituale e solo dopo fisica. Il Lager tendeva all’annullamento della persona come essere umano, mirava a ridurre l’uomo in ‘bruto’. Le motivazioni che stanno dietro al male moderno sono più terrene, sono legate all’avidità, alla brama di potere. Quindi non penso che si possa fare un paragone tra il Lager nazista, tra l’esperienza di Primo Levi, e il tempo moderno. Ma è proprio questo che rende la voce di Levi essenziale: è la voce della memoria, dello sforzo sovrumano di un uomo che è rimasto tale nonostante fosse prigioniero in un luogo che voleva schiacciare la sua umanità. E lo ha fatto, per tornare a Dante, attraverso la sua sensibilità di artista, di scrittore. Nell’inferno, ciò che lo ha salvato è stata la poesia.
In un’intervista del tempo, Primo Levi parlava del Lager come dell’“unico momento in technicolor in una vita altrimenti in bianco e nero”. In che momento della sua vita troviamo il Primo Levi da lei interpretato nello spettacolo?
È un Primo Levi che sta cercando, come fece Ulisse davanti alla montagna del Purgatorio, di riscattare prima di tutto la propria coscienza. Penso sia questo il valore più grande della testimonianza di Levi. Altre voci, come la sua, hanno raccontato il Lager ma Levi con la sua scrittura ha riscattato l’umanità, ha permesso a chi è venuto dopo il nazismo di trarre le conseguenze di ciò che è stato. Ulisse racconta a Dante, e Levi racconta a noi, per trasmettere prima di tutto la memoria, l’esperienza di chi, di fronte alla più grande paura che l’uomo può provare, la paura della morte, dell’annullamento, scopre l’essenza più profonda della propria umanità.
Lo spettacolo, oltre che da ‘Se Questo è un Uomo’, è ispirato anche a una raccolta di racconti postumi, ‘L’Ultimo Natale di Guerra’. Sono racconti piuttosto diversi dal Levi più noto, dove la fantasia, l’immaginazione quasi infantile prendono alle volte il sopravvento sulla lucidità dello scrittore. Potremmo dire, quindi, ‘virtute, canoscenza’ ma anche poesia, immaginazione?
Certo che sì, anche se senza dubbio è una strada che può imboccare solo chi è dotato di grande creatività. Levi era già scrittore prima del Lager, anche se è chiaro che la sua vita di artista è stata irrimediabilmente segnata da ciò che ha vissuto ad Auschwitz. Ma Levi era un uomo capace di vivere di fantasia, di immaginazione. Come Ulisse, in fondo: solo chi può immaginare di espandere l’orizzonte del proprio mondo, di mettere sé stesso oltre le Colonne d’Ercole, può sfuggire alla morte dello spirito attraverso la poesia. Ed è quello che ha fatto Levi.
Il Canto di Ulisse, presentato dalla Compagnia ‘Diritto e Rovescio’, andrà in scena il 31 agosto presso il Teatro Comunale di Todi. Accanto al Maestro Herlitzka, troveremo Stefano Santospago e i musicisti Alessandro Di Carlo al clarinetto e Alberto Caponi al violino.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PRIMO LEVI. Quando Levi morì (11 aprile 1987), Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: «È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale».
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
Cent’ anni dalla nascita.
Primo Levi fu il più grande. E non smise di interrogarsi
Il 31 luglio 1919 nasceva Primo Levi, lo scrittore italiano del Novecento che tutti, nel mondo, devono aver letto...
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 13 luglio 2019)
Cento anni fa, il 31 luglio 1919, nasceva Primo Levi, lo scrittore italiano del Novecento che tutti, nel mondo, devono aver letto. Nessuno doveva uscire dal secolo scorso senza aver letto Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Sono la testimonianza e l’analisi della massima colpa del secolo, anzi del millennio, anzi della storia. Eppure Primo Levi non fu capito quando consegnò il manoscritto del suo primo libro, che infatti fu rifiutato, è storia risaputa, ma non fu capito neanche dopo, per tanti decenni, visto che nessuna storia della letteratura lo includeva, e questo è meno saputo.
C’era una storia diffusissima, nei licei e nelle università, ed era quella di Natalino Sapegno, che era giunta alla 43esima edizione e di Primo Levi non metteva neanche il nome. Scrissi un articolo proprio su questa dimenticanza, e lo mandai a Sapegno. Nell’edizione successiva Primo Levi c’era con queste parole: «È lo scrittore italiano più importante del secolo». Sono d’accordo. Cento anni fa nasceva dunque lo scrittore italiano più importante del secolo. Dove sta la sua grandezza? Sta nell’aver vissuto in prima persona e osservato e descritto la massima colpa della storia non al grado massimo in cui si verificava, ma al grado massimo in cui era ricordabile e raccontabile. Un altro passo, e anche Levi, come molti altri, non avrebbe ricordato e non avrebbe scritto.
Mi vien sempre in mente che un redattore della rivista di Sartre, Les Temps Modernes, ha incontrato alcuni superstiti dello Sterminio, li ha interrogati e filmati, ma quelli che han vissuto la violenza al grado più alto non rispondono, ma piangono e si torcono. Sono muti. Levi parla. Con precisione, con lucidità, con verità. Con uno stile classico. I suoi libri sono un atto d’accusa freddo e inflessibile. Contro la cultura razzista, il regime razzista, il progetto della Soluzione Finale, l’attuazione di quel progetto, il nazismo. È la Storia del Male, che ha come motore il Führer. Ho incontrato più volte Primo Levi, ne ho ricavato un librino che s’intitola Conversazione con Primo Levi, nel quale c’è anche un doloroso scontro tra Levi e me, e lo scontro riguarda il colpevole di quel Male.
Levi aveva una concezione personalistica della Storia, la Storia la fanno i grandi, che sono il vento che scuote il mare, sul quale i popoli galleggiano. Non ero e non sono d’accordo. La Storia la facciamo noi, noi popolo. Dopo la morte di Primo sono usciti due libri che rafforzano il disaccordo, e sono i libri di Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, e di Hillberg, La distruzione degli ebrei d’Europa. Questi libri affermano la responsabilità collettiva. Che non vuol dire di tutti i membri del popolo singolarmente presi, ma della massa, c’è una responsabilità di massa, la massa obbediva agli ordini ma li precedeva anche, e li aspettava. Questa tesi è confortante per chi insegna, chi scrive, chi parla, perché gli fa capire che c’è un tempo per l’intervento e l’opposizione, ed è il tempo in cui possiamo agire su di noi. Non si può dire che Hitler abbia tradito tutti e non avesse detto cos’avrebbe fatto, perché il Mein Kampf è chiarissimo, invaderò a est, caccerò popoli, sterminerò razze. Il programma era chiaro. I libri di Levi raccontano l’attuazione di quel programma. Non la spiegazione. Nel Mein Kampf gli ebrei hanno tutte le colpe in generale, ma nessuna in particolare.
Quando Primo si trova vis-à-vis con l’ufficiale tedesco che gli fa l’esame per capire se è un chimico, perché se è un chimico va in laboratorio e sta meglio, i due si guardano da vicino, e Levi immagina che l’altro pensi di lui così: «Questo qualcosa di fronte a me merita certamente di morire, ma prima vediamo se contiene qualcosa di utile». Il posto in cui si osserva se i condannati a morire portano qualcosa di utile è il lager.
L’immensa macchina del male descritta da Levi serviva a tre cose: punire, produrre, eliminare. È un mondo senza Dio, in cui si sente fortissima l’esigenza di Dio. La sentiva anche Levi? Dò uno sguardo ai siti che parlano della morte di Levi e provo dolore. Molti dicono «suicida», ma il suicidio è il rifiuto della vita, Levi è morto di sabato e il martedì dopo a me è arrivata una sua lettera, piena di progetti e di speranze. Se m’è arrivata di martedì, l’ha imbucata il sabato, e non è possibile che uno imbuchi una lettera piena di vita, poi va a casa e si butta giù. La mia conversazione con lui si conclude con la sua frase: «C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio», però dopo lui ha aggiunto due righe con la biro: «Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo», e mi pare evidente che volesse tenere aperta la questione, «Non trovo Dio ma lo cerco». Chiudere la sua biografia con «era ateo» significa non rispettarlo. Rispettiamolo. È il nostro più grande autore del secolo.
I sommersi e i salvati. Una nuova edizione per le scuole
di Martina Mengoni - Roberta Mori (Il Mulino, 06 giugno 2019)
Nel 1973 Primo Levi pubblicò un’edizione scolastica di Se questo è un uomo all’interno della collana einaudiana “Letture per la scuola media”. Si inseriva in una serie di edizioni commentate per le scuole che Levi curava personalmente: La tregua (1965), Il sistema periodico (1979), La chiave a stella (nel 1983, con commento di Gian Luigi Beccaria supervisionato dallo stesso Levi). Per Se questo è un uomo lo scrittore aveva progettato, oltre alle note, una serie di strumenti allo scopo di fornire ai giovani lettori informazioni sui Lager nazisti e sulla geografia e la storia europee tra il 1918 e il 1945: una prefazione, due carte geografiche dei campi di concentramento e sterminio europei, una bibliografia essenziale e un apparato di esercizi di comprensione e analisi.
Nel proporre agli studenti delle scuole superiori la prima edizione scolastica de I sommersi e i salvati, a oltre trent’anni dalla sua pubblicazione (1986), abbiamo provato a fare tesoro delle indicazioni provenienti dal lavoro di autocommento e curatela svolto da Levi, cercando di adattarle alla didattica e alla scuola odierna.
L’introduzione offre un resoconto, sintetico ma non semplificato, delle ultime ricerche sulla genesi, la struttura, gli stili e l’impianto retorico de I sommersi e i salvati. Il volume è ricondotto innanzitutto alla sua prima gestazione, negli anni Sessanta, quando Levi aveva uno scambio vivo e diretto con i suoi lettori tedeschi. Al contempo il libro non avrebbe visto la luce senza il dialogo ininterrotto con gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, di cui la prefazione dà conto. “Sono stato in più di centotrenta scuole”, scrive l’autore nel 1979.
Gli studenti sono dunque il destinatario ideale de I sommersi e i salvati; è per loro l’ultimo e forse il più importante lascito analitico di Primo Levi, ed è questa la chiave per comprendere le scelte retoriche e argomentative del libro: un testo che fonde l’impianto saggistico con l’andamento narrativo, ricco di “figure” memorabili e insieme inesauribili, che rilanciano gli interrogativi filosofici, morali e storici posti dall’autore; un libro dal carattere socratico, concepito come un tentativo di ripristinare la complessità di una vicenda storica, sociale, culturale. “Una segnaletica di problemi”, come lo ha definito la storica Anna Bravo.
Nella progettazione e nella messa a punto dell’apparato di note si è cercato di trovare una sintesi tra due esigenze di segno opposto: da un lato l’aspirazione a trasmettere informazioni esaustive, dall’altro la necessità di non appesantire la pagina con note troppo lunghe e impegnative. Abbiamo optato per una notazione di servizio, agile e poco invadente, il cui scopo è quello di chiarire ogni riferimento non immediatamente presente nel bagaglio di conoscenze degli studenti delle scuole medie e superiori: traduzione di termini stranieri e spiegazione di termini specialistici, di derivazione colta e letteraria, di uso raro; note storiche e storico-biografiche, che coprono un arco cronologico che si estende dalla Prima guerra mondiale fino agli anni Ottanta del Novecento; spiegazione delle citazioni esplicite, dei riferimenti culturali, letterari, artistici.
Del tutto assenti in questa edizione sono invece le note di tipo critico-interpretativo. Il senso di questa scelta è alla base dell’intera operazione editoriale: proporre agli studenti un testo di cui fare un uso attivo, in classe, con il docente, nei lavori di gruppo, evitando di sovrapporre la nostra voce di curatrici a quella dell’autore. Non ci interessava intervenire nel dialogo fra autore e lettore suggerendo un’interpretazione preconfezionata (e, visto lo spazio a disposizione, per forza incompleta); abbiamo preferito lasciare alle note il compito di sciogliere eventuali ambiguità e di mettere a disposizione informazioni essenziali alla comprensione del testo.
Ciò non significa rinunciare alla funzione critica, che è piuttosto affidata agli esercizi presenti nel volume. Ci siamo chieste se fosse possibile costruire un eserciziario che accompagnasse gli studenti stessi, in autonomia, a individuare i maggiori nodi critici e argomentativi della pagina leviana, a esplorare l’uso della lingua e le ibridazioni che Levi sperimenta, la tendenza all’ossimoro e al paradosso che attraversa il libro. Chiedendo ai giovani lettori di misurarsi con l’analisi sintattica e con le etimologie del lessico leviano, giustapponendo di fronte a loro la pagina dei Sommersi con alcuni testi della tradizione letteraria e filosofica che Levi stesso chiama, esplicitamente o implicitamente, in causa, costruendo piccoli percorsi di ricerca bibliografica guidata: in tutti questi modi ci è sembrato di mettere i destinatari di questo lavoro nelle condizioni non soltanto di orientarsi nel testo, ma di coglierne le unicità e le tensioni interne, la potenza, le fonti, le aporie.
Al volume annotato de I sommersi e i salvati, che chiunque può trovare in libreria, si accompagna un fascicolo omaggio riservato agli insegnanti. Il fascicolo si compone di tre sezioni: 1) una serie di percorsi di apprendimento cooperativo, cinque in tutto, su alcuni temi chiave del libro; 2) undici percorsi di analisi guidata di testi di Primo Levi, sul modello delle prove di tipologia A e B dell’Esame di Stato; 3) una ricognizione bibliografica e sitografica sulla figura di Primo Levi, sulla storia della Resistenza e della deportazione e sulla didattica della Shoah.
Sono in particolare le prime due sezioni a costituire una novità a tutti gli effetti, un aggiornamento e un potenziamento rispetto agli apparati didattici delle edizioni einaudiane per le scuole medie che hanno ispirato questo progetto.
I sommersi e i salvati è il libro dello scrittore maturo Levi, che per tutta la vita si è interrogato sull’esperienza concentrazionaria, e al contempo ha sperimentato differenti forme di scrittura, frequentando generi e destinatari diversi. -Una guida per gli insegnanti doveva innanzitutto, a nostro avviso, rilanciare la poliedricità dello scrittore Levi, proponendo testi normalmente meno letti e frequentati dagli studenti delle scuole superiori; e in secondo luogo esplorare le possibili diramazioni culturali, scientifiche, filosofiche di alcuni temi cardine dei Sommersi come la memoria, la zona grigia, gli stereotipi della prigionia.
Alla prima esigenza rispondono le proposte di analisi del testo: undici brani tratti dal Sistema periodico, da La chiave a stella, da Racconti e saggi e dall’Appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo sfatano il mito monolitico di Levi testimone e allargano lo sguardo sul ben più sfaccettato e complesso universo del Levi scrittore, che si muove tra la chimica, con le sue vittorie e sconfitte, il lavoro manuale, la giovinezza, la formazione intellettuale e quella morale, la Resistenza, il rapporto con i tedeschi, le radici dell’intolleranza razziale e la manipolazione dell’informazione durante il Terzo Reich. Nella selezione di testi che proponiamo, questi temi sono spesso affrontati con lo sguardo di un Levi-personaggio liceale e poco più che ventenne, nel tentativo di stimolare un dialogo e un confronto generazionale.
I sommersi e i salvati è anche un libro che combina otto saggi tematici; ciascuno di questi temi (memoria, zona grigia, vergogna, comunicazione, violenza inutile, essere un intellettuale ad Auschwitz, dialogo con i tedeschi) si dirama in molte ed eterogenee direzioni. Uno dei modi possibili per far confluire le ricerche leviane degli ultimi anni in un apparato adatto agli studenti di scuola superiore era quello di costruire percorsi di apprendimento cooperativo interdisciplinari che, a partire dai temi discussi da Levi, toccassero altri testi letterari (Montale, Borges, Shakespeare, Dostoevskij), filosofici (Platone, Cicerone, Agostino, Bergson, Freud, Arendt), scientifici (Alexander Lurija) e storico-memorialistici (Massimo Mila, Luciana Nissim) con incursioni nel fumetto (Maus di Art Spiegelman, ma anche le vignette di prigionia di Ernesto Rossi), nelle arti figurative (il memoriale di Berlino, le Stolpersteine), nelle serie tv (Prison Break, Black Mirror). I percorsi sono pensati come attività di apprendimento di gruppo. Tre di essi sono incentrati sulla memoria, in tre differenti accezioni (memoria biologica, memoria collettiva, metafore della memoria); uno è dedicato alla zona grigia; l’altro allo stereotipo del prigioniero.
Prendiamo come esempio quest’ultimo: il percorso è costruito a partire dalle considerazioni del capitolo Stereotipi. Levi riflette sul progressivo sfaldamento dell’immaginazione storica degli studenti, non solo per quanto riguarda i grandi eventi, ma anche e soprattutto per quel che concerne la condizione di chi veniva fatto prigioniero nei campi: un progressivo sfaldamento psicologico e morale, un annientamento del corpo che andava di pari passo con quello del soggetto pensante. Niente di più lontano dal mito del prigioniero che “spezza le catene”, coltivato dalla letteratura e dal cinema.
Per il nostro percorso di apprendimento cooperativo, abbiamo affiancato a un testo tratto da Il sistema periodico (Oro) in cui Levi racconta la sua prigionia in Valle d’Aosta, un brano tratto da Memorie dalla casa dei morti di Luciana Nissim Momigliano sulla “morte interiore” dei prigionieri; insieme ad essi, abbiamo proposto un estratto da Le loro prigioni di Massimo Mila (in “Il Ponte”, n. 3, marzo 1949), in cui l’intellettuale antifascista racconta - con una certa disincantata ironia - il periodo di prigionia a Regina Coeli, la difficoltà nello scrivere lettere che eludessero la censura, la noia, la lettura, le conversazioni, l’avidità di notizie sul presente. Il testo è accompagnato da una vignetta di Ernesto Rossi, che con Mila condivideva la cella in quegli anni.
A questi testi si aggiunge una proposta eterodossa: quella di analizzare e commentare un film che Levi cita nel capitolo, Io sono un evaso (1932), accostandolo a un altro film sullo stesso filone, uscito negli anni Settanta, Fuga da Alcatraz (1979), e a una serie tv recente, Prison Break (2005-2017). Tutti e tre insistono in modi diversi - ma con un’iconografia simile, già individuabile nelle locandine - sullo stereotipo del prigioniero forte e padrone di sé, che riesce a liberarsi e a fuggire, spezzando i propri vincoli con lucidità pianificata e senza l’aiuto esterno. Far reagire i testi di Levi, Nissim, Mila e i disegni di Rossi con film che rappresentano il loro contraltare narrativo ci è sembrato utile per illuminare, attraverso un’attività didattica concreta, costruita sul lavoro a gruppi, il contenuto del capitolo dei Sommersi.
È improbabile che uno studente nato negli anni Duemila conosca Io sono un evaso o abbia letto a scuola gli Scritti civili di Massimo Mila; ma è possibile che abbia visto almeno una puntata di Prison Break, ed è quasi certo che sia familiare con la sua estetica e con la sua simbologia.
Un percorso di apprendimento cooperativo che colleghi questi contenuti potrebbe avere il merito di allenare lo sguardo degli studenti a riconoscere non solo gli stereotipi storici, ma anche i tic narrativi più frequenti; un esercizio di analisi e straniamento utile alla lettura e all’interpretazione delle costruzioni simboliche e dei miti letterari che popolano l’immaginario e la mitologia contemporanea.
Levi ha costruito I sommersi e i salvati esattamente con questo spirito: una galleria di esercizi mentali sul passato e sul presente, estremi e necessari. Noi proviamo a rilanciarli.
REALTA’ VIRTUALE: PRIMO LEVI PROFETICO 26 ANNI FA [1992] *
Roma, 17 ott. (Adnkronos) - ’’Il fruitore non ha che da indossare un casco...’’. La realta’ virtuale ha avuto un insospettabile e sorprendente precursore: Primo Levi. Con una precisione di dettagli straordinaria, l’autore di ’Se questo e’ un uomo’ descrisse nel 1966 per le edizioni Einaudi, con lo pseudonimo di Damiano Malabaila, l’universo artificiale ed immaginario della finzione virtuale nel breve racconto ’Trattamento di quiescenza’, inserito nella raccolta ’Storie naturali’.
’’Il torec e’ un registratore totale. E’ un congegno rivoluzionario’’, fa dire Levi a Simpson, il protagonista del racconto che descrive nei particolari le meraviglie di un macchinario fantascientifico. Il seguito di ’Trattamento di quiescenza’ assomiglia in maniera impressionante, quasi soprannaturale, ai mondi futuribili evocati in queste settimane da film (’’Il tagliaerbe’’, tratto da un racconto di Stephen King) e da videogiochi all’avanguardia affacciatisi solo in questi ultimi tempi nelle vetrine dei negozi: ’’L’ascoltatore, anzi il fruitore, non ha che da indossare un casco e durante tutto lo svolgimento del nastro riceve l’intera e ordinata serie di sensazioni visive, auditive, tattili, olfattive, gustative, cenestetiche e dolorose. Inoltre, le sensazioni per cosi’ dire interne, che ognuno di noi allo stato di veglia riceve dalla propria memoria’’.
’’Il risultato - dice ancora Simpson al proprio interlocutore - e’ quello di un’esperienza totale. Lo spettatore rivive integralmente la vicenda che il nastro gli suggerisce, sente di parteciparvi o addirittura di esserne l’attore: questa sensazione non ha nulla in comune con l’allucinazione ne’ con il sogno perche’, finche’ dura il nastro, non e’ distinguibile dalla realta’... Qualunque sensazione uno desideri procurarsi, non ha che da scegliere il nastro. Vuole fare una crociera alle Antille? O scalare il Cervino? O girare per un’ora intorno alla Terra, con l’assenza di gravita’ e tutto? O essere il sergente Abel F.Cooper e sterminare una banda di Vietcong? Ebbene, lei si chiude in camera, infila il casco, si rilassa e lascia fare a lui, al Torec’’. (segue)
* ADNKRONOS, ARCHIVIO, 17.10.1992
* Realtà virtuale, una sezione all’avanguardia. Venezia 75. Un universo grafico autosufficiente che abbandona il regime dell’illusione per aprire alla simulazione (Malvina Giordana, il manifesto, Alias, 25.08.2018).
* Primo Levi "soprattutto il testimone e lo scrittore d’invenzione (quello che trova un equilibrio instabile nelle Storie naturali che, con atto mancato da manuale, nel ’66 Levi s’induce a firmare collo pseudonimo di Damiano Malabaila)" (cfr. Andrea Cortellessa, Descrizione di una battaglia, "Le parole e le cose", 04.09.2018).
Federico La Sala
La collana in edicola con il «Corriere»
Primo Levi e il suo monito eterno: Auschwitz, spettro che può tornare
Esce il terzo volume della serie dedicata allo scrittore sopravvissuto alla Shoah.
Il naufragio dell’etica occidentale nell’orrore dei campi di sterminio
di Donatella Di Cesare (Corriere Sera, 11.02.2018)
Fu un tonfo sordo e inatteso. Quel sabato mattina una volante della polizia e un’autoambulanza raggiunsero in fretta Corso Re Umberto 75, al centro di Torino. Era di Primo Levi il corpo esanime, ai piedi delle scale. Quell’11 aprile 1987 la notizia del suicidio fece il giro del mondo e lasciò tutti attoniti, i lettori, ma anche gli amici. Pur sapendo della sua depressione, si rifiutavano di credere che avesse compiuto quel gesto. La lucidità di pensiero, l’altezza intellettuale, che avevano contrassegnato figura e opera di Levi, stridevano con quella spirale di ringhiere in cui era precipitata la sua vita. Molti dubitarono, vollero credere a un incidente. Il suicidio sembrava cancellare ogni scintilla di speranza inscritta nelle sue parole. Il «New Yorker» espresse questo timore apertamente. Molti altri, però, indicarono in quella morte la fine di una tenace sopravvivenza al lager.
Solo un anno prima, nel maggio 1986, era uscito I sommersi e i salvati, l’opera fondamentale di Levi. In quelle pagine la testimonianza personale, affidata ad altri libri precedenti, si coniuga con una riflessione profonda, un’analisi implacabile e un monito severo. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Le parole della conclusione sono il suggello di un libro pervaso dall’amarezza, a tratti dalla disperazione, ma sostenuto dall’esigenza di una denuncia senza compromessi. I sommersi e i salvati è scritto per i giovani; sono loro i destinatari. E perciò in ogni scuola dovrebbe oggi essere studiato, meditato.
Non basta leggere Se questo è un uomo , oppure La tregua. Perché è come se quella narrazione trovi una nuova luce. È a partire dall’attualità che viene infatti ripercorsa l’esperienza del lager. Auschwitz non è un mito lontano, ma uno spettro del futuro. Levi prende la parola per combattere, con le ultime forze, contro revisionisti e negazionisti.
Non si comprenderebbe il suo pensiero se non lo si interpretasse nel contesto di quei giorni. Nel giugno 1986 lo storico tedesco Ernst Nolte aveva articolato una tesi, già diffusa in Germania, con cui pretendeva di mettere sullo stesso piano il gulag e il lager, lo stalinismo e il nazismo, e vedeva anzi in quest’ultimo null’altro che una risposta al primo. Qualche tempo dopo, quel «laido conato» trovò spazio anche sulla stampa italiana. Levi fu implacabile: i due sistemi non erano paragonabili. Le camere a gas, quell’invenzione tutta tedesca, era la cifra ineguagliata dello sterminio.
La Germania che tentava invano di discolparsi, di «sbiancare il suo passato», gli faceva orrore. «Nessun tedesco dovrebbe dimenticare». Attento a non pronunciare un verdetto su un’intera nazione, con il tempo modificò il giudizio. La colpa era stata enorme: «Quasi tutti i tedeschi di allora» sapevano e non avevano avuto il coraggio di parlare. I sommersi e i salvati è un libro durissimo che mira a decostruire molti stereotipi. Ad esempio l’idea, ancora ben radicata, che Auschwitz sia il risultato della barbarie nazista.
Le cose sono ben più complicate. A quel progetto politico hanno aderito - occorre riconoscerlo - molti intellettuali. Ma sulla scia di Hegel, che aveva deificato lo Stato, l’intellettuale tedesco «tende a farsi complice del Potere». «Le cronache della Germania hitleriana - osserva Levi - brulicano di casi che confermano questa tendenza: vi hanno soggiaciuto Heidegger il filosofo, il maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber, il cardinale, suprema autorità cattolica in Germania, ed innumerevoli altri».
Qualcuno ha scritto che in queste pagine Levi si rivela un grande moralista. Ma la definizione è fuorviante. Piuttosto, senza smettere di essere testimone, Levi veste i panni del filosofo per criticare la filosofia, per sfidarla, indicando temi rimasti fuori dall’inventario filosofico, come quello di vergogna, o mostrando i concetti che, come quello di morte o di libertà, vanno rivisti. Perché Auschwitz è il naufragio dell’etica occidentale. La responsabilità è stata frantumata. Levi ritorna sulla «zona grigia» dove alla vittima, per la prima volta, non è concesso più neppure il ruolo di vittima, al punto da renderla semicarnefice. È questo il «delitto più demoniaco del nazionalsocialismo».
Splendido, e forse sottovalutato, è il capitolo «Comunicare» . Auschwitz appare una nuova versione della Torre di Babele. Capire o non capire, sapere il tedesco, segna lo spartiacque tra la vita e la morte. La disumanizzazione dell’altro passa attraverso la lingua ridotta a crudele strumento di potere. La parola lascia il posto all’offesa e poi al nerbo. È il segnale che non si è più considerati umani. E Levi commenta: «Dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». Nel lager, però, si muore per mancanza non solo di informazione, ma anche di dialogo, quando nessuno «ti parla» più. Dove viene meno il vocativo dell’altro finisce la vita. Perciò scrive Levi rivolto ai suoi destinatari futuri: «Rifiutare di comunicare è colpa».
Ruppe subito il silenzio. E molti non lo capirono
Altri preferivano non rievocare tante atrocità
E trovare un editore all’inizio fu un problema
di Frediano Sessi (Corriere della Sera, 27.01.2018)
Il ritorno a casa dalla deportazione, per Primo Levi, fu lungo più del previsto. «Per ragioni non chiare - scrive - il nostro rimpatrio ebbe luogo il 19 ottobre del 1945», dopo trentacinque giorni di viaggio. A Torino, nessuno lo aspettava. «Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere». A casa, si sentiva schiacciato dal peso dei ricordi, più vicino ai morti che ai vivi.
