COS’E’ QUESTO GOLPE?
IO SO...
di Pier Paolo Pasolini (Corriere della Sera, 14 novembre 1974)
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.
Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere. Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento. Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti.
Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI.
Federico La Sala
UNA #HAMLETICA #QUESTIONE FILOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA DI #LUNGADURATA E
UN GRANDE #SEGNAVIA PER USCIRE DALL’#INFERNO, CON #DANTE E #PASOLINI...
Per Pasolini «chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata» (cfr. Emanuela Monini, "Tu sai che chi ama è egoista", "insula europea", 17 novembre 2024 ); ma, pur avendo capito, come scrive nel sonetto 110, che
HA difficoltà ad andare oltre sé stesso e riconoscere che "quel qualcosa che non aveva prezzo" è solo la "gaiezza" sua, non della "persona amata".
Il grande #dono della sua vita, forse, sta nel segnalare il "tradizionale" #nodo tragico del non riconoscere alla "persona amata" (gr."#Filomena") la sua #autonomia e la sua #libertà di #amare (gr. "#Filousa").
La sua passione per #DanteAlighieri lo ha portato, oltre la "#ego-logica" di san Paolo, sulla stessa strada e, deposto il suo "vorrebbe", gli ha permesso di giungere a consapevolezza della #dirittavia e a proseguire coraggiosamente il suo viaggio.
A ben distinguere e a ben unire, non è possibile confondere antropologicamente e filologicamente l’amore "prezzolato" (quello con il suo "#caro-prezzo"), la "#caritas", con quell’#amore, quel "qualcosa che non aveva prezzo, / ed era unico: non c’era codice né Chiesa / che lo classificasse", la "#charitas". Un grande segnavia, a mio parere, per uscire con Dante dall’inferno.
STORIA E MEMORIA.
La poesia di Eduardo De Filippo, all’indomani della morte di Pier Paolo Pasolini [1975]:
PIER PAOLO
Non li toccate
quei diciotto sassi
che fanno aiuola
con a capo issata
la «spalliera» di Cristo.
I fiori,
sì,
quando saranno secchi,
quelli toglieteli,
ma la «spalliera»,
povera e sovrana,
e quei diciotto irregolari sassi,
messi a difesa
di una voce altissima,
non li togliete più
Penserà il vento
a levigarli,
per addolcirne
gli angoli pungenti;
penserà il sole
a renderli cocenti,
arroventati
come il suo pensiero;
cadrà la pioggia
e li farà lucenti,
come la luce
delle sue parole;
penserà la «spalliera»
a darci ancora
la fede e la speranza
in Cristo povero.
* Cfr. Fiamma Satta, "Una poesia di #Eduardo per la morte di #Pasolini".
#Dante2021/2022 e #Pasolini2021/2022: La #DivinaCommedia e "La #DivinaMimesis. L’#amor "che move il #sole e le altre #stelle" (Par. XXXIII, 145) e il "#Trasumanar e organizar": "un #affetto e la #vita di #PierPaoloPasolini"
FLS
Poesia.
Un affetto e la vita. Pier Paolo Pasolini
di Marco Antonio Bazzocchi (Doppiozero, 31 Ottobre 2015)
Ho un affetto più grande di qualsiasi amore
su cui esporre inutilizzabili deduzioni -
Tutte le esperienze dell’amore
sono infatti rese misteriose da quell’affetto
in cui si ripetono identiche.
Sono legato ad esso
perché me ne impedisce altri.
Ma sono libero perché sono un po’ più libero da me stesso.
La vita perde interesse perché si è ridotta a un teatro
in cui le fasi di questo affetto si svolgono:
e così ho perso l’ebbrezza di avere strade sconosciute
da prendere ogni sera
(al vecchio vento che annuncia cambiamenti di ore e stagioni).
Ma che ebbrezza nel poter dire: "Io non viaggio più".
Tutto è monotono perché in tutto non c’è altro
che un certo luccichio di occhi,
un certo modo di correre un po’ buffo,
un certo modo di dire "Paolo", e un certo modo
di straziare a causa della rassegnazione.
Ma tutto è messo in forse dal terrore che qualcosa cambi.
In ogni amore c’è una fusione tra la persona che si ama
e qualcun altro: ma ciò è naturale. Nell’affetto
ciò sembra invece così innaturale:
la fusione avviene a tali profondità
che non è possibile darne spiegazioni, trarne motivi
per congratularsi, comunque essa sia, della propria sorte.
La tenerezza che tale affetto impone
al profondo, non conduce a fecondare
né a essere fecondati, anche se per gioco;
eppure si soccombe ad esso
con lo stesso senso di precipitare nel vuoto
che si prova gettando il seme, quando si muore
e si diventa padri. Infine (ma quante altre
cose si potrebbero ancora dire!),
benché sembri assurdo, per un simile affetto,
si potrebbe anche dare la vita. Anzi, io credo
che questo affetto altro non sia che un pretesto
per sapere di avere una possibilità - l’unica -
di disfarsi senza dolore di se stessi.
Nella sua penultima raccolta di poesie, Trasumanar e organizzar, Pasolini decide con determinazione di accentuare la distanza ma anche la compresenza tra poesia pubblica e poesia su episodi privati, a volte intimi. Qui, nella sfera privata, compaiono due figure predominanti, Maria Callas e Ninetto Davoli, due presenze fondamentali nella vita dell’autore tra il 1968 e il ‘71. Non è casuale che, insieme, formino una specie di triangolo famigliare, anche se poi il sistema dei rapporti sconfessa qualsiasi immagine di famiglia tradizionale. Pier Paolo, Maria, Ninetto: Pasolini si muove intorno a questi tre nomi, li assume come oggetti di meditazione, si rivela a loro e a se stesso a volte senza nessun filtro letterario (come avviene in questo testo). Eppure spesso, a fianco di strutture discorsive semplicissime, convivono stilemi e immagini criptiche, con altro tasso di letterarietà (soprattutto nelle composizioni per la Callas). Pasolini esce ed entra dal codice poetico, lo infrange e lo riabilita, senza adottare nessun tipo di stabilità riconoscibile.
Nel rapporto con Maria, Pasolini si dichiara un figlio che non ha mai conosciuto, o voluto conoscere, il ruolo paterno. Maria, che è stata abbandonata da Onassis, è una donna adulta ma anche una bambina spaventata dal presente. E proprio perché ha perso un marito-padre adesso cerca in Pasolini, che la ha trasformata nella madre più sanguinosa del mondo antico (Medea), un uomo adulto con cui ricostruire un rapporto (la Callas era nata nel ’23, Pasolini nel ’22, erano coetanei, e anche la loro morte avviene in tempi ravvicinati, il ’75 per lui, il ’77 per lei). Il poeta, che ammira questa donna come una vera Regina, una creatura capace di vivere grandi passioni senza mai abbassare il capo, spiega a Maria che lui non può diventare un vero oggetto d’amore, dal momento che la sua condizione gli impedisce di sapere come si diventa un Padre, cioè come si consuma un rapporto erotico con una donna. Pasolini mette in luce la parte che gli manca, la maturità che gli consentirebbe di poter abitare, insieme a Maria, la Città fondata dal Padre. La città santa è il titolo della sezione del libro dove si trovano quasi tutte le poesie per la Callas. In una di queste, Pasolini le dice «La tua cultura è paterna; e dunque credi che lo siano tutte». Mentre lui, omosessuale, ha conosciuto il mondo con gli occhi della madre, e come tale lo vede. Se Maria pensa che la legge del Padre sia quella a cui bisogna obbedire, Pier Paolo invece sa (per via materna) che «chi obbedisce è destinato a disobbedire». Nell’ultima poesia, la Presenza, Pasolini utilizza un’idea dell’antropologo Ernesto de Martino per spiegare le paure con cui Maria si muove nel mondo: lei vive quelle “crisi della presenza” tipiche del mondo primitivo, quando gli individui di fronte al dolore insostenibile pensano di perdere la coscienza del proprio sé. Maria, «atterrita dal sospetto di non essere più», riesce a recitare da Madre e da Regina, anche se sa di essere una bambina e come tale ha bisogno di un uomo che le faccia da fratello.
La presenza di Ninetto bilancia, nell’insieme del libro, quella della Callas. I testi dedicati a lui fanno parte di una sezione dal titolo Piccoli poemi politici e personali, dove Pasolini scherza con le iniziali del suo nome: P.P.P. Di fronte a Ninetto, che è entrato nella sua vita nel ’64, quando girava Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini deve ancora una volta fare i conti con l’idea di virilità e di paternità. Anche in questo caso non vuole assumere una posizione da uomo adulto, non vuole essere Padre, cerca di uscire dalle strettoie di uno stereotipo. Il sentimento di “affetto” viene caricato di valore in contrasto con quello più generico di “amore”. Pasolini ridefinisce i contorni e i rapporti dei due sentimenti: l’amore viene messo a un livello inferiore rispetto all’affetto, ed è l’affetto ad acquisire le caratteristiche attribuite solitamente all’amore: «tutte le esperienze dell’amore/ sono infatti rese misteriose da quell’affetto/ in cui si ripetono identiche».
L’intero componimento diventa così un ragionamento a voce alta con cui l’autore cerca di chiarire- innanzitutto a se stesso - perché l’affetto è superiore a qualsiasi altra forma di amore. E come questo affetto ha modificato radicalmente la condotta di vita di chi sta parlando. Potremmo pensare anche qui, come nei componimenti per Maria, alla ripresa di un tema dalla filosofia di Spinoza (Pasolini fa comparire Spinoza in una scena di Porcile, dove avviene un dialogo tra il filosofo olandese e il giovane Jullian). Deleuze spiega che in Spinoza affectus è la variazione continua della forza di esistere, prodotta sul soggetto dalla sua percezione del mondo e delle idee prodotte dagli aspetti del mondo che incessantemente si modificano. Qui Pasolini rivela come il suo comportamento sia stato modificato dalla presenza di questo affetto, e lo fa attraverso la forma retorica del paradosso: “affetto” lega all’altro ma anche libera, “affetto” rende tutto monotono ma la monotonia diventa un piacere nuovo, “affetto” non fonde le individualità ma crea un legame inspiegabile, e - soprattutto - “affetto” non significa né possedere né essere posseduti, ma anzi può spingere fino al desiderio di liberarsi di ogni cosa materiale, anche della vita.
Pasolini dichiara di sentirsi “legato”, ma il legame comporta in realtà la condizione nuova di essere «un po’ più libero da me stesso». La liberazione consiste in un cambiamento delle abitudini erotiche: Pasolini aveva più volte reso esplicite le modalità con cui avveniva la ricerca di corpi giovani per soddisfare un desiderio che non riesce mai a trovare requie. Adesso, all’ebbrezza della ricerca continua, si sostituisce l’ebbrezza del poter dichiarare la fine della ricerca: «Io non viaggio più», cioè il piacere si è ricondotto a un’unica strada, quella che si conosce, e che sta al posto di tutte le strade possibili che non si conoscono. L’immagine della unicità che ha preso il posto della molteplicità porta con sé quella della monotonia, e anche in questo caso una passione triste rivela il volto di una passione nuova, da cui è permeato ogni aspetto del mondo. È il volto di Ninetto, caratterizzato dai particolari che rimandano alla libera circolazione di energia vitale, gli stessi che Ninetto si porta dietro nel cinema: la luce degli occhi, il movimento irrefrenabile («un po’ buffo»), e soprattutto la virtù popolare della «rassegnazione».
«In ogni amore c’è una fusione tra la persona che si ama / e qualcun altro»: il verso sconfessa, attraverso la forma anomala, la reciprocità dell’amore. Cosa significa «e qualcun altro»? La fusione dovrebbe essere tra la persona che si ama e se stesso. Invece Pasolini sembra insinuare il dubbio che colui che ama, il soggetto che ama, perda la propria identità e diventi, anonimamente «qualcun altro», cioè un sé che si perde nella fusione amorosa, un sé che resta sconosciuto a sé. E poi, per rendere ancora più anomala la sua coscienza dell’affetto, Pasolini dice che nell’affetto, al contrario di quanto avviene nella fusione amorosa, il fenomeno è addirittura «innaturale», si muove in strati così profondi della personalità «che non è possibile darne spiegazioni».
A differenza di chi tenta di condurre l’amore omosessuale nell’ambito della normalità, Pasolini sposta il discorso dell’affetto nell’ambito dell’innaturale e dell’inspiegabile. Il ragionamento, come sempre, non segue la logica che imporrebbe il senso comune, cioè di ricondurre l’anomalo nei limiti della norma. Per Pasolini la norma (la Legge, che è sempre Legge paterna) va conosciuta e consumata fino in fondo, ed è dall’interno della conoscenza che si può aprire una prospettiva di scardinamento della Legge. Ora si tratta di affrontare l’erotismo in sé, l’aspetto concreto del desiderio. Foucault insegnava, quasi negli stessi anni, che l’attenzione per l’amore omosessuale aveva prodotto in Grecia una forma particolare di cura di sé, un sistema molto rigido di comportamenti secondo i quali colui che amava doveva (in quanto uomo adulto) trasmettere forme di sapere al giovane amato, che poteva essere posseduto solo fino a un certo momento della sua maturazione. Pasolini non ha mai rispettato le regole dell’eros classico, pur guardando con attenzione alla figura di Socrate. La sua scelta omosessuale si dirige verso soggetti che non richiedono un investimento culturale, o perlomeno non lo richiedono come condizione preliminare.
E qui, per scoprire fino in fondo le carte, Pasolini elimina qualsiasi opposizione tra colui che possiede e colui che viene posseduto, elimina anche l’ombra di un gioco di ruoli: «La tenerezza che tale affetto impone / al profondo, non conduce né a fecondare / né a essere fecondati, anche se per gioco». Anche questo è un paradosso, un ossimoro che si estende dal linguaggio alle pratiche. Né attivo né passivo, il soggetto di questo affetto resta scoperto proprio perché viene eliminato il concetto di “fecondazione”, cioè l’idea del coito con finalità procreative.
Dentro questo rapporto non c’è (finta) naturalezza, non c’è ipotesi di procreazione. Se il mondo ormai vuole liberare energie sessuali con il fine di creare coppie che producono e che consumano, Pasolini si rifiuta di entrare nel gioco. “Affetto” si muove su un altro piano, cerca altre forme di piacere. «Eppure si soccombe ad esso», corregge Pasolini, utilizzando per la seconda volta il pronome che non si usa per un essere umano ma per oggetti. Un «esso» che, in fine di verso, in realtà nobilita l’oggetto amato, mima le cadenze di un dialetto meridionale (Ninetto era calabrese). Si soccombe dunque anche all’affetto, dal momento che l’affetto non è sublimazione di impulsi erotici. Il verbo risuona da lontano nella memoria di Pasolini, dalle sue traduzioni giovanili di Saffo. Questa caduta nel desiderio erotico viene descritta come un precipitare nel vuoto. Ancora una volta, come nei poemi per Maria, Pasolini utilizza l’immagine del vuoto per indicare una condizione di inadeguatezza: di fronte a una donna che lo desidera, Pasolini dice che lei abita in un vuoto dominato dal Padre, che lui non conosce, ora, per descrivere il piacere che lo spinge verso Ninetto, Pasolini descrive la sensazione di precipitare nel vuoto che accompagna l’atto di gettare il proprio seme, morendo per diventare padri. «Quando si muore e si diventa padri»: così viene descritta la condizione di chi feconda col suo seme e trasmette la vita. Anche se occultato qui, in un angolo, il termine “padre” rispunta fuori, non viene del tutto censurato nel sistema simbolico del componimento. Amare un ragazzo può significare provare affetto? E l’affetto contempla l’erotismo? E se si tratta di erotismo, l’affetto contiene una componente “paterna”?