La poesia fu il primo rifugio nella parola scritta; ma sul treno che lo riportava a Torino, Levi aveva cominciato a raccontare la sua storia. Così, quando in novembre prese a scrivere i singoli episodi del libro di ricordi, aveva ben chiaro che cosa dire. Scrisse forse gli ultimi capitoli; come disse poi in alcune interviste, Storia di dieci giorni fu il primo a essere scritto.
Furono gli amici e la sorella Anna Maria a leggere il dattiloscritto e a incoraggiare Primo a pubblicarlo, così il testo fu inviato ad alcuni editori, tra i quali la casa editrice Einaudi. Ma in breve, il libro fu letto e rifiutato da tutte le case editrici interpellate. Che fare? L’amico Silvio Ortona, segretario del Partito comunista di Vercelli, dopo avere letto alcuni capitoli, gli propose di pubblicarli a puntate sul settimanale del partito «L’Amico del Popolo». È il primo passo verso una redazione pubblica dei ricordi di Levi.
Intanto, la sorella Anna Maria, aveva portato il dattiloscritto agli uffici della casa editrice De Silva, di proprietà di Franco Antonicelli, che accolse la proposta di buon grado. In attesa della pubblicazione presso l’editore De Silva, Levi apportò alcune modifiche al dattiloscritto. Aggiunse colore, emozione, precisione e dettagli alle descrizioni, cercando di arrivare in modo più diretto al cuore del lettore: «Ho cercato di mantenere l’attenzione sui molti, sulla norma, sull’uomo qualsiasi, non infame e non santo, che di grande non ha che la sofferenza». Il libro fu stampato in 2.500 copie, ma ebbe poca circolazione al di fuori della città di Torino e del Piemonte. Già nella primavera del 1948, nessuno ne parlerà più, nonostante le ottime recensioni scritte da Italo Calvino e Cesare Cases.
Verso la fine di maggio del 1955, Levi ricorda che fu invitato a commentare una mostra sulla Resistenza in Piemonte e che fu assediato «veramente bombardato», di domande sulla sua esperienza diretta. Allora si decise a riportare il suo libro alla casa editrice Einaudi che, questa volta, l’11 luglio del 1955 firmò un contratto per la riedizione. Nonostante l’impegno previsto di pubblicarlo entro il marzo del 1956, il libro sarà di nuovo in libreria solo nel giugno del 1958.
Le differenze tra la prima edizione De Silva e la nuova edizione Einaudi sono significative: per esempio, mentre la prima edizione comincia con il racconto del campo di Fossoli, la seconda riporta il racconto dell’arresto in Valle d’Aosta.
Levi vuole così stabilire un ponte tra la sua storia di ebreo ad Auschwitz e il breve periodo trascorso nella Resistenza. Molte altre aggiunte vanno nella direzione di attribuire maggiore chiarezza al testo, che deve, assolutamente, raccontare dei fatti. Levi accorda un posto di rilievo al racconto di alcuni bambini deportati. -Questo si spiega anche con il fatto che nel 1958, Levi è padre per la seconda volta. Le altre aggiunte riguardano per esempio il terzo capitolo, Iniziazione , che non era presente nella prima edizione; capitolo nel quale Levi presenta la babele concentrazionaria. Interessante notare il senso profondo di queste aggiunte: la volontà di annientare gli ebrei, sembra suggerire Levi, riguarda l’intera umanità, proprio perché colpisce anche i bambini.
La scrittura di Levi, procede già in questo libro per «tessere», vale a dire parti essenziali che si incastrano e che hanno funzioni diverse: a volte sono narrative, altre volte invitano o propongono una riflessione, altre volte servono a costruire il sentimento del tempo, a sollecitare, più che la ragione, l’emozione del fatto narrato, quasi a voler indurre il lettore a provare compassione.
Ma il viaggio di Se questo è un uomo non finisce qui: nel 1964, Levi licenzia una versione radiofonica del libro, che andrà in onda alla radio il 25 di aprile, anniversario della Liberazione. La riduzione teatrale, invece, scritta in collaborazione con l’attore Pieralberto Marché è del 1966.
Il coraggio di ricordare e il dovere di raccontare
La voce di Primo Levi dall’abisso di Auschwitz
di Antonio Ferrari (Corriere della Sera, 27.01.2018)
In Primo Levi tanti si sono specchiati, perché lo scrittore sopravvissuto agli orrori di Auschwitz non sfoggiava coraggio indomito da superuomo, ma aveva la forza che scaturisce dalla volontà di chi ha dominato la paura. La sua storia nasce dalla rabbia per le ferite subite (fisiche, ma soprattutto psicologiche) che lo hanno spinto a voler raccontare subito quel che gli altri sopravvissuti ai campi di sterminio avevano e hanno taciuto per quasi trent’anni, nel timore di non essere creduti.
Questo ebreo, convinto antifascista, dopo qualche dissapore famigliare, si era unito a formazioni partigiane, e dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, aveva raggiunto le montagne della Val d’Aosta. «E ora chi vuole davvero combattere ha preso la via dei monti», aveva scritto Ruggero Zangrandi.
Non fu fortunato, Primo Levi. Catturato dai nazifascisti, preferì confessare la sua appartenenza - «sono ebreo» - piuttosto che rischiare di compromettere i compagni che lottavano con lui contro gli occupanti tedeschi e le forze della Rsi.
Arrestato subito, fu portato a Fossoli, campo di transito non lontano da Carpi, in provincia di Modena. Da lì, caricato su un treno merci in cui c’erano cinquanta persone per carrozza, visse il destino dei tanti sventurati che condivisero quel feroce viaggio, in cui la maggior parte, soprattutto gli anziani e i più deboli, morirono prima di arrivare a destinazione. Levi ebbe una prima «fortuna», se così si può dire.
Essendo laureato in Chimica, aveva ottenuto il «privilegio» d’essere dirottato dopo qualche tempo nel campo di Buna-Monowitz, conosciuto come Auschwitz III, che dista poche centinaia di metri dal lager centrale. Non era di salute ferrea, anzi piuttosto cagionevole, ma fu subito circondato dall’umanità di alcune persone che riuscivano a comprenderne il dramma. Ed è qui che Primo Levi scopre il mondo, feroce, solidale e spietato, delle retrovie del campo di sterminio, dove ciascuno aveva un ruolo: i morti viventi, i predestinati, gli intraprendenti, i kapò. Le camere a gas erano a poca distanza, dai camini uscivano fumo e cenere. Se questo è un uomo, capolavoro di testimonianza diretta e realismo, è il racconto-documento che Levi scrisse di getto, tra la fine del 1945 e il gennaio 1947. Un tuffo terribile, nel desiderio di sapere, di vedere e di conoscere, a che cosa può portare l’abiezione, e l’ingresso in un inferno dantesco.
Primo Levi respira la vita del lager, e in particolare si lega al gruppo degli ebrei saloniki , che vengono dalla città al nord della Grecia e che hanno imparato in fretta, essendo stati deportati in anticipo, le immonde regole del lager, dove ogni cosa, ogni oggetto, ogni informazione, ogni pezzo di pane ha un prezzo e un valore. La fame è un incubo, e gli ebrei di Salonicco si dimostrano «ladri, saggi, generosi, furfanti e solidali», come li ha descritti Levi, e come ha ricordato Sergio Luzzatto sulle colonne del nostro «Corriere della Sera» nel 2007. È come se anche ad Auschwitz ci fosse una Borsa valori, che calcolava non soltanto le valute sottratte agli aguzzini nazisti o agli ebrei che le avevano nascoste. Borsa che seguiva indici spietati da mercato ultracapitalistico, altro che hedge fund e Bitcoin.
Per esempio, come racconta Levi, il cambio di biancheria intima al mercato del lager aveva regole ferree: a volte si poteva scambiare una camicia con discrete dosi di cibo, altre volte la camicia o gli «intimi» non valevano neppure un tozzo di pace. Liliana Segre, che il presidente Sergio Mattarella ha nominato senatrice a vita, ha raccontato che una volta, in coda per la distribuzione di un’improbabile minestra a un gruppo di affamati, aveva ascoltato da una detenuta precedente che in quella «brodaglia» nuotava un topo. La Segre disse: «Forse andava bene anche il topo».
La fame era davvero un incubo. I saloniki , che del lager conoscevano ormai tutti i segreti e i sotterfugi, erano diventati, con le buone o le cattive, i padroni delle cucine, contando su una sottile ed esperta catena di spicciola corruzione. Un ebreo di Salonicco, che ormai faceva parte del Sonderkommando, cioè degli ebrei addetti alla pulizia delle camere a gas e dei forni crematori, raccontò alla collega Alessia Rastelli e a chi scrive che si poteva anche tentare di sottrarsi al forno, pagando una forte somma o qualche dente d’oro. Sami Modiano, che veniva da Rodi, ci raccontò che, ormai destinato al gas, si salvò perché era arrivato un carico di patate alla stazione e i nazisti avevano bisogno di braccia giovani per scaricarle. Nedo Fiano, altro sopravvissuto, ci raccontò d’essersi salvato perché conosceva il tedesco, sapeva cantare ed era di Firenze. L’ufficiale-aguzzino, che forse era andato in vacanza nel capoluogo toscano con la fidanzata, lo prese in simpatia.
Primo Levi, nelle pagine più intense di Se questo è un uomo, racconta le prime notti sul pagliericcio e l’ingresso in quel tremendo dormiveglia fra il sogno di rivedere la libertà, la casa, gli amici, e l’incubo di un cibo abbondante che non riusciva mai a raggiungere, perché il sogno-incubo finiva. Poco prima della liberazione del lager da parte dell’Armata Rossa, Levi vive un secondo «incidente fortunato». Si ammala di scarlattina, malattia infettiva, e viene ricoverato nell’infermeria. Evita così la «marcia della morte», con il brutale trasferimento dei prigionieri: chi non ce la faceva e cadeva, veniva ucciso subito. I nazisti non volevano testimoni dei loro crimini.
Dopo molte peripezie, lo scrittore-chimico torna a Torino, cerca di riadattarsi alla vita civile, ma deve prendersi carico della mamma e della suocera, seriamente malate. Levi, a 67 anni, in fondo alle scale della sua casa, cade e muore. Si disse che non era stato un incidente, ma forse un suicidio. Non si può escluderlo. Della vita Primo Levi aveva conosciuto, da fragile coraggioso, soprattutto il peggio.
Primo Levi
di Marco Belpoliti *
Settanta anni fa usciva a Torino presso un piccolo editore, De Silva, il primo libro di un giovane chimico. S’intitolava, come tutti oramai sanno, Se questo è un uomo. Era l’opera di uno sconosciuto aspirante scrittore, che raccontava agli italiani la vicenda dei campi di sterminio nazisti dove erano morti milioni di persone: ebrei, antifascisti, zingari, omosessuali, militari; uomini, donne e bambini, sterminati dalla macchina tedesca con metodo industriale. In questi sette decenni trascorsi da allora questo libro si è trasformato in un classico della nostra letteratura, uno dei libri più letti, commentati e amati dai lettori, tradotto in innumerevoli lingue. E dire che Primo Levi aveva esordito con fatica, respinto da alcuni importanti editori, come racconterà molto dopo, tra cui Einaudi, la casa editrice che l’annovera oggi tra i suoi autori maggiori. Com’è potuto accadere che questo volume, riprodotto su una carta povera del Dopoguerra - era il 1947 - sia divenuto un testo fondamentale? Lo racconta qui «Riga» ripubblicando le più importanti recensioni uscite da quell’anno al 1988, poco dopo la scomparsa di Primo Levi e la pubblicazione di un altro libro fondamentale, I sommersi e i salvati (1986). Si tratta di una scelta dei pezzi dedicati ai libri dello scrittore torinese nell’arco di quarant’anni, tanto è durata la complicata carriera di Levi: dalla testimonianza alla considerazione della sua importanza come scrittore tout court. Non certo un passaggio facile o agevole, anzi, spesso contrastato; solo all’inizio degli anni Ottanta del XX secolo Primo Levi sarà considerato a pieno uno scrittore dalla critica italiana e poi internazionale, dopo essere stato schiacciato sull’immagine del testimone dell’Olocausto. Ma come documentano alcune delle recensioni che qui abbiamo raccolto - recensioni in positivo -, la valutazione e la comprensione del suo lavoro letterario è stata patrimonio di un piccolo novero di lettori specialistici, di scrittori e saggisti, che ne hanno riconosciuto da subito, si veda Italo Calvino, il valore. Queste recensioni aiutano anche a entrare nei libri di Levi, scrittore poliedrico e complesso. Così si spiega anche la difficoltà che ha incontrato a essere pienamente valutato come autore.
Il volume si apre con un contributo narrativo inedito dello scrittore ebreo torinese Aldo Zargani, lettore ma soprattutto amico di Primo Levi. Seguono due testi dispersi e poco noti del chimico scrittore: un’autobiografia scritta per un’intervistatrice, Vanna Nocerino, e una conferenza sulla conservazione dei cibi, trascritta da un nastro registrato. Due esempi della sua multiforme attività. Seguono tredici interviste apparse su giornali o registrate nel corso di varie trasmissioni televisive, dal 1963, anno in cui vince con La tregua, al 1986. Tra queste spicca una lunga intervista inedita del 1984 rilasciata a Pier Mario Fasanotti e Massimo Dini per un volume mai pubblicato: Levi ripercorre la sua vita e ne racconta dettagli e episodi sconosciuti, compresa la deportazione da Fossoli. Nel numero sono incluse anche dichiarazioni rilasciate da Levi dal 1965 al 1987 su argomenti vari, quali le letture estive, giudizi su avvenimenti storici, vicende della deportazione, feste ebraiche; si tratta di brevi testi tratti da giornali e riviste raccolti qui per la prima volta. La parte centrale del volume riproduce molti dei saggi inclusi nel volume di «Riga», esaurito da tempo, dedicato allo scrittore torinese uscito nel 1997, in occasione del ventennale della sua morte, una sorta di dizionario redatto da alcuni dei più importanti studiosi dello scrittore, che intendevano illuminare allora alcuni aspetti della sua attività letteraria; si tratta di testi diventati a loro modo dei piccoli classici nella bibliografia critica su Primo Levi. A questi si aggiunge un saggio dedicato al rapporto tra l’ebreo torinese e Israele, che raccoglie anche i diversi appelli sottoscritti da Levi sulle vicende di quel paese, e la traduzione di un testo di Robert Weil apparso nell’edizione americana delle opere complete dedicato al rapporto tra Primo Levi e l’America e alla sua ricezione e consacrazione come scrittore. Una sezione riguarda invece i testi del convegno Primo Levi antropologo ed etologo, tenutosi nel 2016 all’Università di Bergamo e all’Università Milano-Bicocca, in cui i testi dell’autore vengono considerati sotto questa duplice prospettiva: un modo per ampliare il campo della conoscenza della sua opera grazie anche al diverso sguardo dei suoi lettori uomini e donne di scienza. I disegni e gli schizzi di Pietro Scarnera, autore del volume Una stella tranquilla con cui ha vinto il premio Angoulême - una delle manifestazioni più importanti al mondo per la graphic novel - accompagnano questo numero a partire dalla copertina. Scarnera, cultore dell’opera e della vita dello scrittore torinese, ne fornisce una ulteriore lettura per brevi tratti.
Siamo convinti che l’importanza di questo scrittore, saggista, poeta, testimone, intellettuale, sia destinata ad aumentare. Due avvenimenti importanti precedono l’uscita di questo corposo volume, che nel 1997 segnò un punto decisivo nella lettura dello scrittore torinese: la pubblicazione in America, nel corso del 2015, delle sue opere, The Complete Works, presso la casa editrice Liveright, a cura di Robert Weil e con le traduzioni curate da Ann Goldstein; l’edizione nel 2016 presso Einaudi delle Opere complete in due volumi, a cura di Marco Belpoliti, edizione accresciuta rispetto alla stessa pubblicazione americana. Il prossimo anno uscirà poi il terzo volume delle Opere Complete, Conversazioni, interviste e dichiarazioni, che raccoglie un’ampia scelta delle sue interviste. Questo volume, che ripercorre alcune delle parti di quello edito nel 1997, fornisce un ulteriore contributo alla scoperta e riscoperta di uno scrittore decisivo per la nostra epoca. Questa opera consentirà a lettori comuni, studenti, studiosi, semplici curiosi, di conoscere meglio l’attività poliedrica del chimico torinese, illuminando aspetti ancora in ombra della sua personalità letteraria e umana. Un lavoro che si è avvalso del contributo di un notevole numero di persone, della collaborazione dell’Università di Bergamo e di Milano-Bicocca che hanno sostenuto questo sforzo editoriale e che qui ringraziamo.
Leggere Levi per capirlo meglio, ma anche per capire il suo e il nostro tempo: uno scrittore per il XXI secolo, e oltre.
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Allegati:
PDF Qui l’indice del volume.
E Primo Levi da testimone si fece scrittore
In una nuova edizione le opere dell’autore di “Se questo è un uomo”
La rilettura, curata da Marco Belpoliti, sottolinea come la letteratura emerga dall’abisso in cui è precipitato l’umano
di Andrea Bajani (la Repubblica, 17.11.2016)
Quando, nel 1976, in occasione dell’uscita dell’edizione scolastica di “Se questo è un uomo”, Primo Levi scrisse un’appendice pensata per rispondere alle domande dei ragazzi, qualcosa cambiò irrimediabilmente. Per la prima volta, cioè, mise più o meno consapevolmente in crisi lo statuto della testimonianza e lasciò che il suo libro entrasse nella letteratura. Che cosa ne è della testimonianza, fu costretto a chiedersi, quando chi legge nasce in un quadro di riferimento completamente mutato, in cui il passato, anche il più tremendo, è una fiction a cui si crede solo per un atto di fiducia? Qual è la verità che, scrivendo, si consegna? A che punto l’uomo di cui Levi parlava ai suoi lettori si sarebbe sganciato dalla contingenza, da quello sproposito epocale?
L’appendice si apriva con queste parole: «Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i miei libri, come gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile, diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva ». Era l’inizio di un congedo: la consapevolezza che le sue opere avrebbero avuto lettori futuri a cui non avrebbe potuto rimboccare gli occhi e la memoria con la sua presenza. Fece gli ultimi passi di quella staffetta e passò il testimone, perché a testimoniare la sopravvivenza o meno delle parole e di un mondo sarebbero stati altri.
È per questo, in definitiva, che esiste il corpus delle opere: perché parli in altro modo rispetto al corpo di chi gli ha dato vita, e lo ridefinisca. Ciò che fanno ora le Opere complete di Levi che, a distanza di quasi vent’anni dall’edizione del 1997, Einaudi ripubblica nella cura imprescindibile di Marco Belpoliti e con modifiche di sostanza in un impianto rimasto complessivamente intatto. Belpoliti - che all’autore di La tregua ha dedicato lo scorso anno il monumentale Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda) - consegna un’edizione per certi versi popolare: «Il destinatario ideale delle Opere complete non è tanto lo studioso o lo specialista, bensì il lettore che vuole accostarsi all’intera opera dello scrittore torinese e cercare di capirne il movimento interno, le forme e i criteri di lavoro, senza doversi perdere in un apparato di annotazioni e varianti ». Che pure ci sono, essendo le note ai singoli libri per la maggior parte scritte ex novo.
Levi scrisse l’Appendice per gli studenti e poi decise di accluderla all’edizione per così dire regolamentare, poiché, scrisse, «le domande rivolte dai lettori studenti [...] coincidono ampiamente con le domande che ricevo dai lettori adulti». Questa edizione è perfettamente in linea con quello spirito, con però anche aggiunte significative, tra cui la prima edizione di Se questo è un uomo, (quella pubblicata presso l’editore De Silva nel 1947), le versioni radiofoniche dei primi due libri di Primo Levi, la tesi e la sottotesi di laurea del Levi-chimico. Non ultima, una focalizzazione speciale, da parte di Belpoliti, su Il sistema periodico come libro snodo, pietra miliare di quel mestiere di scienziato che contribuì a salvare la vita di Levi nel lager e che si saldò in alcuni libri alla scrittura testimoniale, generando, in quella fusione, lo “scrittore di professione” che Levi accettò di essere dopo la pubblicazione di La chiave a stella.
È con questa edizione, mi sembra, che la prima incrinatura del Levi testimone che egli stesso produsse approntando delle edizioni per i giovani lettori del futuro, si fa completa. A vent’anni dalla sua morte, quella prima pelle resta definitivamente sul sentiero e Primo Levi entra nella letteratura.
Lo annota Belpoliti stesso nella sua Avvertenza: «Dopo essere stato considerato un grande testimone [...] ora Levi è uno scrittore a tutto tondo, cosa che vent’anni fa, nel 1997, nel momento dell’uscita della prima edizione di queste Opere, non era così certa e assodata”. Questo non dipende, però, paradossalmente dalla “completezza” dell’opera. Non dipende cioè dal fatto cioè che, di queste quasi 3500 pagine, la testimonianza rappresenti soltanto un’esigua porzione, e che abbiano diritto di cittadinanza anche i libri nei quali Levi ha percorso altre strade.
Al contrario. A guardare tutti i cerchi che i suoi libri hanno prodotto cadendo come un sasso dentro lo stagno della Storia, si resta sbalorditi da come siano le onde di tre di essi - Se questo è un uomo, La tregua e I sommersi e i salvati - a increspare ancora il mare in cui oggi navighiamo.
Il testimone si è ritirato ed è rimasto lo scrittore, ma non è lo sconcerto storico a turbarci. È l’abisso dell’umano che quelle parole ci rovesciano negli occhi e che Primo Levi ha estratto dalla Storia. È da quella estrazione, precisamente, che nasce la letteratura. Ed è in virtù di quella, che nascono e svettano tre cime della letteratura e del pensiero del Novecento.
Nonostante il Lager, si potrebbe dire, ma inesorabilmente attraverso di esso. Perché è lì che l’umano e la sua dissoluzione si manifestano in una forma, che l’incandescenza forgia un’opera mai vista prima. È arrivato forse il momento di avere questo coraggio di lasciare da parte il testimone per lo scrittore pur tornando nel suo stesso “campo”, come dice Belpoliti, su quel terreno scandaloso da cui si è ingenerata un’opera d’arte così cruciale.
Daniele Del Giudice, che introduceva l’edizione del 1997, e che è leggibile anche in questa, scriveva: «Levi estrae la sua narrazione da una radice di necessità indiscutibile, la più profonda e cruciale e antica che possa sorreggere l’atto stesso del racconto: narrare il non conosciuto, l’incognito, ciò che per volontà altrui avrebbe dovuto restare nascosto».
È quello il punto estremo fino a cui Levi scrittore si è spinto. Là dove l’uomo smette di essere tale e torna l’animale, là dove anche la sofferenza più atroce impedisce di volere la morte come requie: «Il suicidio è dell’uomo e non dell’animale, è cioè un atto meditato, una scelta non istintiva, non naturale; ed in Lager c’erano poche occasioni di scegliere, si viveva appunto come gli animali asserviti, che a volte si lasciano morire, ma non si uccidono».
Primo Levi
Il chimico scettico che distilla il Male
Da Einaudi una nuova edizione, sempre curata da Belpoliti con l’aggiunta di testi, documenti e pagine inedite
di Ernesto Ferrero (La Stampa, 17.11.2016)
Quanti fraintendimenti e semplificazioni hanno accompagnato la ricezione delle opere di Primo Levi. Il prossimo 11 aprile cadranno i trent’anni della sua scomparsa, eppure non è mai stato così vivo e presente in tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti, dove la benemerita edizione delle Opere complete uscita da Norton Liveright in tre volumi ne propizierà ulteriormente la diffusione.
A lungo è rimasto prigioniero del cliché riduttivo del testimone, come se le cose che aveva raccontato fossero più importanti del come le aveva raccontate, come se Se questo è un uomo non fosse in primo luogo un capolavoro letterario (se ne erano accorti sin dalla prima uscita del 1947 Antonicelli, Calvino, Cajumi e Cases).
Pesava su di lui l’autoadesivo del chimico che scrive la domenica, come se la chimica fosse una disabilità lieve ma evidente, uno strabismo, una zoppìa, e non invece un arricchimento di strumenti conoscitivi. Aveva ben ragione lo stesso Primo quando spiegava con la sua infinita pazienza (quanta ne ha dovuto spendere con tutti, a partire dal suo stesso editore) che la chimica è una buona metafora della scrittura. Compie le stesse operazioni, distinguere, pesare, filtrare; predispone allo scrivere chiaro, esatto e conciso.
Un mondo a parte
Ma è anche vero che la leggenda del libro composto di getto sotto l’urgenza del rendere testimonianza l’aveva accreditata lui stesso, come confesserà nel 1985 a Germaine Greer. Per modestia e understatement, perché si sentiva estraneo alla malevola corporazione degli scrittori di professione, per non confessare a se stesso che ancora prima di partire per Auschwitz aveva coltivato sogni di scrittura e scritto poesie e racconti, lui che al D’Azeglio era stato rimandato a ottobre in italiano, anche se aveva assimilato gli ottimi insegnamenti della scuola di Gentile. Era uno scrittore, quello che era partito da Fossoli nel vagone piombato, nutrito di mentalità e letture scientifiche, un antropologo, un linguista, un etologo in piena allerta intellettuale. L’umanità non poteva mandare miglior inviato nel cuore della macchina dello sterminio, nei tragici misteri dell’uomo.
Resistenza ebraica
Dopo che nel 1963 La tregua aveva dato misura del suo talento di affabulatore, Levi ha continuato a fornire prove delle sue qualità di scrittore poliedrico con la consueta, forse eccessiva discrezione: i racconti «fantabiologici» (come li chiamava Calvino), favole morali che si interrogavano su un uso distorto della tecnologia assai simile a quello del Lager; l’autobiografico Sistema periodico, romanzo in forma di racconti; La chiave a stella, gustosa riproposta della felicità del lavoro manuale, quasi scandalosa nel 1978 ideologizzato; il romanzo-romanzo Se non ora quando?, epopea di resistenza ebraica; le poesie, accorati microracconti del disincanto; gli incantevoli racconti e gli elzeviri pubblicati su questo giornale, e sottesi dal più amabile degli enciclopedismi; sino a quel capolavoro antropologico che è I sommersi e i salvati, che introduce la fondamentale categoria della «zona grigia». Un libro che lo Stato dovrebbe consegnare ad ogni cittadino al conseguimento della maggiore età, perché parla di noi oggi.
Con gli anni si è finalmente capito che Levi è un continente più vasto e sorprendente di quanto andavano rivelando gli stessi copiosi lavori critici in corso: l’edizione delle Opere complete curata da Marco Belpoliti per Einaudi nel 1997 con un saggio introduttivo di Daniele Del Giudice che metteva il lettore sulla strada giusta; il numero monografico della rivista Riga (Marcos y Marcos, 1997); l’intenso lavoro avviato a partire dal 2008 dal Centro Studi Primo Levi di Torino, esemplarmente diretto da Fabio Levi; le otto «Lezioni Primo Levi» promosse sino ad oggi dal Centro; il gran volume in cui Belpoliti ha raccolto le sue ricerche (Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015); ed ora i due primi tomi di una nuova edizione delle Opere complete, che escono da Einaudi sempre curati da Belpoliti. Vi si possono trovare la prima edizione di Se questo è un uomo, la sua versione teatrale e l’adattamento radiofonico, le note informative redatte dallo stesso Levi per le edizioni scolastiche, la tesi e la sottotesi di laurea, testi di argomento tecnico, l’antologia personale La ricerca delle radici, venti nuovi testi di pagine sparse e ritrovate. Inoltre le note ai testi si arricchiscono sensibilmente degli studi intrapresi negli ultimi vent’anni e del confronto con i dattiloscritti disponibili (vol. I, pp. LXXXVIII-1536, vol II pp. XVI-1854, €160).