Sembra che Pasolini si muova senza requie tra questi dubbi, che diventano affermazioni intorno a una nuova forma di vita del soggetto che definisce i contorni di un desiderio fuori dalle regole.
L’erotismo si può ribaltare in morte. Diventar padre significa, metaforicamente, rinunciare a se stessi. E allora l’ultimo passaggio del ragionamento porta alla luce l’esito di questo desiderio: l’affetto è in realtà un pretesto che implica la coscienza di poter scegliere una morte che non prevede il dolore. L’affetto conduce alla liberazione di quel peso ineliminabile che coincide con il proprio sé. «Disfarsi senza dolore di se stessi», questo è l’esito finale del ragionamento intorno all’affetto. Non “morire”, ma mettere un altro al centro del mondo, rinunciare al proprio piacere per un altro. Ecco perché, fin dal titolo, “affetto” è una condizione che sta al pari di “vita”. “Affetto” (questo affetto) ha lo stesso peso di un’intera vita. Pasolini vuole che il componimento arrivi a porre in posizione perfettamente parallela le due idee. Ninetto, che nei film assume spesso la figura di Angelo, Angiolino, il Nunzio, è realmente l’annunciatore di una nuova vita, di una nuova pratica di vita. Come Hermes Mercurio, Ninetto è una divinità dei passaggi. Come il duende di cui parlava Garcia Lorca, è capace di far scaturire una imprevista energia che ridona vita al corpo.
Pasolini interprete di san Paolo
di: Virginia Casagrande *
«Potrei parlare di UNO che è stato rapito al Terzo Cielo: / invece parlo di un uomo debole: fondatore di Chiese»[1]. Che Pasolini sia stato uno scrittore ateo ma profondamente religioso lo dimostra l’intera sua produzione. Celebre il suo instancabile bisogno di interrogare il mistero di Gesù di Nazareth, la cui traccia più sublime resta la pellicola del 1964, Il Vangelo secondo Matteo.
Meno noto invece, ma non per questo meno rilevante, è il vivo interesse che Pasolini ha mostrato per un altro personaggio fondamentale tanto per la storia del cristianesimo che per l’intera storia occidentale: Paolo di Tarso. La figura del predicatore giudeo appare una presenza costante nella sua opera, tanto che ne troviamo traccia in diversi prodotti cinematografici, narrativi e poetici, dalla fine degli anni ’40 fino alle soglie del 1975.
L’aspetto più interessante dell’interpretazione pasoliniana dell’apostolo indubbiamente emerge nell’abbozzo di sceneggiatura per un film sulla vita di San Paolo, in lavorazione dal 1966 al 1974, mai realizzato a causa della fallita collaborazione con la casa di produzione Sampaolofilm [2].
L’incompiuta paolina
L’elaborato testo di questa sceneggiatura scaturisce dal confronto tra le due principali fonti paoline: gli Atti e le Lettere. Se infatti i due testi possono essere messi a confronto in molti punti, si devono riconoscere anche notevoli discordanze. Gli Atti presentano un Paolo teologicamente più edulcorato, che tende a stemperare le radicali posizioni teologiche delle Lettere, nella prospettiva di compiacere Giacomo e la comunità madre di Gerusalemme.
Pasolini, intellettuale sagace, coglie questa tensione tra le due fonti e la estremizza nella finzione letteraria della sceneggiatura, arrivando a rappresentare Paolo come un soggetto diviso, schizofrenico come afferma Guastini[3], e a trasformare la scrittura degli Atti da parte di Luca in un’operazione ispirata da Satana. La psicosi dell’apostolo si alterna tra due poli definiti Trasumanar e Organizzar[4], o anche nel contrasto tra «il santo e il prete»[5], che rappresentano l’impossibile compromesso tra l’ascesi mistica da una parte e l’esigenza di relazionarsi con le urgenze materiali dall’altra.
Quest’ultima esigenza spinge ineluttabilmente Paolo verso l’organizzazione della Chiesa, e quindi alla fondazione funesta di una istituzione. Per questo Pasolini, d’indole fortemente anticlericale, afferma in modo veemente: «accuso San Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione[6]». E ancora: «la sessuofobia, l’antifemminismo, l’organizzazione, le collette, il trionfalismo, il moralismo [...] le cose che hanno fatto il male della Chiesa sono già tutte in lui»[7]. Il promotore della carità è tornato il fariseo schiavo della Legge e della norma, che è «nata dalla fede e dalla speranza / (senza carità, che è touton méizon)»[8], facendosi in questo modo complice dell’odierna ragione borghese e responsabile dell’attuale desacralizzazione del mondo.
Pasolini espone assai lucidamente come la sola alternativa a ciò sia «vivere / [al margine / delle istituzioni come un bandito»[9], avere il coraggio di accettare una lacerante condizione di orfanità, perché «le istituzioni sono commoventi, / e commoventi perché ci sono: perché / l’umanità - essa, la povera umanità - non può farne a / meno»[10].
Il sacro e l’arcaico
Il film progettato da Pasolini avrebbe dovuto traporre i viaggi apostolici nell’Europa e nell’America della fine degli anni ’30 e fine degli anni ’60 del Novecento, nella prospettiva innanzitutto di far dialogare il predicatore[11] con la moderna società imborghesita ed industrializzata e con l’istituzione cattolica ormai inetta ed obsoleta, manipolate entrambe dal nuovo potere consumistico, fascista nelle sue modalità, in cui Pasolini riconosceva l’origine della drammatica perdita del contatto con il sacro.
Recuperare questa relazione con il mistero del mondo e delle cose era forse la più pungente urgenza del poeta, come giustamente commenta Calabrese: «per il tramite della parola di San Paolo» esso, il sacro - vero e proprio «tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7) - «può essere ancora nominato o rievocato»[12]. L’espediente usato da Pasolini e recuperato dal Vangelo secondo Matteo consisteva nel mantenere sulle labbra dell’apostolo delle genti i discorsi delle Lettere di 2000 anni fa inalterati, nonostante gli interlocutori gli rivolgano domande «specifiche, circostanziate, problematiche, politiche, formulate con un linguaggio tipico dei nostri giorni»[13].
Pasolini manterrà nei confronti del suo San Paolo una tensione sempre viva e spesso contraddittoria tra esaltazione e condanna («io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete»[14]), incarnata attraverso sentimenti ambivalenti, attraverso consci e inconsci movimenti di identificazione e opposizione all’apostolo.
A tale proposito è interessante segnalare una lettera privata del 1964 indirizzata a don Giovanni Rossi della Pro Civitate Christiana, caso unico in cui l’identificazione a San Paolo si fa radicalmente cosciente e radicalmente intima: «Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo [...] e un mio piede è rimasto imbrigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio»[15].
P.P. e il suo doppio
Oltre al lampante richiamo al celebre episodio sulla via di Damasco, che Pasolini fa suo fino alle estreme conseguenze, questa lettera stabilisce l’inizio di una sottile linea di cucitura tra l’esperienza del poeta e quella dell’apostolo, che punto dopo punto prosegue fino alla fine della sua vita. Non a caso, alcuni studiosi hanno spesso definito San Paolo uno dei più forti alter ego dello scrittore[16], soprattutto nella sua volontà di essere oggetto di scandalo per la società. La lunga e complessa relazione con questo personaggio che compare, tra gli altri, in rilevanti lavori editi ed inediti come Teorema, Medea e Romans, si conclude nell’ultima raccolta poetica pubblicata in vita, la Nuova Gioventù edita nel 1975.
L’ultima parola di Pasolini su Paolo di Tarso risulta molto dura, ma non così distante da tutto quello che abbiamo osservato fino ad ora. Paolo «è stata la grande disgrazia»[17] dei luoghi del mito pasoliniano e questo è vissuto esattamente come un lutto, come un dolore quasi fisico «nel fondo più mio del cuore»[18]. Il mondo che percorreva il Tagliamento, il mondo dei ricordi fanciulleschi del poeta non è ormai che una «grande Chiesa grigia»[19] dove i ragazzi «sono cattivi e seri come vuole San Paolo»[20]; identità spogliate della loro ancestrale forza vitale, della loro allegria e spontaneità, in sintonia con la poetica delle Ceneri di Gramsci[21].
Il cambiamento antropologico appariva apocalittico e irreversibile agli occhi di Pasolini, al quale non restava altro modo di denunciare tutto questo che attraverso la sua penna, versificarlo sulle sue pagine d’appunti, laddove «nei suoi viaggi non è mai arrivato San Paolo»[22].
[1] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2003, 25.
[2] A. Monge, «Rimpianto per il “Paolo” di Pasolini», in Paulus, n. 1 (luglio 2008), 66-67.
[3] D. Guastini, «Chi è San Paolo? Le risposte di Pasolini e Badiou», in Pòlemos 9 (2016), 87-105, qui 89.
[4] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e Silvia de Laude, Mondadori, Milano 1999, 1462.
[5] P.P. Pasolini, Lettere 1955 - 1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988, 639-640.
[6] L. De Giusti, Pier Paolo Pasolini. Il cinema in forma di poesia, Cinema Zero, Pordenone 1979, 156.
[7] Ibidem.
[8] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 22.
[9] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 83.
[10] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 20.
[11] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, 1600-1601: «ai tempi nostri ma senza cambiar nulla [...] restando fedelissimo alle sue lettere».
[12] G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Jaca Book, Milano 1994, 46.
[13] P.P. Pasolini, San Paolo, Garzanti, Milano 2017, 15.
[14] P.P. Pasolini, Lettere 1955 - 1975, 639-640.
[15] P.P. Pasolini, Lettere 1955 - 1975, 576-577. La lettera è stata pubblicata in «Rocca» del 15 novembre 1975.
[16] A. Maggi, The resurrection of the body. Pier Paolo Pasolini from Saint Paul to Sade, University of Chicago Press, Chicago 2009, 22: «This film project [...] is Pasolini’s most direct and sincere self-portrait, his most explicit autobiography».
[17] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.
[18] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.
[19] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 473.
[20] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 472.
[21] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2013, 56: «attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta [...]».
[22] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 472.
* Fonte: Settimana-News, 13 agosto 2020
“La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema” di Massimo Fusillo *
Prof. Massimo Fusillo, Lei è autore del libro La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema edito da Carocci: quale rilevanza ebbe, nel multiforme universo creativo di Pier Paolo Pasolini, la Grecia?
La Grecia antica è stata da sempre un’ossessione per Pasolini: sia in quanto serbatoio di miti e di racconti, sia come metafora della civiltà contadina “illimitata e transnazionale”, che è stata l’oggetto d’amore più bruciante di tutta la sua carriera poetica. La passione per i testi antichi è nata già al liceo e negli anni universitari, quando Pasolini si cimentò in alcune traduzioni poetiche (l’Antigone, l’Eneide), e anche in una prima prova drammaturgica, Edipo all’alba, strano esperimento che dava grande spazio a un’inedita passione incestuosa di Ismene per il fratello, in un linguaggio che doveva molto alle tragedie di Alfieri, e con una prima espressione della propria omosessualità.
Il primo rapporto pubblico con la Grecia è stata la traduzione dell’Orestea, commissionatagli da Vittorio Gassmann per il Festival di Teatro antico di Siracusa nel 1960: una traduzione di grande bellezza poetica, che nasceva da una sintonia con il linguaggio di Eschilo, adattato alle proprie ossessioni e proiettato verso il presente. La traduzione suscitò alcune polemiche in ambito accademico per le sue imprecisioni, ma si impose ben presto come capolavoro di poesia, adottato da vari registi sulla scena contemporanea. Dopo questa prima esperienza come traduttore, il rapporto con la Grecia si concretizzò soprattutto in un cinema molto visuale e corporeo, e in un teatro invece più ideologico e di parola.
Quale valore assumeva per Pasolini il mito antico?
Pasolini è stato un lettore molto appassionato di antropologia e di storia delle religioni: per lui il mito non era certo una fase arcaica del pensiero o solo un insieme di racconti; era un linguaggio complesso, con cui si esprimevano gli strati più arcaici della civiltà umana che tanto lo affascinavano. Al concetto di mito si lega strettamente il concetto di sacro: qualcosa che sfugge totalmente al controllo della razionalità. La sfera magico-sacrale è per Pasolini un modo di leggere il mondo, che ha la sua dignità e la sua profondità: la civiltà moderna, razionale e pragmatica, deve saperla assimilare, sublimare, introiettare; non deve semplicemente superarla o reprimerla.
Questo è un punto importante: Pasolini non era un primitivista, non proponeva un ritorno all’antico, si era formato su Marx e Freud, e quindi su letture razionalistiche del reale che non ha mai abiurato; e si è sempre dichiarato ateo, cosa che viene dimenticata nelle attuali celebrazioni, in cui si ripete spesso che era “cattolico, comunista ed omosessuale”. Un ateo può certo avere il senso del sacro (soprattutto se è un poeta...), e può certo girare un film poeticissimo come il Vangelo secondo Matteo.
In che modo le tragedie greche hanno affascinato Pasolini?
Sicuramente lo hanno affascinato come capolavori di poesia, questo è scontato; ma anche e soprattutto come forma di teatro che sapeva far interagire la riflessione razionale, l’analisi delle emozioni, e l’espressione di passioni violente ed arcaiche, di ritualità ataviche perdute per sempre. È questa straordinaria stratificazione di culture che più lo affascina. Nel suo cinema racconta gli antefatti delle tragedie greche che ha scelto, e riduce di molto la componente verbale e letteraria, dando un rilievo centrale ai linguaggi visuali, ai corpi e ai luoghi. Al contrario, il suo teatro si ispira nella struttura alla tragedia greca classica, ed è un teatro del logos, di parola e di razionalità: pieno di riflessioni filosofiche e politiche. Ma, come sempre in Pasolini, la dicotomia non è mai netta: nel cinema ci sono comunque le parti in cui riprende direttamente il testo della tragedia; mentre il suo teatro di parola esprime anche le limitazioni e l’insufficienza della parola: lo fa proprio l’ombra di Sofocle in Affabulazione.
Quali diverse opere teatrali e cinematografiche pasoliniane hanno ispirato l’Orestea, l’Edipo re e Medea?
L’Orestea ha ispirato, a parte ovviamente la traduzione, il dramma Pilade, una sorta di sequel ambientato nell’Italia del dopoguerra, in cui Oreste incarna la modernizzazione americana, Elettra l’attaccamento fascista e reazionario al passato, e Pilade il progetto autobiografico di trovare una sintesi impossibile fra questi due poli; una modernizzazione non selvaggia, che sapesse assimilare arcaico e moderno. È il programma politico che Pasolini trovava espresso nel finale della trilogia di Eschilo, in cui le Erinni (le furie arcaiche che puniscono i delitti di sangue) si trasformano in divinità benevole, in Eumenidi. Quanto fosse illusorio questo progetto era chiaro a Pasolini stesso, se nel Pilade le Eumenidi ritornano Erinni, e il progresso diventa regresso. -L’idea di sintesi la cercherà ancora in un’altra opera ispirata sempre dal capolavoro di Eschilo: gli Appunti per un’Orestiade africana, a metà fra documentario e fiction, appunti per un’opera che non realizzerà mai, parte di un grosso progetto intitolato Poema del Terzo Mondo. Se l’Orestea ispira una lettura chiaramente politica, l’Edipo re ne ispira una chiaramente psicanalitica. Il film omonimo del 1967 incastona il racconto del mito (sia l’antefatto di Sofocle che la tragedia) in una cornice contemporanea, in cui Pasolini riprende le teorie freudiane in modo molto elegiaco, attraverso immagini della sua infanzia, concludendo con una storia della sua carriera poetica, con accanto la figura chiave di Ninetto Davoli, ragazzo-messaggero e oggetto d’amore. Dall’Edipo re viene anche il dramma Affabulazione, che affronta il complesso di Laio, simmetrico di quello di Edipo: l’aggressività, mista di attrazione omoerotica, del padre nei confronti del figlio maschio. Infine, il film Medea è certo il più antropologico, dedicato al conflitto insanabile fra cultura magico-sacrale e cultura moderna e pragmatica; la prima viene ambientata nelle chiese rupestri della Cappadocia, ed è rappresentata da una cruda scena di sacrificio umano, modellata sulle ricerche di Frazer ed Eliade; la seconda è ambientata nella Piazza dei Miracoli di Pisa. Questa duplicità innerva tutto il film, comprese le due varianti della vendetta di Medea, prima come allucinazione poi come realtà. L’empatia per Medea è realizzata attraverso il volto ieratico di Maria Callas, e grazie a musiche non occidentali scelte assieme a Elsa Morante. Questo stesso schema del viaggio degli Argonauti come forma di colonialismo, che è l’antefatto della Medea di Euripide raccontato anche qui nel film, diventa più apertamente uno schema politico nel romanzo Petrolio, opera summa rimasta incompiuta, che avrebbe dovuto contenere una parte in greco moderno, modellata sul poema di Apollonio Rodio. Il mito diventa così un modo per leggere la storia politica dell’Italia contemporanea.
Massimo Fusillo insegna Letterature comparate e Teoria della letteratura all’Università degli Studi dell’Aquila. Tra le sue pubblicazioni: Il romanzo greco: polifonia ed eros (Marsilio, 1989; Seuil, 1991); L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio (1998, nuova edizione Mucchi, 2012); Il dio ibrido. Dioniso e le Baccanti nel Novecento (Il Mulino, 2006); Estetica della letteratura (Il Mulino, 2009; trad. sp. Machado, 2012; trad. ottomana Dost itb, 2012); Feticci. Letteratura, cinema, arti visive (Il Mulino, 2012; trad. fr. Champion, 2014; trad. ingl. Bloomsbury, 2017); Eroi dell’amore (Il Mulino, 2021).
* Fonte: Letture.org.
Si pone per Kirill una grande sfida. La versione di Spadaro
di Riccardo Cristiano (Formiche.net, 05/03/2022)
“Rimanere nella sua posizione attuale o ascoltare il suo metropolita di Kiev e i fedeli ucraini in comunione con lui che gli chiedono di levare la sua voce?”. Queste le parole del direttore de “La Civiltà Cattolica” rivolte in modo diretto al patriarca di Mosca
Sono parole che pesano eccome quelle, certamente pesate e a lungo meditate, del direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro e rivolte in modo diretto ed esplicito al patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill. Indicano la grande sfida che lo riguarda: “Rimanere nella sua posizione attuale o ascoltare il suo metropolita di Kiev e i fedeli ucraini in comunione con lui che gli chiedono di levare la sua voce?”. Le parole sono esplicite, dirette e seguite da una considerazione altrettanto determinante, che si spiega bene rammentando quella appena citata: “Sento di ricordare le parole che il Papa ha pronunciato nell’Angelus di domenica 20 febbraio: com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi la guerra”.
Il silenzio, sembra dirci il direttore de La Civiltà Cattolica, non si addice a un patriarca, soprattutto in momento così tragico per milioni di ucraini, privati di tutto. Nella conversazione con l’Adn Kronos alla quale qui ci si riferisce il direttore de La Civiltà Cattolica ricorda il punto decisivo e cioè che il metropolita di Kiev unito al patriarcato di Mosca, fedele a Mosca e al patriarca Kirill, “ha chiaramente sostenuto e continua a sostenere la sovranità statale e l’integrità territoriale dell’Ucraina e il 24 febbraio si è appellato al presidente Putin perché fermi la guerra fratricida”. Dunque la sfida sembra potersi presentare così: il pastore cosa fa, ascolta il gregge o ascolta il Cremlino?
Ecco allora che per me è lecito affermare a commento di queste parole importantissime per tutta l’Europa che Mosca è chiamata a fare i conti con la sua teologia, e a farlo rapidamente. Si considera una Chiesa etnica? La rivendicazione di questo conflitto affonda proprio in questo pericolo, esiziale per il cristianesimo, le sue radici. Questo rende questa guerra soprattutto di religione. Quando Putin nega l’esistenza dell’Ucraina indica di fatto di una visione etnicista.
Ma il patriarca Kirill sa bene che nel 1872 il sinodo panortodosso condannò come eresia il “filetismo”, cioè l’idea che la Chiesa dovrebbe essere divisa per linee etniche: “Denunciamo, censuriamo e condanniamo il filetismo, vale a dire, la discriminazione razziale e le dispute, rivalità e dissensi su basi nazionali nella Chiesa di Cristo come antitetico agli insegnamenti del Vangelo e ai sacri Canoni dei nostri beati Padri, che sostennero la santa Chiesa e, ordinando l’intera ecumene cristiana, guidandola alla pietà divina”.
È questa scelta che comporta la scelta decisiva, quella del tipo di rapporto che la Chiesa sceglie di aver con il potere politico. E allora non si può non notare che Formiche.net, pubblicando pochi giorni fa il testo dell’intervento di padre Spadaro alla fondazione ItalianiEuropei sulla guerra, ci ha fatto leggere che il direttore della Civiltà Cattolica ha citato tra virgolette una frase di Pier Paolo Pasolini che aiuta a capire di cosa parliamo e cosa muova Francesco a una geopolitica dalle mani libere che vorrebbe e potrebbe aiutare anche Kirill a liberarsi da retaggi molto pericolosi:
“Cristo non poteva in alcun modo voler dire: accontenta questo e quello, concilia la praticità della vita sociale e l’assolutezza di quella religiosa, dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Al contrario - in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione - non poteva che voler dire: distingui nettamente tra Cesare e Dio, non confonderli, non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di poter servire meglio Dio: non conciliarli: ricorda bene che il mio ‘e’ è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o, se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto, inconciliabili”.
Nessuno pretenderà di portare oggi l’ortodossia russa dal filetismo a Pasolini in poche ore, sebbene drammatiche e decisive. Ma chi ha a cuore le sorti dell’Europa e quindi anche del cristianesimo russo può, non pretendendolo, aiutarlo ad aprire gli occhi e salvare se stesso. La geopolitica dalle mani libere ha certamente questa grande opportunità e potenzialità. A Kirill decidere se accettare la mano tesa, nella chiarezza propria di ogni geopolitica dalle mani libere. Quella mano con una visione che oggi non dimostra nessun altro indica a Kirill, nella chiarezza del richiamo, anche il modo per salvare se stesso. Senza nessuna presunzione, ma solo ricordandogli la voce del suo gregge.
Pasolini, il profeta-sentinella e il culto imperiale del consumo
Nel centenario della nascita, da riprendere il lascito dell’artista che seppe segnalare l’idolatria del nostro tempo
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 5 marzo 2022)
I poeti sono i custodi delle parole - delle loro parole, delle nostre parole di oggi, delle parole di domani. Per questo somigliano molto ai profeti biblici, sentinelle - shomerim - di una parola diversa, che custodiscono affinché le nostre parole non diventino tutte vanitas, soffio, vento, fumo, chiacchiere. Non capiamo la critica radicale di Pier Paolo Pasolini al capitalismo e al consumo senza partire dalla sua riflessione sulla lingua. Lui la vedeva ormai asservita al Potere del consumo, trasformata in un linguaggio che aveva perso contatto con le cose concrete e vive e, quindi, con l’anima del popolo e delle persone. Il destino della lingua gli svelava quello della cultura italiana - e se avesse potuto guardare il mondo un po’ più a lungo vi avrebbe letto anche il destino dell’Occidente, perché si trattava e si tratta dello stesso declino. Si allontanavano entrambe, Italia e lingua, da qualcosa di povero, duro, severo ma vero, da un mondo «puramente umano, accoratamente umano» ( Le ceneri di Gramsci, p. 45), e si avvicinavano a un nuovo mondo meno povero, duro, severo ma che diventavano ogni giorno meno vero. Il discorso di Pasolini sulla lingua è dentro la sua ricerca vitale di un fondamento non-finto, di un’origine, di una pietra angolare dell’esistenza che la trattenesse dallo sprofondare nel nulla.
Mio nonno Domenico, contadino e spaccapietre nella cava di travertino, quando parlava nel suo dialetto ascolano ci incantava tutti con le parole della sua lingua madre. Con quel lessico arcaico faceva parlare le sue emozioni più profonde, chiamava per nome la vita sua e quella degli altri, viveva tra le cose e sapeva come nominarle. Gli rispondevano il dolore, l’amore, la pietà, Dio, i dèmoni, e lui li capiva; e con essi imbastiva un dialogo intenso e vero, ogni giorno - la prima preghiera, e l’ultima, si recitano bene solo in dialetto. Ma non appena doveva parlare in italiano, la sua lingua si immiseriva, diventava insicuro e impacciato, si vergognava, era meno bello, perdeva dignità. Col passare del tempo il ricordo vivo di questa forma di violenza mi appare sempre più ingiusta e sbagliata, la sua memoria mi fa soffrire. E finalmente capisco Pasolini: «Quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani... allora la nostra storia sarà fi- nita» (dal film La rabbia, 1963). E capisco, forse, anche la sua critica al capitalismo: «L’italiano diventa la lingua delle aziende, del mercato» (Interviste corsare, p. 216) - chissà cosa direbbe del finto inglese che è subentrato a quell’italiano? Capisco la sua lode per il lavoro artigiano, che è l’opposto della nostalgia: è un urlo per salvare le cose e la loro verità, perché togliendo le mani umane dalle cose queste vengono manipolate da una ideologia senza carne e sangue. L’artigiano e il dialetto non sono in Pasolini età dell’oro perduta e da rimpiangere, ma terra promessa ancora da raggiungere. La tv diventa il primo agente della ’strumentalizzazione’ della lingua (Empirismo eretico, p. 19), perché «è attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere» (Scritti corsari, p. 24).
La critica che Pasolini fa del capitalismo (e quindi della modernità) non è meno grande e profonda delle grandissime critiche di Walter Benjamin, di Pavel Florenskij, di Ernesto de Martino o di Gramsci e Marx. Perché Pasolini capisce che il capitalismo si apre e si la- scia decifrare se lo leggiamo come fatto antropologico e teologico e non solo come economia. In particolare, Pasolini intuisce che la svolta decisiva della cultura capitalista era avvenuta con l’arrivo del consumo di massa. Fino a quando il capitalismo era rimasto centrato sull’impresa e sul lavoro, lo spirito italiano, cattolico, comunitario e mediterraneo non ne era rimasto incantato e catturato. Perché sotto le Alpi il lavoro è sempre stato soprattutto fatica, travaglio, non vocazione (beruf) né tantomeno benedizione ed elezione divina. Si lavorava per destino, perché si doveva lavorare, per mangiare, per far vivere meglio i figli, e se si poteva campare senza lavorare tanto meglio. Il cambiamento epocale è avvenuto nella seconda metà del Novecento, quando l’asse del capitalismo si spostò dalla produzione al consumo, un cambiamento che ha conquistato velocemente e totalmente l’Italia (e i Paesi cattolici).
Per una civiltà cattolica centrata sulla ’cultura della vergogna’ (non sulla protestante ’cultura della colpa’), sull’ostentazione delle cose, su una ricchezza che vale solo se gli altri la possono vedere e invidiare, il capitalismo della fatica e della fabbrica era poco attraente: ma il capitalismo delle merci e dei consumi divenne una tentazione irresistibile. Ha così comprato subito corpi e anime molto più in profondità di quanto non avessero fatto le grandi ideologie fasciste, cattolico democratiche o comuniste, che «si limitavano a ottenere la loro adesione a parole» (Scritti corsari, p. 22). Sta qui la ’svolta antropologica’ del consumismo, che è anche svolta teologica.
Molto del genio profetico di Pasolini sta nella comprensione di questa natura religiosa del capitalismo, nel suo «odio teologico contro il consumismo italiano» ( Lettere luterane, p. 195). I consumatori sono devoti «adoratori di feticci» (Ivi, p. 34), in un nuovo Impero che ha finalmente riunito popolo e borghesia: «Le due storie si sono unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo» ( Ivi, p. 24). Un capitalismo religioso, ma, come diceva Benjamin, di una nuova religione senza metafisica e dogmi, una religione di puro culto (Capitalismo come religione, 1922). Culto quindi cultura, come scriveva sempre nel 1922 il filosofo e teologo russo Florenskij: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto» ( La concezione cristiana del mondo, p. 124). Anche per Pasolini il culto è decisivo: «La conformazione a tale modello [consumista] si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenza: quindi nel corpo e nel comportamento» ( Scritti corsari, p. 53).
Oggi vediamo con chiarezza che la forza straordinaria e senza precedenti della civiltà dei consumi sta proprio nel suo essere culto quotidiano e globale, senza shabbat e senza domenica, una prassi continua che informa ogni dimensione della vita individuale e collettiva, qualcosa di simile a quanto succedeva con la religione cristiana nell’Europa premoderna. I critici del capitalismo scrivono libri e fanno conferenze, ci illudiamo di cambiare il mondo scrivendo, mentre i sacerdoti del nuovo culto celebrano liturgie in tutti i momenti di tutti i giorni: «Ora il cristianesimo è diventato concorrente di quel fenomeno culturale ’omologatore’ che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo» ( Ivi, p. 23). Una nuova religione laicissima senza metafisica, che ha accomunato tutto e tutti, fascisti e antifascisti, cattolici e comunisti, credenti e atei, senza «alcuna differenza apprezzabile» ( Ivi, p. 42), tutti adoratori degli stessi totem.
La critica al capitalismo di Pasolini doveva essere presa molto sul serio soprattutto dalla Chiesa che, mentre combatteva le sue battaglie per l’etica familiare e contro il comunismo, non si accorgeva che un nuovo impero pagano stava occupando il cuore delle persone senza incontrare nessuna resistenza etica.
I poeti e i profeti custodendo le parole custodiscono la nostra anima. Sono sentinelle appostate sulle porte dei santuari degli idoli e fanno di tutto per non farci entrare. Sanno bene di non riuscirci, eppure restano fedeli nel loro posto di vedetta.
Anniversari.
Il centenario di Pier Paolo Pasolini, grande inattuale
Lo scrittore, nato il 5 marzo 1922, è stato a lungo controverso per opere spesso scandalose. Ma, nell’epoca del disimpegno, è rimasta viva la sua critica sociale
di Roberto Carnero (Avvenire, venerdì 4 marzo 2022)
Cent’anni dalla nascita è uno di quegli anniversari tondi che determinano attenzione e riflessione attorno a un autore, a maggior ragione un autore come Pasolini, sulla cui opera è fiorita negli anni una produzione critica che non ha il pari con quella relativa a nessun altro scrittore del Novecento. Un anniversario come questo è l’occasione per porsi alcune domande. Ne voglio isolare tre.