Il terzo volume
In attesa del terzo e conclusivo volume, dedicato alle conversazioni e alle interviste, il lettore ha così a disposizione un corpus imponente, che facilita nuove esplorazioni ed aumenta ancora il numero delle facce del poliedro Primo Levi, molto più imprevedibile dell’immagine «buonista» che ce ne siamo fatta. Spietato con se stesso e con gli inganni della memoria, bastian contrario che non teme di navigare controcorrente, maestro di ossimori, affascinato e angosciato dalle asimmetrie che sembrano governare il cosmo, studioso di vortici e di fenomeni estremi, non offre conclusioni tranquillizzanti e catartiche, ma semmai vuole tenerci svegli, allarmati, dubitosi, reattivi. Auschwitz è sempre, se è stata può ancora essere, e difatti è stata ed è. Siamo noi, i presunti «normali», i potenziali abitanti della città del Male.
Primo Levi e i tedeschi
Fino all’ultimo cercò di capire
Le lettere che gli arrivavano dalla Germania nel Dopoguerra dovevano far parte di un libro che non vide mai la pubblicazione
di Martina Mengoni (La Stampa, 26.10.2016)
Sopravvissuto ad Auschwitz, Primo Levi non tronca i suoi rapporti con i tedeschi. Nell’ultimo dopoguerra, il confronto con quel popolo sarà una storia di incontri, letture, scambi epistolari, tentativi editoriali, elaborazioni letterarie e, soprattutto, di domande che attendono una risposta. Che i tedeschi abbiano rappresentato un rovello per Primo Levi (uomo, scrittore, testimone, perfino chimico) è un dato di fatto. Come questa relazione difficile, ondivaga, a tratti entusiasta, a tratti frustrante, si sia modificata nel tempo, dentro e fuori la sua scrittura, è quanto occorre ricostruire. Oggi lo si può fare contando su una mole di documenti poco noti o inediti, provenienti da archivi di tutta Europa.
Fin dal 1962 Levi si era creato una rete di corrispondenti dalla Germania Ovest: i primi lettori della traduzione tedesca di Se questo è un uomo, apparsa nel novembre del 1961. [...]
Sempre in quegli anni, Levi avviò uno scambio epistolare con Hermann Langbein, storico austriaco, ex triangolo rosso (comunista) in Lager, segretario generale del Comitato Internazionale di Auschwitz; Langbein lo coinvolse nel progetto di una grande antologia di testimonianze di vittime e carnefici di Auschwitz. Doveva uscire in contemporanea con la prima istruttoria del processo di Francoforte contro i responsabili del campo; ma il libro fu pubblicato già nel 1962 e vi furono inclusi due capitoli di Se questo è un uomo.
Nel 1964 un ulteriore capitolo di Se questo è un uomo uscì in un volume-strenna che le acciaierie Hoesch di Dortmund distribuirono ai loro dirigenti e dipendenti. Nella Germania di Hitler le grandi industrie avevano dato un sostegno decisivo al regime. Ora una di quelle industrie pubblicava un volume sulla fratellanza, di ispirazione cattolico-liberale, curato dallo stesso Albrecht Goes. In un contesto di invito all’accoglienza e all’ecumenismo cristiano, Levi aveva scelto il capitolo Ottobre 1944 che si concludeva con la ben nota sentenza «Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn».
Per sua stessa ammissione, Levi riceve in quegli anni «una quarantina di lettere» di tedeschi. Nel 1963 annuncia in due interviste che Einaudi intende pubblicarle. È una non-notizia, perché il libro non si farà, ma è anche una notizia: apprendiamo che per Levi, fin da allora, le lettere dei lettori tedeschi possedevano una dignità editoriale e di contenuto autonoma rispetto al libro che le aveva originate.
Più tardi, Levi avrebbe affidato quelle corrispondenze (denominandole «progetto tedesco») a Kurt Heinrich Wolff, un sociologo tedesco naturalizzato statunitense. Wolff era un «tedesco anomalo». Fuggito dalla Germania perché ebreo, rifugiatosi in Italia negli Anni Trenta, emigrò infine negli Stati Uniti diventando professore alla Brandeis University.
Nei primi Anni Cinquanta, invitato da Max Horkheimer, partecipò ai Gruppen-Experimenten dell’Istituto di Sociologia di Francoforte, che aveva appena riaperto dopo la guerra, redigendo due studi: uno sull’autorappresentazione della popolazione tedesca dopo la guerra (German attempts at picturing Germany), l’altro sulla denazificazione della Germania (The American Denazification of Germany).
Nel 1963, Wolff ottenne una borsa Fulbright in Italia, e Levi entrò in contatto con lui proprio in quei mesi, probabilmente tramite la sorella Anna Maria e il sociologo Franco Ferrarotti. Sono queste le premesse in base alle quali gli affidò le lettere del «progetto tedesco».
Che cosa comportò, in termini di auto-percezione, di riflessione su Auschwitz, di progressione creativa di Levi, il fallimento di quel progetto, cioè di un libro fatto di dialoghi epistolari con tedeschi? Così come la pubblicazione di un libro, anche la sua mancata pubblicazione può cambiare la vita, l’opera e l’autocoscienza di uno scrittore. In molte interviste dei suoi ultimi anni Levi ha parlato di Se questo è un uomo come una memoria-protesi: i ricordi che aveva messi per iscritto tendevano a sovrapporsi ai ricordi ricordati: «una memoria esterna che si interpone tra il mio vivere di oggi e quello di allora».
La mancata pubblicazione delle lettere di tedeschi negli Anni 60 ebbe l’effetto opposto: quelle corrispondenze, rimaste chiuse nella loro cartellina, continuarono nel corso degli anni a esercitare la loro carica interrogativa dall’interno, in maniera regolare e persistente, senza che Levi avesse avuto la possibilità di oggettivarne i significati attraverso la scrittura. Sarebbero così diventate l’ultimo capitolo del suo ultimo libro, I sommersi e i salvati: dove ebbero il titolo Lettere di tedeschi, inevitabile quanto il dialogo che le aveva propiziate.
Letteratura
Levi, una vita da fantascienza
di Massimo Bucciantini (Il Sole-24 Ore, 17 luglio 2016)
Ancora Levi. Un piccolo libro, com’è giusto che sia. Ma denso e pieno di novità, sia dal punto di vista dell’interpretazione sia perché contiene cose mai viste, che Francesco Cassata è riuscito a trovare e a far lievitare.
Immagino sia stato un lavoro faticoso. Qualunque lavoro onesto su Levi lo è. Ed è una regola - quella della fatica - che vale in primo luogo per tutti gli scrittori universali. E Levi certamente lo è, così come è filosofo morale di prima grandezza. Ma questa regola, nel suo caso, è accresciuta al cubo, e tale resterà fino a quando non verrà presa la decisione - ormai si è vicini ai cent’anni dalla nascita - di aprire agli studiosi la sua biblioteca e il suo archivio. Naturalmente proteggendo la sua vita privata da sguardi indiscreti, ma non il resto. Per sapere quali libri possedeva, quali ha letto e come li ha letti, quali pagine ha commentato in margine, se e quali appunti ha ricavato, per sapere con chi è stato in corrispondenza e per quanto tempo e di quali argomenti ha discusso (e mentre scrivo penso a Calvino, al suo amico di sempre: chi oggi potrebbe pensare di fare a meno della sua straordinaria raccolta di lettere uscita ormai sedici anni fa?).
Sono domande non più rinviabili. E, come ci dimostra questo libro - lo vedremo tra un momento - indispensabili, se si vuole sondare in profondità la sua opera.
Cassata affronta un argomento di solito considerato minore. Gli scritti fantascientifici: Storie naturali (1966), pubblicato con lo pseudonimo Damiano Malabaila, e Vizio di forma (1971). E il suo libro - attraverso una complessa stratificazione di fonti e di significati - riesce a far parlare questi testi come nessuno prima aveva fatto.
Tutto prende le mosse dalla fascetta editoriale apposta sulla copertina di Storie naturali, e da cui Cassata ricava il titolo del suo saggio. Perché quel punto interrogativo? Che cosa intende Levi per fantascienza? E all’interno della sua opera, qual è il suo significato?
Storie naturali esce nel periodo aureo della fantascienza italiana. Nel novembre 1959 viene pubblicata Le meraviglie del possibile, l’antologia fortemente voluta da Sergio Solmi e Carlo Fruttero e che riportò un notevole successo di vendite e di critica. Ed è interessante notare che Fruttero avanzò l’idea di far tradurre alcuni di quei racconti (Bradbury, Sheckley, Asimov, Clarke, Simak) a scrittori italiani, e tra i nomi citati - in una lettera a Solmi del 13 maggio - faceva quelli di Buzzati, Vittorini, Moravia, Calvino e Levi. Del 1961 è Il secondo libro della fantascienza, a cura sempre di Fruttero ma questa volta con Franco Lucentini. E quattro anni più tardi Calvino pubblicava Le Cosmicomiche, un «fantascientifico alla rovescia», un «fantapassato», come lo definirono Eugenio Montale e Franco Antonicelli.
Il primo obiettivo di Cassata è quello di modificare la cronologia delle opere leviane. I mnemagoghi, con cui si apre Storie naturali - l’inquietante racconto del segreto di laboratorio dell’anziano dottor Montesano (le cinquanta bottigliette in cui sono racchiusi degli odori capaci di suscitare le memorie degli uomini) -, viene scritto da Levi nel 1946 e pubblicato per la prima volta nel 1948. Si ricordi che Se questo è un uomo viene ultimato nel gennaio 1947.
Scrive Cassata: «Da questo accostamento cronologico un primo dato emerge con evidenza: i racconti fantastici di Levi non sono un corollario, un’evasione o un’espressione secondaria e tardiva della sua vocazione letteraria, ma affiancano e accompagnano la narrativa di testimonianza a carattere autobiografico». Nel novembre 1976, in una conferenza tenuta a Zurigo, Levi affermava: «Chi scrive attinge alla materia che conosce. Le mie miniere sono più d’una e diverse». La lunga gestazione di Storie naturali - un ventennio, dal 1946 al 1966 - viene dunque a confermare questa sua dichiarazione.
Il secondo risultato è quello di far emergere come la fantascienza non sia una semplice trasfigurazione allegorica del trauma del Lager. Proprio l’interesse così precoce di Levi mostra a sufficienza quanto ampi fossero i “materiali grezzi” a sua disposizione. «Non un’ispirazione unica, dunque, ma una pluralità di apporti in cui si fondono la memoria del passato e la proiezione del futuro, la dimensione socioculturale e quella biologica».
Tra i quindici «divertimenti» che compongono Storie naturali, Angelica farfalla, Versamina e La bella addormentata nel frigo sono ambientati nella Germania del futuro. Il protagonista di Angelica farfalla è il dottor Leeb, che nel suo laboratorio a Berlino «tenta di trasformare delle cavie umane in creature angeliche, attraverso la somministrazione di estratti tiroidei». Anche La bella addormentata nel frigo si svolge nella stessa città, nell’anno 2115, ed è la storia di Patricia, «23 anni di vita normale e 140 di ibernazione», e degli abusi sessuali che è costretta a subire da parte di Peter, il padrone di casa, interrotti dalla sua fuga finale. In Versamina si racconta invece la strana vicenda del dottor Kebler, soprannominato Kebler dei miracoli, e dei suoi esperimenti con sostanze farmacologiche che avrebbero dovuto convertire il dolore in piacere.
Certo non sorprende che Levi abbia trovato negli esperimenti medici nazisti il “materiale” su cui poi costruire i suoi tre «racconti tedeschi». Cassata però è riuscito, grazie alla collaborazione degli eredi di Levi, a individuare alcuni testi di riferimento presenti nella sua biblioteca che possono essergli serviti da “traccia”: Der SS-Staat di Eugen Kogon, deportato a Buchenwald nel 1939 e assistente del medico SS responsabile dei vaccini all’interno del Lager contro il tifo esantematico, e Un medico ad Auschwitz di Miklós Nyiszli, anch’esso uscito nel 1946 e tradotto in italiano nel 1962. Di più: dalla lettura approfondita di questi racconti emerge come il passato nazista non sia il solo protagonista: «la memoria dell’universo concentrazionario agisce come presenza profonda, quasi spettrale, in un contesto che muove da tòpoi classici della science fiction per approdare a una riflessione etica sugli sviluppi della scienza contemporanea».
Anche la lettura di Vizio di forma contiene delle novità. Innanzitutto Cassata intravede una forte discontinuità con la fantascienza di Storie naturali. Differenze di stile, ma non solo. In una battuta: mentre queste ultime riflettono «l’euforia “prometeica” dell’Italia del boom», Vizio di forma s’interroga sulle «inquietudini della fine dell’“età dell’oro”». Nel 1971 il panorama culturale e sociale non è più quello dei primi anni Sessanta. E non è inutile ricordare che uno dei titoli pensato da Levi per la raccolta era stato Disumanesimo.
«Fare i conti planetari», di questo si tratta, con un linguaggio «stridulo, sbieco, dispettoso», tanto diverso da quello così «umano» di Se questo è un uomo e La tregua. È un libro in cui si parla di ecologia: ben otto racconti su venti hanno a che fare con le sorti del pianeta Terra. E anche qui è la ricerca storica dell’autore - con lo scambio di lettere inedite tra Levi e Roberto Vacca, ingegnere elettronico e autore di fantascienza - a dare il meglio di sé e ad aprire inattese piste di ricerca.
Così la narrazione dello sterminio degli ebrei ha finito col prevalere sul paradigma antifascista: un saggio di Manuela Consonni
di Marco Belpoliti (La Stampa, 1.12.2015
Tra i primi giornali a riportare le notizie sulle deportazioni e lo sterminio operato dai nazisti nel febbraio del 1945, quando ancora il Nord è occupato e Mussolini vivo, è il periodico Israel. Il 4 febbraio un articolo apparso sul foglio ebraico ricorda tre ebrei uccisi definendoli «combattenti per la libertà». Il tema della deportazione degli ebrei italiani è in quel momento compreso dentro l’identità scaturita dalla Resistenza. La narrazione antifascista ha assorbito il tema dello sterminio del popolo ebraico.
Settant’anni dopo di antifascismo e Resistenza non si parla quasi più, o almeno non in quei termini, mentre il paradigma «vittimologico» della Shoah è dominante, come scrive Anna Foa nella introduzione al volume di Manuela Consonni L’eclisse dell’antifascismo (Laterza). L’antifascismo non è più il cemento dell’identità delle forze cattoliche, socialiste, azioniste e comuniste, per altro oggi dissolte, le stesse che alimentarono la lotta alla Repubblica di Salò e agli occupanti tedeschi; la lotta di Resistenza appare come un valore lontano, remoto, messo in discussione in libri e dibattiti, affidato alla celebrazione sempre più stanca del 25 Aprile. Al contrario, nel corso degli Anni 70 la Shoah è andata costruendo un suo modello memoriale, separandosi dalla Resistenza e definendo il tema della sua unicità, culminato nel Giorno della Memoria. Secondo la studiosa, che insegna nell’Università di Gerusalemme, la caduta del paradigma resistenziale sarebbe anche il risultato di questa nuova visione.
Tra storiografia e politica
Manuela Consonni ricostruisce questa storia attraverso l’asse fondamentale delle memorie scritte degli ex deportati, sia nel periodo immediatamente seguente la fine della guerra, dal 1945 al 1948, sia negli Anni 70 e 80, quando tre diverse ondate di testimonianze furono rese pubbliche. Si tratta di un lavoro importante che mette in campo problemi complessi di ordine sia storiografico sia politico, e che ha nella divaricazione tra memoria della Resistenza e memoria della deportazione ebraica il suo punto focale.
Fino alla metà degli Anni 70 il modello del deportato era quello eroico del politico rinchiuso a Mauthausen e Buchenwald, oppositore del fascismo, combattente della Resistenza contro il mostro nazista. Un posto minore, in una visione dominata dalla figura maschile, avevano le stesse figure femminili, nonostante tra le prime testimonianze scritte vi fossero diverse donne. Dello sterminio ebraico si parlava in modo ridotto, come di una specie di sottoprodotto del nazismo; il paradigma antifascista era fondamentale dopo la rottura della unità di governo tra democristiani e comunisti negli Anni 40; la lotta ideologica che ne seguì nei due decenni successivi fece sostenere ai comunisti che la Resistenza era stato il Secondo Risorgimento d’Italia; i campi di concentramento nazisti occultavano agli occhi dei militanti di quel partito l’esistenza dei Gulag sovietici. Manuela Consonni s’inoltra in questo terreno storiografico e arriva sino alla data del 1989, alla fine dei regimi comunisti all’Est, per quanto la successiva dissoluzione del Msi, la sua mutazione e cooptazione nei governi Berlusconi, abbia modificato ulteriormente il quadro d’insieme.
La posizione di Primo Levi
La crisi del paradigma resistenziale, tema che lo stesso Pasolini sulla scorta di Franco Fortini proporrà negli Anni 60 negli Scritti corsari in modo provocatorio (l’equivalenza fisica dei giovani fascisti e antifascisti), verrà affrontato in modo originale da Primo Levi, autore centrale nel libro di Manuela Consonni. Lo scrittore e testimone torinese è davvero una figura emblematica. La sua posizione diverge da quelle dominanti in ogni decennio, sia riguardo il tema generale della deportazione, sia rispetto alla questione dello sterminio ebraico.
Nel 1947 Levi titola il suo libro Se questo è un uomo, e non «Se questo è un ebreo», eppure descrive la deportazione degli ebrei ad Auschwitz; il libro inizia parlando del campo di Fossoli e degli ebrei internati senza fare menzione della sua cattura come partigiano, cosa che invece accade nella edizione uscita nel 1958, quella che oggi leggiamo. In un successivo articolo del 1955, «Anniversario. Deportazione», Levi mette in discussione la retorica della deportazione politica antifascista e parla delle vittime del nazismo (uomini, donne, bambini) rifiutando il facile paradigma «vittimario». In un’epoca in cui tutto appariva bianco o nero, scrive dei carnefici definendoli uomini alla pari delle loro vittime. Sono temi che non troveranno spazio nella lettura successiva della Shoah e dell’Olocausto diventate canoniche nel corso degli Anni 80. E nel 1986, pubblicando I sommersi e i salvati, metterà in dubbio la stessa memoria quale fondamento della testimonianza, aprendo la discussione sulla corresponsabilità delle vittime con il tema della «zona grigia».
Primo Levi appare controcorrente tanto rispetto alla vulgata antifascista dell’eroe resistente quanto al successivo martirologio delle vittime della Shoah. Il libro di Manuela Consonni ci aiuta a definire meglio le forme e i limiti delle diverse letture della deportazione, un contributo essenziale per comprendere quella che resta di una delle più grandi tragedie del XX secolo, che continua a gettare la sua lunga ombra anche sul XXI.
The Mystery of Primo Levi
Tim Parks
Primo Levi was born in 1919 on the fourth floor of an “undistinguished” apartment block in Turin and aside from “involuntary interruptions” continued to live there in the company of his mother until in 1987 he threw himself down the stairwell to his death. The longest interruption was from September 1943 to October 1945 and would provide Levi with the core material for his writing career: it involved three months on the fringe of the partisan resistance to the German occupation, two months in a Fascist internment camp, eleven months in Auschwitz, and a further nine in various Russian refugee camps.
In 1946, aged twenty-seven, despite working full-time as a chemist, Levi completed his account of his time in a concentration camp. Now widely considered a masterpiece, If This Is a Man was turned down by Turin’s main publishing house, Einaudi, in the person of Natalia Ginzburg, herself a Jew whose husband had died in a Fascist prison. It was also rejected by five other publishers. Why? [...] (The New York Review of Books, November 5, 2015)
I suoi racconti di fantascienza
Come il Lager, aiutano a svelare le smagliature della ragione
Non sono momenti di evasione, ma una sfida intellettuale e letteraria per entrare nella paradossale logica del “mondo alla rovescia”
di Francesco Cassata (La Stampa, 29.10.2015)
Perché la fantascienza? Quale ruolo riveste nell’opera di Levi? Per rispondere a questi interrogativi bisogna innanzitutto liberarsi da una distorsione interpretativa. Levi scrive racconti «fantabiologici» - come li definirà Calvino - fin dagli Anni Quaranta, ma la sua prima raccolta - Storie naturali - esce soltanto nel 1966, dopo la ripubblicazione di Se questo è un uomo da parte di Einaudi e l’uscita della Tregua. La prima edizione di Storie naturali è inoltre firmata con uno pseudonimo, Damiano Malabaila, voluto dall’editore per ragioni commerciali. All’indomani della pubblicazione, il corto circuito fra scelte editoriali e ricezione critica indurrà Levi ad assumere una posizione difensiva, incentrata sul tema della continuità tra la fantascienza e gli scritti del Lager. E ancora oggi, la tesi di un Levi «imbarazzato» di fronte ai suoi stessi racconti fantascientifici non manca di raccogliere i suoi adepti.
Per mostrare quanto sia infondato questo approccio occorre esplorare le dichiarazioni di Levi, pubbliche e private, che precedono cronologicamente l’uscita di Storie naturali. Nel luglio 1965, ad esempio, Maria Grazia Leopizzi intervista Levi per l’Avanti! a proposito delle sue «pause fantastiche». Due punti, in questo articolo, sono fondamentali.
«Vizi di forma»
In primo luogo, Levi individua una stretta relazione tra il racconto fantascientifico e l’esperienza di un «vizio di forma» intrinseco alla «civiltà» e all’«universo morale» contemporanei, un «vizio» strettamente connesso - ma in maniera non univoca, non simbolica e non intenzionale - alla memoria del Lager: il ponte tra il Lager (il «più grosso dei vizi») e la fantascienza sono i «mostri» generati dal «sonno della ragione». A partire da Se questo è un uomo, Levi ha descritto l’universo concentrazionario come un «mondo alla rovescia», un universo non irrazionale, ma dotato di una sua mostruosa, capovolta, logicità e razionalità.
Nel 1955, nel decennale della Liberazione, in un sofferto passaggio dedicato al silenzio dei testimoni e alla vergogna provata dai sopravvissuti, Levi ha affermato: «Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?». In quest’ottica, lo straniamento cognitivo della fantascienza costituisce una chiave per entrare nella paradossale logica del «mondo alla rovescia», per studiarne i meccanismi e valutarne la possibile replicabilità futura, oltre che per indagare in profondità la «curvatura» etico-politica della scienza nell’era del dopo-Auschwitz.
Ma, accanto a questa dimensione, l’intervista del 1965 presenta anche un secondo aspetto, relativo a questioni di stile. Levi distingue qui nettamente fra due modelli: da un lato, la scrittura del Lager, il racconto analitico, «diritto» e «chiaro», frutto di una dedizione venata di «sofferenza» e di «errori»; dall’altro, la scrittura fantascientifica, fatta di «racconti scherzo, di trappolette morali», divertente ma nello stesso tempo distaccata e fredda. La scrittura del Lager può convivere con quella fantascientifica? O rischia di apparire, agli occhi del pubblico, come «una frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell’olio?».
La similitudine leviana, intrisa di riferimenti a Lucrezio e Rabelais, è profondamente ambigua: olio e vino sono infatti due prodotti egualmente genuini e pregiati. Il loro scambio non è certo una «frode in commercio», ma un esperimento narrativo e cognitivo. Il racconto fantascientifico ha per Levi il pregio di condurre il lettore, tramite l’arte dell’umorismo e della parodia, all’interno delle «smagliature», dei «vizi di forma», delle «curvature» apertesi - dopo Auschwitz - nella sfera della razionalità novecentesca. Attraverso gli ingranaggi della «trappola morale», si entra nella bottiglia quasi come in una provetta, aspettando di trovarvi il Lager e finendo invece nel vino della fantascienza, in un ambiguo «mondo alla rovescia», al tempo stesso inquietante e seducente, evocativo e straniante. Proprio per questo motivo, la scrittura dei racconti fantascientifici è accompagnata - afferma Levi - da un «vago senso di colpevolezza», frutto di una «piccola trasgressione», compiuta però in piena consapevolezza.
Il vino e l’olio
Sulla portata di questo atto trasgressivo, Levi fornisce alcuni chiarimenti in una lettera privata a un’amica, il 22 febbraio 1966. La fantascienza non rappresenta un «tradimento» - afferma qui lo scrittore - ma un «ritorno alla realtà» e un’«evasione dalla parte ufficiale e professionale» del testimone ed ex deportato, sentita come un’imposizione del destino. È questo il vino venduto al posto dell’olio. Compiuto il dovere della testimonianza, Levi non vuole ridursi al «personaggio» che pur incarna, chiuso nell’esercizio di un ruolo pubblico standardizzato. Auschwitz per Levi non è soltanto un universo immerso nel passato e riattivato di volta in volta dai processi memoriali, ma è un prisma etico e cognitivo attraverso cui analizzare la «curvatura» della razionalità contemporanea e riflettere sulle «smagliature» e i «vizi di forma» del presente e del futuro. Quale miglior strumento, allora, della fantascienza per esprimere questa complessità, questo straniamento cognitivo? Nella lettera del febbraio 1966, l’imminente pubblicazione dei racconti con Einaudi ha il valore di una cartina al tornasole. Da essa e dalla corretta comprensione da parte del pubblico - scrive ancora Levi - dipenderà il suo futuro di scrittore, il proseguimento della «parentesi letteraria». Non un’evasione, dunque, né un tradimento venato di imbarazzo, come molti hanno sostenuto: ma una sfida intellettuale e letteraria, perseguita con coraggio e consapevolezza.
Primo Levi
La chiave a stelle e strisce
Esce negli Stati Uniti in cofanetto l’opera completa
Una grande impresa editoriale per guidare il lettore di lingua inglese alla scoperta di un autore-poliedro
di Ernesto Ferrero (La Stampa, 29.10.2015)
Eccolo finalmente il cofanetto con i tre eleganti tomi in rigoroso bianco e nero dei Complete Works, il tutto Primo Levi in inglese, onore mai concesso nemmeno a Dante, Machiavelli, Montale o Calvino. Dai dorsi dei volumi che ospitano una sua foto, il Primo degli ultimi anni, barba bianca e grandi occhiali cerchiati, ci guarda con l’attitudine severa di chi è abituato a navigare i mari estremi della ricognizione del Male.
Di questa impresa che onora l’editoria americana, e in particolare la Liveright di Robert Weil, divisione della W.W. Norton, parlano anzitutto i numeri. Quindici anni di lavoro, tremila pagine che seguono l’edizione delle Opere complete Einaudi del 1997, un team di nove traduttori coordinati da Ann Goldstein, copy-editor del New Yorker, traduttrice essa stessa (Calasso, Pasolini, Bilenchi, da ultimo Elena Ferrante) e componente dell’eroica pattuglia che ha volto in inglese lo Zibaldone di Leopardi. Ogni opera viene restituita alla sua integrità e al titolo «giusto» (nel 1959 Se questo è un uomo era diventato un banale Survival in Auschwitz, e il minaccioso La tregua, che rimanda all’idea di un intermezzo inquietante, cambiato nel buonista The reawakening).
Consulenza torinese
Nell’impresa, che sarà presentata a maggio alle Nazioni Unite, c’è una forte componentistica torinese, grazie alla decisiva collaborazione del Centro di studi Primo Levi diretto da Fabio Levi: la consulenza alle traduzioni, gli apparati storico-critici e la bibliografia di Domenico Scarpa, la fortuna critica nel mondo ricostruita da Monica Quirico, la cronologia redatta da chi scrive.
A New York hanno aggiunto due preziose cartine con i luoghi leviani, a Torino e in Piemonte: la casa di corso Re Umberto e quelle di amici e parenti, le scuole, le librerie, la Einaudi, La Stampa, persino la prima sede della fabbrica di vernici al fondo di corso Regina Margherita. E poi le amate montagne, i luoghi di vacanza, la Avigliana della fabbrica in cui cominciò a scrivere Se questo è un uomo in pausa pranzo, la Bene Vagienna da cui il nonno Michele mosse verso Torino nel 1848.
Gli accurati «risvolti» guidano il lettore di lingua inglese alla scoperta di un autore complesso e stratificato che non ha mai finito di dire quel che ha da dire e va ben oltre l’etichetta riduttiva del testimone che per anni l’ha ingabbiato: un poliedro che assomma in sé il memorialista, il narratore, il saggista, il poeta, l’elzevirista, l’etologo, il linguista, l’antropologo.
La lettura di Toni Morrison
L’introduzione è firmata dal Nobel Toni Morrison. L’affermazione dei valori umani sulle patologie distruttive, scrive, brilla in ogni pagina di Levi, insieme a una conoscenza profonda (e dissimulata, aggiungo io) di tante fonti antiche e moderne, dalla poesia alla filosofia alle scienze, da Omero e Dante a Eliot e a Rilke. Lo scavo nelle miniere del linguaggio gli consente di cogliere un elemento-chiave, l’incomunicabilità che ad Auschwitz separa vittime e aguzzini.