Qual è l’originalità di Pasolini? Quali le ragioni della sua importanza? In che cosa è ancora attuale? Domande alle quali bisogna provare a rispondere senza retorica, uscendo dalla tentazione dell’agiografia: Pasolini va affrontato e discusso, non necessariamente approvato in tutto ciò che ha fatto o ha detto. La sua originalità è legata all’estrema versatilità del percorso creativo: Pasolini esordisce come poeta (Poesie a Casarsa, 1942), prosegue come romanziere (Ragazzi di vita, 1955), continua come regista di film (a partire da Accattone, 1961), scrive per il teatro e per i giornali, è critico letterario ed editorialista. Dipingeva anche: e forse quest’ultima è l’unica concessione al dilettantismo in una carriera artistica in cui ha raggiunto vette altissime in ogni settore in cui si è cimentato. Ma la sua opera va letta nel suo insieme, senza scindere i diversi generi: allora appare davvero come una grande opera ’totale’, in cui le diverse fasi si intrecciano in un discorso creativo aperto e mobile.
Quanto all’importanza di Pasolini, nessun altro scrittore della sua epoca ha lasciato una traccia, nel vissuto nazionale e nella nostra memoria collettiva, simile alla sua, attraverso l’opera e la vita. L’importanza di Pasolini non riguarda solo la letteratura e la cultura, ma anche la storia italiana, poiché con essa egli ha continuato a confrontarsi, convinto com’era della responsabilità morale e civile dell’intellettuale.
Seppure non senza alcune ambiguità e personali idiosincrasie, Pasolini è stato capace di interrogarsi sul presente, di leggere la contemporaneità in relazione al passato, e dunque di intuire le direzioni in cui il futuro si sarebbe incamminato. Senza per questo essere un ’profeta’: definizione tanto abusata da diventare un frusto luogo comune.
Pasolini è attuale? Per la sua posizione scomoda, ai suoi tempi Pasolini è stato un grande "inattuale". Prima, nei confronti della politica, è stato un intellettuale "disorganico", autonomo e indipendente da qualsiasi ipoteca ideologica; poi, mentre, dalla fine degli anni Cinquanta in avanti, veniva meno presso gli artisti italiani la dimensione dell’impegno e si affermava la cultura postmoderna portatrice di un’idea dell’arte (letteratura compresa) ludica e giocosa, in Pasolini, invece, persiste - e anzi sembra intensificarsi nell’estrema fase del suo lavoro (si pensi agli interventi degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, al romanzo incompiuto Petrolio o anche a un film scioccante e disturbante come Salò) - una tenace volontà di critica alla società dei consumi, ai suoi falsi valori e alla prassi politica di quegli anni. Ma paradossalmente quella che allora poteva essere considerata l’inattualità di Pasolini si è trasformata dopo la sua morte, sempre più, sino a oggi, in una fortissima, singolare attualità.
È come se, dopo le censure e gli ostracismi subìti in vita, ora Pasolini, quasi per una sorta di compensazione riparativa, sia divenuto una presenza costante e ineludibile. Sarebbe bello che l’occasione del centenario pasoliniano venisse còlta soprattutto dai più giovani, da quei ragazzi a cui Pasolini ha dedicato tante delle sue riflessioni e ai quali continuava - e continua tutt’oggi - a parlare. Purtroppo è ancora un autore che si incontra poco a scuola (come, del resto, quasi tutti i contemporanei). I giovani conoscono il nome di Pasolini e magari qualche sua citazione trovata in rete o sui social. Ma spesso ne ignorano l’opera: le poesie, i romanzi, gli interventi giornalistici, i film. È il momento di scoprirli.
Emanuela Patti, Pasolini after Dante. The ‘Divine Mimesis’ and the Politics of Represen-tation , Cambridge, Modern Humanities Research Association, 2016, pp. 178.
di Paolo Desogus *
Con Pasolini after Dante. The ‘Divine Mimesis’ and the Politics of Representation Emanuela Patti aggiunge alla critica pasoliniana uno studio destinato a riaprire il fronte della discussione sulle fonti che hanno contribuito a costruire l’impianto poetico e teorico dello scrittore friulano. Il volume non ha però il solo merito di ricostruire filologicamente il legame tra Dante e Pasoli-ni, ma ha anche quello di rischiarare, alla luce della lettura della Commedia , quell’intreccio di questioni che unisce linguistica, riflessione poetica e politica nella prospettiva di una mimesi capace di coniugare tradizione letteraria e sperimentazione stilistica, realismo e vitalismo, ideologia ed empirismo assunto come antidoto anti zdanoviano.
Il titolo del volume potrebbe per questo trarre in inganno: ‘dopo Dante’ non indica tanto una successione o un passaggio di testimone, quanto la capacità della Commedia di attualizzarsi nell’orizzonte storico di Pasolini per assumere, attraverso la propria specificità linguisti-ca e stilistica, il carattere di funzione in grado di integrare questioni sia letterarie che politiche apparentemente slegate tra loro. Nell’ottica pasolinaina il nome di Dante costituisce infatti la punta emergente su cui convergono la lettura degli scritti di Antonio Gramsci sul ‘nazionale-popolare’, la riflessione sul tema del plurilinguismo condotta in primo luogo sotto il magiste-ro di Gianfranco Contini e l’analisi delle nozioni di figura e di realismo a partire dagli studi compiuti da Erich Auerbach.
Come emerge dal volume di Patti, il principale luogo in cui questa funzione si esercita è quello della lingua, intesa come sistema espressivo e come spazio comunitario che mette in contatto voci, passioni ed esperienze del reale. La parola in questo senso non è mai neutra: essa vive insieme ai corpi che la parlano e che si confrontano con la realtà. Il plurilinguismo, la concezione figurale e la commistione degli stili della Commedia si inseriscono in questo senso nella riflessione intorno agli usi letterari della parola altrui e in particolare al regresso nella lingua dei subalterni. Quello che però è cruciale è che soprattutto negli anni Cinquanta questa apertura all’altro è alla base dell’originale rilettura pasoliniana delle note sulla let-teratura nazionale-popolare dei Quaderni del carcere.
La prospettiva gramsciana di rivivere i sentimenti delle classi lasciate ai margini della storia, sintetizzandoli ed elevandoli a materia artistica, trova infatti in Pasolini una soluzione linguistica che non ha altri esempi nel dibattito letterario italiano dell’epoca, troppo spesso segnato da un contenutismo di scarse ambizioni e dall’incapacità di riflettere sul problema dello stile.
Il nesso Gramsci-Contini-Auerbach stabilito sotto l’egida dantesca va però anche oltre la produzione letteraria. Se la lingua costituisce la materia per l’elaborazione dello stile e per il regresso nell’alterità subalterna, allo stesso modo essa è il luogo di verifica delle trasformazioni storico-politiche: nei margini di possibilità dello stile lasciati dalla lingua l’autore misura infatti il grado di penetrazione della cultura dei consumi nella vita sociale dei parlanti. La stessa crisi del realismo degli anni cinquanta, che aveva guidato la stesura dei romanzi romani, non poteva che emergere dall’analisi della lingua, che l’autore sente trasformarsi e mano a mano alienarsi fino a coinvolgere i suoi stessi parlanti e i loro modi di vivere e sentire il mondo.
Come mostra Patti nell’ultima parte del volume, l’opera che meglio riesce a sintetizzare questa trasformazione è La Divina Mimesis , le cui prime stesure risalgono all’inizio degli anni sessanta, in prossimità della nascita della Neoavanguardia. In questo romanzo felicemente incompiuto, l’autore si confronta con un paesaggio linguistico definitivamente mutato che neutralizza la possibilità di una letteratura nazionale-popolare fondata sulla pluralità linguisti-ca delle classi subalterne ricavata da Dante. Allo stesso modo Pasolini vede fallire il modello dello scrittore che si pone come punto di mediazione tra cultura alta e cultura bassa. Il risul-tato è una riflessione esemplare sull’autorialità, che nella Divina Mimesis si risolve nella messa in scena del proprio agire, del proprio essere e lottare.
* Fonte: «Studi pasoliniani. Rivista internazionale», n. 11, 2017.
Emanuela Patti - Pasolini after Dante. The «Divine Mimesis» and the Politics of Representation
Scritto da Cristina Savettieri. *
[ Legenda, Oxford 2016 ]
Il libro di Emanuela Patti sul Dante di Pasolini è, sul piano del metodo, uno studio esemplare: poggia, infatti, su un’idea di ricezione che non ha niente a che vedere con modelli di relazione unidirezionali, basati sul principio dell’influenza dimostrabile attraverso indagini intertestuali, e collauda una pratica di lettura dei fenomeni culturali fatta di triangolazioni. Partendo da un assunto fondamentale di Stuart Hall, uno dei padri dei cultural studies, Patti lavora sul «circuit of culture» del campo letterario italiano tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, scegliendo come specola di osservazione l’opera di Pasolini e la sua complessa relazione con il modello linguistico, poetico e ideologico di Dante. Questo significa che quella che abbiamo davanti non soltanto è una monografia su Pasolini ma diventa anche una accuratissima ricostruzione archeologica degli usi del realismo nella cultura italiana del secondo dopoguerra e dell’impatto che la ricezione di Dante ebbe su essa. Pasolini è un attore primario di questo contesto e seguirne la traiettoria illumina alcuni elementi fondamentali di quel torno cruciale di anni tra i Cinquanta e i Sessanta: la questione della lingua e quella dell’impegno, la mediazione tra cultura alta e cultura popolare, la rappresentazione dei subalterni.
La tesi principale di Patti, argomentata con un solido sostegno di fonti, è che Pasolini modelli le proprie posizioni sul realismo a partire da un incontro “mediato” con Dante: se nei primi anni Cinquanta è il Dante di Contini - e in particolare dello storico saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca (1951) - a modellare le riflessioni di Pasolini sulla rappresentazione dell’altro e il suo cruciale incontro con Gramsci, alla fine del decennio sarà la lettura di Mimesis e dei saggi danteschi di Auerbach a spingere Pasolini verso una pratica artistica intermediale. I concetti chiave di queste due fasi sono il plurilinguismo, che combinandosi al magistero gramsciano ispira le antologie di Poesia dialettale e di Poesia popolare e la composizione di Ragazzi di vita (1955), e il realismo figurale fondato sull’appropriazione del principio della Stilmischung, che nutrirà invece la ricerca di ibridazione intermediale della produzione cinematografica da Accattone (1961) al Vangelo secondo Matteo (1964). Patti non soltanto mostra come le auctoritates di Contini e Auerbach filtrino l’avvicinamento di Pasolini al modello dantesco, ma spiega anche in dettaglio come questi “filtri” reagiscano al paradigma gramsciano e producano esiti distinti da quelli di altri attori nel campo. Questo andamento per triangolazioni, fatto di costruzione diacronica e affondi sincronici, produce acquisizioni illuminanti.
La Divina Mimesis è infine letta da Patti come punto di massimo avvicinamento a Dante e, contemporaneamente, come gesto di radicale e consapevole allontanamento. Per certi versi, infatti, nell’opera scritta a strati tra il ’63 e il ’65 - con un ulteriore ripresa nel ’67 e poi, per un’ultima volta, nel ’74-75 - i due dantismi di Pasolini trovano un punto di sintesi: La Divina Mimesis è, infatti, una profonda riflessione sul plurilinguismo ma anche un esperimento di ibridismo intermediale condotto secondo il principio della Stilmischung. Al tempo stesso, questa è l’opera in cui proprio l’utopia del plurilinguismo come mezzo di rappresentazione dell’altro entra in crisi.
Patti individua nei primi anni Sessanta il momento in cui Pasolini si congeda dal modello intellettuale degli anni Cinquanta e dal suo ideale di realismo “inclusivo”. Il merito principale del libro è di osservare questo snodo cruciale in maniera stratigrafica, restituendo, attraverso un’analisi puntuale dei testi come parte del «circuit of culture», tutto il travaglio poetico e ideologico che segna la svolta performativa di Pasolini autore ormai scisso: quella, cioè, in cui si consuma il passaggio da una politica della rappresentazione a una «politics of self-representation», come felicemente Patti la definisce.
*Fonte: Allegoria
“Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione”
di Emanuela Patti (Le parole le cose, 2412.2015)
I
Mimesi. “Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi”, scriveva Daniele Giglioli qualche settimana fa in apertura di un suo contributo su Réné Girard pubblicato su LPLC. E questo è anche il punto di partenza del rapporto tra Pasolini e Dante, fortemente incentrato sui temi della rappresentazione e dell’imitazione. Nella riflessione pasoliniana sulla “realtà rappresentata” (mimesis), Dante ha avuto di fatto un ruolo di primo piano. Negli anni Cinquanta la sua influenza ha preso la forma di un certo “realismo dantesco” nella narrativa e poesia pasoliniana, a partire dall’esempio di oggettività, sperimentalismo e plurilingualismo di Dante diffuso da un saggio di Gianfranco Contini del 1951, “Preliminari sulla lingua del Petrarca”. In particolare, il plurilinguismo sarebbe diventato per lui un modello per ripensare la rappresentazione dell’altro (delle classi subalterne e della loro realtà) a livello sociologico, in relazione alla “questione della lingua” e del “nazional-popolare”. Nei primi anni Sessanta, invece, Dante è diventato fonte di ispirazione di un certo “realismo figurale” nel cinema pasoliniano a partire dai concetti di figura e “contaminazione degli stili” di Erich Auerbach - come emerge chiaramente nella fase “nazional-popolare” del suo cinema che va da Accattone (1961) a Il Vangelo secondo Matteo (1964). In questi film la contaminazione degli stili, tradotta in ibridazione di pittura, musica, letteratura ed immagini in movimento, ha consentito associazioni semiotiche piuttosto radicali tra cultura alta e cultura bassa e, nello specifico, tra la figura di Cristo e quella del sottoproletariato.
Sulla base di queste premesse, l’ipotesi di questo libro è che Pasolini abbia trovato in Dante - e più precisamente in alcune interpretazioni critiche della sua opera (in particolare quelle di Contini ed Auerbach) - un modello con cui rispondere, in ambito artistico, ad una domanda estetico-politica di grande rilevanza per il suo tempo: la rappresentazione dell’altro, il popolo. Che cosa significa “popolare” in poesia, narrativa, cinema? E qual è il ruolo dell’intellettuale/poeta che vuole rappresentare il popolo in modo realistico?
In questo discorso, è chiaramente cruciale per Pasolini la connessione tra l’esempio di Dante e quello di Cristo, in quanto entrambi rappresentano, come ricorda Auerbach, gli esempi, per eccellenza, di radicale contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, tra la parola e la carne. Attraverso la tradizione cristiana a lui disponibile, Dante riesce a raggiungere questa integrazione tramite il doppio ruolo di auctor/actor che gli consente di combinare la funzione intellettuale con l’illusione di un reale viaggio fisico attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ed è proprio questo modello di “poeta della realtà” ad offrire a Pasolini, almeno negli anni Cinquanta, un esempio, sul piano linguistico ed autoriale, di integrazione delle due funzioni, in pieno clima ideologico post-crociano.
Eppure, per Pasolini, come l’autore scriverà nel 1965 in “La volontà di Dante “a” essere poeta”, il realismo di Dante rimane un mistero. L’incarnazione, vera ambizione del suo realismo, gli parrà ad un certo punto problematica in letteratura. L’originalità con cui Pasolini ha affrontato l’argomento della “realtà rappresentata” in relazione alle classi subalterne ha comunque avuto il merito di mettere in evidenza il divario esistente tra il cuore idealistico del discorso etico-politico delle culture realiste del suo tempo e il livello dialettico, materiale dell’esperienza artistica.
Nel contesto del periodo considerato, la riscrittura pasoliniana della Divina Commedia, La Divina Mimesis, il cui corpus principale è stato scritto tra gli anni 1963 e 1965 - con un momento di brusca interruzione proprio dopo le celebrazioni per i 700 anni di Dante nel 1965 - si colloca in un momento di svolta nella carriera pasoliniana e costituisce la sua fondamentale riflessione sul ruolo autoriale, misurato, appunto, sull’imitazione di Dante. La riscrittura pasoliniana della Divina Commedia non prenderà mai forma compiuta e resterà nel cassetto per anni, con poche ma importanti aggiunte di note o frammenti. Eppure, Pasolini decise di consegnare all’editore quest’opera, proprio nel suo stato incompiuto e frammentario, pochi giorni prima di essere ucciso nel novembre del 1975. La Divina Mimesis verrà pubblicata postuma qualche settimana dopo ed è una delle più significative dichiarazioni poetiche che l’autore ci ha lasciato.
Per mettere in luce le relazioni che questo testo frammentario ed incompleto stabilisce con l’attività poetica, narrativa e saggistica di Pasolini negli anni Cinquanta, il suo primo cinema e il dibattito sulla “nuova questione della lingua” ed il nazional-popolare, la rappresentazione di Dante in Pasolini viene qui affrontata come un fenomeno complesso e stratificato di appropriazione creativa che va interrogato a diversi livelli. Innanzitutto, le interpretazioni critiche di Dante nel dopoguerra italiano: quale modello di Dante è stato diffuso nelle letture di Contini e Auerbach? E poi, in che modo Pasolini si è appropriato di queste letture e come è stato usato il modello di Dante per ripensare la rappresentazione delle classi subalterne in relazione ad altri modelli culturali come quello gramsciano?
II
Realismi. Va subito detto che le forme di “realismo” del dopoguerra - tipicamente associate all’impegno ideologico del neorealismo o del realismo socialista di raccontare le condizioni di vita del popolo o dei socialmente esclusi nell’ambito del progetto nazional-popolare - risultavano a Pasolini insufficienti e con non poche contraddizioni. Innanzitutto, queste spesso rivelavano una mancanza di “reale” esperienza dell’altro da parte dell’artista borghese, con la conseguenza di restituire rappresentazioni stereotipate e poco autentiche. -Nel volume resta infatti sottesa la questione - recentemente discussa anche nel libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi (2015) - che riguarda i limiti di alfabetizzazione e di potere delle classi subalterne nell’auto-rappresentarsi in letteratura, condizione alla base dell’impegno di molti intellettuali, normalmente appartenenti ad una classe più alta, di “parlare per loro”. Questo è un punto che Pasolini solleva già nel 1952 anche per la poesia dialettale, mettendo in evidenza il falso binomio tra realismo e dialetto (vedi Poesia dialettale del Novecento), quella che Fortini chiamava la “coltivazione artificiale dei dialetti”.
In secondo luogo, non venivano messe in discussione le strutture linguistiche che veicolavano contenuti della realtà finendo per utilizzare una lingua tipicamente borghese per rappresentare il popolo. Lo sperimentalismo linguistico non era nell’agenda del realismo. Un’altra contraddizione emergente nella riflessione pasoliniana sul realismo riguarda i limiti del medium letterario che può solo sviluppare forme di approssimazione all’esperienza emozionale e fisica di una determinata realtà. Come imitare la lingua e i comportamenti degli altri è stato di fatto il principio guida della sua sperimentazione narrativa attraverso vari media artistici, in particolare nel passaggio dalla letteratura al cinema. È costante in Pasolini il desiderio di annullare la virtualità delle rappresentazioni egemoniche, nel suo tentativo di trasformare la parola, letteralmente, in carne.
III
1951. Realismo dantesco. La lezione di Gianfranco Contini fu per Pasolini determinante. Attraverso la sua interpretazione di Dante, Contini implicitamente offriva agli scrittori del dopoguerra un modello linguistico-letterario post-crociano. Nel suo saggio, “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951), contrapponeva il monolinguismo petrarchesco al plurilinguismo dantesco: al primo Contini faceva corrispondere lo stile linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido, sperimentale ed aperto alle contaminazioni di stile, genere e lingua. In linea con i valori ideologici di quegli anni, questo rispondeva all’esigenza di un approccio autoriale basato su un rapporto dialettico nei confronti della realtà. Pasolini fu particolarmente ricettivo verso questa lettura, non ultimo per lo speciale rapporto che lo legava a Contini - vale la pena ricordare che quest’ultimo fu il primo a riconoscerlo come “autore” scrivendo la sua recensione della prima raccolta poetica di Pasolini, Poesie a Casarsa (1942).
Non a caso, Dante e le sue tecniche poetiche e narrative - lo sperimentalismo, la contaminazione dei linguaggi - sarebbero state conciliate da Pasolini con la vocazione ideologica di rappresentazione delle classi subalterne. Va infatti precisato che l’Italia di quegli anni presentava uno scenario di bilinguismo non troppo diverso da quello di Dante. L’italiano era principalmente la lingua letteraria dell’élite, mentre la maggior parte degli italiani parlava i dialetti. Esisteva sicuramente un’affinità tra l’Italia di Pasolini e quella dei tempi di Dante: simile era il divario tra lingua istituzionale “alta” del potere, della scienza e della religione (latino) e la varietà plebea del volgare.
Come Dante, Pasolini partecipava ad entrambi i mondi linguistici. Sia per Dante che per Pasolini era dunque fondamentale la questione di come tradurre il plurilinguismo in letteratura. Per gli scrittori del dopoguerra si poneva infatti la questione di come realizzare una cultura nazional-popolare, o meglio popolare-nazionale, in altre parole, in che modo fare entrare il popolo nella scena della rappresentazione letteraria, dunque identitaria del Paese. Lo scrittore impegnato si trovava quindi a svolgere una funzione di ponte tra intellettuali e popolo che aveva come obiettivo proprio la rappresentazione. Non troppo distanti erano le parole di Gramsci quando parlava di “rappresentanza” nei Quaderni del carcere:
Se è vero, come scriveva Gramsci, che in Italia il divario tra letteratura nazionale e realtà sociale era enorme in Italia, tuttavia il pensatore sardo non forniva indicazioni sul come colmare questo divario in letteratura. Partendo da queste riflessioni, Pasolini prese a cuore proprio la questione del come. Come può uno scrittore borghese, socialmente e psicologicamente diverso dai suoi personaggi e dalla loro realtà, rappresentarli senza imporre egemonicamente la propria lingua, dunque visione del mondo?
Il paradigma continiano che opponeva plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco offriva una risposta stilistica e venne sviluppato in due direzioni principali nell’opera pasoliniana: (1) un’espansione della lingua poetica verso il reale che ha portato allo sperimentalismo linguistico in poesia (in particolare, Le ceneri di Gramsci); e (2) un approccio mimetico verso la lingua dell’altro che ha portato, specialmente in narrativa, a ciò che Pasolini chiamò la “regressione nel parlante” (una sorta di uso performativo del linguaggio, messo in atto per evitare rappresentazioni aprioristiche delle classi subalterne).
Su questi due pilastri Pasolini ha sviluppato la sua filosofia del linguaggio in alcune delle sue principali opere poetiche, narrative e saggistiche degli anni Cinquanta come Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita e l’attività di Officina. In quest’ottica, il plurilinguismo di Dante è stato assunto da Pasolini come il miglior modello letterario di performatività attraverso il quale colmare il divario tra la teoria e pratica del “realismo” negli anni Cinquanta. Vale dunque la pena sottolineare che da Ragazzi di vita a Le ceneri di Gramsci, da La Mortaccia a La Divina Mimesis, per Pasolini attraversare l’Inferno non significava fare esperienza del peggior destino possibile, ma anzi provare empatia verso gli altri e, attraverso l’empatia, dare voce alla vita degli altri.
Per quanto si tratti di un’esperienza virtuale, quella che Pasolini ha definito come l’opera più realistica della letteratura italiana, La Divina Commedia, di fatto evoca intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità. È in affinità con queste considerazioni che Pasolini formula progressivamente il suo concetto di “regressione nel parlante” e di “intellettuale mimetico”, presenti già in alcuni scritti dei primi anni Cinquanta, ma emersi più esplicitamente solo nei saggi sulla lingua e su Dante del 1965. Sentire il popolo per capirlo, scriveva ancora Gramsci qualche riga prima nella citazione sopra riportata. Non è forse questo il messaggio che compare tra le righe de Le ceneri di Gramsci, scritto in una lingua che fortemente richiama quello sperimentalismo linguistico dantesco? E che cos’è La Divina Mimesis se non il racconto impossibile di un viaggio agli Inferi? [...]
CONTINUAZIONE NEL POST SUCCESSIVO
“Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione”
di Emanuela Patti (Le parole le cose, 2412.2015)
IV
Realismo figurale. Se la ricezione del plurilinguismo di Dante ha avuto luogo in un momento storico-culturale in cui Pasolini credeva che la cultura potesse essere rinnovata attraverso la letteratura, la sua appropriazione della “contaminazione degli stili” - un concetto chiave della lettura di Auerbach della Divina Commedia - è stato il pretesto per guardare oltre la letteratura. Nel 1956 Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur veniva finalmente tradotto in italiano [Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale] e pubblicato da Einaudi, e solo alcuni mesi dopo troviamo già i primi riferimenti alla sua terminologia e l’uso di espressioni come sermo humilis, sermo piscatorius, e, appunto, “contaminazione degli stili”. Il saggio “La confusione degli stili” (1957) di Pasolini, per esempio, risulta già un tentativo di applicare la nozione di Auerbach alla tradizione letteraria italiana per verificarne il grado di contaminazione culturale. Ma è soprattutto nel cinema che Pasolini ottiene i migliori risultati di appropriazione del realismo figurale di Auerbach. Uno dei primi e più significativi riferimenti si trova nella ‘Nota su Le notti’ (1957), scritto dopo la sua collaborazione con Fellini a Le notti di Cabiria: “Fellini mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti. Io, gattino peruviano accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach”.
I concetti di “contaminazione degli stili” e di “realismo figurale” sono quanto Pasolini trova di più utile per concepire il suo stile cinematografico in quelle sue prime esperienze accanto a Fellini. Nel suo cosiddetto cinema “nazional-popolare”, Pasolini di fatto traduce la contaminazione degli stili in una forma di ibridazione di media artistici (pittura, musica, letteratura e cinema), usando il concetto di figura per creare interconnessioni semiotiche tra i protagonisti dei suoi film (Accattone, Ettore, Stracci, e Gesù Cristo) e la figura Christi.
La contaminazione degli stili viene infatti usata come strategia estetica per redifinire i confini gerarchici della rappresentazione sociale. Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima solo suggerita attraverso associazioni simboliche musicali (per esempio, attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo morto di Mantegna o alla Deposizione di Pontormo), e sculture (la figura dell’angelo e la croce in Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo.
Non solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto ‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in questa combinazione di rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali e rappresentazioni fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini raggiunge un realismo creaturale di grande portata. Salvare, attraverso la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la scomparsa della loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta segna quel passaggio fondamentale, nella carriera di Pasolini, dalla fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale, quello delle borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza al di fuori dell’“universo orrendo” nei primi anni Sessanta e poi la definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello capitalistico/consumistico e quello comunista - che in entrambi i casi rappresentavano per Pasolini, come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale, la Lingua dell’Odio. A quest’altezza, per Pasolini, sacralità è sinonimo di esclusione: auto-esclusione come salvezza dall’omologazione culturale. Giorgio Agamben, non a caso personaggio de Il Vangelo, ne avrebbe scritto in Homo Sacer.
V
1965. Centenario dantesco. In occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, Pasolini aveva rilasciato un’intervista radio la cui trascrizione è rimasta inedita fino al 1999 e poi finalmente pubblicata nell’edizione Meridiani Mondadori dei Saggi sulla letteratura e sull’arte. Questo testo, “Dante e i poeti contemporanei”, aiuta a ricostruire quelle interconnessioni, rimaste invisibili per oltre quarant’anni, tra La Divina Mimesis, la sua attività poetica, narrativa e saggistica degli anni Cinquanta (in particolare, le antologie Poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana, Ragazzi di vita, Le Ceneri di Gramsci, il lavoro di Officina, “In morte del realismo”), il suo cinema “nazional-popolare” (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo) e gli scritti coevi sulla lingua.
Tutti questi documenti hanno in comune un continuo dialogo con Dante sulla rappresentazione, attraverso il quale, come anticipato sopra, Pasolini ha tentato di dare nuovo significato alla nozione di “plurilinguismo” prima, e “contaminazione degli stili”, poi, due concetti dai confini spesso evanescenti, alla base del suo progetto di radicale contaminazione tra “cultura alta” e “cultura bassa”. Dichiarava Pasolini in quell’occasione:
Il testo critico a cui Pasolini fa riferimento è “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951); il gruppo di addetti ai lavori - la cosiddetta “compagnia picciola” - erano gli scrittori gravitanti intorno ad Officina, nonché Sanguineti e Fortini; ed è evidente, dalle parole di Pasolini, che Dante era stato preso come modello linguistico, stilistico, ma anche ideologico di un certo modo di fare letteratura sperimentale, decisamente in opposizione all’“istituzione letteraria” (la “Letteratura”). Lo sguardo di Pasolini è tuttavia retrospettivo: come afferma in conclusione, quell’idea di realismo è superata e con essa una certa lettura dantesca.
Sempre in occasione del centenario dantesco, Pasolini era stato invitato da Anna Banti, direttrice insieme al marito Roberto Longhi della rivista Paragone, a contribuire ad un numero speciale in occasione del centenario. Pasolini avrebbe inviato un articolo, “La volontà di Dante “a” essere poeta” (1965), che metteva infatti in discussione proprio quell’interpretazione di Dante che tanto formativa era stata per lui negli anni Cinquanta, come dichiarato nell’intervista radio sopra riportata.
In sintesi, svelando per la prima volta l’archeologia di quel modello formativo, Pasolini rileggeva il plurilinguismo dantesco mettendo fondamentalmente in discussione i limiti del medium letterario e il ruolo dell’auctor. Inutile dire che il saggio avrebbe fatto infuriare dantisti e filologi della portata di Cesare Segre e Cesare Garboli, che leggevano il testo pasoliniano come un’incursione militante nella critica accademica, un intervento intellettuale inappropriato e fuori luogo - “una danza astratta sulla superficie di qualche “auctoritas” con le carte in regola” (Segre) -, e persino irritante. Scriveva infatti Garboli: “questo tipo di critica oracolare, divineggiante, eccitatissima, rabdomatica, tutta sui nervi, sempre affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di scoprire l’America, magari prendendo per nuove rive territori marcatissimi su mappe correnti, mobilita tutta la mia più profonda repulsione”.
Pasolini rispose alle critiche ricevute e, di fatto, la polemica si estese per diversi articoli pubblicati su Paragone, ma, come emerge dalla scena del convegno del “1° Convegno internazionale di Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini (1966), ne era rimasto profondamente toccato. La sua riscrittura della Divina Commedia venne di fatto interrotta nel 1965 - le aggiunte successive hanno lo scopo di giustificare formalmente quella serie di frammenti in risposta alla polemica con il Gruppo ’63 (“Per una “Nota all’editore”, 1966), all’uscita di Letteratura italiana dell’Otto-Novecento di Contini (1974) e infine dare forma definitiva al progetto incompiuto con la Prefazione (1975).
Oggi risulta chiaro che Segre e Garboli, e come loro molti altri critici, non potevano cogliere in pieno il senso dell’appropriazione di Dante nell’opera pasoliniana, non fosse altro perché La Divina Mimesis giaceva ancora in un cassetto e i riferimenti al realismo dantesco figuravano sparsi qua e là in vari documenti artistici e saggistici degli anni Cinquanta. Risulta invece chiaro oggi che “La volontà di Dante “a” essere poeta” non era che un frammento di un grande intertesto.