Tradurre, cioè mettere a confronto due sistemi linguistici diversi è una pratica altamente formativa che bisognerebbe introdurre nelle scuole. L’edizione Liveright apre il capitolo complesso e fascinoso di cosa significhi tradurre un autore come Levi, apparentemente «facile», che ha fatto della chiarezza una scelta programmatica, e quali problemi comporti.
La nitidezza della pagina di Levi, come quella di Calvino o di Flaubert, è accuratamente costruita: nasce da una tale calcolata sintassi, da un ritmo interno, da un lessico così preciso, che volgerla in un’altra lingua è difficilissimo. Tanto per cominciare: come tradurre i «mitragliatori imbracciati» di cui si parla nella seconda pagina della Tregua se l’inglese non conosce un corrispondente di «imbracciato»?
Ma c’è una domanda ben più sottile, e se la è già posta Domenico Scarpa nel suo dialogo con Ann Goldstein nella sesta «Lezione Primo Levi», pubblicata da Einaudi. In che lingua scrive Primo Levi per raccontare una nuova, perversa forma di modernità, il potere assoluto di un’ideologia razzista più lo sterminio come industria? Il suo italiano non corrisponde al canone imperante nella primavera neorealista. È la lingua di chi ha fatto ottimi studi al Liceo d’Azeglio e ha ottime letture alle spalle, una scrittura di una compostezza già classica sul nascere, ma anche attenta a recepire e riprodurre i suoni minacciosi del Lager, a inglobare nuovi linguaggi, gerghi e dialetti, a esplorare nuovi ambiti espressivi. È un’invenzione che il primo dopoguerra non era ancora pronto a riconoscere e decodificare.
L’attrito linguistico
Lo aveva detto lo stesso Levi: «Chi parla un’altra lingua è lo straniero per definizione, l’estraneo, lo “strano”, il diverso, il nemico potenziale, “un quasi-non-uomo”». L’attrito linguistico tende a diventare attrito razziale. L’eterna guerra che gli uomini si conducono è figlia di Babele. Tradurre è l’anti-Lager. Per questo, dice, i traduttori dovrebbero essere onorati, perché si adoperano «per limitare i danni della maledizione di Babele», che ci rende tanto aggressivi. Tra i tanti messaggi in bottiglia di Primo Levi c’è anche questo, e l’edizione americana ci aiuta a recepirli e meditarli meglio.
Peccato che la prima recensione, quella di Tim Parks sulla New York Times Review of Books sia un mezzo infortunio critico, perché «buca» clamorosamente la complessità e ricchezza del poliedro Levi, in cui tutto si tiene, cercando con una punta di malevolenza di cogliere il testimone in presunti peccati d’invenzione. Tra i quali ci sarebbe anche quello di «fare la vita molto più interessante di quello che è». Ma non è proprio questo il compito della letteratura? Per fortuna l’opera di Levi ha superato con la sua forza ben altri fraintendimenti.
Ann Goldstein
“Difficile rendere la sintassi. Abbiamo eliminato il dialetto”
di Mario Baudino La Stampa 29.10.15
Ann Goldstein ha tradotto molti autori italiani, dalla sua scrivania del New Yorker, ed è in buona parte l’artefice del successo americano di Elena Ferrante. Coordinatrice delle versioni inglesi per l’opera omnia di Primo Levi, si è misurata personalmente con La tregua, Il sistema periodico e Lilith. Un lavoro enorme, che ora consegna lo scrittore al pubblico statunitense, e non solo agli intellettuali.
Pensa che possa diventare un autore popolare?
«Credo che possa trovare molti lettori, ben al di là di quelli diciamo così accademici. Non tutti i libri sono forse alla portata di tutti, ma Il sistema periodico, ad esempio, può essere letto con interesse, partecipazione e piacere da un pubblico numeroso».
È uno scrittore dalla prosa apparentemente facile. In realtà, come lei stessa ha spiegato nella «Lezione Primo Levi» dedicata appunto alla traduzione, molto complessa. Si è rivelato un autore più ostico, rispetto agli altri italiani?
«In realtà sono tutti difficili, ciascuno ha la sua cifra, ma su tutti è necessario un lavoro di scavo per rendere loro giustizia».
Qual è la cifra stilistica di Levi che più l’ha messa in difficoltà?
«A parte il linguaggio scientifico, c’è la sintassi. In italiano sembra scorrere senza il minimo intoppo, fluida e persino semplice. In inglese diventa complicata, le frasi non possono essere tradotte alla lettera, restando fedeli alla loro costruzione. Lo stesso discorso, devo dire, vale per Elena Ferrante. L’ordine delle parole, la punteggiatura, le congiunzioni possono diventare un problema. Un lettore italiano, ovviamente, non se ne rende conto. Il traduttore invece sì».
Parlava prima del Sistema periodico.
«È il libro che preferisco, perché c’è tutto Levi, con la sua tavolozza intera, la tragedia e il sorriso».
E l’infanzia torinese. È stato difficile proporla ai lettori americani?
«Sono state necessarie scelte decise, come quella di escludere il dialetto. Non avrebbe avuto senso cercare qualche gergalità locale, americana. La struttura dei personaggi, però, è universale: è evidente che tutti possiamo avere un nonno strano oppure eccentrico in famiglia, e nelle situazioni che Levi ricostruisce magistralmente non è difficile identificarsi, anche senza saper nulla di Torino».
Dov’è che sono cominciati i guai?
«Ad esempio quando descrive processi scientifici - che so, la diffusione del carbonio. Sono passi davvero impegnativi. In un articolo [nella raccolta L’altrui mestiere, ndr] analizza una scena dei Promessi sposi in cui Renzo scappa col pugno per aria, studia il gesto e conclude che è impossibile, sbagliato».
Scrive infatti che «è del tutto innaturale correre con il pugno in aria. È antieconomico, anche per pochi passi: si perde molto più tempo di quanto non ne occorra per stringere e sollevare il pugno una seconda volta».
«Ecco. Rendere adeguatamente un passo simile in inglese, rispettando il tono di Levi, la sua oggettività partecipe, è una prova non da poco».
Primo Levi la biologia è fantasia
Alla scoperta di cosa si nasconde dietro la cultura scientifica dello scrittore
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 27.10.2015)
Dopo “Se questo è un uomo” (De Silva, 1947; Einaudi, 1958) e “La tregua” (Einaudi, 1963), Primo Levi pubblicò due libri di racconti: “Storie naturali” (Einaudi, 1966) e “Vizio di forma” (Einaudi, 1971). Su suggerimento del suo editore, il primo fu pubblicato con uno pseudonimo, Damiano Malabaila: erano infatti racconti «strani », anomali sia nei confronti della letteratura italiana dell’epoca sia in quelli della produzione precedente di Levi Sulla fascetta editoriale avvolta alla copertina delle “Storie naturali” era scritto: «Fantascienza?» A indicare un genere meglio appropriato fu un amico e consigliere letterario di Levi, Italo Calvino (che a sua volta nel 1965 aveva firmato Le Cosmicomiche): più che fantascienza, «fantabiologia ».
Sono storie di un mondo non dissimile dal nostro, ma in cui è possibile che venga inventato un farmaco capace di agire sulla percezione soggettiva del tempo e, realizzando l’auspicio di Faust, «fermare l’attimo»; o in cui un rappresentante di macchine d’ufficio convinca un poeta ad acquistare «il Versificatore», elaboratore capace di comporre poesie in ogni metro e argomento.
A questo Primo Levi almeno apparentemente lontano da Auschwitz e più vicino alla sua prima professione, quella di chimico, è dedicata la settima delle solenni «Lezioni» organizzate dal Centro Studi Internazionali Primo Levi (29 ottobre, ore 17.30, al Centro Incontri della Regione Piemonte, Torino). Francesco Cassata, che insegna Storia della scienza all’Università di Genova, parlerà di come questa parte meno celebrata dell’opera leviana metta in dialogo letteratura e scienza e in che relazione sia con le opere che di Levi consideriamo maggiori.
Due dei racconti della seconda raccolta, Vizio di forma, appartengono a una sorta di fantabiologia letteraria. Levi immagina che uno scrittore riceva la visita del protagonista di un suo romanzo. Al comprensibile stupore dell’autore che l’ha creato con la sua fantasia, il personaggio risponde che esiste un parco in cui vive una società di personaggi letterari, la cui vita, in tutto simile alla nostra, è alimentata dalla memoria dei lettori.
Nel secondo racconto, l’autore stesso dopo la sua morte biologica va a vivere nel parco (aveva scritto un’autobiografia apposta per trasformarsi in personaggio letterario), dove incontrerà i protagonisti della letteratura mondiale, in un ménage quotidiano e di allegra stravaganza. Ofelia, per esempio, si è stufata di Amleto e vive da vent’anni con Sandokan.
Nel titolo del primo dei due racconti, l’aggettivo «creativo» era, all’epoca, pressoché anomalo: la moda della creatività era infatti ai suoi primi passi. Molti anni dopo, senza dar mostra di conoscere questo precedente leviano, il critico George Steiner avrebbe detto che se in letteratura c’è creazione non è nell’espressione linguistica, che è sempre una combinatoria di elementi dati (come per il Versificatore immaginato da Levi), ma è proprio nella creazione di personaggi, figure e caratteri che sopravvivono nella memoria dei lettori.
Ai due racconti sul Parco è dedicato, autrice Anna Baldini, il primo dei quattro saggi del volume di critica linguistica Prisma Levi (a cura di Heike Necker). La collana in cui esce è diretta dal linguista Nunzio La Fauci, che firma anche due degli altri saggi (uno come autore, l’altro come coautore).
Se Anna Baldini mostra il rapporto ironico e anche rivelatorio che i racconti Lavoro creativo e Nel parco intrattengono con l’attività letteraria dello stesso Levi, gli altri saggi si soffermano su Se questo è un uomo : il primo (di Nunzio La Fauci) è un’analisi linguistica delle ricorrenze della parola «fame»; Liana Tronci parla del variegato uso del presente e infine La Fauci e Tronci affrontano l’uso di pronomi «io» e «noi» nel primo libro di Levi.
«Noi è Io alla n», ha postulato una volta Alessandro Bergonzoni. E in effetti l’analisi linguistica mostra la diversità di usi dei pronomi di prima e quarta persona che Levi alterna nel suo libro. Se ne trovano ben tre diversi, in poche righe: «Come diremo, dalla fabbrica di Buna in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli... ». «Diremo» è un plurale maiestatis, solo formale: è l’io narrante che parla; il Primo Levi «salvato ». Il soggetto di «soffrimmo» è un noi che include sia i salvati sia i sommersi di Auschwitz; quello di «morimmo» include solo i sommersi, fra cui si annovera anche l’io non più narrante ma «esperiente » di Primo Levi. Ecco come le categorie grammaticali, ovvero le strategie di enunciazione dell’autore, configurano il senso del discorso.
Introducendo il volume, La Fauci afferma che Levi è diverso da ogni altro testimone della Shoah perché conscio di essere soggetto a un vastissimo esperimento biologico: la riduzione di un’intera popolazione umana a condizioni che umane non sono. Quella che fece del Lager partecipava sia al senso di «esperienza » più vicino all’ Erlebnis tedesco (il «vivere qualcosa») sia a quello più vicino alla sperimentazione scientifica. Il libro in cui ce la trasmise si avvantaggiò della formazione duplice dell’autore («Io sono un Centauro», diceva di sé): giovane chimico di laboratorio e, prima, studente appassionato di letteratura, fornito di vasta strumentazione linguistica.
Proprio la scrittura classica e nitida di Levi, che ne fa un grande maestro di stile, è secondo Marco Belpoliti responsabile del famoso rifiuto editoriale riservato da Einaudi alla prima stesura di Se questo è un uomo (su cui tante sciocchezze maligne si sono profuse): una scrittura lontana dalla temperie neorealista e modernista allora in vigore.
Belpoliti ha ripreso il saggio di La Fauci e Tronci sui pronomi nel suo Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda). Il libro è una sorta di enciclopedia leviana e di punto d’arrivo, avanzato per quanto sempre provvisorio, di quella rilettura critica di Levi (spesso, lettura tout court ), che è incominciata negli anni Novanta e che deve molto al lavoro di scrittore e critico di Belpoliti, a partire dalla sua cura delle opere di Primo Levi (Einaudi, 1997), di cui sta preparando una nuova e aumentata edizione (sempre per Einaudi).
Il volume di Guanda riassume e riorganizza in lemmi, capitoli tematici e materiali svariati il ventennio di studi che Belpoliti ha dedicato a Levi, sempre dialogando con critici, storici, filosofi, linguisti, psicologi spesso da lui sollecitati a misurarsi con uno scrittore così noto e ignoto al tempo stesso. Strappato a un ruolo di testimone appartato di una tragedia colossale e restituito alla sua dimensione di scrittore completo e complesso, Levi esce dal libro frastagliato e appassionante di Belpoliti come una figura caleidoscopica: testimone, inventore, tragico, umorista, dantesco, rabelaisiano, scienziato, giocatore, centauro malinconico e allegro, compagno severo e maestro amichevole per i nostri percorsi di lettura, e di pensiero e vita.
Un foglio inedito
Sulla scrivania di Primo Levi
Un appunto della fine del 1976, la scaletta per una conferenza torinese, fotografa con eccezionale potenza di sintesi un momento rilevante nella vita dello scrittore
di Sergio Luzzatto (Il Sole-23 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Scattata nel 1986, una foto di Gianni Giansanti mostra Primo Levi al suo tavolo di lavoro. Con la macchina da scrivere elettrica solidamente posizionata davanti a lui, e poco distante il computer Macintosh - intrigante compagno di gioco, oltreché di «videoscrittura» - che ebbe una parte non piccola nell’ultimo scorcio della sua vita. Il ripiano è ordinato. Quasi libero di carte, occupato quasi soltanto dalla Olivetti e dal Mac. È una scrivania ingombra soltanto dell’essenziale.
Per ovvi motivi, dal 2013 in qua non è stato possibile all’interprete più profondo dell’opera leviana, Marco Belpoliti, presentarsi a casa del chimico-scrittore insieme con la fotografa Giovanna Silva: per cogliere anche della scrivania di Levi una di quelle immagini, così parlanti, che sono andate componendo la serie Tavoli sul sito di Doppiozero. Una foto “aerea” del tavolo di Primo Levi, quella ci mancherà per sempre. Tuttavia, è dato di cogliere con altri mezzi un’istantanea della scrivania nell’appartamento al terzo piano di corso Re Umberto 75, Torino. Un’istantanea metaforicamente scattata in un momento preciso quanto rilevante della vita intellettuale di Levi: in un giorno di fine ottobre o di inizio novembre 1976.
Sulla scrivania di Levi, quel giorno, c’è un foglio di carta. Un singolo foglio. Non ancora del formato A4 che imperversa oggi in Europa, ma del formato US Letter allora comune anche da noi (il formato, potremmo dire, della nostra vita di prima, ante-computer). È un foglio di carta leggera (Levi ne ha forse voluto trarre una copia carbone), ed è stato infilato frettolosamente nella macchina da scrivere: al punto da riceverne una piega che provocherà - nel dattiloscritto finito - un sottile spazio centrale verticale e bianco. Una specie di taglio pieno, come sul negativo di una tela di Lucio Fontana. Ma una volta infilato il foglio nel rullo della Olivetti, non si direbbe che Levi abbia avuto fretta di toglierlo. Al contrario, si direbbe che il chimico-scrittore abbia voluto compiervi una delicata operazione di laboratorio mentale. Insieme, una concentrazione e una distillazione di elementi.
Il foglio - rimasto inedito sino a oggi - porta il titolo Primo Levi - Lo scrittore non scrittore. Si tratta dunque, secondo ogni evidenza, della scaletta della conferenza che Levi si apprestava a tenere, il venerdì 19 novembre 1976, al teatro Carignano di Torino. Il contesto era quello dei Venerdì letterari organizzati dall’Associazione culturale italiana di Irma Antonetto: un autentico must, entro l’ultravivace paesaggio culturale torinese dell’epoca. E nell’archivio Antonetto il foglio dattiloscritto da Levi ha lungamente riposato, salvo riemergere oggi attraverso il catalogo di un antiquario specializzato in autografi e manoscritti.
Nel 1976, il cinquasettenne Primo Levi sta vivendo una svolta esistenziale. Da un anno ha lasciato il mestiere di chimico per dedicarsi a tempo pieno al mestiere di scrittore. L’anno stesso del pensionamento è divenuto un collaboratore fisso de «La Stampa», e ha pubblicato Il sistema periodico: qualcosa come la sua autobiografia, nell’originalissima forma di un «ex-voto» letterario alla chimica (così Levi scrive sul foglio inedito, e così dirà nella conferenza del Venerdì letterario), la scienza che ad Auschwitz gli aveva salvato la vita. Al contempo, il pensionamento facilita l’esercizio di quanto Levi definisce - in un testo datato proprio novembre 1976, l’appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo - il suo terzo mestiere: «quello di presentatore e di commentatore di me stesso».
Pubblicato postumo nel 1992 e ripreso nelle opere complete, il testo della conferenza di Levi al teatro Carignano è meno noto di un’altra sua dichiarazione di poetica quasi esattamente coeva: Dello scrivere oscuro, elzeviro uscito su «La Stampa» l’11 dicembre di quel 1976 e poi nella raccolta L’altrui mestiere. I temi sono i medesimi. Si tratta delle qualità che a Levi paiono necessarie per tenere insieme i tre mestieri della sua vita. La consuetudine del chimico industriale, in fabbrica, di fare asciuttamente rapporto ogni fine settimana. La responsabilità dello scrittore di scrivere in modo chiaro e accessibile a tutti. La capacità del presentatore di se stesso di riuscire - in ultima istanza - un testimone credibile della sua esperienza e del suo tempo.
Altrettanti temi familiari agli odierni lettori e critici di Levi. Ma temi che la scaletta dell’autunno 1976 declina (giocoforza, trattandosi di una scaletta) in modo particolarmente icastico: con un’economia di parola e un’essenzialità di stile ancora più spinte di quelle cui Levi ci ha normalmente abituati. Ad esempio, riguardo alle premesse biografiche di Se questo è un uomo, Levi appunta: «Via anomala che mi ha condotto allo scrivere; scrittura come testimonianza e come liberazione personale, quindi legata all’argomento e lontana dalla sperimentazione». Riguardo alla cifra narrativa de La tregua: «“Cortesia” dello scrittore verso il lettore: deve rispettarlo, non deluderlo».
La scaletta comprende anche un elenco delle otto «domande tipiche» che Levi era andato raccogliendo fra i suoi lettori più giovani: tra le scolaresche di tutta Italia con le quali - dagli anni Sessanta in poi - aveva evocato e commentato, infaticabilmente, la sua esperienza del campo di sterminio. Sono le medesime domande per cui Levi ha preparato, nel corso stesso del 1976, le risposte di quella specie di autointervista che uscirà presto come appendice per l’edizione scolastica di Se questo è un uomo. Nella scaletta, Levi riprende le otto domande in una forma contratta, ma non perciò meno suggestiva: «- Li ha perdonati? - I ted. sapevano? - Perché non è fuggito? - Perché non parla dei Lager russi? - Quali personaggi ha rivisto? - Perché l’odio nazista? - Chi sarebbe Lei oggi se...?».
Ai fini di una lettura filologica dell’inedito, la terza delle otto domande («Perché non è fuggito?») è quella che solleva le curiosità maggiori. In effetti, in una prima versione dell’autointervista, che Levi aveva pubblicato su «La Stampa» del 28 febbraio 1976, la domanda risultava formulata così: «C’erano prigionieri che fuggivano dai lager? Lei perché non è fuggito?». Mentre nell’appendice dell’edizione scolastica di Se questo è un uomo, Levi riformula totalmente il secondo elemento dell’interrogazione: «C’erano prigionieri che fuggivano dai Lager? Come mai non sono avvenute ribellioni di massa?». Da una versione all’altra dell’autointervista, si perde quindi per strada ciò che più direttamente, nella domanda, interpellava di persona Primo Levi: perché lui non era fuggito da Auschwitz?
Sarebbe improprio sopravvalutare - in questo piccolo esercizio di variantistica - il venir meno di tale frammento, che facilmente può spiegarsi con mere ragioni di opportunità redazionale o didattica. Eppure, siamo forse in presenza di un sintomo di quella che maturerà, nel tempo, come la saturazione di Levi a fronte di una domanda (scriverà nel 1986) «formulata con sempre maggiore insistenza, e con un sempre meno celato accento di accusa». «Perché non siete fuggiti? Perché non vi siete ribellati?», suonerà il ritorno della domanda ne I sommersi e i salvati. Con un passaggio di persona verbale - qui, dal singolare al plurale - che rappresenta, in Levi, una spia immancabilmente significativa. E con un stato d’animo dell’interrogato sempre più simile al disagio di chi proprio non riesce a spiegarsi, o allo sconforto di chi si sente profondamente incompreso.
Primo Levi
«Se io fossi Dio» ad Auschwitz
Jean-Claude Milner analizza le tredici righe di «Se questo è un uomo» sulla preghiera di Kuhn, l’ebreo devoto: e le cartesiane ragioni per cui il chimico rigettò quella preghiera
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore - Domenica, 25.1.15)
Tutti i lettori dell’opera di Primo Levi sanno quanto lo scrittore torinese fosse capace di cogliere la potenza del dettaglio. Quanto fosse abile nel riconoscere e nel soppesare anche la più piccola dose di umana o disumana materia dissolta nella massa molare del mondo. Era questa un’arte che il giovane chimico aveva applicato già negli inferi di Auschwitz, e di cui aveva fatto immediato tesoro di ritorno fra i vivi. L’esperienza restituita in Se questo è un uomo va considerata anche un «esperimento mentale» (come lo ha definito Massimo Bucciantini) volto all’identificazione e alla pesatura degli ingredienti costitutivi del campo di sterminio.
La narrazione di Se questo è un uomo potrebbe essere letta, al limite, come niente più che un’implacata e implacabile collezione di dettagli antropologici.
Così, giunge opportuna l’inclusione di Levi nel libro che un linguista e filosofo francese, Jean-Claude Milner, ha titolato La puissance du détail. Un intero capitolo del volume è dedicato a un singolo passo di Se questo è un uomo: la mezza pagina di chiusura del capitolo dove si racconta di una «selezione» ad Auschwitz-Monowitz. Le tredici righe di «Ottobre 1944» in cui Levi introduce e congeda - fra gli scampati della sua baracca alla selezione per le camere a gas - la figura di Kuhn.
«A poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. / Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? / Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn».
Secondo Milner queste tredici righe contengono, nella forma breve tipica di Se questo è un uomo, l’alfa e l’omega del giudizio di Primo Levi sulla metafisica dopo Auschwitz. E li contengono a partire da una riflessione che risulta modellata sulle Meditazioni di Cartesio: una meditazione di fine giornata, nel silenzio propizio alla contemplazione di Dio, con il carattere di un ragionamento sillogistico, e con l’assunzione di responsabilità consistente nel ragionare di cose ultime dicendo «io». Senonché l’esito della meditazione di Levi è un Cogito rovesciato. Ha la forza (forza folle, tiene a precisare Milner) di uno sputo metafisico.
Occorrerà - prima o poi - rileggere tutto Primo Levi alla luce dei suoi pronomi personali: cercare un qualche sistema periodico nell’uso leviano dell’«io», del «tu», del «noi», del «voi»... E chi si metterà all’opera dovrà fare i conti, giocoforza, con la mezza pagina sul vecchio Kuhn e con quel periodo ipotetico, «Se io fossi Dio»: con l’impressionante occorrenza di un io che, da Dio consapevole della Soluzione finale, sputa a terra la preghiera dell’ebreo salvato. Per il momento, bisogna contentarsi di seguire Jean-Claude Milner, la sua lettura di tredici righe fra le più impegnative che Levi abbia mai scritto.
Il Dio verso il quale Kuhn eleva dondolante la sua preghiera, per averlo salvato dalla selezione e magari perché torni a salvarlo una prossima volta, corrisponde al prototipo stesso del genio maligno di Cartesio. Il campo di sterminio esclude infatti, ipso facto, un cartesiano «dubbio radicale». Al di qua di ogni possibile dubbio filosofico, Auschwitz esiste. E siccome Auschwitz esiste, il Dio d’Israele non può esistere altro che come grande ingannatore. Kuhn è pazzo a pregare un Dio simile. E Kuhn è cieco a non vedere Beppo il greco. Il quale, nell’interpretazione di Milner, non corrisponde soltanto al prototipo del «sommerso»: l’uomo in dissolvimento, il «mussulmano» che attende inerte di andare in gas. Beppo il greco vale almeno altrettanto da incarnazione stoica, ventenne figura della saggezza.
Nessuno più lontano di Beppo dagli altri greci deportati ad Auschwitz che l’autore di Se questo è un uomo ha evocato, in un capitolo precedente, con toni da epopea: «Ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita». Nella sua immobilità di morituro, Beppo ha la capacità di sopportazione e di astensione di Epitteto. E oltreché una figura stoica, Milner riconosce in lui una figura platonica. Coricato, muto, lo sguardo fisso, Beppo è il Socrate del Fedone. Ma con una differenza decisiva. Ad Atene, la morte di Socrate realizza il compimento della filosofia. Ad Auschwitz, la morte di Beppo nulla garantisce in materia di immortalità dell’anima. «Beppo figura la saggezza amputata del logos».
L’animata preghiera di Kuhn rimanda a una fede ormai possibile unicamente come fede cieca e ipocrita, farisaica: mentre la rassegnata inerzia di Beppo, la sua saggezza ormai priva di pensiero e di linguaggio, conserva almeno la dignità della ragione classica. E anche perciò Levi scrive Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo: perché «lo sterminio colpisce l’umanità attraverso gli ebrei; ma il punto d’umanità che lo sterminio raggiunge attraverso gli ebrei e negli ebrei prende immediatamente il nome di un greco». Insomma: il poco o nulla che resta della ragione di Atene rivela a Levi, nella baracca di Monowitz, tutta la follia di Gerusalemme. Kuhn è pazzo non perché prega, ma perché prega da ebreo. Beppo è saggio non perché attende la morte, ma perché la attende da greco.
Altrettante impressioni e conclusioni - queste di Jean-Claude Milner - che meriteranno di essere attentamente valutate, ed eventualmente criticate da lettori e cultori di Primo Levi. Qui resta da sottolineare l’interesse di una lettura “cartesiana” dell’episodio di Kuhn alla luce di un passo che Milner curiosamente rinuncia a citare, mentre dall’edizione del 1958 se ne sta lì, bene in vista se non ben chiaro, nella primissima pagina di testo di Se questo è un uomo: la descrizione che Levi ha proposto del suo mondo mentale di prima della deportazione, un mondo «popolato da civili fantasmi cartesiani».
Nel 1976, Levi avrebbe spiegato come i suoi fantasmi cartesiani d’ante-Auschwitz andassero intesi quali «sogni e propositi forse mal realizzabili, ma non confusi, bensì razionali e logici». È una definizione che perfettamente si attaglia - in fondo - anche al suo Cogito rovesciato di Monowitz. Al vertiginoso suo periodo ipotetico, «Se io fossi Dio», e al salivare suo rigetto della preghiera di Kuhn.
Primo Levi e la lettera inedita: l’olocausto spiegato a una bambina
“Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria perché chi voleva conoscere la verità poteva conoscerla e farla conoscere”
Primo Levi era nato il 31 luglio 1919 a Torino, dove è morto l’11 aprile 1987
di Monica Perosino (La Stampa, 23/01/2015)
Torino
Gli avevo chiesto: come potevano essere così cattivi?
A 11 anni, nel 1983, avevo appena finito di leggere Se questo è un uomo. L’avevo letto durante le vacanze di Natale, e riletto pochi giorni dopo l’Epifania. Ma restavano domande senza risposta: esiste la malvagità?
Se questo è un uomo era nella lista dei libri da leggere stilata dalla professoressa di italiano, Maria Mazza Ghiglieno. Neanche lei, che pure aveva sempre le domande e le risposte giuste, poteva risolvere il dilemma. Così, spinta dalla logica senza curve di un’undicenne, mi parve ovvio andare alla fonte. Cercai l’indirizzo di Primo Levi sulla guida del telefono per chiedere direttamente a lui: perché nessuno ha fatto niente per fermare lo sterminio? I tedeschi erano cattivi?