VI
1975. “La Divina Mimesis”. Molteplici connotazioni racchiude la parola “mimesi” nel rapporto Dante-Pasolini, ma il concetto emerge finalmente in modo inequivocabile nel titolo dell’opera pasoliana più dantesca, La Divina Mimesis (1975), dove la parola “mimesis” del titolo richiama la doppia accezione di “imitazione della Commedia” e di “imitazione della realtà, degli altri”. Il senso che Pasolini attribuiva a La Divina Mimesis è tuttavia ancora più specifico. “Divina mimesis”, imitazione divina, indicava quella vocazione poetica di diversità linguistica e culturale che aveva animato il progetto ideologico dell’autore per tutti gli anni Cinquanta e che Pasolini vedeva gravemente compromesso a causa di quella che chiamava l’“omologazione culturale e linguistica” dei primi anni Sessanta.
“Divina mimesis” corrispondeva ad un mito poetico associato alla figura materna, equiparabile al paradiso, scrive l’autore nella Nota 2 (1964) posta in appendice della sua riscrittura della Commedia: ““La Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente come l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi ed allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della storia”. Questo ed altri frammenti de La Divina Mimesis sono chiaramente in dialogo con Nuove questioni linguistiche (1964), il saggio pasoliniano che aveva avviato il dibattito sulla “nuova questione della lingua”, presentato alla conferenza dell’Associazione Culturale Italiana a Torino il 27 novembre 1964. Se, come argomentava Pasolini in quell’intervento, la lingua nazionale che si era formata in quegli anni era una lingua creata dall’alto, dai mass-media e dal potere economico, diametralmente opposto era invece il progetto linguistico-culturale a cui Pasolini aveva fortemente creduto nel decennio precedente, ovvero quello di una lingua “lievitante dagli strati bassi”, mimetica del mondo popolare, della realtà quotidiana. Almeno nelle prime intenzioni, dunque, La Divina Mimesis avrebbe dovuto seguire la linea di Ragazzi di vita (1955), come lasciava intendere anche il racconto La Mortaccia (1959), un primo abbozzo di riscrittura della discesa infernale di Dante, impersonato da una prostituta che si avventurava per le borgate romane.
Eppure, la riscrittura pasoliniana non si presenta come l’“ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale”. I frammenti che Pasolini ha dato alle stampe “come un “documento”” si limitano a raccogliere testimonianze ed intenzioni di un progetto lasciato volutamente incompiuto. Nel suo stato documentaristico, La Divina Mimesis rappresenta piuttosto la morte del realismo dantesco - una morte che Pasolini aveva già ufficialmente anticipato in quel celebre componimento letto alla presentazione dei finalisti del Premio Strega nel 1960, “In morte del realismo” - e il passaggio ad un nuovo ideale mimetico in poesia e nel cinema. “Bisogna cambiare strada”, diceva il Pasolini ‘60/Virgilio al Pasolini ‘50/Dante pellegrino, alla fine del I Canto de La Divina Mimesis.
“Non ho da scegliere [...] vengo con te”.
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RIPRENDERE IL FILO DA "MEDEA" (E DA "GIASONE")! CON DANTE.... *
Scheda-Film
di Pier Paolo Pasolini
Medea è un film italiano del 1969, diretto da Pier Paolo Pasolini, basato sull’omonima tragedia di Euripide ed interpretato da Maria Callas. Il film, i cui esterni furono girati in Cappadocia (Turchia), ad Aleppo (Siria), a Pisa e a Grado, ebbe un’accoglienza positiva da parte della critica, ma non riscosse il successo commerciale sperato.
Trama
In Grecia a Iolco il re Esone è stato spodestato dal fratellastro Pelia, il quale governa con crudeltà e spietatezza, cercando in tutti i modi di uccidere l’erede al trono Giasone, mandato presso il suo mentore Chirone. In Scizia è stata raccolta una potente reliquia chiamata Vello d’oro, che in passato era appartenuta a Frisso. La pelle d’oro apparteneva al caprone sacro, inviato dagli dei per salvare il fanciullo e la sorella Elle da morte certa, ed aveva attraversato in volo tutto l’Ellesponto, mare che prenderà questo nome dalla sorella Elle che ci cadrà affondandovi. Giunto nella terra Colchide Frisso verrà sacrificato, la capra sarà scuoiata e la pelle data in dono ad Ares.
Nel prologo il centauro Chirone spiega al giovane Giasone in maniera filosofica l’armonia e l’equilibrio della natura e viene presentata la superba figura di Medea, sovrana della Colchide, una terra dall’altra parte del mondo, brutale e piena di usanze grottesche, che ospita la reliquia del Vello d’oro. Giasone, divenuto grande, ha ora la possibilità di sfidare suo zio e recuperare il suo regno. Quest’ultimo però gli chiede in cambio la preziosa pelliccia di capra, così inizia il viaggio alla ricerca della reliquia. Mentre Medea sta pregando nel tempio, ha una visione in cui vede per la prima volta l’eroe greco e se ne innamora perdutamente, così tanto da chiedere aiuto al fratello per rubare il Vello d’oro e partire con Giasone per la Grecia.
Il re suo padre lo viene a sapere e si getta all’inseguimento della figlia la quale al fine di rallentarlo, uccide il fratello lasciando pezzi del suo corpo lungo il cammino per costringere l’uomo a fermarsi. Dopo aver raccolto tutti i pezzi del corpo di suo figlio, il sovrano torna nel suo villaggio a restituirli alla madre piangente affinché abbiano una degna sepoltura. Intanto, lontana dalla sua terra e dalle sue tradizioni, Medea ha una crisi spirituale in cui le sensazioni di tormento si acuiscono quando capisce che Giasone e i suoi compagni hanno usanze totalmente opposte alle sue.
Consegnato il Vello a Pelia, quest’ultimo vien meno alla parola data negando il trono al nipote, il quale accetta sprezzante la decisione e rifiuta con sdegno di battersi oltre per il regno di suo padre. Prima di lasciare il palazzo, le ancelle preparano Medea per le nozze spogliandola dei suoi abiti barbari per vestirla come donna greca. Giasone congeda i suoi compagni di avventura e, consumata la prima notte d’amore con la sua amata, si avvia verso Corinto. Qui ritrova Chirone, il centauro che lo ha allevato da piccolo. I due hanno un dialogo filosofico nel quale il centauro fa presente a Giasone la situazione di Medea, che continua a vivere un conflitto interiore tra l’attuale realtà e la vita spirituale scandita dai rituali del suo passato nella Colchide. Giasone diviene sempre più distante dalla sua amata, nonostante i figli che questa gli dà, finché non decide di abbandonarla per sposare Glauce, figlia del re Creonte. Costui vorrebbe esiliare Medea, perché costituisce un monito e un fardello troppo grande da sopportare per sua figlia, che non ha colpe del comportamento di Giasone.
Sospinta dalle parole delle sue ancelle, che la vedono come una maga capace di tutto, Medea diventa consapevole della perdita del contatto con gli dei e del suo tragico destino, arrivando a meditare vendetta. Fa chiamare Giasone, con il quale finge perdono ed ha un ultimo slancio d’amore, e chiede ai loro figli di portare il suo dono di nozze a Glauce: gli abiti regali con cui fuggi’ dalla Colchide. Non appena ricevuto il dono la fragile Glauce lo indossa e rivede nello specchio non il suo abito da sposa ma tutto il dolore di Medea. Si uccide buttandosi dalle mura della città, e il padre la segue preso dalla disperazione, ma questo non basta e la furia di Medea è ormai incontrollabile. Dopo aver ucciso i suoi figli, incendia la città e Il film si chiude con l’impossibile tentativo di Giasone di riportarla alla ragione, cui risponde solo una ultima rabbiosa invettiva di Medea ormai perduta tra le fiamme. (Wikipedia - ripresa parziale).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’URLO DI PIER PAOLO PASOLINI (1974). PER L’ITALIA E LA COSTITUZIONE --- "I GIOVANI INFELICI" E IL TEATRO TRAGICO GRECO. UNA PAGINA DALLE "LETTERE LUTERANE" (di Pier Paolo Pasolini).
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Stato-Mafia: Pm Di Matteo: ’Dell’Utri tramite dopo il ’92’
’Da Anm e Csm nessuna difesa. Silenzio assordante, chi speravamo ci difendesse ha taciuto’
di Redazione ANSA *
"La sentenza è precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla Presidenza del Consiglio di Berlusconi. In questo c’è un elemento di novità. C’era una sentenza definitiva che condannava Dell’Utri per il suo ruolo di tramite tra la mafia e Berlusconi fino al ’92. Ora questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell’Utri tra ’Cosa nostra’ e Berlusconi". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
La replica dell’Anm, sempre difeso magistrati attaccati - "L’Associazione Nazionale Magistrati ha sempre difeso dagli attacchi l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati". Lo dice il presidente dell’Anm Francesco Minisci. "Lo ha fatto - prosegue - a favore dei colleghi di Palermo e continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie".
"Né Silvio Berlusconi, né altri hanno denunciato le minacce mafiose, né prima né dopo" ha anche detto il pm Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, su Rai tre. "Nel nostro sistema costituzionale le sentenze vengono pronunciate nel nome del popolo italiano e possono essere criticate e impugnate. Il problema è che quando le sentenze riguardano uomini che esercitano il potere devono essere conosciute", ha aggiunto. "C’è una sentenza definitiva - ha spiegato - che afferma che dal ’74 al ’92 Dell’Utri si fece garante di un patto tra Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane. Ora questa sentenza dice che quella intermediazione non si ferma al ’92, ma si estende al primo governo Berlusconi, questi sono fatti che devono essere conosciuti"
"I carabinieri che hanno trattato sono stati incoraggiati da qualcuno. Noi non riteniamo che il livello politico non fosse a conoscenza di quel che accadeva. Ci vorrebbe ’un pentito di Stato’, uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi". Lo ha detto il pm della dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
"Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall’ Anm e il Csm". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, dopo la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre a proposito delle critiche subite, negli anni, dal pool che ha coordinato l’inchiesta.
* ANSA,23 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagine).
Le ceneri di Gramsci di P. P. Pasolini
di Alessandro Banda *
Giusto sessant’anni or sono, nel giugno del 1957, uscivano per l’editore Garzanti Le ceneri di Gramsci, quello che di solito viene considerato il più importante volume di versi di Pier Paolo Pasolini. Il poeta medesimo lo giudicava una delle sue massime riuscite. Lo scrive esplicitamente nel novembre del 1973, recensendo su “Tempo” Calderòn. Il fatto che si tratti di un’auto-recensione dovrebbe far riflettere. Del resto Pasolini non era nuovo a questo procedimento. Già due anni prima, il 3 giugno del 1971, aveva recensito lui stesso quello che poi risulterà essere il suo ultimo libro di poesie italiane, cioè Trasumanar e organizzar.
Se un autore è costretto a questa pratica, significa che non gode certo del favore popolare, e nemmeno di particolare attenzione da parte della critica. Ma questa è una questione ben nota, che già nel 1980, a soli cinque anni dalla morte del poeta, Arbasino, nella prima edizione di Un paese senza, aveva sintetizzato come meglio non si poteva e una volta per sempre: “Pasolini, vivo, veniva commiserato e insultato proprio dai medesimi che lo proclamano Vate da morto”. Ne accenniamo solo perché, ogni volta che si celebra Pasolini, andrebbe sempre ricordato che il Pasolini vivo e il Pasolini morto costituiscono due entità del tutto differenti e, a rigore, non molto comunicanti.
Infatti, per parlare delle Ceneri, prendiamo l’abbrivio da uno scritto di un “nemico” di Pasolini. Alludiamo a Alfredo Giuliani, esponente di spicco di quel Gruppo 63 che con il Nostro tenero non fu mai.
Giuliani nella Prefazione 1965 all’antologia I Novissimi tratteggia un perfido ritratto di Pasolini, tacendo insistentemente il suo nome e titolandolo invece di “neo-crepuscolare”. Giuliani scrive che il neo-crepuscolare è ossessionato dalla storia, è accanito, soffocato e verboso. Aggiunge che è pur bravo a descrivere i paesaggi periferici in cui vive, oltre che la mamma che gli spolvera la scrivania. Ma tace, il neo-crepuscolare, dice Giuliani, sulle sue reali esperienze economiche e sessuali. L’affondo finale è questo: “per combattere il cosiddetto Novecento... era andato a rivisitare i nostri poveri sepolcri ottocenteschi”. Eccetera eccetera.
Il teorico e autore della Neo-avanguardia specifica che gli autori riesumati da Pasolini sono Tommaseo, Pascoli, D’Annunzio, Saba e Gramsci e che alla fine il risultato dell’operazione approda a un “mostruoso miscuglio di nazionalismo raté e di socialismo velleitario”.
Noi invece lo prendiamo alla lettera, il testo di Giuliani. Soprattutto per quel che riguarda i “sepolcri ottocenteschi”.
È vero: Pasolini, nel 1954, anno in cui fu composto il poemetto che dà il titolo alla raccolta, Le ceneri di Gramsci, appunto, apparso poi sul numero 17-18 di “Nuovi argomenti” (novembre 1955-febbraio 1956), nel 1954, dunque, Pasolini che fa? Una cosa molto semplice: fa poesia sepolcrale. Riattiva un genere ottocentesco. Anzi: sette-ottocentesco. Se è vero, com’è vero, che il genere nacque nel 1750, in Inghilterra, con la famosa Elegy written in a Country Churchyard di Thomas Gray. Tradotta poi da Melchiorre Cesarotti con il titolo Elegia di Tommaso Gray sopra un cimitero di campagna e pubblicata per la prima volta in Italia nel 1772. Non occorre ricordare che, a Padova, Cesarotti fu uno dei maestri di Ugo Foscolo, probabilmente quello più influente sul giovane veneto-greco.
Quindi: il Foscolo dei Sepolcri, usciti nel 1807, è uno degli antecedenti più immediati del Pasolini delle Ceneri.
Risulta questa perciò (o: anche questa) “imprevista riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi o tradizionali nel senso corrente del termine” di cui il Nostro teorizzerà nel giugno 1957, in contemporanea con l’uscita del volume di versi, su “Officina”, nel celebre scritto di poetica intitolato La libertà stilistica.
Del resto anche Italo Calvino, in una lettera a Pasolini del primo marzo 1956, si era espresso con sicurezza in tal senso: “ Ceneri di Gramsci. Bravura tecnica da sbalordire. Poi tutta concatenata di pensiero come I Sepolcri”.
Più chiaro di così!
Ma quali differenze tra il modello ottocentesco e la sua ri-attualizzazione medio-novecentesca!
Nel testo del Foscolo la terra che ricopre i Grandi del passato è “bella e santa”. Nelle terzine pasoliniane, con i loro endecasillabi ipermetri o ipometri, con le loro rime che sconfinano nell’assonanza o consonanza, con la loro musica che procede per accordi lenti, l’aggettivazione che riguarda il cimitero degli Inglesi, dove è sepolto Gramsci, è di tutt’altro tenore: buio giardino straniero, giardino gramo, sito estraneo, silenzio fradicio e infecondo e così via.
Foscolo è esaltato dalla vista delle tombe degli antichi, degli eroi del passato. Siano eroi dell’azione o della conoscenza. Sono versi famosi: “A egregie cose il forte animo accendono/ l’urne dei forti”.
Cosa contrappone Pasolini a queste celebrate “urne dei forti”? Contrappone la chiusa sconsolata della quinta sezione del suo poemetto, che suona: “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ di abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?”.
Se Foscolo si recava in Santa Croce per “trarre gli auspici” da quei monumenti funebri, cioè per ricavarne un incitamento all’azione, Pasolini, di fronte alla tomba di Gramsci, formula un interrogativo che non aspetta risposta alcuna: “ Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la nostra storia è finita?”.