Nemmeno per un attimo pensai che stavo scrivendo allo scrittore di fama planetaria. Per me era «solo» Primo Levi e il suo libro era anche un po’ mio. Chiedere conto a lui mi parve la cosa più naturale del mondo. Lui doveva sapere per forza. Presi la mia carta da lettere preferita, zeppa di fiori e pupazzi, e scrissi una paginetta di lettere tozze. Già che c’ero lo invitai nella mia scuola.
La risposta arrivò, datata 25 aprile, e non colsi subito la coincidenza fino in fondo. Il concetto di «ignoranza volontaria» non era la spiegazione che mi aspettavo. Io volevo sapere se il male esisteva. Smisi di rileggere la lettera tre anni dopo, l’11 aprile 1987, quando trovarono il corpo di Primo Levi nella tromba delle scale. Ero rimasta senza l’uomo che avrebbe potuto darmi spiegazioni. La lettera finì in un cassetto, assieme ad altre. Ora, 32 anni dopo, è rispuntata durante un trasloco, con tutte le sue risposte.
25/4/83
Cara Monica,
la domanda che mi poni, sulla crudeltà dei tedeschi, ha dato molto filo da torcere agli storici. A mio parere, sarebbe assurdo accusare tutti i tedeschi di allora; ed è ancora più assurdo coinvolgere nell’accusa i tedeschi di oggi. È però certo che una grande maggioranza del popolo tedesco ha accettato Hitler, ha votato per lui, lo ha approvato ed applaudito, finché ha avuto successi politici e militari; eppure, molti tedeschi, direttamente o indirettamente, avevano pur dovuto sapere cosa avveniva, non solo nei Lager, ma in tutti i territori occupati, e specialmente in Europa Orientale. Perciò, piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi. La cosa più brutta vista in Lager credo sia proprio la selezione che ho descritta nel libro che conosci.
Ti ringrazio per avermi scritto e per l’invito a venire nella tua scuola, ma in questo periodo sono molto occupato, e mi sarebbe impossibile accettare. Ti saluto con affetto
Primo Levi
Capirete cosa è il contagio del male
Così fu Auschwitz: in un volume testimonianze inedite dello scrittore e di un suo compagno di prigionia
di Primo Levi (La Stampa, 21.01.2015)
Pensate: non più di venti anni fa, e nel cuore di questa civile Europa, è stato sognato un sogno demenziale, quello di edificare un impero millenario su milioni di cadaveri e di schiavi. Il verbo è stato bandito per le piazze: pochissimi hanno rifiutato, e sono stati stroncati; tutti gli altri hanno acconsentito, parte con ribrezzo, parte con indifferenza, parte con entusiasmo. Non è stato solo un sogno: l’impero, un effimero impero, è stato edificato: i cadaveri e gli schiavi ci sono stati. [...]
Ma c’è stato anche di più e di peggio: c’è stata la dimostrazione spudorata di quanto facilmente il male prevalga. Questo, notate bene, non solo in Germania, ma ovunque i tedeschi hanno messo piede; dovunque, lo hanno dimostrato, è un gioco da bambini trovare traditori e farne dei sàtrapi, corrompere le coscienze, creare o restaurare quell’atmosfera di consenso ambiguo, o di terrore aperto, che era necessaria per tradurre in atto i loro disegni.
Tale è stata la dominazione tedesca in Francia, nella Francia nemica di sempre; tale nella libera e forte Norvegia; tale in Ucraina, nonostante vent’anni di disciplina sovietica; e le medesime cose sono avvenute, lo si racconta con orrore, entro gli stessi ghetti polacchi: perfino entro i Lager. È stato un prorompere, una fiumana di violenza, di frode e di servitù: nessuna diga ha resistito, salvo le isole sporadiche delle Resistenze europee.
Negli stessi Lager, ho detto. Non dobbiamo arretrare davanti alla verità, non dobbiamo indulgere alla retorica, se veramente vogliamo immunizzarci. I Lager sono stati, oltre che luoghi di tormento e di morte, luoghi di perdizione.
Mai la coscienza umana è stata violentata, offesa, distorta come nei Lager: in nessun luogo è stata più clamorosa la dimostrazione cui accennavo prima, la prova di quanto sia labile ogni coscienza, di quanto sia agevole sovvertirla e sommergerla.
Non stupisce che un filosofo, Jaspers, ed un poeta, Thomas Mann, abbiano rinunciato a spiegare l’hitlerismo in chiave razionale, ed abbiano parlato, alla lettera, di «dämonische Mächte», di potenze demoniache.
Su questo piano acquistano senso molti particolari, altrimenti sconcertanti, della tecnica concentrazionaria. Umiliare, degradare, ridurre l’uomo al livello dei suoi visceri. Per questo i viaggi nei vagoni piombati, appositamente promiscui, appositamente privi d’acqua (non si trattava qui di ragioni economiche). Per questo la stella gialla sul petto, il taglio dei capelli, anche alle donne. Per questo il tatuaggio, il goffo abito, le scarpe che fanno zoppicare. Per questo, e non la si comprenderebbe altrimenti, la cerimonia tipica, prediletta, quotidiana, della marcia al passo militare degli uomini-stracci davanti all’orchestra, una visione grottesca più che tragica. Vi assistevano, oltre ai padroni, reparti della Hitlerjugend, ragazzi di 14-18 anni, ed è evidente quali dovevano essere le loro impressioni. Sono questi, dunque, gli ebrei di cui ci hanno parlato, i comunisti, i nemici del nostro paese? Ma questi non sono uomini, sono pupazzi, sono bestie: sono sporchi, cenciosi, non si lavano, a picchiarli non si difendono, non si ribellano; non pensano che a riempirsi la pancia. È giusto farli lavorare fino alla morte, è giusto ucciderli. È ridicolo paragonarli a noi, applicare a loro le nostre leggi.
Allo stesso scopo di avvilimento, di degradazione, si arrivava per altra via. I funzionari del campo di Auschwitz, anche i più alti, erano prigionieri: molti erano ebrei. Non si deve credere che questo mitigasse le condizioni del campo: al contrario. Era una selezione alla rovescia: venivano scelti i più vili, i più violenti, i peggiori, ed era loro concesso ogni potere, cibo, vestiti, esenzione dal lavoro, esenzione dalla stessa morte in gas, purché collaborassero. Collaboravano: ed ecco, il comandante Höss si può scaricare di ogni rimorso, può levare la mano e dire «è pulita»: non siamo più sporchi di voi, i nostri schiavi stessi hanno lavorato con noi. Rileggete la terribile pagina del diario di Höss in cui si parla del Sonderkommando, della squadra addetta alle camere a gas e al crematorio, e capirete cosa è il contagio del male.
Levi, se questo è un viaggio
Da Auschwitz all’Italia, attraverso il continente disfatto
La lunga «Tregua» per scoprire che «la guerra è sempre»
di Liliana Picciotto (Corriere della Sera, 19.5.2014)
Quando Primo Levi dice al suo nuovo improbabile compagno di viaggio, il greco di Salonicco Mordo Nahum, «Ma la guerra è finita», l’altro gli risponde, memorabilmente: «Guerra è sempre». «La guerre n’est pas finie », gli ripeterà poco dopo a Katowice un avvocato polacco, che gli si era fatto incontro, con il suo francese e il suo cappello di feltro, in mezzo ad un capannello di operai del luogo, formatosi incuriosito intorno all’ex deportato liberato. Primo gli parlò vertiginosamente di quello che gli era successo, della sua vita ad Auschwitz, così vicino alla città di Katowice, ma apparentemente a tutti sconosciuto. Levi, che non sapeva il polacco, capì ugualmente che l’uomo lo descriveva al pubblico non come ebreo italiano, ma come prigioniero politico italiano. Quando gliene chiese conto, stupito e quasi offeso, quello gli rispose imbarazzato, appunto: «La guerre n’est pas finie ».
Capiamo, allora, che cosa Primo ha voluto dire con quel titolo La tregua messo al suo magistrale libro, scritto tra il dicembre del 1961 e il novembre del 1962. Un libro che cattura l’attenzione, da cui una volta iniziato, è difficile staccarsi. Levi racconta il suo viaggio di ritorno in Italia dopo la prigionia alla Buna, inizialmente convinto di intraprendere un viaggio soteriologico, dove lasciarsi indietro la fine delle brutture della guerra e recuperare il sentore di essere uomo, di sentirsi vivo e uguale agli altri. Lungo il viaggio invece si accorge che quella che sta sperimentando è soltanto una tregua: tregua dalla sofferenza, dalla rovina, dallo stravolgimento di ogni senso, dal male ricevuto e inferto. Durante questo percorso, egli mette in gioco un’intera visione della vita.
Non rileggevo questo libro da 50 anni, da quando me lo dettero da studiare in terza media. Errore fatale dei miei insegnanti. Non ne potevo cogliere allora la potenza visionaria. Durante il suo viaggio, Primo ci parla di ogni cosa che riguarda l’uomo: la fame incontrollata (in buona parte psicologica), l’energica coscienza morale dei combattenti politici, il senso ancestrale dell’esilio del suo popolo ebraico, il bisogno, così primordiale, dei contatti umani, la speranza di un mondo diritto e giusto, la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta, la pazienza virile che ha sostenuto fino alla fine i sopravvissuti, «la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di avere ragione».
Il suo viaggio è popolato da decine di persone che egli fa diventare personaggi per parlare delle debolezze e delle virtù dell’uomo, così scoperte come possono diventare nei momenti di emergenza e incertezza, quando corre l’obbligo di trovare espedienti per poter dormire, mangiare, viaggiare in una Europa devastata. Primo e i suoi compagni devono affrontare decine di insormontabili problemi: dal migliaio e mezzo di chilometri da percorrere senza soldi alla mancanza di una lingua comprensibile, dalle molte frontiere da attraversare senza documenti al freddo intenso provato sui mezzi di locomozione di fortuna. Sono sostenuti solo dal sogno di poter recuperare una dimensione umana in cui riposarsi dall’insensato sradicamento subito.
Levi incontra, nei nove mesi che lo separano dal rimpatrio, un mondo ramingo e variopinto fatto di ex militari dell’Armir, ex deportati ad Auschwitz, ex lavoratori della Todt, rei comuni, prostitute, soldati russi in disarmo. È un romanzo a suo modo epico che può essere a giusto titolo avvicinato all’Armata a cavallo di Isaak Babel, del 1926. Non mancano frangenti che sfiorano il comico come quando una guardia russa, senza tante storie, mette in mano a Levi, che sta a malapena in piedi dopo la scarlattina, una pala e gli ordina di spalare la neve. Lui ha un attimo di incertezza, non è in grado di affrontare quella fatica, se riesce a girare l’angolo nessuno lo vedrebbe e potrebbe andarsene tranquillo, ma come sbarazzarsi della pala? Venderla? Nasconderla? Portarsela dietro? Alla fine, la lascia cadere nella finestrella di una cantina e si ritrova libero.
Un’altra volta, in società con il greco Mordo, si ritrova al mercato di Cracovia a vendere una camicia, procurata chissà come nel lager. Il suo contributo consiste nel mettere in mostra e decantare la merce in un polacco stentato: «Camicia, signori, camicia». Un’altra volta, nella piazza del mercato di Katowice, si mette a vendere assieme al suo amico del lager, Cesare, una camicia bucata. La situazione è paradossale, Cesare è un ambulante del ghetto di Roma, non sa nessuna lingua, si mette a gesticolare e sventolare la merce tenendola per il colletto dove è il buco, ne proclama le doti con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni insulse, apostrofando il pubblico con osceni nomignoli romaneschi. Dopo finita la contrattazione e venduta la merce ad un panzone, Primo e Cesare se la diedero a gambe (fecero resciudde , così si dice in giudeoromanesco).
Un’altra volta, con l’inseparabile compagno, entra in uno sperduto villaggio russo per barattare sei piatti, trascinati per chilometri in un sacco, con una gallina. Seguono scene esilaranti in cui Cesare cerca di farsi capire dai perplessi contadini mimando coccodè (suono per nulla universale che circola esclusivamente in Italia) e facendo mosse di covare un uovo. I contadini li prendono per matti, stanno minacciosamente per mandarli via quando a Primo viene in mente di disegnare per terra la sagoma di una gallina da cui esce un uovo. L’impresa è così felicemente conclusa.
Levi, per tornare nella sua Torino, percorre mezza Europa: dalla Polonia alla Russia, dalla Romania all’Ungheria, dalla Cecoslovacchia all’Austria, dalla Germania di nuovo all’Austria e finalmente, all’Italia. Nel viaggio, a piedi, su carretti o su tradotte militari, attraversa steppe deserte, foreste, piane grandiose, villaggi bui e sperduti, città semidistrutte, fiumi lenti e maestosi, stagni e paludi, cittadine diroccate. Dovunque, bivaccano migliaia di displaced persons in transito o in cerca di un rimpatrio, appartenenti a tutte le nazioni d’Europa. Incontra greci, francesi, italiani, iugoslavi, belgi, russi, polacchi, ungheresi, slovacchi, donne ucraine andate volontarie in Germania e rimpatriate in Russia tra il disprezzo generale.
È il contrario dell’Europa dei popoli come la pensiamo noi oggi. È solo una collettività disgregata, descritta magnificamente da un grande umanista, con piglio ora indulgente, ora ammirato, ora divertito, sempre vigile e attento, non sopraffatto dalla rabbia. Mai sguardo più lucido fu posato sull’Europa disfatta, disgregata, oltraggiata e ci viene in mente che mai come leggendo La tregua la necessità di una Europa dai valori condivisi appare più attuale.
Il «giorno dopo», dalla parte dei sopravvissuti
di I.Bo. (Corriere, 19.05.2014)
Con il romanzo La tregua di Primo Levi (1919-1987) prefato da Frediano Sessi, oggi in edicola, prosegue la collana del «Corriere della Sera» curata da Paolo Di Stefano e dedicata ai «Romanzi d’Europa», con prefazioni inedite di scrittori e studiosi, dedicata ad alcuni dei romanzi fondamentali che hanno raccontato le radici della cultura europea (prezzo € 9,90 più il costo del quotidiano).
Proprio il testo di Levi racconta la pagina nera del Novecento, il crimine dello sterminio nei lager, insomma il «giorno dopo»: mostra il risollevarsi dei perseguitati, ebrei, prigionieri politici, antifascisti, e il loro ritorno a casa, chiusi dentro il trauma irrimediabile subìto e colti nel loro interrogarsi sulla possibilità di ricominciare a vivere.
Si attraversa il Continente distrutto dalla guerra, si entra nelle stazioni affollate, nei treni stracolmi e nelle città popolate di sopravvissuti ma anche di nemici o ex nemici.
In un altro luogo attraversato dalla guerra, l’ex Jugoslavia, è ambientato il romanzo che sarà in edicola la prossima settimana, il 26 maggio, per la stessa collana, Il ponte sulla Drina di Ivo Andric (con la prefazione inedita di Giorgio Montefoschi): attraverso la storia di un ponte monumentale sul fiume Drina si racconta la vicenda dell’Est del Continente, crocevia certo non solo geografico tra cultura cristiana, musulmana, bosniaca e serba.
Luce contro l’orrore
Primo Levi, l’importanza di farlo conoscere ai ragazzi
Chi era l’autore di «Se questo è un uomo»?
Uno spirito così tenace che sfidò la logica del lager, quella che privava le persone della propria umanità
di Giovanni Nucci (l’Unità, 02.12.2013)
ITALO CALVINO ERA CONVINTO CHE NON FOSSE IMPORTANTE LA BIOGRAFIA DI UNO SCRITTORE E CHE QUELLO CHE HA DA DIRE, DI NORMA, LA LETTERATURA LO DICE ATTRAVERSO LE OPERE MOLTO PIÙ CHE ATTRAVERSO LA VITA DI CHI LE HA SCRITTE. È davvero importante sapere quante mogli ha avuto Shakespeare o come sia morto il fratello di Gadda o quanti processi abbia subito Pasolini per capire a fondo e apprezzare le loro opere? Che senso ha che degli studenti usino parte delle loro energie intellettuali per studiare la vita di Dante o quella di Leopardi quando potrebbero usarle tutte nello sforzo necessario a immergersi, farsi avvolgere e conquistare dalle loro opere?
D’altronde le biografie possono essere anch’esse e già di per loro delle opere letterarie, a volte rese tali dalla penna di chi le ha scritte, a volte dalla loro trama, cioè dalla vita di chi le ha ispirate. Ma è facile, molto facile, che la vita di uno scrittore sia di per sé banale e nient’affatto interessante almeno da un punto di vista letterario. E, soprattutto, è facilissimo che lo strabordante ego di un (magari mediocre) scrittore venga confuso per interesse letterario della sua biografia e prenda il sopravvento sul distacco e l’universalità di cui di solito la letteratura necessita.
«DENTRO» UN GRANDE SCRITTORE ITALIANO
Tutto ciò viene nello stesso tempo confermato e contraddetto dal bel libretto di Frediano Sessi sulla vita di Primo Levi (Primo Levi: l’uomo, il testimone, lo scrittore, pagine 159, euro 10,00, Einaudi Ragazzi). Perché, viene da chiedersi, la vita di Primo Levi dovrebbe essere più importante da conoscere della vita, non so, di Dino Buzzati?
Probabilmente perché la vicenda letteraria, cioè le opere, di Primo Levi è talmente intrisa della sua vicenda biografica che qualunque strada usiamo per arrivarci è utile e preziosa. E anche perché nel caso di Levi succede, ancora più che con gli altri scrittori, quello che Holden Caulfield si augura possa accadere con gli autori di cui ha amato i libri: volerli conoscere di persona, volerli conoscere meglio.
Non voglia sembrare un gioco di parole irrispettoso, ma effettivamente dopo aver letto Se questo è un uomo si sente abbastanza il bisogno di capire, di sapere meglio, che tipo di uomo lo abbia potuto (o dovuto) scrivere. Leggere, quindi, il libro di Frediano Sessi è un modo per continuare a rimanere «dentro» uno dei più grandi scrittori italiani dello scorso secolo e della sua atroce vicenda umana, anche al di là di quanto le sue opere ci consentano.
Ma non è solo questo: se da una parte l’opera di Levi è pregna della sua vicenda biografica come lo è l’opera di quasi tutti gli scrittori, nello stesso tempo «quella» vicenda è al centro di uno momento della storia occidentale che «deve» continuare a restare lui stesso centrale nelle nostre riflessioni e attenzioni, che deve restare esemplare. E per quanto la storiografia ci fornisca degli strumenti importanti per analizzare le drammatiche vicende della Shoah, per quanto ci sia grande attenzione e si facciano grandissimi sforzi per mantenerne la memoria, il vero rischio volendo considerare la Shoah esemplare del male che l’occidente ha saputo fare a se stesso, è che tutto prenda una piega soltanto celebrativa, retorica, o che così venga percepito, soprattutto dalle nuove generazioni. C’è addirittura il rischio di arrivare a pensare che la Shoah possa essere utilizzata come mezzo per poter avere maggiore attenzione, un po’ più di spazio mediatico, un po’ di successo assicurato.
Ecco, l’unico modo per scongiurare questi pericoli è riportare l’attenzione, (lo ripeto) soprattutto delle nuove generazioni, sul fatto che quelle vicende, quelle storie ormai distanti da noi e dalla nostra vita quotidiana, sono accadute a degli uomini per niente diversi da noi, e per niente distanti. E che per capire la portata di quello che è successo, bisogna immaginarlo applicato al nostro vicino di casa, a nostro zio, a nostro fratello, a noi stessi. È questo l’enorme valore letterario dei libri di Primo Levi: aver saputo riportare la Storia (con la maiuscola) alla singola umanità di una persona. Ed è così, con questo spirito e questa attenzione, che il libro di Frediano Sessi ci racconta di quale persona si è trattato.
Il segreto di Primo Levi dimenticato dalla Resistenza
Quell’episodio dimenticato della Resistenza
Lo storico Sergio Luzzatto ricostruisce l’esperienza dello scrittore all’epoca della guerra partigiana
di Gad Lerner (la Repubblica ,16.04.2013)
AVREI validi motivi per tenermi il disagio e non scriverne: le confidenze sulla sua fatica di vivere che Primo Levi mi aveva concesso; la familiarità con il paese di Cerrina, in Monferrato, dove Fulvio Oppezzo viene ancora ricordato come giovane martire della Resistenza anziché vittima di giustizia sommaria.
Avrei validi motivi per tenermi il disagio e non scriverne: le confidenze sulla sua fatica di vivere che Primo Levi mi aveva concesso; la familiarità con il paese di Cerrina, in Monferrato, dove Fulvio Oppezzo viene ancora ricordato come giovane martire della Resistenza anziché vittima di giustizia sommaria, mitragliato di spalle insieme a Luciano Zabaldano, per opera di un capo della piccola banda partigiana in cui militava lo stesso Primo Levi, all’alba del 9 dicembre 1943 su un campo innevato del Col de Joux, sopra Saint-Vincent; la tessera dell’Anpi conferitami a Casale Monferrato dai superstiti di quella stagione, giustamente preoccupati che ancora si voglia infangare la loro scelta antifascista; e da ultimo mettiamoci il ritorno a Auschwitz-Birkenau, solo dieci giorni fa, per accompagnare i miei figli là dove Levi sopravvisse fortunosamente per undici terribili mesi mentre la maggioranza dei suoi compagni di sventura venivano eliminati.
Mi forzo a scrivere, invece, per interrogarmi sulla natura dell’“ossessione” di Sergio Luzzatto che quell’episodio drammatico lo scruta in più di trecento documentatissime pagine; traendone, lui storico autore dell’Einaudi, un volume edito da Mondadori perché la casa editrice torinese che fu di Primo Levi non l’ha pubblicato: Partigia. Una storia della Resistenza.
Mi permetto di adoperare il termine “ossessione” sapendo che l’autore non si offenderà perché lo scrive due volte egli stesso per motivare la spinta a un’indagine che non ha molto da rivelare sul piano storico - le atrocità della Resistenza come guerra civile sono già dissodate - sollecitandoci invece a una discutibile revisione iconografica e sentimentale.
Dunque Luzzatto dichiara di provare “ossessione”, “curiosità”, “passione” per la Resistenza. Un’ossessione, precisa, acuitasi dacché dilaga il “fenomeno Pansa”, cioè il successo dei libri che Giampaolo Pansa dedica al sangue dei vinti, da lui citati “come sintomo di una crisi dell’antifascismo”. Non basta. Luzzatto dichiara, testuale, «un’altra mia ossessione» per la figura di Primo Levi. Quasi che un impulso morboso lo spingesse a misurare fino a dove giunga la sua capacità di “devozione civile” e di “venerazione letteraria” per il testimone, l’intellettuale rigoroso, lo scienziato che attraversato l’inferno non smette di ammonirci: scegli il raziocinio, diffida dalla visceralità anche nella scrittura.
Ecco allora Sergio Luzzatto afferrare un passaggio cruciale del Sistema periodico, cioè l’unico libro in cui Levi descrive la sua breve esperienza di partigiano antifascista nell’autunno 1943, prima di essere catturato con Luciana Nissim e Vanda Maestro, ebree come lui e insieme a lui deportate ad Auschwitz. Sono dodici righe che descrivono lo stato d’animo del ventiquattrenne Levi e degli altri maldestri partigiani catturati il 13 dicembre 1943 nel corso di un rastrellamento, pochi giorni dopo la condanna a morte di Fulvio Oppezzo, 18 anni, e Luciano Zabaldano, che neppure li aveva ancora compiuti.
Si trovano nel capitolo intitolato “Oro” e conviene riprodurle per intero: «Fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza a eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda a esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù».
Cosa pretendere di più, in sincerità e tormento? Primo Levi al tempo stesso riconosce qui, per ragioni di «nostra coscienza», la condivisione di una sentenza - per indisciplina grave, minacce armate, forse anche un furto - e l’abiezione che ne derivò. Con un mitra Beretta furono abbattuti alle spalle, e poi sepolti, due ragazzi sbandati che le circostanze avevano reso incompatibili con le regole della guerra partigiana. Una tragedia ripetutasi più volte in quella come nelle altre guerre, l’atrocità del fuoco amico ricoperta quasi sempre dal velo della reticenza. Non dimentichiamo la fisionomia razionale che percorre l’intera testimonianza di Primo Levi, anche nei resoconti del lager, là dove neanche una singola figura di boia sterminatore s’è concesso di enfatizzare, scegliendo la chiave della compostezza anche di fronte all’inenarrabile.
Spiace che Luzzatto si avventuri in una contestualizzazione della presunta autocensura di Levi motivandola con la pubblicazione del Sistema periodico nell’anno 1975, cioè nel pieno delle celebrazioni del trentennale della Resistenza. Adopera qui anch’egli il termine dispregiativo «vulgata resistenziale» che tanto gratifica gli iconoclasti (già me li vedo intenti finalmente a demitizzare il grande scrittore della Shoah).
Ipotizza cioè che Levi abbia pagato “pedaggio” - che parola! - perché all’epoca non era consentito presentare la Resistenza come fenomeno in chiaroscuro, dovendosi separare nettamente i torti dalle ragioni. Così, lungo tutto il corso della sua ricerca di microstoria - dalla morte assurda di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano alle contraddizioni interne al movimento partigiano fra Casale Monferrato e la Val d’Aosta; dall’indulgenza di cui godranno nel dopoguerra i fascisti artefici del rastrellamento fatale, all’impegno di testimonianza in cui si cimenta Levi non appena tornato in Italia nell’ottobre 1945 (Vanda Maestro, catturata insieme a lui, morirà ad Auschwitz) - sempre è sul concetto di ambiguità che indugia Luzzatto.
Credo possa ritrovarsi qui la radice delle due “ossessioni” dell’autore per la Resistenza e per Primo Levi, quasi che di fronte a eventi e personalità cui deve alcuni punti fermi della sua formazione culturale, gli risultassero troppo stretti i panni dello storico per addentrarsi nei misteri della natura umana. È come se Luzzatto avvertisse il bisogno di rivolgere contro Primo Levi la teoria della “zona grigia”, magistralmente teorizzata ne I sommersi e i salvati da quest’ultimo, riducendola a logora metafora sulle infinite sfumature tra il bianco e il nero.
È certo avvincente il suo racconto dei partigiani e dei loro persecutori tra le valli alpine e la pianura, ma non aggiungerebbe nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento.
È sulla personalità tormentata di Primo Levi, alla fine, non accontentandosi della sua rigorosa testimonianza, che l’autore si concentra. Per dimostrare cosa? Luzzatto rintraccia l’eco tragico di quell’alba valdostana in alcuni cenni iniziali di Se questo è un uomo; e poi nell’amarezza della poesia dedicata da Levi ai Partigia, il termine gergale con cui in Piemonte venivano chiamati i combattenti antifascisti. Diretta è, infine, l’analogia fra l’episodio di «giustizia sovietica» (parole di Luzzatto) perpetrato il 9 dicembre 1943 sul Col de Joux e l’eliminazione del giovane ribelle Fedja ad opera della banda partigiana ebraica di Ulybin, così come Levi l’ha narrata nel romanzo Se non ora, quando?
Quali conseguenze dovremmo noi osare trarne, vincendo il disagio e abusando dell’indiscrezione, sulle scelte di vita (o perfino di morte) di Primo Levi? Stiamo parlando di un intellettuale sempre misurato nei suoi giudizi storici, a costo di tenersi dentro il suo tormento, proprio perché sentiva il dovere di restituire un giusto senso delle proporzioni agli avvenimenti immani di cui era stato testimone. Quel trauma vissuto prima della deportazione, trentadue anni dopo inciso sinteticamente ma senza autoindulgenza nel Sistema periodico, Levi aveva buone ragioni per ritenere non dovesse schiacciare la prospettiva della sua opera complessiva.
Non possono essere ingrandite, quelle dodici righe del capitolo “Oro”, pur con il dramma che custodiscono, fino a oscurare la scelta partigiana così come Levi la descrive nella pagina precedente, con la medesima, magistrale asciuttezza: «Nel giro di poche settimane (dopo lo sbarco alleato in Nord Africa e la vittoria russa a Stalingrado) ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori e operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna». Così anche Primo Levi è divenuto per noi, e resterà, un maestro.