Il genere sepolcrale è stato sì ripristinato, ma per subire un capovolgimento totale. Dal positivo al negativo.
Gramsci è un “morto disadorno” e non già un “forte”. Oltretutto non è nemmeno un “padre”, Gramsci, ma un “umile fratello”. E questa parola, per la particolare biografia di Pasolini, ha un inevitabile rintocco tragico.
Comunque, per quanto sottoposto a tale significativo ribaltamento, il genere sepolcrale non è limitato al poemetto eponimo. Si rifrange, crediamo, anche in altri componimenti, non in tutti e undici forse, ma in alcuni certamente sì. Per esempio nel testo di apertura della raccolta: L’Appennino. In esso tutta l’Italia è rappresentata simbolicamente dal monumento funebre di Ilaria del Carretto nel duomo di Lucca: “Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia/ perduta nella morte”. Si pensi anche solo alla prossimità fonica dei due nomi: Ilaria e Italia. Sotto le palpebre chiuse di Ilaria del Carretto dorme il suo sonno marmoreo la nazione intera. E il suo “clamore non è che silenzio”. Come non pensare qui al Leopardi della Canzone al Mai, con il suo “clamor dei sepolti”? Anche lì l’Italia è rappresentata come una terra mortuorum.
Similmente nel testo che chiude l’opera, cioè La Terra di Lavoro, i contadini campani che viaggiano nel treno sono descritti come defunti ormai disincarnati: “viene una luce che scopre anime/ non corpi”.
Per non dire di Comizio, il quarto poemetto, dove il poeta si perde in mezzo a un gruppo di neofascisti, definiti significativamente “fiera di ombre”. In mezzo a loro compare improvviso “un compagno” inatteso, lo spettro del fratello Guido, autentico revenant.
E anche Il pianto della scavatrice, forse il testo più bello della raccolta, non presenta, esibiti fin nel titolo, echi luttuosi? Mediante l’azione della scavatrice viene creato un nuovo quartiere. Ma com’è? È “bianco come cera”, “chiuso in un decoro ch’è rancore”, preso in un “ordine ch’è spento dolore”. Ci si chiede: ma è un nuovo quartiere o un cimitero?
Abbiamo sondato solo qualche aspetto di quest’opera ricchissima e sulla quale si sono già versati fiumi d’inchiostro, ma forse anche queste poche gocce (d’inchiostro) si potranno rivelare non del tutto inutili a chi vorrà rileggerle o leggerle, LE CENERI DI GRAMSCI.
* DoppioZero, 02.06.2017 (ripresa parziale - senza immagin).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.
LA LEZIONE DI FOSCOLO. I VIVI RICORDANO I VIVI (E ANCHE I MORTI)
Un dialogo mancato. Fachinelli e Pasolini nel 1974
di Dario Borso (Alfabeta 2, 16 aprile 2016)
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L’11 gennaio 1974 lo psicanalista Elvio Fachinelli scrive una lettera a Pier Paolo Pasolini dopo aver letto sull’«Espresso» il resoconto di una polemica innescata da Edoardo Sanguineti in reazione alla pasoliniana Sfida ai dirigenti della Rai apparsa un mese prima sul «Corriere della Sera». Di questa l’articolista dell’«Espresso» riportava in avvio i passi salienti: «Il Fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta [...] Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata [...] Si può dunque affermare che la “tolleranza” dell’ideologia edonistica, voluta dal nuovo Potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana [...] Fino a pochi anni fa, i sottoproletari rispettavano la cultura, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà, ora cominciano a vergognarsi della loro ignoranza». Poi passava a citare la replica sanguinetiana apparsa su «Paese Sera» del 27 dicembre: «Sono proprio dei cafoni, i sottoproletari dei nostri tempi! Perduta la splendida “rozzezza” di un tempo, non hanno più soggezione per il latinorum del signor curato... Felici gli analfabeti d’una volta che erano analfabeti veri, interi, tutti come si deve, tutti con il “mistero”, zitti, ordinati e contenti... Marx però era stato assai poco sensibile alla “irripetibile bellezza contadina”, la quale aveva anzi sbugiardato». Infine riportava un’esternazione di Pasolini: «Cosa ne sa Sanguineti, vissuto tra il salotto e la scuola, della vita popolare? Lo sapevamo gente come me, Penna, Comisso, esplosi fuori dal bozzolo borghese, esclusi, reietti, costretti a non vivere se non confusi dentro il popolo, nascosti dentro la sua oscura, anonima protezione. Sì, la vita popolare d’allora era più felice, perché così appartata che neppure il fascismo riusciva del tutto a contaminarla».
Fachinelli dal canto suo esordisce: «Non leggendo “Paese Sera”, non conosco il pezzo di Sanguineti, ma dalla citazione mi pare un modesto esercizio ortodosso marxista di un professore tranquillamente incattedrato e tranquillamente picì, di cui forse potranno piacere la malignità e la bravura letteraria, ma che rimane del tutto estraneo alle ragioni che motivano la passione e l’urgenza dei suoi interventi di questo periodo. Lei ha le antenne per accorgersi dei mutamenti in corso, Sanguineti no». E aggiunge: «È un po’ quello che è successo nel ’68: la rabbia che gli studenti provocavano in lei era chiarissima partecipazione, mentre le fredde e molto ortodosse osservazioni di Sanguineti erano già allora coerenti con il suo attuale presente» (il riferimento è rispettivamente all’arcinoto Il PCI agli studenti! e al coevo Rivolta e rivoluzione, dove Sanguineti su «Quindici» definiva gli studenti «anime belle» contrapponendo loro la linea Marx-Lenin-Mao).
Qui Fachinelli cambia registro, per riferirsi a un’intervista sul «Giorno» del 29 dicembre (non ripresa nei Meridiani Mondadori), dove Pasolini affermava: «Dall’età dell’innocenza siamo passati all’età della corruzione [...]. È stata la civiltà dei consumi, un fatto senza precedenti nella storia dell’uomo. Tutto è cominciato verso la metà degli anni Sessanta, la contestazione del ’68 oggi appare come l’ultimo sprazzo di vitalità, un movimento collettivo millenaristico. Si è chiusa l’epoca di quel mondo antico e barbarico che amavo [...] sarei contento, disposto a rinunciare a qualunque cosa per il reimbarbarimento del mondo: un mondo in cui valga la pena di lottare». Fachinelli nella lettera commenta: «mi chiedo se l’isolamento in cui si viene a trovare non si leghi a quella dicotomia che lei stabilisce tra “innocenza” e “corruzione”, con nostalgia della prima e rifiuto della seconda. Non le sembra che, parlando di innocenza, Lei metta in atto una idealizzazione, e che questa le sia possibile solo staccandosi, considerandosi staccato da quella “barbarie” e dalle sue vicissitudini? Ora, il movimento che ha portato il ragazzo di borgata al centro della città è lo stesso che ha portato lei all’uso del cinema, della tv, della provocazione culturale... Si potrebbe quindi vedere, nel suo rifiuto della “corruzione”, come un implicito giudizio negativo, in nome di quelle esigenze profonde riposte nella “innocenza”, di tutta una serie di attività, sue e di altri, connesse alla “civiltà dei consumi”. Scoprire in sé, per così dire, una zona di futilità distruttiva».
Una specie di affabile «Conosci e stesso», che ventilava però una messa in mora delle dicotomie pasoliniane - con tanto di bibliografia, se Fachinelli conclude annunciando l’invio del suo Bambino dalle uova d’oro: «troverà dentro questo libro, e di questo sono sicuro, in particolare nelle note, qualcosa della sua insoddisfazione e delle sue tragiche domande di questo periodo». Le note erano sei per una dozzina di pagine in tutto: chissà se Pasolini lesse almeno quelle.
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Il secondo atto del dialogo mancato (o atto mancato del dialogo) è a inizio estate, quando a proposito degli Italiani non sono più quelli, articolo apparso sul «Corriere» nel quale Pasolini dall’«omologazione culturale», denunciata sei mesi prima, deduceva non esserci più «differenza apprezzabile - al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando - tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista», Fachinelli interviene sull’«Espresso» del 23 giugno proponendo un soggetto cinematografico dal titolo «volutamente provocatorio» Le masse amavano il fascismo?: «Mettiamo un giovane intellettuale sulla trentina, un professore, di sinistra. Scorre gli articoli di Pasolini, che lo indignano, di solito. Intensa partecipazione a comitati antifascisti [...]. La notte, cominciano incubi, sempre con i fascisti che occupano le sedi dei comitati e dei partiti, arrestano, fucilano. In questo periodo, nel gruppo dei compagni arriva un nuovo. Intellettuale come lui, storia abbastanza simile, partecipazione a gruppi. Ma con un leggero scarto, ora. Partecipa con indifferenza alla lotta antifascista, dice che non è questo il pericolo principale; parla di psicanalisi, di antipsicanalisi, di gioco, di magia. Il professore è dapprima infastidito, incuriosito; poi [...] casca in uno strano torpore. La lotta fascismo-antifascismo non gli interessa più. Cominciano fantasie, in cui compare il nuovo arrivato, stanno insieme, fanno cose interessanti, discutono fra loro. Infine un’onda di sogni, in cui con terrore e piacere compaiono immagini erotiche, esplicite e no, lui e il nuovo arrivato, insieme. [...] I personaggi di queste fantasie e di questi sogni sono, in alcuni particolari fondamentali, gli stessi degli incubi e delle angosce centrate sul fascismo. I persecutori di ieri ricordano da vicino l’amato di oggi».
Sul quotidiano «Il Tempo» di Roma del 26 giugno l’intervento di Fachinelli viene definito un «pasticcio psicanalitico» finalizzato a «velare una pesante accusa personale (quasi un ricatto), e a sottintendere che forse Pasolini è un filofascista inconscio, per motivi ambigui»; il pasticciere/pasticcione, venutone a conoscenza dieci giorni dopo, comunica a Pasolini di avere inviato una smentita al quotidiano per dire che «l’articolista, partito evidentemente dal presupposto ideologico che io fossi tra i suoi “censori”, ha posto un’equivalenza assurda tra il prof. spregiatore di Pasolini ecc. - e Pasolini stesso, e di qui ha ricavato le sue ricattatorie conclusioni».
La smentita in effetti esce nei termini prospettati, con l’avvertenza: «avevo cercato di rendere la complessità di sentimenti e di passioni che sottostanno alla distinzione fascista-antifascista. Così facendo, mi era parso di essere più vicino alla posizione “estremista” di Pasolini che a quella dei suoi oppositori». Di nuovo dunque Fachinelli insiste sulla complessità, sulle contaminazioni; e di nuovo Pasolini rifiuta di rispondere, se non per interposta persona, in un’intervista sul «Mondo» dell’11 luglio: «l’intervento di Fachinelli mi è oscuro. L’oracolo è stato un po’ troppo “a chiave”».
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Il terzo atto si dipana per tutta la seconda metà del 1974, a partire da una lettera di Fachinelli del 30 luglio: «Con alcuni collaboratori sto cercando di mettere insieme - per settembre - un libretto diciamo così di “pronto intervento” su Cefis e il potere (Cefis e/o il nuovo potere), in cui l’accento cade sul secondo termine. Abbiamo pubblicato già due anni fa nella rivista “L’erba voglio” un discorso di Cefis, con un commento politico. La cosa incuriosì molto, ma soltanto ora possiamo capirne l’importanza. Disponiamo ora di un altro discorso, che si connette probabilmente a manovre finanziarie in corso, a cui hanno accennato i giornali. Le scrivo per proporle di fare, su questi discorsi, un’analisi testuale o una recensione».
Il primo dei due discorsi acclusi era stato tenuto dal presidente della Montedison il 23 febbraio 1972 all’Accademia militare di Modena e pubblicato sull’«Erba voglio» di luglio-agosto 1972 «a cura di Giorgio Radice», presumibile nom de plume del redattore dell’«Espresso» Giuseppe Turani (citato a fine numero tra i collaboratori), che lo presenta come originariamente «fatto pubblicare da Cefis sul mensile “Successo” a mo’ di manifesto ideologico», rimarcandovi la «totale riduzione a un unico “valore”: la crescita, lo sviluppo, il moltiplicarsi delle multinazionali», e il «ruolo tecnocratico-dominante all’ombra delle grandi aziende» auspicato per le forza armate. Il secondo discorso, destinato l’11 marzo 1973 alla vicentina Scuola di cultura cattolica, rifà la storia della Montedison per fissarsi sugli obiettivi: concentrazione degli impianti, mobilità del lavoro, superamento del meridionalismo, sostegno mediatico dell’azienda.
Pasolini non risponde ma, parlando il 7 settembre alla Festa provinciale dell’«Unità» di Milano, chiede: «Perché questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente progresso e sviluppo. Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. [...] Se volete capirlo meglio, leggete il discorso di Cefis agli allievi di Modena, e vi troverete una nozione di sviluppo come potere multinazionale - o transnazionale come dicono i sociologhi - fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio Paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale; ma in realtà si sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa».
Quella sera tra gli stand s’incontrarono, e Pasolini deve aver promesso un contributo al «libretto», se Fachinelli il 20 settembre gli invia un pacco specificando: «le faccio avere una conferenza di Cefis e una fotocopia del libro su di lui, ritirato».
La conferenza, tenuta al Centro alti studi militari di Roma il 14 giugno 1974 e passata a Fachinelli ancora da Turani (che un mese dopo la nominerà di sfuggita, assieme agli altri due discorsi, nel fortunatissimo libro Razza padrona), affronta il tema della crisi petrolifera proponendo un nuovo modello di sviluppo imperniato sulla chimica come motore dei settori agricolo, farmaceutico e dei servizi. Pasolini, evitando per la terza volta di rispondere all’invio, la utilizza sul settimanale milanese «Tempo» del 18 ottobre, definendola «una specie di prudente e gesuitico mea culpa»: «Cefis delinea un precipitoso ritorno all’agricoltura, lasciata nell’ultimo decennio in un criminale abbandono, e [...] un piano di ridimensionamento delle industrie anti-economiche e anti-sociali e soprattutto delle “attività terziarie”, cioè la produzione megalomane di beni superflui». Di più, ricorda la «passata arroganza» del discorso di Cefis «pubblicato su “Successo”, dove si delineava la “fine della nazione” e la nascita di un potere neocapitalistico “multinazionale”, con la susseguente trasformazione dell’esercito in un esercito tecnologico e poliziesco al servizio, appunto, di questo nuovo potere. [...] Era la fine della destra classica italiana. Era ed è. Perché la crisi economica e l’eventuale recessione non impediranno che questa, delineata da Cefis nel ’72, non sia la reale ipotesi del potere capitalistico per il proprio futuro».
Il libro è Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, uscito a fine 1972 sotto pseudonimo, mentre le fotocopie potevano provenire da Turani come da Fachinelli stesso, in quanto più copie erano e sono presenti in biblioteche pubbliche milanesi. Come noto, esso era stato incettato da Cefis che lo riteneva deleterio alla sua immagine; in effetti si tratta di un libello di bassa manovalanza, poverissimo tra l’altro di scoop. Rimasto perciò inutilizzato da Turani, non si sa quale effetto abbia fatto su Pasolini, che tra le carte di Petrolio, suo ultimo romanzo progettato, infila comunque un appunto datato «16 ottobre 1974»: «inserire i discorsi di Cefis, i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito». La perfetta contemporaneità tra l’appunto e la stesura dell’articolo su «Tempo» chiarisce che i discorsi sono i due lì citati, mentre la chiusa dell’articolo motiva la centralità che nel suo romanzo Pasolini intendeva dare a Cefis come fautore di un nuovo fascismo - in una parola, come golpista.