E’ bufera sulle tesi di Sergio Luzzatto
Studiosi e ricercatori contro “Partigia”, che racconta un episodio controverso ma già noto -della Resistenza in cui fu coinvolto l’autore di “Se questo è un uomo”
Se questa è la Storia
“Su Primo Levi solo scandalismo”
di Massimo Novelli (la Repubblica , 17.04.2013)
«Il mio periodo partigiano in Valle d’Aosta è stato senza dubbio il più opaco della mia carriera, e non lo racconterei volentieri: è una storia di giovani ben intenzionati ma sciocchi, e sta bene fra le cose dimenticate. Bastano e avanzano i cenni contenuti nel Sistema periodico». Così Primo Levi scriveva nel 1980 in una lettera a Paolo Momigliano, presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Aosta. Da quei «cenni» è partito lo storico Sergio Luzzatto per costruire il suo libro Partigia. Una storia della Resistenza, subito al centro di polemiche. Nel saggio, pubblicato da Mondadori e non da Einaudi, la casa editrice di molte opere di Luzzatto, si sottolinea soprattutto l’«ossessione» che lo scrittore torinese avrebbe avuto per un episodio avvenuto in quelle settimane di vita partigiana.
Rifugiatosi in Valle d’Aosta, Levi si era unito a una banda composta da comunisti legati al Partito comunista internazionalista e da anarchici. Oltretutto, dopo pochi giorni, la formazione fu infiltrata da ufficiali fascisti inviati dai caporioni aostani della Repubblica di Salò. Le spie, addirittura, ben presto assunsero il comando della banda, fino a consegnare quei ragazzi nelle mani dei loro camerati nazifascisti.
La presunta «ossessione » dell’allora giovane dottore in chimica, com’era Primo Levi, sarebbe stata originata dall’avere appreso della fucilazione da parte dei partigiani di due compagni, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, accusati di furto. Avvenne quando nella formazione si erano già insediati i fascisti
La vicenda rievocata da Luzzatto, così come le circostanze che il 13 dicembre del 1943 portarono all’arresto e quindi alla deportazione dell’autore di Se questo è un uomo, sono state presentate da Paolo Mieli sul Corriere della Sera come verità nascoste per anni da una certa «retorica della Resistenza». A onor del vero, però, nel 2008 il ricercatore piemontese Roberto Gremmo ne aveva dato un ampio resoconto sulla rivista Storia ribelle.
E, qualche mese fa, lo scrittore Frediano Sessi le ha raccontate diffusamente nel libro Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), senza prestarsi peraltro a operazioni in odore di “revisionismo storico”. Già: perché proprio il “revisionismo”, per giunta esercitato su Levi, morto nel 1987, sembra essere l’elemento principale colto da quanti, tra storici e studiosi, hanno seguito il dibattito che ha preceduto l’uscita del volume di Luzzatto.
Marco Revelli, figlio del partigiano Nuto, e autore dell’Einaudi al pari di Luzzatto, non esita a parlare di «uso scandalistico della storia». E aggiunge: «Non ho letto il libro. Nell’operazione mediatica per presentare il libro di Luzzatto, comunque, colpisce la sproporzione fra gli eventi, minimi, e il rilievo dato a questi. Mi sembra un’operazione dettata dal bisogno ossessivo di sensazionalismo, che è altra cosa dalla pratica storiografica. Detto questo, c’è poi un uso disumano di Primo Levi, un indagare in modo indiziario nelle pieghe della sua coscienza». È questo «uso» di Levi, in definitiva, che avrebbe indotto alcuni vecchi einaudiani a sconsigliare la pubblicazione del volume di Luzzatto, lasciandolo alla Mondadori? La casa dello Struzzo nega, ma il dubbio rimane.
Come restano i dubbi sull’interpretazione delle parole di Levi sulla fucilazione di Oppezzo e Zabaldano. Frediano Sessi ritiene che «negli accenni contenuti nel Sistema periodico, oltre a non esserci alcun suo giudizio negativo sulla Resistenza, esprime invece il dolore per la morte dei due ragazzi, probabilmente autori di furti, perché facevano parte della stessa comunità umana in cui era entrato lui. Ecco perché se ne sentì coinvolto, quasi corresponsabile ». Oppezzo e Zabaldano, a ogni modo, dopo la Liberazione furono fatti passare per martiri della Resistenza. Sessi lo spiega col fatto che «nessuno aveva più saputo niente di loro: si credette, pertanto, che fossero caduti in combattimento».
Anche lo storico Giovanni De Luna è molto critico: «Non accetto nel revisionismo questa continua enfasi sulla rottura della cosiddetta “vulgata resistenziale”, sulle scoperte di “verità tenute nascoste”. Sono argomenti privi di fondamento. Tutto ciò era emerso da tempo, fin dal dibattito degli anni Settanta sulla Resistenza. Ad alcuni che oggi scrivono di Resistenza, gente che si è formata nel dibattito degli anni Novanta, rimprovero la mancanza di consapevolezza dei contesti storici».
Ernesto Ferrero, a lungo dirigente dell’Einaudi e che a Levi ha dedicato vari studi, è altrettanto severo: «Capisco che una vicenda così intimamente dostoevskiana possa appassionare il narratore che sonnecchia in ogni storico. Ma mi pare di ravvedere nello sviluppo anche mediatico che se ne è fatto, una specie di uso improprio di estrogeni storiografici ». Conclude Ferrero: «Proprio perché Levi non ha creduto alla retorica della Resistenza, era profondamente amareggiato dalle furbizie del revisionismo. Antropologo scrupoloso e geniale, sulle scelte etiche non transigeva. E anche da questo episodio esce più grande che mai».
Primo Levi su «un oceano dipinto»
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, 19 giugno 2011)
Primo Levi ha parlato molto di sé, nei quarant’anni compresi fra la pubblicazione di Se questo è un uomo e l’abbreviata fine della sua vita. Tuttavia, c’è una dimensione del suo racconto che noi continuiamo a ignorare per la maggior parte: è la dimensione duale (e intima, o comunque più privata che pubblica) del Levi scrittore di lettere. Fino a oggi l’epistolario è rimasto disperso, e quasi interamente inedito. Da qui l’importanza delle trouvailles, i rinvenimenti fortunosi. Come la lettera pubblicata in questa pagina, risalente al maggio 1965 e collegata a una precisa circostanza editoriale: la pubblicazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti della traduzione inglese de La tregua.
Due anni prima, nel 1963 (sedici anni dopo l’esordio ben poco fragoroso di Se questo è un uomo, e cinque anni dopo la più fortunata riedizione Einaudi), l’uscita della Tregua aveva dischiuso a Levi le porte del riconoscimento letterario: terzo classificato al premio Strega, vincitore del premio Campiello. Il racconto dell’avventuroso ritorno da Auschwitz - oltre sei mesi nel 1945 per ritrovare l’Italia, dopo un periplo attraverso la Polonia, la Russia, l’Ucraina, la Romania e l’Ungheria - aveva conferito a Levi, chimico di professione, lo status non più soltanto di un memorialista del Lager ma di un narratore a pieno titolo. E non soltanto in Italia, anche all’estero. Mentre le edizioni britannica e americana di Se questo è un uomo erano uscite, fra 1959 e 1961, per due editori di nicchia, a tradurre La tregua nel ’65 erano ormai due case di prima grandezza, Bodley Head e Little Brown.
Nonostante questo, entrambe le edizioni conobbero un fiasco: per sfondare presso il pubblico anglosassone Levi avrebbe dovuto attendere gli anni Ottanta, con la traduzione del Sistema periodico. Invece, fin dal 1961 aveva sfondato in Germania con la traduzione tedesca di Se questo è un uomo: cinquantamila copie vendute in pochi mesi... E un dialogo diretto con decine di lettori tedeschi, che avevano voluto scrivere all’autore e ai quali l’autore aveva risposto, inaugurando scambi epistolari anche distesi nel tempo.
Tale essendo il contesto d’origine della lettera ritrovata, in che cosa la missiva partita da Torino il 23 maggio 1965 verso un indirizzo postale del Massachusetts può contribuire significativamente alla nostra conoscenza di Primo Levi? L’inedito si rivela prezioso sia per documentare il rapporto con uno scrittore-chiave del suo pantheon letterario, il poeta romantico inglese Samuel T. Coleridge, sia per illuminare la genesi di un progetto editoriale che Levi coltivò nei primi anni Sessanta e che - dopo essere fallito in quanto progetto a sé stante - sarebbe sfociato nell’ultimo capitolo dell’ultimo suo libro.
Che Coleridge sia stato, con la tardosettecentesca Ballata del vecchio marinaio, un autore-feticcio di Primo Levi, è cosa nota. Più volte Levi ha descritto il se stesso del 1946, straziato reduce di Auschwitz, come «simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi». Quando Levi avesse letto la Ballata per la prima volta non è dato di sapere con esattezza. Di sicuro, nel 1984 il sentimento di identificazione con il personaggio di Coleridge lo avrebbe spinto a intitolare con un verso del poemetto la principale sua raccolta di poesie, Ad ora incerta. E nel 1986 lo avrebbe spinto a riprendere (nell’originale inglese) l’intera strofa di quel verso come esergo del suo libro fondamentale e testamentario, I sommersi e i salvati.
La lettera del 1965 pubblicata qui per la prima volta [cfr.: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-06-17/primo-levi-oceano-dipinto-173901.shtml?grafici] offre un complemento d’informazione tanto suggestivo quanto istruttivo alla storia del rapporto di Levi con Coleridge. Attesta infatti come già all’epoca della traduzione inglese della Tregua lo scrittore torinese avesse immaginato di intitolare un suo libro con parole tratte dalla Ballata del vecchio marinaio. A fronte dei due titoli scelti rispettivamente dall’editore britannico e dall’editore statunitense - il letterale, ma «sofisticato» The Truce e il «molto insipido» The Reawakening, il risveglio - l’autore ne avrebbe preferito un terzo che trovava «molto bello», Upon a painted Ocean: «sopra un oceano dipinto», il verso n. 118 del poemetto di Coleridge. Così, già nel ’65 l’odissea del ritorno da Auschwitz si presentava a Primo Levi nella forma di una navigazione (il titolo italiano da lui inizialmente pensato per la Tregua era Vento alto) che attribuiva al marinaio il ruolo insieme fatidico e fatale dell’unico superstite.
Non meno notevole la seconda parte dell’inedito, quella relativa al «progetto tedesco». In pratica, si trattava dell’idea di raccogliere in volume le lettere che l’autore aveva ricevuto dai lettori tedeschi di Se questo è un uomo, unitamente alle sue proprie lettere di risposta. Era questo un progetto che Levi aveva presentato all’Einaudi nel gennaio 1963 e che la casa editrice aveva sottoposto all’attenzione del suo germanista di riferimento, Cesare Cases. Il quale Cases, benché fosse da sempre un estimatore di Levi, aveva poi dimostrato (apprendiamo dall’inedito) ben poco interesse. Da qui - «il campo è libero, e le lettere sempre a Sua disposizione» - la scelta di Levi di rimettere il «progetto tedesco» nelle mani di un suo interlocutore d’oltreoceano: il destinatario della missiva ritrovata, Kurt H. Wolff.
Ecco un nome che fa capolino per la prima volta, o quasi, nella ricostruzione del paesaggio biografico di Primo Levi. Nome peraltro assai noto agli studiosi di sociologia, se è vero che Wolff, nato in Germania nel 1912 ed emigrato in America nel 1939, fu esponente fra i maggiori della scuola sociologica tedesca in esilio, e sarebbe giunto negli anni Settanta a occupare la carica di presidente dell’American Sociological Association. Levi lo aveva probabilmente conosciuto fra il 1963 e il ’64, quando il professore della Brandeis University aveva trascorso un anno sabbatico in Italia: quell’Italia dove era emigrato ventunenne nel 1933, dopo la presa al potere di Hitler, e dove si era laureato a Firenze con una pioneristica tesi di sociologia della cultura.
La buona memoria
Dagli scienziati agli storici così continua la lezione di Levi
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 27 aprile 2011)
Nel tardo pomeriggio dello scorso 11 novembre, a Torino, il professor Massimo Bucciantini prendeva la parola sul tema «Esperimento Auschwitz». La sua era la «Lezione Levi» per il 2011: la seconda di un ciclo organizzato dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e inaugurato nel 2010 da un italianista di Cambridge, Robert Gordon.
Come già Gordon, anche Bucciantini teneva la sua lezione nell’aula magna (intitolata a sua volta a Primo Levi) della facoltà di Scienze dell’Università di Torino: una sala vasta e austera, sormontata da una riproduzione della tavola mendeleviana degli elementi, nota a tutti i chimici e a tutti i lettori leviani sotto il nome di «sistema periodico». Gli scranni dell’aula erano fittamente popolati da alcune classi del liceo scientifico Galileo Ferraris, docenti e studenti universitari, giornalisti, membri della Comunità ebraica, funzionari della casa editrice Einaudi, lettori (chissà quanto «semplici»).
Un’altra Italia, meno nota a giornali e tv; un’Italia, come Levi diceva di sé, «normale, di buona memoria». Alligna una vasta e sospetta retorica che fa apparire la memoria, secondo i casi, necessaria, doverosa, faticosa, rituale, vana: ma come possa essere «buona» è diventato difficile ricordarselo.
Un esempio - non nella teoria ma nei fatti - viene proprio dal Centro Primo Levi, che è stato fondato tre anni fa da diversi enti pubblici e privati (dalla Regione Piemonte alla famiglia Levi, passando per la Compagnia di San Paolo e la Comunità Ebraica); è presieduto da Amos Luzzatto e diretto dallo storico Fabio Levi (non un parente).
Robert Gordon, che a Primo Levi e alle Virtù dell’uomo normale aveva già dedicato un importante libro (pubblicato in Italia da Carocci), ha fatto notare come nel linguaggio leviano ricorresse l’aggettivo «utile». Le anime belle considerano l’«utilità» come una qualità disdicevole perché non disinteressata. Ma rivestire interesse non è forse un’ottima cosa, nel mondo per nulla diafano delle idee?
Per la memoria, proprio l’utilità è una sorta di condizione di senso: notarlo ha grande importanza, nei tempi in cui per memoria si può intendere anche una macchina che comprime in pochi millimetri quadri intere biblioteche (di cui non sempre sappiamo cosa farci).
Il Centro conserva una buona memoria dello scrittore a cui è intitolato, perché produce cose utili: un sito (www.primolevi.it), una biblioteca, un archivio, l’annuale «Lezione Levi», una collana editoriale con Einaudi (è appena uscito il libro che raccoglie, ampliata e in versione sia italiana sia inglese, la lezione di Bucciantini: sarà presentato al Salone del Libro di Torino). Ecco a disposizione tutte le opere di Levi, traduzioni, saggi, recensioni, audiovisivi... Si tratta di conservare tali materiali o di renderli utili?
La bibliografia su Primo Levi, che riceve cure strenue e minuziose dall’italianista Domenico Scarpa, raccoglie ogni testo, anche minimo, dedicato a Primo Levi: lo censisce, lo indicizza con parole-chiave e lo mette a disposizione degli studiosi, tramite un catalogo che si consulta liberamente nel sito.
Negli anni Sessanta e Settanta, per studiare Primo Levi bastava andare nel centro (urbano) di Torino e fare qualche telefonata e qualche passeggiata tra librerie, biblioteche e archivio Rai ed Einaudi.
Passano gli anni, si accumulano testimonianze sempre più frammentate e disperse per il mondo: oggi, per renderle utili occorrono strumenti telematici e informatici, la memoria e il lavoro di una persona sola non basterebbero.
Proprio la nozione informatica di «memoria» ci aiuta a comprendere che la memoria non è solo conservazione, ma è anche energia, velocità, selezione, possibilità estesa di confronto e collegamento. Né l’utilità va immaginata come una sorta di imbuto che porta energia e risorse dalla collettività a un gruppo ristretto di studiosi.
È in realtà una clessidra, o un prisma in cui la luce converge per venirne ritrasmessa e irradiata. Come sono stati impiegati i mezzi del Centro Studi, da Massimo Bucciantini? Storico della scienza all’università di Siena-Arezzo, Bucciantini si era già cimentato sulla letteratura italiana del Novecento con un libro su Italo Calvino e la scienza (edito da Donzelli).
Ora, oltre a ricordare i rapporti che tra Calvino e Levi intercorsero proprio sui temi scientifici, ha descritto Levi come lo scrittore che ha saputo adoperare gli strumenti sperimentali del «separare, pesare e distinguere» e ha così raccontato Auschwitz non solo come inferno angoscioso, anus mundi, orrore storico, ma come sede di un esperimento scientifico estremo sull’uomo.
Riproducendo nella sua mente e nella sua scrittura tale esperimento nazista e impegnando per i quarant’anni che separano Se questo è un uomo da I sommersi e i salvati la propria intelligenza analitica per coglierne gli aspetti essenziali, Primo Levi ha scoperto l’esistenza della «zona grigia», isolata come un nuovo elemento chimico da posizionare nel Sistema Periodico delle costanti antropologiche: il male non si circoscrive, non si separa dal suo opposto, non è macroscopico ma microscopico.
Questo non serve (solo) agli italianisti per capire Levi. Ai suoi tempi leggere Se questo è un uomo è servito all’anti-psichiatra Franco Basaglia per il suo impegno nella lotta contro la segregazione manicomiale, vinta con la legge che porta il suo nome. Oggi leggere Levi serve per capire, come conclude Bucciantini, che «Quel mondo laggiù e il nostro sono uniti da un vasto e imprevisto camminamento».
Colpiti da un’epidemia di amnesia gli abitanti di Macondo consultano etichette per ricordarsi il nome degli oggetti. Ah, quanto minore scrittore e anche meno fine semiologo di Levi è Gabriel García Márquez! Se la memoria funzionasse così, davvero terremmo solo nomina nuda.
Se Levi e Auschwitz fossero etichette e se dovessimo rileggere Levi al fine di ricordarci di Auschwitz staremmo freschi. Neppure capiremmo alcuna delle sue parole: perché come non c’è etichetta fuori da un sistema di memoria, non c’è memoria fuori dal desiderio di comprendere ciò che non abbiamo mai conosciuto, o fuori dalla necessità di esprimerlo.
L’intervista ritrovata.
Il grande scrittore in una conversazione inedita del 1973 con un giovane studente. «Oggi “Se questo è un uomo” lo riscriverei completamente, per mettere in luce le responsabilità italiane nella Shoah»
Primo Levi «Dal fascismo ad Auschwitz c’è una linea diretta»
La politica:
«Il mio libro? Oggi verrebbe fuori una cosa completamente diversa: metterei in risalto il suo valore politico...»
Nel campo:
«Immagazzinavamo tutto voracemente, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri»
Invenzioni tricolori:
«Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana»
I giovani:
«Queste cose vengono sentite come arcaiche, come i garibaldini, come la rivoluzione francese, qualcosa di molto lontano...»
di Marco Pennacini (l’Unità, 26.01.2011)
Primo Levi, come mai ha voluto scrivere «Se questo è un uomo»?
«Perché ero appena ritornato dalla prigionia, e avevo un tremendo bisogno di raccontare queste cose, un bisogno che diventava ossessione.(...) Nel lager cercavo di immagazzinare tutto, di mettere tutto in una specie di tasca».
Allora vedevi già con un occhio più distaccato quel che ti succedeva...
«No, non era possibile. Nel lager c’era il problema di sopravvivere. Sì, avevo una vaga idea di sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno. Addirittura quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho scritto qualche pagina».
Che poi hai perso...
«L’ho persa, l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi l’avrei persa».
Certo.
«Ma era molto importante per me allora la possibilità di diventare un testimone, lo sentivo già allora. Non solo io, ma un po’ tutti, tutti quelli con cui si parlava dicevano: “È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo le sappia queste cose”. Avevamo piena consapevolezza: però non è che questo ci permettesse di fare gli esploratori del lager. Non era possibile, c’erano questioni immediate, come quello di trovare un pezzo di pane, di proteggersi, di aver salva la vita. Quindi io e altri immagazzinavamo tutto voracemente, tutte le esperienze. Anzi, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri. Ed effettivamente cadevano su un terreno buono, perché queste cose sono indimenticabili. Io ancora adesso mi ricordo le facce di gente vista trent’anni fa».
Le facce?
«Le facce. Tanto che quando mi è successo, come mi è successo, di ritrovarne qualcuno, l’ho subito riconosciuto, e lui me. Ho riconosciuto, ho ritrovato Pikolo, quello del canto di Ulisse... Jean...»
E questa discussione su Ulisse, si è svolta veramente?
«Non c’è niente di inventato nel libro. Non c’è nulla di inventato. non una parola.(...) L’unica autocritica che potrei fare è quella che non ho messo in luce abbastanza questa validità politica del libro».
Parli di “Se questo è un uomo”?
«Se non lo avessi scritto allora lo scriverei adesso».
Ma lo scriveresti con le stesse intenzioni?
«No».
Come un documento?
«No: lo scriverei, in primo luogo, con lo stile di un uomo che ha trent’anni di più, e trent’anni di più vogliono dire molta esperienza in più e molta vitalità in meno. Quindi non so cosa verrebbe fuori: verrebbe fuori una cosa completamente diversa. Soprattutto però lo scriverei oggi con riferimento preciso al fascismo di oggi che nel libro non c’è. Quando ho scritto Se questo è un uomo il fascismo era finito, non c’era più, era chiaro come il sole che non c’era. Era finito di fatto, era stato sepolto, come partito politico non c’era né in Italia né in Germania. Ma se lo scrivessi oggi... userei il mio libro come uno strumento».
Lo strumentalizzeresti, diciamo...
«Sì, già lo userei come strumento. Lo faccio quando vengono i ragazzi a parlarmi. Tendo a mettere in chiaro che c’è una linea diretta che parte dalle stragi di Torino del ’22, Brandimarte (capo delle squadre d’azione fascista: è lui a guidare la strage che a Torino, il 18 dicembre del 1922, porta alla morte di 14 antifascisti e alla distruzione della Camera del Lavoro. Nel novembre del 1971, al funerale, un reparto di 27 bersaglieri del 22° reggimento fanteria della divisione Cremona, al comando di un ufficiale, rende gli onori militari alla sua salma, ndr), e finisce ad Auschwitz. C’è una continuità abbastanza evidente».
Sì, c’è una continuità, ma hai detto che lo sterminio riguardava i tedeschi, no?
«Stiamo parlando di qualcosa che è stato inventato in Italia e perfezionata in Germania»
Ah! è stata inventata in Italia...
«Le prime stragi fasciste sono italiane... sono torinesi». Pensavo che... «Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana».
Ho capito.
«Il fascismo è un brevetto italiano, eh!»
Purtroppo...
«Torinese, voglio dire. Insomma la strage del ’22.... Era una caccia, una caccia per le strade. Non so se hai letto qualcosa in proposito...».
Sì, qualcosa...
«Brandimarte (...), è morto nel suo letto (...). È stato assolto per insufficienza di prove».
Sì, ma c’è tanta gente ancora che gira...
«Sì, veterani».
Sì,sì.
«Federali. Capi di gabinetto, capi giunta, Almirante: appunto, se scrivessi oggi, metterei più in chiaro questa cosa (...). Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che meritasse la pena di documentare certe cose perché erano finite. Adesso non sono più finite, bisogna parlarne di nuovo».
Allora diciamo che lo scriveresti sotto un profilo meno scientifico, più...
«No, penso che non toglierei niente, però aggiungerei molto».
Ah! capisco, e perché non lo fai?
«Perché non si può scrivere due volte lo stesso libro. (...)Come ti dicevo prima, che c’è una linea diretta fra Brandimarte e Auschwitz. Questa linea non finisce ad Auschwitz, continua in Grecia, è continuata in Algeria con i francesi. È continuata in Unione Sovietica, puoi dire di no?» (...)
A proposito di “Se questo è un uomo” e di “La tregua”: credi che servano, diciamo, per educare ad una certa coscienza?
«Dipende dall’insegnante. Il fatto stesso che venga scelto quel testo, testimonia che l’insegnante ha delle buone intenzioni, cosa poi ne nasca non so dirtelo. Ho l’impressione che in generale perché vengono molti ragazzi qui, o mi telefonano per avere delle informazioni che queste cose vengono sentite, appunto, come passato remoto, una cosa un capitolo arcaico, come i garibaldini insomma, come la rivoluzione francese, una cosa molto, molto lontana. Infatti è abbastanza lontana nel tempo, ma... solo nel tempo è lontana»... (...)
Con che spirito l’hai scritta “La tregua”?
«Ho scritto La tregua nel ‘61-‘62 quando era appena crollato il mito della Russia monolitica, della Russia paese del socialismo, della Russia perfetta, paradiso secondo i comunisti e inferno secondo gli americani, o secondo i nostri democristiani. Erano due visioni talmente manichee, talmente assurde, sia l’una sia l’altra, che mi sembrava molto importante raccontarla così come io l’avevo vista».
Nasce a Torino un istituto internazionale dedicato allo scrittore
Primo Levi, un centro studi e la traduzone in arabo
"Se questo è un uomo" diffuso nella lingua del Corano e in farsi, insieme ad Anna Frank, Shlomo Venezia e vari altri testi, da un sito che vuol combattere il negazionismo
di Massimo Novelli (la Repubblica 10.11.2009)
TORINO. Una delle ultime traduzioni di Se questo è un uomo è in arabo. A curarla e a metterla in rete è stata l’associazione di scrittori, diplomatici e intellettuali "Projet Aladin", che ha promosso un sito di divulgazione e una biblioteca anche nella lingua del Corano e in farsi con vari testi sulla Shoah, tra cui, oltre a Levi, Il diario di Anna Frank e Sondercommando di Shlomo Venezia: ad avere la coraggiosa idea è stato Abraham Radkin, capo della britannica Human Rights Foundation, che ha coinvolto molti altri nel progetto, dal presidente del Senegal Abdoulaye Wade alla principessa del Bahrain Haya al-Khalifa, all’ex capo di stato francese Jacques Chirac, Gerhard Schroeder e l’Unesco. Oltre alla valenza culturale e a suo modo politica dell’iniziativa, tesa a contrastare nell’universo islamico il diffuso negazionismo, come sottolinea Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, la pubblicazione online del libro, dato alle stampe da una piccola casa editrice torinese nel 1947, è un’ulteriore conferma della modernità e del valore di Primo Levi, uno dei narratori italiani più letti nel mondo.
Per raccogliere le edizioni delle sue opere, le numerose traduzioni (più di 800, in 30 lingue), la bibliografia critica e ogni altra documentazione sulla sua figura, compreso un ricco sito Internet e in prospettiva la possibile acquisizione del suo archivio, è stato creato a Torino, la città dove nacque, un Centro studi internazionali a lui dedicato. Ospitato in uno dei palazzi dei Quartieri militari progettati da Filippo Juvarra, l’organismo è presieduto da Luzzatto ed è diretto dallo storico Fabio Levi (soltanto omonimo dello scrittore). Entra ora nel vivo delle attività, peraltro nell’anno in cui cade il novantesimo anniversario della nascita dell’autore de I sommersi e i salvati, che morì nel 1987. I soci fondatori sono la Regione. il Comune e la Provincia, la Compagnia di San Paolo, la Comunità ebraica, la Fondazione per il libro, la musica e la cultura, i figli di Primo Levi. Tra i componenti del consiglio direttivo ci sono Bianca Guidetti Serra ed Ernesto Ferrero.
Il centro studi, come spiegano i promotori, "punta a diventare l’interlocutore di riferimento in Italia e all’estero per chi intende approfondire la conoscenza dello scrittore torinese". Tutto ciò è reso possibile dal fondo bibliografico di circa 2 mila titoli, usciti dal 1947 in avanti, in italiano, francese, inglese, tedesco e spagnolo, che è già consultabile presso la biblioteca dell’Istituto storico della Resistenza di Torino. Sul sito del centro, quindi, si può accedere alla bibliografia online, che raccoglie le diverse edizioni italiane dei suoi volumi, i riferimenti a quelle straniere e una descrizione analitica del patrimonio di testi critici finora censito. È stata realizzata da Domenico Scarpa e da Maurizio Vivarelli.
Primo Levi fu un romanziere, un poeta, un saggista, un chimico (lavorò per anni alla fabbrica Siva di Settimo Torinese), un intellettuale dai molteplici interessi. Sempre pronto a ragionare, soprattutto con i giovani, sulla sterminio degli ebrei e degli altri deportati, sui mali, sui vizi e sui drammi del nostro tempo. E fu ovviamente un testimone d’eccezione dell’Olocausto, così come uno dei pochi sopravvissuti, dunque un "fortunato". Ma un uomo che scampò all’inferno dei lager nazisti, poteva definirsi tale? Levi meditò a lungo su questo tema, indagando l’intreccio di casualità e di sistematicità, di "normale" burocrazia e di pianificazione degli eccidi, presente nella Shoah.
Un argomento centrale nel suo pensiero, in sostanza, che oggi verrà affrontato da Robert Gordon, docente di Letteratura italiana a Cambridge, nel corso della prima "Lezione Levi". Lo studioso inglese parlerà pertanto sul "ruolo e sul significato del concetto di "fortuna" o di "casualità" nell’opera di Levi, che ne fu perennemente affascinato e preoccupato". La lezione si terrà ogni anno alla facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università torinese, dove Levi riuscì a laurearsi, nonostante i diktat delle legge razziali, all’inizio degli anni Quaranta. Ogni appuntamento sarà incentrato ovviamente su aspetti diversi della sua vita e della sua attività; la lezione verrà poi pubblicata dall’Einaudi, la casa editrice di tutti i suoi libri che tuttavia, nel dopoguerra, rifiutò all’inizio la pubblicazione del manoscritto di Se questo è un uomo, edito invece da De Silva.
Primo Levi Un racconto per capire cos’è l’orrore
di Stefano Giovanardi (la Repubblica, 23.01.2009)
In occasione della giornata della memoria tornano, con il quotidiano e il settimanale, i capolavori dello scrittore che narrò l’inferno di Auschwitz e l’abiezione dell’uomo
«Ho vissuto la mia vita nel Lager più razionalmente che ho potuto, e ho scritto Se questo è un uomo per tentare di spiegare agli altri, e a me stesso, gli eventi in cui mi ero trovato coinvolto, ma senza particolari intenti letterari». Così nel 1986 Primo Levi rispondeva a Philip Roth, che lo era andato a trovare a Torino per intervistarlo. In quelle poche parole c’è forse per intero la formula principe dell’impegno etico, civile ed estetico dello scrittore: capire e spiegare, anche ciò che è mostruosamente incomprensibile e inspiegabile; esercitare ad ogni costo la razionalità al suo livello più alto, che è la capacità di discernere, classificare, sistematizzare, anche in situazioni estreme, tragicamente inaudite per l’essere umano e per la sua storia; e non "mistificare" i risultati di quella strenua attività con la consolazione della dimensione estetica, con quelli che egli chiamava «intenti letterari»: quasi che la quota di falsificazione geneticamente connessa - per quanto discreta essa sia -, alla letteratura mal si accordasse con la testimonianza autobiografica, che per poter «spiegare agli altri» doveva essere innanzitutto integralmente veritiera.
E infatti bisognerà aspettare il 1982 per veder uscire il suo primo e unico vero "romanzo", quel Se non ora, quando? frutto di una «scommessa» con se stesso, come rivela ancora a Roth: «Dopo così tanta autobiografia più o meno camuffata, sei o non sei uno scrittore in piena regola, capace di costruire un romanzo, creare personaggi, descrivere paesaggi che non hai mai visto? Provaci!».
Ma si trattava, appunto, di una scommessa, quasi di un gioco, seppur ancora tutto impregnato della tragedia dell’Olocausto (di nuovo a Roth: «Avevo intenzione di divertirmi scrivendo una storia "western", ambientata in un paesaggio insolito per l’Italia»). Ciò che per lui contava davvero restava la comunicazione in diretta del suo sforzo, per molti versi eroico e forse infine vano, di far entrare nel dominio della ragione sovrana gli orrori di cui aveva dovuto esser testimone.
Di famiglia appartenente alla borghesia ebraica torinese, non ancora uscito dall’adolescenza, gli era toccato il trauma dell’antisemitismo e poco dopo delle leggi razziali. «I nostri compagni di scuola "ariani" ci prendevano in giro», racconta allo scrittore americano, «dicendo che la circoncisione equivaleva alla castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendevamo a crederci». Ma anche su questi punti così dolenti, mantiene intatta la sua onestà intellettuale. Due anni prima aveva infatti detto a Tullio Regge, nel bellissimo dialogo pubblicato da Einaudi: «Di tutti i miei compagni d’università, studenti e studentesse, non ce n’è stato uno che mi abbia chiamato "ebreo". Hanno tutti percepito le leggi razziali o come una sciocchezza o come una crudeltà, o tutt’e due». E aveva appena riconosciuto: «Ho avuto la laurea con lode e sono convinto che questa lode mi sia stata data per un 40 per cento per merito mio e per il resto perché i professori, quasi tutti vagamente antifascisti, avevano trovato quel modo per esprimere il loro dissenso».
Con lode, com’è noto, si era laureato in chimica nel 1941, a ventidue anni. Ma prima la guerra e poi Auschwitz gli impedirono di diventare lo scienziato che avrebbe voluto. Si accontentò perciò di essere un «tecnico» e si applicò sempre al suo lavoro con dedizione e rigore: come il muratore italiano suo compagno d’internamento, che odiava i nazisti, ma che se doveva costruire un muro nel campo, lo faceva con assoluta perizia e precisione, non certo per complicità con gli aguzzini, ma per «dignità professionale». E Faussone, l’operaio suo dichiarato alter ego ne La chiave a stella, è appunto il campione di un culto del lavoro ben superiore a qualsiasi consapevolezza politica, a qualsiasi scelta di campo ideologica: un culto squisitamente morale, che ha a che vedere con la missione esistenziale dell’uomo, sul senso del suo lasciare un segno, del suo inviare, agendo, un messaggio al microcosmo che lo attornia, e che però è specchio dei vari macrocosmi sovrordinati, così come l’individuo dovrebbe sempre essere specchio dei tratti migliori dell’umanità.
Coscienza civile, si è detto. Ma per Primo Levi le cose erano forse addirittura più semplici. Per lui bastava esercitare la ragione, al meglio delle sue facoltà analitiche e sintetiche, e tutto sarebbe venuto di conseguenza. Lui intanto, con la ragione, è riuscito, se non a sconfiggere, almeno a ritenere possibile Auschwitz, e dunque a integrarlo nell’eterna vicenda di orrori e meraviglie che scandisce la storia dell’uomo. Uomo lo scrupoloso muratore e uomini i suoi carnefici. Se questo è un uomo, appunto.
Non è stato ancora del tutto sciolto il dubbio sul volo nella tromba delle scale della sua casa torinese che nel 1987 ha posto fine alla sua vita: se si sia cioè trattato di suicidio o sciagurato incidente. I più propendono per la prima ipotesi, ma c’è ancora qualcuno cui piace pensare che la volontà indomita di testimoniare, capire e spiegare non avrebbe consentito allo scrittore una fuga così eclatante e definitiva. Certo, a leggere la più volte citata conversazione con Philip Roth, avvenuta appena un anno prima della morte, nulla fa presagire un esito così drammatico. Ma se anche infine avesse ceduto, dichiarando a se stesso e al mondo una sconfitta invano elusa per quarant’anni, rimarrebbe intatto, e anzi forse ulteriormente esaltato, il valore etico del suo messaggio: anche se si è condannati dentro dalla violenza cieca degli uomini, si può continuare a sentirsi uomini. E nell’uomo sperare.
Quel testimone che tutti devono leggere
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 23.01.2009)
«La chiarezza come partito preso ha sospinto l’intera esistenza di Primo Levi, ricca di lucidità e chiaroveggenza. Amava guardare il mondo: sentirlo, comprenderlo. Guai, però, a parlare di facoltà profetiche. Sapeva che nessuno può prevedere il futuro. E non si propose mai come profeta o modello, nozioni che aborriva. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, scrive che bisogna diffidare di chi crede di possedere la verità». Questo, secondo la filosofa francese Françoise Carasso, è il cuore dell’opera di Levi: la volontà di dare forma all’informe, il cammino che scansa zone oscure, l’idea di procedere con la scansione limpida e netta di uno scienziato, perché «lo scrittore ha gli stessi doveri dell’uomo di scienza. Levi, che era un chimico, rifiutò sempre la cesura tra cultura scientifica e letteraria». Esperta di filosofia della scienza e docente universitaria a Orléans e a Parigi, la Carasso si è applicata molto allo studio della vita e della produzione di Levi, curando tra l’altro un’edizione commentata di Se questo è un uomo per gli studenti liceali francesi. Nel sobrio e luminoso saggio Primo Levi. Le parti pris de la clarté, appena uscito in Italia col titolo La scelta della chiarezza (Einaudi, pagg. 197, 18 euro), affronta l’universo dello scrittore nella prospettiva della «norma di trasparenza» che egli s’impose, facendone una delle ragioni del suo fertile umanesimo.
Che cosa l’ha catturata di Primo Levi?
«La simpatia e il calore dell’essere umano, che non ho mai conosciuto, ma che per me è come una presenza familiare. Levi dà l’impressione di capire qualcosa di fondamentale sulla resistenza umana. E la modestia che esprime scrivendo trasmette la sua unicità. È umanamente ben radicato nella sua opera, ma al tempo stesso sa cancellarsi, sparire. Ciò che mi ha spinto a scrivere su di lui sono state le modalità della sua morte, scioccanti. Si parlò di suicidio, un atto che Levi mostrò sempre di disapprovare. Detestava l’oscurità della scrittura di Paul Célan, al quale rimproverò con violenza d’essersi suicidato. Come se tra il buio dello stile di Célan e il suo suicidio ci fosse stato un nesso. Invece Levi cercava luce: sempre. Anche nei territori più dolorosi dell’essere. Per questo mi è incomprensibile quel suo gesto finale».
Si può definire il "messaggio" complessivo di Levi senza il rischio del semplicismo?
«Anche questo termine, "messaggio", non gli sarebbe piaciuto. Quello che più conta nella sua opera è proprio la chiarezza. Dire le cose come stanno senza abbellimenti. Non fare idoli delle persone eroiche, non condannare chi compie azioni abominevoli. Non confondere le vittime con i carnefici, ma sapere che possiamo diventare tutti carnefici. Levi sa dircelo con forza e semplicità. E con amore per la vita».
Da cosa è testimoniato quest’amore?
«Dal suo gusto della scienza. Dal suo piacere d’esserci e capire quanto lo circonda. Basta leggere un libro splendido come Il sistema periodico per percepirlo. Levi soffrì molto, ma nella consapevolezza che far parte del mondo è essenziale. Non si può caderne fuori».
L’infaticabile laboratorio della memoria
di Vera Schiavazzi (la Repubblica 18.01.2009)
«Marco, vieni, c’è Primo Levi al telefono...». Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturità in un liceo cattolico privato quando una sera dell’aprile 1978 arrivò, a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale è nata l’intervista inedita che Repubblica propone qui accanto.
Trent’anni dopo, l’autore di quella intervista è diventato magistrato, mentre a Torino è nato il centro di studi che dovrà raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore. Un lavoro affidato alla direzione dello storico Fabio Levi che procede silenziosamente, con quello stesso stile schivo e riservato che caratterizzò la vita dello scrittore e - dopo la sua morte l’11 aprile del 1987 - quella dei suoi eredi, la vedova e i figli. Ma nelle scuole di Torino e del mondo l’opera di Levi assume oggi, mentre ci si prepara alle iniziative per il Giorno della Memoria, un nuovo significato.
È alla letteratura, infatti, ma anche al cinema, alla musica, al teatro che si affida il ricordo della Shoah, ora che i testimoni in grado di parlarne diventano sempre più rari. Il 26 gennaio a Torino Ernesto Ferrero, scrittore e direttore della Fiera del Libro, ne parlerà alla giornata di studi promossa dalla comunità ebraica, con un intervento dedicato proprio allo scrittore torinese: «Primo Levi sapeva benissimo che la memoria da sola non basta, perché la memoria a suo modo è una scrittura, anzi, una ri-scrittura continua che si allontana ogni volta dal ricordo originale. La memoria è un materiale tra i tanti, e come è spiegato magistralmente ne I sommersi e i salvati, va sottoposta a un vaglio stringente, a verifiche, controprove documentarie. Solo così, facendone oggetto di un’attività di laboratorio rigorosa e continua, può essere utilea unavera antropologia della banalità del male».
Anche per questo l’intervista inedita ritrovata da Viglino ha un valore speciale, soprattutto per chi ha avuto la fortuna di raccoglierla. «La lettura di Se questo è un uomo mi aveva sconvolto - racconta Viglino, oggi giudice al Tribunale di sorveglianza di Torino -. Così, avevo dedicato a Levi la tesina che ognuno doveva preparare per l’esame finale. Ma una zia, a mia insaputa, ne fece una copia e la diede a una vicina di casa lontana parente dello scrittore. Quel compito da liceale arrivò fino a lui, gli piacque e mi telefonò. Ancora oggi, trent’anni dopo, mi commuovo pensando a quella semplicità, uno scrittore famoso che chiama un ragazzo sconosciuto».
Al telefono, Levi chiede a Viglino: «C’è qualcosa che posso fare per te? Qualcosa che ti farebbe piacere?», e l’altro non esita: «Vorrei incontrarla». «Mi invitò per il giorno dopo nella sua casa di corso Re Umberto (è l’appartamento alla Crocetta, dove Levi visse fino al giorno della morte, ndr), alle nove di sera. Mi fece accomodare sul vecchio sofà del suo studio, una piccola stanza piena di libri. Ero emozionato, febbricitante, quasi non osavo chiedergli di poter usare il registratore, ma per fortuna trovai il coraggio. Ora la sua voce - che era bellissima - è ancora lì, in una cassetta C90 da un’ora e mezza che non ho mai riascoltato dopo il lavoro fatto per scrivere l’intervista: ho paura che il nastro sia diventato fragile e possa rompersi. Passammo insieme tutta la serata, molte cose sul nastro non sono rimaste...».
«Per trent’anni - conclude Viglino - quelle pagine scritte a macchina sono rimaste nel cassetto della mia scrivania di casa, non le ho mostrate quasi a nessuno perché ne ero geloso, ogni tanto andavo a rileggerle. Ma forse sono stato egoista, ed è venuto il momento di condividerle».
"Io, scampato al lager per poterlo raccontare"
Intervista inedita di Primo Levi
di Marco Viglino (la Repubblica 18.01.2009)
"Volevo sopravvivere anche e soprattutto per testimoniare ciò che avevo visto". Comincia così, trent’anni fa, il lungo colloquio tra Primo Levi e uno studente che si preparava alla maturità con una tesina sullo scrittore. Nel flusso dei ricordi, anche la storia, mai scritta, del gesto di umanità di un kapò comunista verso un medico ebreo
Mi ha colpito il suo desiderio di rendere testimonianza sulla tragica esperienza nel lager: quando è nato questo desiderio?
«Questo desiderio, del resto comune a molti, mi è nato nel lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano: lei non troverà mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l’hanno sepolto per non sentirselo più addosso). In primo luogo c’è il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono anche altri motivi... c’è forse anche il desiderio di farsi valere, di far sapere che siamo sopravvissuti a certe prove, che siamo stati più fortunati, o più abili, o più forti».
Il punto di contatto tra i primi libri e quelli di fantascienza, mi pare possa essere la sua «indignazione», che prima è rivolta al lager e poi verso certe storture della civiltà. È giusto?
«Sì, è giusto: è una domanda che mi fanno in molti e a cui veramente non sono il più autorizzato a rispondere, perché non è detto che chi scriva sappia sempre bene "perché" scrive. Io ho due radici: una è il senso del lager e l’altra è il senso della chimica con le sue dimensioni. Avevo in mente di scrivere qualcosa sulla storia naturale ancora prima di entrare nel lager: già da studente sentivo un desiderio del genere (non come progetto chiaro e distinto, ma come vaga aspirazione) e trovavo un terreno fertile nel mio mestiere di chimico.
Perciò - dopo aver terminato Se questo è un uomo e La tregua - non è che io abbia "scritto" gli altri due libri: ho raccolto alcune idee e anche alcuni racconti che avevo già scritto prima. Per esempio, il primo racconto delle Storie naturali, quello del vecchio medico che raccoglie essenze, l’ho scritto prima di Se questo è un uomo. E... probabilmente sì, benché il tema sia diverso, anche gli altri scritti risentono dell’esperienza del lager, in una forma molto indiretta, in una forma di delusione profonda, di un ritirarsi dalla vita».
Tra i personaggi che si incontrano nei suoi libri, Lei mostra particolare simpatia e indulgenza verso alcuni che incarnano una certa "furbizia" o arte di arrangiarsi, come Cesare o il Greco.
«Anzitutto questi personaggi agiscono in un contesto tutto particolare, che è quello della fine della guerra: ora, su questo fondale, direi che si può essere abbastanza indulgenti. Non ammetterei, oggi, un Greco; lo eviterei, mi terrei lontano da lui, ma in quel momento lo sentivo quasi un maestro. Egli soleva dire: la guerra è sempre. E poi ancora mi diceva: "Vedi le scarpe belle che io ho: è perché sono andato a rubarle nei magazzini dei russi. Tu sei uno sciocco, non sei andato a cercarle". Io rispondevo che pensavo che la guerra fosse finita e che i russi avrebbero provveduto. "La guerra è sempre", mi ripeteva, e, allora, io ero d’accordo con lui. Oggi sarei più severo nei suoi riguardi, così anche nei riguardi di Cesare: ma la furbizia di Cesare era così solare, così aperta, così ingenua in fondo e così innocua che mi sta bene ancora adesso. Non sarei un censore tanto severo da escluderla, in quella forma: furbizia così "italiana", sempre mescolata con bonomia. Cesare ingrassava i pesci con l’acqua, poi però, davanti ai bambini affamati della donna russa, glieli regala. Questo fa parte di un’arte di vivere che è vecchia come il mondo e davanti alla quale non si può essere troppo severi».
Quella carica di ribellione che sta alla radice dei primi due libri si è attenuata con gli anni oppure no?
«Io contesto "quella carica di ribellione": di indignazione sì; di ribellione purtroppo no perché non c’era modo, almeno per chi era al mio livello. Ribellioni in senso tecnico ve ne sono state, in alcuni lager: l’episodio che ho raccontato di quell’impiccato che muore gridando "io sono l’ultimo!" si ricollega a una ribellione che c’era stata in un altro campo: i prigionieri avevano fatto saltare i forni crematori pochi giorni prima e costui, di cui non conosco neppure il nome, era implicato nella faccenda, probabilmente aveva procurato dell’esplosivo. Riprendendo, l’indignazione sì persiste, ma diciamo che si è ramificata.
Sarebbe stupido oggi continuare a vedere il nemico solo lì, solo il nazista, anche se a mio parere è ancora il principale. Però il mondo di oggi è molto più articolato che non quello di una volta. Non erano bei tempi quelli in cui io ero giovane, però avevano il grande vantaggio che erano netti; l’alternativa amico/nemico era molto netta e la scelta non era difficile. Oggi lo è molto di più. Perciò anche l’indignazione persiste, ma è... erga omnes. Verso molti, non più verso "quelli"».
Nella famosa lettera al suo editore tedesco, lei dice che non può capire i tedeschi e quindi non si sente di giudicarli.
«No, ho detto che non li capisco, ma li giudico sì».
E come, allora?
«Li giudico male: sì, anche i tedeschi di oggi. Non tutti, naturalmente; io ho molti amici tedeschi, anche per il fatto che parlo la loro lingua, e mi interessano, e mi rifiuto di giudicarli in blocco. Però devo dire che, statisticamente, sono un paese pericoloso. Sono un pericolo intanto perché sono divisi in due e questo essi non lo accettano: pochi fra i tedeschi accettano questa divisione. E poi hanno delle virtù che diventano pericolose: questa loro straordinaria passione per la disciplina (che a noi manca - ed è male - ma loro ne hanno troppa!) per cui sono pronti ad accodarsi a chiunque comandi, mi fa paura».
Com’è che allora, sempre in quella lettera, lei dice che i tedeschi, oltre ad essere pericolo, sono speranza per l’Europa?
«Ecco... la lettera io l’ho scritta molti anni fa, nel 1960, sulla corda dell’entusiasmo che avevo provato io per il fatto che un editore tedesco aveva accettato di pubblicare la mia testimonianza, e anche a seguito di vari contatti che avevo avuto allora con i giovani tedeschi degli anni Sessanta. E mi era sembrato che la Germania fosse veramente un’altra. Sembrava una roccaforte della democrazia, allora: oggi un po’ meno, anzi molto meno».
Come reagiva vedendo i compagni di sventura andare ogni giorno alla morte a causa della selezione: lo prendeva, alla fine, come un dato di fatto, o questo le procurava ogni volta lo stesso dolore e lo stesso disgusto?
«Ci si incontrava, al mattino, all’appello e quando ne mancava uno, era considerato di cattivo gusto andare a fondo, un po’ come capita oggi quando uno muore di cancro: non se ne parla volentieri. Era una forma di accettazione, in sostanza, per cui l’atteggiamento verso il compagno morto in selezione non era molto diverso da quello verso uno morto di morte naturale. Quel mio amico Alberto, di cui ho parlato a lungo, era in campo con il padre: era un ragazzo molto intelligente e insieme parlavamo sovente di queste cose, senza inibizioni e senza cedere a questa tendenza di negare la verità. Pure, quando il padre fu scelto per la selezione, Alberto disse di essere sicuro che suo padre non era mandato nelle "camere" bensì veniva trasferito con altri prigionieri in un altro campo di convalescenza. E io ero stupito e impressionato nel constatare come il mio amico si fosse prontamente costruito un riparo, per celarsi una realtà altrimenti intollerabile».
Data la mortalità elevatissima, pensa che la sua sopravvivenza sia dovuta a fortuna o ad altri fattori?
«Io penso che, in primo luogo, molto abbia giocato la fortuna. Inoltre non sono stato mai ammalato: mi sono ammalato più tardi, in modo provvidenziale. Ed ecco come avvenne. Io, lavorando in fabbrica, rubavo al laboratorio ciò che mi poteva servire per la sussistenza e puntualmente dividevo il bottino con Alberto; c’era infatti un patto tra di noi, per cui dividevamo fraternamente ogni colpo buono (ecco qui l’arte di arrangiarsi!). Un giorno che avevo rubato del tè in laboratorio, andai con Alberto a venderlo all’ospedale, dove ne avevano bisogno per gli ammalati. Ci pagarono con una gamella di zuppa, quasi gelata e già un po’ intaccata. Probabilmente era stata toccata da un malato di scarlattina: io presi la scarlattina, fui mandato in ospedale e sopravvissi; Alberto che aveva avuto la malattia da bambino, non ne fu contagiato e morì in campo. Altro fattore fondamentale per me è stato quell’operaio, Lorenzo, di Fossano, che mi ha portato per molti mesi quanto bastava per integrare le calorie mancanti. Egli, che pure non era un prigioniero, è tornato molto più disperato di me: era un uomo molto mite e molto pio, rozzo e insieme religioso, e era terrificato di quanto aveva visto, spaventato, ferito. È tornato in Italia da solo, a piedi, e non ha voluto più vivere. Ha incominciato a bere e, a me che lo andavo a trovare spesso, diceva molto freddamente che non desiderava più vivere, che ne aveva viste abbastanza. Morì tubercoloso; e infelice».
Qualche episodio insolito che ricorda e che non è stato detto nei suoi libri.
«C’era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei digiuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera - dopo il lavoro - disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, perché era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comunista tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di lager alle spalle), però, colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservò la zuppa fino a quando quest’ultimo non terminò il suo digiuno. Questo atto di umanità mi aveva molto impressionato».
Può stabilire un rapporto tra lei e gli altri scrittori di religione ebraica (Ginzburg, Bassani)?
«Un rapporto complesso c’è, evidentemente. L’ambiente di Natalia Ginzburg è il mio stesso ambiente; abbiamo parenti in comune; lei è nata Levi e suo fratello era il nostro medico. L’ambiente della borghesia ebraica torinese è quello in cui sono nato e cresciuto. Quello di Bassani è diverso; sia Bassani che i suoi personaggi appartengono ad un’altra borghesia ebraica, quella di Ferrara, che io conosco abbastanza poco. E che non mi piace tanto, perché erano una classe abbastanza consapevole dei propri privilegi, abbastanza esclusiva (vedi il famoso muro di cinta) e riservata e chiusa».
Per quale motivo la Ginzburg le ha rifiutato il manoscritto?
«Premetto che non le serbo rancore (ma forse sì, per un certo periodo gliene ho serbato). Ho pensato a tante cose: forse era satura di manoscritti - fare il lettore in una casa editrice è un brutto mestiere; si è costretti a falciare... poi... è un fatto che, pur conoscendola bene, non abbiamo mai chiarito».
Ha ancora dei contatti con i compagni del lager?
«Enick l’ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: si è imborghesito completamente e non ama parlare di queste cose. Sono stato a trovarlo, l’ultima volta, con la Televisione italiana; gli ho chiesto di riceverci e mi ha risposto: te sì, ma le telecamere no. Poi però ha accettato anche loro, ma non volentieri».
Che pensa dei giovani d’oggi?
«La differenza fondamentale tra la nostra giovinezza e la giovinezza attuale è nella speranza di un futuro migliore, che noi avevamo in modo clamoroso e che ci sosteneva anche negli anni peggiori, anche nel lager: la meta c’era e era costruire un mondo nuovo di uguali diritti, dove la violenza era abolita o relegata in un angolo, costruire il Paese per riportarlo a livello europeo. Invece, i giovani d’oggi, mi pare abbiamo molte meno speranze. In generale vedo che tendono a scopi immediati, e questo forse è anche abbastanza giusto, in quanto non distinguono un altro futuro. Mi pare, paradossalmente, che sia stata più facile la nostra giovinezza, perché oggi sono troppi i mostri all’orizzonte: c’è il problema della violenza, il problema energetico, dell’inquinamento; il mondo è diviso in blocchi, c’è una totale incapacità di prevedere l’avvenire e nessuno osa fare previsioni sensate di qui a due anni. C’è sempre il problema atomico. Trovo che sono pochi i giovani che pensano di fare o studiare in qualche modo per un loro preciso futuro. È il senso del tramonto dei valori, per cui bisogna godere e bruciare tutto subito».
Come mai ha lasciato passare tanto tempo, quindici anni, da Se questo è un uomo alla seconda opera?
«Se questo è un uomo, edito nel 1947 presso De Silva, uscì in duemilacinquecento copie: avevo delle buone recensioni, ma ho avuto cinquemila lettori (un libro lo leggono due persone in media). Dopodiché... non ho avuto più incentivo a scrivere; mi pareva di avere fatto il mio dovere di testimone, di essermi scaricato delle mie tensioni e non sentivo il bisogno di scrivere altro. Solo dopo molti anni mi ha ripreso questo desiderio, perché si è ricominciato a parlare della Seconda guerra mondiale, e dei lager in specie, in modo diverso, in senso storico appunto. Verso il 1960, o forse prima, si tenne un ciclo di conferenze sul tema e io mi sono ritrovato protagonista: molti allora mi hanno incoraggiato a raccontare anche la seconda parte della mia esperienza, cioè il ritorno dalla Russia. Ripresi la penna anche per un altro motivo: era cessata la Guerra fredda e ora potevo raccontare la verità completa, umana. Prima era impossibile parlare della Russia: o se ne parlava come dell’inferno o come del paradiso. E io non me la sentivo, in un ambiente così, di scrivere un libro-verità come La tregua. Solo dopo la distensione è diventato possibile scrivere di queste cose in un linguaggio non retorico».
Perché è nato Malabaila?
«Perché sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo è un uomo venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all’editore, il quale accettò con entusiasmo, pensando forse di farne un "caso letterario": poi il caso non ci fu, ed io ripresi il mio nome».
PRIMO LEVI: SHEMA’
[Da Primo Levi, Ad ora incerta (ma e’ anche l’epigrafe che apre Se questo e’ un uomo), ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 525]
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo e’ un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un si’ o per un no.
Considerate se questa e’ una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piu’ forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo e’ stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I votri nati torcano il viso da voi.
10 gennaio 1946
PRIMO LEVI: ALZARSI
[Da Primo Levi, Ad ora incerta (ma e’ anche l’epigrafe che apre La tregua), ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 526]
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finche’ suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
"Wstawac":
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre e’ sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
E’ tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
"Wstawac".
11 gennaio 1946
PRIMO LEVI: SI IMMAGINI ORA UN UOMO...
[Da Primo Levi, Se questo e’ un uomo, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 21]
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sara’ un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignita’ e discernimento, poiche’ accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potra’ a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinita’ umana; nel caso piu’ fortunato, in base ad un puro giudizio di utilita’. Si comprendera’ allora il duplice significato del termine "Campo di annientamento"...
PRIMO LEVI: CHE APPUNTO PERCHE’... [Da Primo Levi, Se questo e’ un uomo, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 35]
Che appunto perche’ il Lager e’ una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si puo’ sopravvivere, e percio’ si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere e’ importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civilta’. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facolta’ ci e’ rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perche’ e’ l’ultima: la facolta’ di negare il nostro consenso.
PRIMO LEVI: VERSO IL MEZZOGIORNO DEL 27 GENNAIO 1945
[Da Primo Levi, La tregua, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 205-206]
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...).
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (...). Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pieta’, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volonta’ buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
PRIMO LEVI: HURBINEK
[Da Primo Levi, La tregua, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 216]
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek mori’ ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
PRIMO LEVI: APPRODO
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 542]
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro se’ mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema, -
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si e’ tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme ne’ spera ne’ aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.
10 settembre 1964
PRIMO LEVI: LA BAMBINA DI POMPEI
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 549]
Poiche’ l’angoscia di ciascuno e’ la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si e’ fatto nero.
Invano, perche’ l’aria volta in veleno
E’ filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta gia’ del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono pssati i secoli, la cenere si e’ pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Cosi’ tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta e’ stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
20 novembre 1978
PRIMO LEVI: NON CI SONO DEMONI...
[Da Primo Levi, La ricerca delle radici, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 1519]
Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che e’ senza ritorno.
PRIMO LEVI: PARTIGIA
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 561]
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
La’ dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’e’ congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sara’ duro,
Ci sara’ duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perche’ nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno e’ nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non e’ mai finita.
23 luglio 1981
PRIMO LEVI: IL SUPERSTITE
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 576]
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’e’.
"Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno e’ morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non e’ mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni".
4 febbraio 1984
PRIMO LEVI: CONTRO IL DOLORE
[Da Primo Levi, L’altrui mestiere, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 675]
E’ difficile compito di ogni uomo diminuire per quanto puo’ la tremenda mole di questa "sostanza" che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme; ed e’ strano, ma bello, che a questo imperativo si giunga anche a partire da presupposti radicalmente diversi.
PRIMO LEVI: CANTO DEI MORTI INVANO
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 615]
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purche’ trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna.
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perche’ siamo i vinti.
Invulnerabili perche’ gia’ spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finche’ la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
14 gennaio 1985
PRIMO LEVI: AGLI AMICI
[Da Primo Levi, Ad ora incerta, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 623]
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purche’ fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo,
o tu Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.
16 dicembre 1985
PRIMO LEVI: LA VERGOGNA DEL MONDO
[Da Primo Levi, I sommersi e i salvati, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1157-1158]
E c’e’ un’altra vergogna piu’ vasta, la vergogna del mondo. E’ stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che "nessun uomo e’ un’isola", e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’e’ chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, cosi’ da non vederla e non sentirsene toccato: cosi’ hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell’illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicita’ o di connivenza. Ma a noi lo schermo dell’ignoranza voluta, il "partial shelter" di T. S. Eliot, e’ stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello e’ salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perche’ era tutto intorno, in ogni direzione fino all’orizzonte. Non ci era possibile, ne’ abbiamo voluto, essere isole; i giusti fra noi, non piu’ ne’ meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perche’ sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai piu’; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore e’ la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.
PRIMO LEVI: IL NOCCIOLO DI QUANTO ABBIAMO DA DIRE
[Da Primo Levi, I sommersi e i salvati, ora in Idem, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1149-1150]
L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti e’ estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre piu’ estranea si va facendo a mano a mano che passono gli anni (...).
Per noi, parlare con i giovani e’ sempre piu’ difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perche’ inaspettato, non previsto da nessuno. E’ avvenuto contro ogni previsione; e’ avvenuto in Europa; incredibilmente, e’ avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler e’ stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E’ avvenuto, quindi puo’ accadere di nuovo: questo e’ il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
Rripresa parziale, da: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 56 dell’11 aprile 2007
Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Dal 20 aprile a fine giugno "TuttoDante" nella capitale, già venduti 50 mila biglietti.
"Racconterò anche la Storia, dalla presa del potere di Romano Prodi fino ai giorni nostri"
Arriva a Roma la Commedia di Benigni
"Difendo il mio Paese da chi lo governa"
Lo spettacolo ha già toccato 26 città, con un tripudio di oltre 350 mila spettatori.
"Il Poeta è grande perché ci invita a guardarci in faccia quanto facciamo schifo"
di ALESSANDRA VITALI *
ROMA - Racconterà la Storia, "dalla presa del potere di Romano Prodi ai giorni nostri, dal ’vi levo l’Ici’ al ’moderate i toni’ di Berlusconi, due giorni fa", l’attualità insomma, "ma quella su cui si può ridere, che è sempre meno, perché sono sempre di più le tragedie". E se l’attualità dovesse essere avara di spunti, si sa che con Roberto Benigni si può ridere di un nonnulla, basta una parola perché tracimi la piena. Com’è successo oggi in Campidoglio per la presentazione della tappa romana di TuttoDante, lo show con il quale l’artista si è già esibito in 26 città con un tripudio di olte 350 mila spettatori.
A Roma si ferma un bel po’, dal 20 aprile alla fine di giugno, un teatro tenda da 4000 posti realizzato per l’occasione in piazzale Clodio. "Molti politici non verranno - dice - perché è troppo vicino al Palazzo di Giustizia...". Cinquantamila i biglietti venduti fino a ieri, accesso gratuito per mille romani (600 studenti e 400 dai centri anziani), spiega il sindaco Walter Veltroni, primo oggetto delle effusioni del comico: "Io Veltroni me lo sposerei, un bel matrimonio contro natura, un matrimonio ogm, lei fra l’altro è sindaco, e si può anche sposare da solo".
Una prima mezzora dedicata all’attualità con particolare attenzione alle cose di Roma, d’altronde "anche Dante si occupava d’attualità, metteva in versi quel che accadeva ogni giorno", e alla politica, "perché compito del comico è difendere il proprio Paese da chi lo governa".
Poi, il resto dello spettacolo concentrato sulla Commedia, da qualche anno oggetto privilegiato delle attenzioni di Benigni, e sul Poeta, "che fra l’altro nel Trecento venne a Roma per dire al Papa di non occuparsi degli affari di Stato, come vedete la Storia non è cambiata". "Poi a Roma - continua il comico - c’è una delle più importanti associazioni di dantisti, presieduta da Giulio Andreotti che è coetaneo di Dante, se verrà allo spettacolo gli chiederò di raccontarci qualche aspetto della vita privata del Poeta".
Una passione smisurata quella di Benigni per l’Alighieri, "la sua grandezza è nell’invitarci a guardarci in faccia quanto siamo schifosi, avere il coraggio di vedere nel profondo il nostro male, che nei secoli non è cambiato". Salta di girone in girone e azzarda qualche ipotesi, "oggi ci sarebbe il girone dei matrimoni contro natura, ci troveremmo Bindi e Bondi, Manzoni e Marzullo. Probabilmente all’Inferno sono in corso lavori di ampliamento e ristrutturazione, pensate solo a quanto devono ingrandire l’area dei lussuriosi...".
E’ felice di essere a Roma, ricorda il suo arrivo nella capitale, "avevo 18-19 anni", poi la casa, per lunghi anni, nel quartiere Testaccio e la romanità acquisita, "tutto questo discorso per annunciarvi che mi candido a sindaco di Roma, con Veltroni abbiamo già un piano, ristrutturiamo i Fori Imperiali e ci facciamo un residence con parcheggio sotterraneo".
Roma anche nei suoi aspetti più "dolorosi", come la batosta di ieri in Champions League: "Volevate vincere? E vi facciamo vincere, che sarà mai. Volete fare 7 gol? E ve li facciamo fare... E’ un segno della grandezza di questa città, la Britannia l’abbiamo conquistata, figuriamoci che c’importa. Noi gliene abbiamo fatto uno solo, per fargli vedere come si fa un gol fatto bene".
Ma Dante, in quale girone avrebbe messo Benigni? "Me lo sono chiesto più volte - risponde - e credo che sarei finito in quello degli ogm, dei matrimoni contro natura. Già mi vedo: se guardate, tovate me e Veltroni come Paolo e Francesca, che voliamo e ci diciamo ’Amor, ch’a nullo amato amar perdona’. Un’immagine bellissima".
* la Repubblica, 11 aprile 2007
Il cippo dedicato a Primo Levi
di PAOLO BERTINETTI (La Stampa, 15/5/2007)
L’ufficio del professor Pelizzetti, a Chimica, in via Giuria, è ingombro di libri e faldoni. Però sul tavolo c’è uno spazio quasi sgombro, occupato soltanto da una vecchia tesi di laurea: è quella, in chimica pura, di Primo Levi, discussa nell’anno 1941. Venerdì il professor Pelizzetti officerà la cerimonia nel corso della quale l’Aula Magna di Chimica verrà intitola alla memoria di Primo Levi. Subito dopo le autorità accademiche e quelle del Comune, alla soglia del Valentino, proprio di fronte a Chimica, inaugureranno un cippo dedicato al nostro grande scrittore.Questa seconda cerimonia nasce da una proposta lanciata dalle colonne di questo giornale. C’era stato all’Università uno dei soliti piccoli gesti imbecilli di intolleranza e di disprezzo per l’Olocausto.
E a chi scrive era parso naturale proporre un gesto di segno opposto. Ricordare Primo Levi, come Torino già ha fatto in più occasioni, non è però soltanto un gesto di civiltà. E’ anche un gesto di fierezza cittadina nel sottolineare la grandezza di uno dei suoi figli più illustri. Al punto che, in tempi di sempre più diffuso pregiudizio sull’inutilità della letteratura, Andrea Casalegno ha invece potuto scrivere che “Se questo è un uomo” è un libro indispensabile, un’opera di cui non può fare a meno chiunque abbia il senso dell’umana dignità
Appelli
Contro gli apologeti del negazionismo *
Indirizzandosi al Rettore dell’Università di Teramo, Mauro Mattioli e al Preside della Facoltà di Scienze Politiche Adolfo Pepe, un nutrito gruppo di storici «in quanto studiosi e in quanto cittadini» hanno firmato un appello che esprime preoccupazione per quanto sta avendendo nell’ambito del master coordinato da Claudio Moffa, che è «diventato da tempo una tribuna dove si spaccia per legittima critica alla politica dello Stato di Israele la negazione della Shoah; dove si attribuisce a quelli che il grande antichista Pierre Vidal Naquet ha definito: ’gli assassini della memoria’, i negatori dell’Olocausto, lo statuto di ’storici’; dove si consigliano ai corsisti iscritti al master stesso, quali sussidi didattici, le opere di Carlo Mattogno, autore di testi in cui si mette in dubbio l’uso criminale delle camere a gas di Auschwitz; dove si organizzano convegni, come quello alla metà di aprile scorso, in cui, nascondendosi sotto il drappo, quanto mai improprio in quell’occasione, della ’libertà di parola’ sono state prese le difese dei negazionisti, considerati quali ’storici che negano uno o più tasselli della versione ’ufficiale’ dello sterminio degli Ebrei nella II guerra mondiale». Ci pare - continuano i firmatari - che la tendenziosità abbia prevalso su qualunque minimo criterio di scientificità, svilendo così anche la credibilità di un importante ateneo italiano. Non per caso, sempre in nome di una malintesa «libertà di parola», il 18 maggio è annunciata, presso la Facoltà di Scienze Politiche una conferenza di Robert Faurisson, ex professore di letteratura francese noto sostenitore delle tesi che negano lo sterminio degli ebrei.»
* il manifesto, 16.05.2007
L’infaticabile custode della memoria
La scomparsa a Torino di Bruno Vasari. Sopravvissuto al lager di Mathausen, è stato l’infaticabile promotore di centri studi sulla deportazione nazista di ebrei e prigionieri politici italiani
di Enzo Collotti (il manifesto, 05.08.2007)
Con la scomparsa di Bruno Vasari, morto a Torino il 20 luglio, non è venuto meno soltanto un esponente di primo piano dell’antifascismo storico, un militante azionista della Resistenza, un reduce dalla deportazione politica nei campi di concentramento nazisti. È scomparso un protagonista di una politica della memoria in Italia. Nato a Trieste nel 1911, trasferitosi già prima della guerra a Torino, è stato nel dopoguerra tra gli animatori della vita culturale della metropoli piemontese.
Alto dirigente della Rai, personalità dotata di non comuni capacità comunicative, di viva sensibilità culturale, di grande tatto e finezza nei rapporti umani, Vasari univa nella sua persona il tratto garbato e severo che gli veniva dalla tradizione di una educazione sobria e rigorosa come quella appresa nella natia città giuliana alla scuola di maestri come Giani Stuparich, al quale avrebbe dedicato pagine di grande intensità (raccolte in volume nel 1999), e la tenacia di chi si sente responsabile e investito di una vera e propria missione. Univa tratti ottocenteschi, si vorrebbe dire risorgimentali, ad una volontà realizzatrice e ad una capacità propositiva che spesso lo facevano apparire molto più giovane dell’età che inesorabilmente avanzava. Infaticabile testimone
Fu tra i primissimi memorialisti della deportazione: il suo asciutto ma preciso resoconto del lager, Mauthausen bivacco della morte, ristampato dalla Giuntina nel 1991, uscì nella prima edizione nell’agosto del 1945, a tre mesi dalla liberazione, tanto avvertiva l’urgenza di raccontare, come scriveva, «la tremenda gara di resistenza che ciascuno di noi aveva ingaggiato con la Germania». Testimone e memorialista in persona prima, ha speso la sua esistenza nel dopoguerra per organizzare la memoria degli anni bui aggregando quante più forze, tra i compagni della deportazione ma anche soprattutto fra i giovani, fossero disponibili ad assecondare il suo ideale progetto culturale.
Riprendendo il tema caro a Primo Levi della vergogna di non essere morti, nel 1982 in occasione di uno dei suoi tanti interventi così ebbe a sintetizzare quella che è stata la filosofia della sua esistenza: «Per liberarsi dal complesso di essere sopravvissuti e di avere eventualmente fruito del privilegio della cultura (...) l’unico modo è lavorare intensamente, prodigarsi con tutte le forze per evitare che il massacro dei Lager nazisti possa ripetersi, per divulgare la storia di quei tempi amari e operare nel presente per abbattere le barriere di odio fomentatrici di guerra».
Intrecciò costantemente il ricordo della propria personale esperienza con la fedeltà ai compagni caduti e l’obbligo di trasformare la memoria della deportazione non in sterile reducismo ma in fattore di cultura e di consapevolezza civile. Al convegno di Carpi del 1985, da me promosso, pronunciò parole che come poche altre riflettono lo spirito con il quale aveva tratto la lezione di Mauthausen: «Funziona il Lager - ebbe a dire -, ove si abbia la rara ventura di sopravvivere, pur nella breve, lunghissima in rapporto alle sofferenze, prigionia, da corso accelerato di politica».
Mettendo a frutto anche le relazioni influenti che aveva potuto instaurare nella sua funzione di dirigente di un’azienda accreditata come la Rai nell’ambiente torinese, si fece promotore di innumerevoli iniziative per coltivare la memoria della Resistenza e della deportazione non soltanto facendosi garante nei confronti degli erogatori di fondi ma partecipando direttamente all’elaborazione di progetti di ricerca; egli stesso fu una forza aggregatrice, aperto come pochi alla fiducia nei confronti dei giovani e facendo da ponte fra questi e gli uomini della sua generazione, convinto che soltanto associando la memoria dei deportati e l’elaborazione critica di una generazione più giovane si potesse alimentare un patrimonio culturale e di conoscenze destinato a radicarsi durevolmente nella nostra coscienza civile.
La città che non dimentica
Vice presidente nazionale dell’Aned (Associazione nazionale ed deportati) e presidente della sua sezione piemontese, sodale di Primo Levi, fece degli ex deportati piemontesi il centro di aggregazione di una attività editoriale e di ricerca che non trova analogo riscontro in altre parti d’Italia, a partire da quel convegno del 1983 che sin dal titolo Il dovere di testimoniare, impostava un impegno di lavoro e un programma di presenza civile. Ispiratore e consigliere, Vasari è stato compartecipe di tutte le iniziative culturali dell’Aned piemontese, appoggiandosi al Dipartimento di storia dell’Università di Torino e a una leva di ricercatori di qualità non comuni. In quel contesto nacque, unico in Italia, l’Archivio delle storie di vita degli ex deportati residenti in Piemonte e successivamente quel volume La vita offesa a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla (1986), che resta tuttora un modello insuperato di raccolta e di utilizzazione dei ricordi degli ex deportati.
Non è qui il luogo per ricordare tutti i convegni, i seminari e le pubblicazioni rese possibili da quegli incontri. L’attivismo di Vasari, il suo timore di arrivare troppo tardi a fare conoscere da quali prove tremende erano usciti gli uomini che hanno restituito dignità e libertà al nostro paese, non era mai connotato di pessimismo; al contrario era rischiarato da note di speranza e dalla sua vena lirica, perché forse un giorno anche Vasari entrerà in una antologia poetica della deportazione. Ricordo tra i tanti incontri vissuti insieme un suo intervento all’Università di Cosenza in cui, rispondendo ad una domanda apparentemente stravagante di una giovanissima studentessa - «Voi nel Lager sognavate? e che cosa sognavate?» -, diede una lezione di autentica poesia, espressione dei valori che avevano aiutato a vivere e ad alimentare la resistenza dei deportati. Vorrei augurarmi che qualcuno abbia registrato quelle parole e che un giorno potremmo rileggerle.
Un’opera che manca
Se un’ossessione aveva Vasari era che nulla andasse perduto di ciò che si diceva nei convegni e negli incontri che promuoveva; il tentativo di sottrarsi a questo impegno lo trovava implacabile. Ma credo che tutti noi che siamo stati coinvolti nelle sue iniziative gli siamo ancora debitori di qualcosa. Da anni perseguiva l’obiettivo di riuscire a fare varare un’opera che manca in Italia e che non è certo di facile realizzazione, quale una storia generale della deportazione, affidata ora a Nicola Tranfaglia e Brunello Mantelli, della quale si dovrebbe avere tra non molto una prima anticipazione.
Una esistenza piena, senza soste. Non a caso il libro-intervista sulla sua vita che licenziò nel 2001 reca emblematicamente il titolo Il riposo non è affar nostro.
Ha un nome l’amico che salvò Primo Levi *
Esce dall’ombra la figura del giovane che ad Auschwitz fu accanto all’autore di «Se questo è un uomo». Primo Levi, nel suo capolavoro, ricorda numerosi episodi della sua amicizia con ’Alberto’, l’amico più caro in lager, ma sulla vera identità del giovane serbò sempre un rigoroso riserbo.
Ora Brescia rivendica con orgoglio i natali di Alberto Della Volta, il primo ebreo catturato nella città lombarda; sarebbe scomparso nel 1945, durante la «Marcia della morte» di evacuazione del campo di Auschwitz alla quale Levi scampò a causa di una malattia; fu lo stesso sopravvissuto a informare i famigliari dell’amico della sua fine, ma questi non accettarono mai la verità, preferendo continuare ad appigliarsi in una speranza di ritorno. Domani, in occasione della Giornata della Memoria, il liceo Carlini di Brescia, che tra i suoi studenti vanta proprio l’amico dello scrittore torinese, intitolerà ad Alberto Della Volta la propria aula magna.
* Fonte: Avvenire, 25.01.2008
Il «Pikolo» di Auschwitz
Escono le memorie di Jean Samuel, che nel «Canto di Ulisse» mostrò con Primo Levi come la difesa della dignità umana fosse indispensabile per la sopravvivenza
DI EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 12.07.2008)
La chiamavano Babelturm, Torre di Babele: era la torre del carburo di BunaMonowitz, il lager satellite di Auschwitz dove era stato internato, tra le migliaia di anonimi Häftling, Primo Levi. Il nomignolo era frutto dell’involontaria multietnicità del lager, dove morivano fianco a fianco deportati di tutta Europa con le loro mille lingue e dialetti, ma - nella mediazione narrativa di Se questo è un uomo - era diventato simbolo non solo della confusione, ma anche della corruzione del linguaggio, degradato in lager da massima espressione della dignità e del genio umano a strumento di barbarie, corruttore e mezzo di isolamento. Per questo assume tanta importanza, nell’opera capitale di Primo Levi, il capitolo Il canto di Ulisse, dove il prigioniero italiano si sforza di far comprendere a un suo compagno la forza e l’importanza dei versi danteschi: «’Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza’. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio», commentava Levi.
L’intelligente interlocutore di quel momento centrale nella lotta per la sopravvivenza in lager era il ’Pikolo’, l’assistente del Kapo dell’unità lavorativa di Levi: Jean Samuel, uno studente alsaziano di farmacia per il quale quel momento fu altrettanto decisivo. «Quei tre versi esprimono l’estrema protesta del concentrazionario - riflette nelle sue memorie Mi chiamava Pikolo, scritte con Jean-Marc Dreyfus -. Per conservare la dignità ricorrevo a uno stratagemma: la matematica. Sempre e ovunque, in ogni istante di libertà, come obbedendo al monito di Dante e ’seguir virtute e canoscenza’. Riflettere per scongiurare l’abbrutimento, ma anche per resistere, perché riflettere era proibito». La battaglia per la salvaguardia di almeno un brandello della propria dignità era un tutt’uno con quella per la sopravvivenza fisica; difendere in sé l’umanità voleva dire inceppare un ingranaggio, quello del lager, interamente e consapevolmente strutturato apposta per annientarla. Samuel, come Levi, era stato capace di rendersene conto, e di combattere la stessa battaglia. Per questo l’incontro tra i due, in lager, ha un valore simbolico profondo; nella sopravvivenza della specificità umana, anche della cultura, risiedeva una risorsa che, sia pure in mezzo a tanti altri fattori, poteva rivelarsi decisiva per la salvezza. La descrizione di Pikolo, in Se questo è un uomo, è altamente elogiativa, distaccando un’eccezionale purezza morale conservata perfino in lager: i più approfittavano spietatamente di ogni carica - e quella di assistente del Kapo lo era - per vessare i compagni pur di spremerne un brandello di speranza di vita in più. Non Pikolo, che, scrive Levi, «pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte, non tralasciava di mantenere rapporti umani coi compagni meno privilegiati». «Un mio ritratto forse un po’ troppo lusinghiero», si schermisce oggi Samuel, confermando involontariamente il giudizio di Levi. La simbiosi tra i due è evidente, e infatti Samuel si è posto in un certo senso come continuatore dell’opera dello scrittore italiano.
Sopravvissuto ad Auschwitz come Levi - «e, in tutta onestà, possiamo ben dire che è un miracolo», scrisse nella sua prima lettera a Levi del 1946, riprodotta nel volume insieme all’intero epistolario tra i due -, ipotizzò inizialmente una stesura delle proprie memorie, su pressione dello stesso Levi; pubblicato però Se questo è un uomo, abbandonò il progetto e accantonò ogni ipotesi di narrazione della sua vicenda. «Per trentasei anni non ho potuto raccontare di Auschwitz», spiega: fenomeno frequente tra i - pochi - scampati al lager, il Pikolo si rifugiò nel silenzio, almeno pubblico, per scacciare il devastante allungarsi delle ombre del suo passato. Soltanto nel 1981 concesse una prima intervista, e da lì ebbe inizio un percorso di sempre maggiore coinvolgimento nel dovere di rendere testimonianza. Decisivo, in questo cammino, ancora un incontro con Levi, sempre nel 1981, e non casuale è il fatto che «ho portato la mia testimonianza soprattutto dopo l’aprile del 1987, dopo la morte di Primo». Una sorta di implicito passaggio di consegne tra gli ultimi testimoni oculari dell’abisso del male. Jean Samuel continua a svolgere il compito che Primo Levi aveva tracciato in una sua lettera del 1974: «Che lo vogliamo o meno, noi siamo testimoni, e ne portiamo tutto il peso».
Jean Samuel
MI CHIAMAVA PIKOLO
L’eroe di «Se questo è un uomo» racconta la sua amicizia con Primo Levi
Frassinelli. Pagine 206. Euro 17,00
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
Diversità e Sicurezza Culturale
Una risorsa contro l’Antisemitismo e il Razzismo
SHOAH E FALCE E MARTELLO
Non dimentichiamo di dire la verità ai nostri studenti al di fuori di meschini intenti demagogici
Qualcuno, durante la visita al campo di sterminio di Auschwitz, ha proposto di eliminare il simbolo della falce e martello dal Padiglione Italiano e ha sostenuto che in quel monumento si è utilizzato l’orrore del nazismo per coprire il comunismo e usare la falce e martello come simbolo positivo. Chi ha detto questo ha insultato le stesse vittime che è andato ad onorare fra cui gli autori di quel monumento.
Chiariamo subito un punto: la falce e martello e un simbolo positivo e non c’e da scandalizzarsi. Può darsi che la proposta di eliminare i simboli del comunismo o dei regimi totalitari sia pienamente giustificata dalla storia ma in ogni caso tutto questo non ha nulla a che vedere con Auschwitz, con lo sterminio degli Ebrei, con la Shoah e il prezzo da pagare per manipolare la storia sono demagogia e opportunismo.
La falce e martello e il simbolo del movimento operaio e della classe lavoratrice e rappresenta l’unita tra i lavoratori agricoli e industriali. Fu condiviso dalle organizzazioni socialiste e comuniste anche ebraiche e sioniste ed e stato per molti sinonimo di liberazione. La falce e martello e stato il simbolo del socialismo e del comunismo divenendo emblema dei partiti politici e, più tardi, dei paesi del socialismo reale. La falce e martello e rappresentata in numerosi altri simboli ancora vigenti, come ad esempio la bandiera di stato austriaca.
Ma, in particolare ad Auschwitz, la falce e martello ricorda l’Armata Rossa che ha liberato il campo il 27 gennaio del 1945, data oggi celebrata ogni anno come Giornata della Memoria; la falce e martello è anche il simbolo delle donne e degli uomini, comunisti e socialisti, che sono stati perseguitati politici dai nazi-fascisti e sono morti nei campi; la falce e martello ricorda anche i 20 milioni di morti russi che hanno combattuto contro i nazi-fascisti.
E’ inaccettabile fare della falsa ideologia in un luogo della memoria o raffrontare con faciloneria il nazismo al comunismo e non e vero che la memoria appartiene a tutti gli schieramenti politici perché appartiene ad un solo schieramento: ad Auschwitz esiste la memoria dei perseguitati che ricorda le vittime massacrate e la memoria dei persecutori che ricorda cristiani, fascisti e nazisti con i rispettivi simboli della croce, della croce celtica e della croce uncinata. Queste semplici e veritiere considerazioni non hanno niente a che vedere con gli schieramenti ideologici o politici attuali.
Ad Auschwitz la falce e martello rappresenta, volente o nolente, la liberazione e i liberatori e, ad onore di verità, invece di eliminare falce e martello, come qualcuno ha suggerito, bisognerebbe rimuovere le croci, incomparabile simbolo della persecuzione antiebraica in tutti i secoli.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
gherush92@gherush92.com
Segue un brano di Primo Levi da La Tregua:
Il disgelo
Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di «recuperare», a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi e lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidita dell’avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera.
Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Cosi per noi anche l’ora della liberta suono grave e chiusa, e ci riempi gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai piu sarebbe potuto avvenire di cosi buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed e questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa e una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volonta di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Percio pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni.
Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi.
Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un «triangolo rosso», un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i «politici» tedeschi erano assai raramente ospiti dell’infermeria, in cui d’altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l’unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria.
Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall’arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia. Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gemelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato. Arthur per l’ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto «vieux dégoutant» e «putain de boche»; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorita, aveva preso l’abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l’unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l’unico situato nelle vicinanze di una stufa.
Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalita del Lager, altre sfumature non c’erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosita né l’occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di liberta.Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l’avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l’avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla liberta ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte.
Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell’innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell’ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell’esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno.
...
Il mattino ci portò i primi segni di liberta. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggi come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pieta e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunzio che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi.
Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e la per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza.
Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e meta della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi.
Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima liberta, sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», «Il lavoro rende liberi».