Tutto ciò confluisce nel celeberrimo Che cos’è questo golpe?, uscito sul «Corriere» del 14 novembre: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che [...] rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. [...] Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. [...] Un intellettuale potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. [...] Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi».
Col che siamo tornati al punto di partenza, a quello iato tra «corruzione» e «innocenza» su cui Fachinelli nella sua prima lettera civilmente obiettava, socchiudendo una porta che tenne aperta fino a novembre, quando sul n. 17 dell’«Erba voglio» annunciava l’avvio di una collana di «libretti». Finché il primo dicembre 1974 scrive a Pasolini: «mi sono stancato di continuare a telefonarle e sentirmi rispondere che la nota su Cefis era rimandata. Ne ho dedotto che per qualche ragione la cosa non le andava», chiudendo definitivamente con: «Le sarei molto grato se potesse farmi avere il materiale fotocopiato che le ho spedito».
Il materiale, come le lettere, giace tuttora nel Fondo Pasolini all’Archivio Viesseux.
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Il dialogo mancato ebbe un epilogo tre mesi dopo la morte di Pasolini, quando sull’«Espresso» del 15 febbraio 1976 Fachinelli commentò l’appena uscito Salò o le 120 giornate di Sodoma trasformando l’accenno iniziale alla «futilità distruttiva» in una diagnosi: «si tratta ancora di sadismo? O non piuttosto di qualcosa che, nell’apparente omogeneità dei comportamenti, se ne differenzia radicalmente e procede verso qualcosa d’altro, molto più rozzo e immediatamente distruttivo? La chiave della risposta è contenuta nello stesso film di Pasolini: ciò che manca è la rapina del godimento; e questa manca perché la legge a cui si raffronta è semplicemente un’ombra caricaturale e smorta di quella che fu; come un registro di notai o ragionieri si differenzia dal tesoro degli editti. Allora ciò che ancora si chiama, per inerzia, sadismo, è semplicemente sregolazione burocratica, impiegatizia, della morte. Non si uccidono più anime, cerimonialmente, per sottrarle all’immortalità dell’inferno; si manovrano e si aprono confusamente corpi come pacchi postali».
In mortem di PPP. Un articolo ritrovato di Elvio Fachinelli
di Dario Borso (minima&moralia, sabato, 2 Novembre 2019)
Fachinelli dialogò con Pasolini in pubblico (cfr. Id., Al cuore delle cose. Scritti politici 1967-89, a cura mia, DeriveApprodi 2016) e in privato. Non meraviglia quindi che all’indomani dell’assassinio egli si sia impegnato a fondo in un tentativo di analisi psicopolitica che occupò per una decina di giorni pagine intere del suo diario (ne sto curando la pubblicazione col valido aiuto della figlia Giuditta).
Qui riporto quattro stralci ad hoc dal quaderno del 1975:
— *** 3.11. “Assassinio di Pasolini. Sembra un sacrificio, una vittima offerta alla violenza di cui ha scritto in questi mesi. E così ne parlano i commentatori - in modo pasoliniano. Anch’io sono colpito. Ma in ciò che si scrive sento come una trappola. [...] In tutta questa storia, apparentemente così chiara, e così coerente con le tesi “sociologiche” di Pasolini, c’è una verità chiusa, solitaria, che non riesce a venir detta”.
L’articolo, scritto dunque tra il 6 e 7, uscì effettivamente l’8 novembre 1975 sul terzo numero di “Rosso: giornale dentro il movimento” - solo che uscì anonimo, e solo grazie alla scoperta del diario attribuibile ora a Fachinelli. Lo offriamo quindi volentieri ai lettori in insolita anteprima:
L’AMORE E LA PREDA
C’è stata in Italia una violenta divaricazione tra registrazione scritta e commento parlato dello stesso evento, la morte di Pasolini. Nella prima, la cultura letteraria italiana, con solo qualche eccezione, ha reagito riaffermando affannosamente, contro le “miserie della vita”, la durata dei propri valori. Dal manifesto al Giornale, abbiamo visto un quasi concorde invito a “leggere i testi”, scartando il resto. Di rado è venuto così chiaramente in luce lo spiritualismo che, quale ideologia di giustificazione, permea l’istituzione letteraria italiana.
Nel discorso parlato, la morte di Pasolini ha creato invece un’improvvisa espansione del lessico erotico. In tutti i bar, nei treni, nelle famiglie davanti a figli, gli italiani hanno fatto circolare termini come: inculare, inculato, darlo, prenderlo, metterlo in culo, in bocca, venire, non venuto, ci sta, non ci sta, culo giovane, culo vecchio...
Scriviamo queste parole per la totale assenza nella scrittura colta, il che conferma ciò che si è detto prima, e perché la loro immissione forzata nel discorso comune ci avvicina alla verità su e intorno a Pasolini; quella verità che proprio i suoi disperati discorsi degli ultimi mesi, come quelli fatti su di lui, contribuiscono ad allontanare.
Che cosa vogliamo dire? Se osserviamo da vicino questi termini, essi forniscono nel loro insieme gli estremi di un particolare rapporto interindividuale, di cui accennano anche la parte economica e politica. Dare e prendere in culo non indicano solo pratiche erotiche, scambievoli e reciproche. Alludono a rapporti di forza e di potere, che per quanto variabili non sono mai assenti nel rapporto sessuale e che proprio Pasolini aveva eliminato dai propri discorsi.
La tragedia di Pasolini nasce da questa eliminazione. Non intendiamo solo riferirci all’elemento più vistoso della vicenda di Ostia: l’Alfa d’argento, il fascino del regista, la promessa implicita, per chi ci sta, di avere o poter avere accesso privilegiato alla più importante industria romana, il cinema. Intendiamo riferirci a qualcosa di interno al rapporto stesso.
Per il suo solo presentarsi, Pasolini trasforma la natura di questo rapporto. La violenza simbolica contenuta nel prestigio, nel denaro e nella promessa diventa accecante. Pasolini chiede un rapporto d’amore, si offre come corpo d’amore. Ma perché è Pasolini, egli diventa corpo di preda. La differenza di classe appare in tutta la sua forza e dà origine a ciò che Marx individua, nei Manoscritti del 1844, come l’invidia e la rabbia del comunismo rozzo. Ora, Pasolini, misconoscendo la sua posizione attuale all’interno del rapporto, vede solo la trasformazione dei ragazzi che gli sono di fronte. Vede loro, ormai esclusivamente, come predatori, e non vede se stesso come offerta e promessa di preda.
Da questo misconoscimento radicale nasce la sua teorizzazione della violenza giovanile. Negli ultimi mesi, egli ha disperatamente invaso i giornali con questa denuncia, che in lui, per l’amore rovesciato che era in lui, era implicitamente ammissione del proprio vicolo cieco storico.
Nelle mani del potere, essa rischia adesso di diventare, come nel ’68, uno degli argomenti chiave di una politica di conservazione.
LETTERA APERTA DI PIER PAOLO PASOLINI A ITALO CALVINO (1974) *
"QUEL CHE RIMPIANGO"
Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’«età dell’oro», tu dici che rimpiango l’«Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio. Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi («Paese sera», 5-1-1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l’«Italietta»? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.
L’«Italietta» è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no. Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi però dimenticarlo tu...
D’altra parte questa «Italietta», per quel che mi riguarda, non è finita. Il linciaggio continua. Magari adesso a organizzarlo sarà l’«Espresso», vedi la noterella introduttiva («Espresso», 23-6-1974) ad alcuni interventi sulla mia tesi («Corriere della Sera», 10-6-1974): noterella in cui si ghigna per un titolo non dato da me, si estrapola lepidamente dal mio testo, naturalmente travisandolo orrendamente, e infine si getta su me il sospetto che io sia una specie di nuovo Plebe: operazione di cui finora avrei creduto capaci solo i teppisti del «Borghese».
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia. L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie - ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano - penso a De Martino - la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).
Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite, e condannati a essere ancora più infelici di noi: e quindi probabilmente anche migliori. Questo lo dico per una allusione («Paese sera», 21-6-1974) di Tullio De Mauro, che, dopo essersi dimenticato di invitarmi a un convegno linguistico di Bressanone, mi rimprovera di non esservi stato presente: là, egli dice, avrei visto alcune decine di giovani che avrebbero contraddetto le mie tesi. Cioè come a dire che se alcune decine di giovani usano il termine «euristica» ciò significa che l’uso di tale termine è praticato da cinquanta milioni di italiani.
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
Infine, caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi, sul «Messaggero», (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli.» Ma: 1) certamente non avrai mai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno - quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità - ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.
8 luglio 1974
* Fonte: Nicola Fanizza (Facebook, 30.04.2023)
NOTA:
"ESSERE, O NON ESSERE?" (AMLETO): OMAGGIO A LUTERO, A CALVINO, A SHAKESPEARE, E A GIAMBATTISTAVICO (E A MARX). Leggere e ri-leggere con attenzione: nella Lettera di PPP (del 1974)non è strano che non ci sia una parola su Carlo Levi e che non si faccia alcun riferimento alla storica egemonia di tutte le storicistiche egemonie, quella del cattolicesimo della "famosa" donazione di Costantino (Lorenzo Valla, 1440)?
Questo meta-orizzonte epocale e storico (religioso e laico) viene colto per lo più e solo da Carlo Levi (che ora e qui Pasolini non cita). Per dirla velocemente, egli fa di tutte le erbe della sinistra un fascio e non riesce a comprendere che il riflesso del suo "penso a De Martino" (come scrive in una parentesi), che suona quasi come un "penso a Pasolini": a ben leggere la Lettera, non c’è una parola che faccia riferimento al paolinismo della cultura atea e devota.
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.: L’URLO DI PIER PAOLO PASOLINI (1974). PER L’ITALIA E LA COSTITUZIONE
L’IDEOLOGIA ITALIANA E il concetto di Ungleich-zeitigkeit (= non contemporaneità). L’analisi di Bloch vale a maggior ragione per l’Italia:
Critica del pasolinismo
L’ideologia italiana. “Pasolini” a quarant’anni dalla morte
di Rocco Ronchi (Sinistrainrete, 07.11.2015)
Non di Pier Paolo Pasolini vorrei parlare ma del pasolinismo, vale a dire di un’ideologia diffusasi a macchia d’olio nell’Italia dei quarant’anni successiva alla sua morte. Questa ideologia si è nutrita, ripetendola come un ritornello, della concettualità prodotta dal Pasolini “corsaro” in articoli e interventi pubblici che non hanno certo bisogno di essere qui ricordati. Se il poeta Pasolini, il cineasta Pasolini, lo scrittore Pasolini possano poi essere effettivamente ridotti al pasolinismo è questione aperta sulla quale è perlomeno prudente non pronunciarsi. Noto soltanto che in tempi non sospetti, siamo nel 1965, quando Pasolini era ancora bel lungi dal diventare la santa icona dell’intellettualità italiana, Alberto Asor Rosa, tenendo conto della produzione poetica, dei romanzi e delle primissime esperienza cinematografiche, aveva scritto pagine mirabili nelle quali aveva colto il tratto specifico della poetica pasoliniana in un certo populismo estetizzante e decadente, così coerente con l’italica tradizione. Ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa - anche per ragioni autobiografiche, essendo io cresciuto nell’Italia post-Pasolini - sono le ragioni del consenso generalizzato, entusiasta, talvolta addirittura fideistico, che, come un’onda irresistibile, la proposta teorica e critica del Pasolini corsaro ha suscitato.
È un consenso che, caso quasi unico nella storia culturale italiana, trascende le appartenenze politiche come quelle religiose. Destra e sinistra (estrema destra ed estrema sinistra comprese), tradizionalisti cattolici e laici irriducibili, critici conservatori della cultura e aspiranti modernizzatori del paese, possono discutere e contrapporsi su tutto, ma su “Pasolini” - le virgolette sono d’obbligo - si riconoscono. Su quel “Pasolini”, teorico della “mutazione antropologica”, della “omologazione” e del “genocidio culturale” operata dal tardo-neo-post ecc. capitalismo, tutti giurano concordi. Tutti ne verificano la “straordinaria attualità”, tutti ne lodano le capacità “profetiche”, tutti ne lamentano la “mancanza” con accenti toccanti.
Presso i più ferventi è ormai invalsa la regola di rivolgersi, secondo lo stile della confessione di fede, con il “tu” all’“amico” scomparso. La cosa veramente stupefacente è che il consenso non è di facciata. Non è affatto vero che ognuno rende omaggio al suo Pasolini, piegandolo alle proprie particolarissime esigenze. È proprio lo stesso Pasolini quello che intendono tutti. A richiesta, sarà ora la (brutta) poesia sul ’68 ora la (splendida) tirata di Orson Welles nella Ricotta, ad essere citata come esempio di una radicalità che al presente farebbe difetto. L’unanimismo è tale da avvolgere in una sorta di “spirale del silenzio” chi volesse ancora problematizzare il pasolinismo: quando in una democrazia la pressione dell’opinione pubblica si fa asfissiante, spiegava la sociologa tedesca Noelle-Neumann, il dissenziente si auto-censura per l’umanissimo timore dello stigma sociale.
Ebbene, se mi è permesso un enunciato paradossale, il consenso generalizzato riservato alle analisi del Pasolini corsaro è un fenomeno che avrebbe attratto senz’altro l’attenzione del Pasolini “empirista eretico”. Perché gli intellettuali italiani si sono specchiati nel pasolinismo? Che cosa c’era di così seducente in quella diagnosi senza speranza? Certamente il Pasolini corsaro non aveva il pregio dell’originalità teorica. Il Marcuse dell’Uomo a una dimensione e l’Ivan Illich critico delle pseudo-liberazioni indotte dalla modernità, per citare solo due nomi già ben noti negli anni ’60, avevano affrontato la medesima questione e lo avevano fatto con maggiore finezza. La coeva microfisica del potere di Michel Foucault risulta poi infinitamente più articolata e complessa della concezione pasoliniana di un Potere, rigorosamente con la maiuscola a capolettera, che verrebbe dall’alto a schiacciare corpi assettati di vita - un Potere che è la prefigurazione di quella Casta che salirà agli onori della ribalta trent’anni dopo. E se si risale ancora più indietro nel tempo si ritrovano, senza difficoltà, tracce del pasolinismo in tutta la critica conservatrice della cultura di marca tedesca, dalla filosofia della storia di Spengler alla contrapposizione, formulata da Joseph Görres, di “anima” (cioè vita) e “spirito” (cioè tecnica). La cultura di destra non si deve, quindi, giustificare per aver fatto largo uso del pasolinismo: semplicemente si è riappropriata di qualcosa che apparteneva al suo DNA, almeno da quando la celebre sentenza nietzscheana le aveva offerto il destro per la denuncia di un mondo disertato da Dio, lasciato in balia di un puro calcolo e oggetto di una pianificazione incessante che fa astrazione da tutti i “valori” trascendenti (cioè “mutazione antropologica”, “omologazione” e “genocidio culturale”...).
E allora perché Pasolini ha infiammato i cuori di tutti, anche (e soprattutto) a sinistra, quasi che nel suo pessimismo vi fosse una risposta che si attendeva da lungo tempo e che nessuno aveva osato ancora fornire con tanta nettezza? Che cosa veniva restituito agli intellettuali italiani attraverso una voce che la morte, che molto assomigliava al martirio di un santo, aveva reso ancora più autorevole? Con le sue veementi denunce e con la testimonianza della sua esistenza, il Pasolini corsaro aveva, per così dire, consacrato quella che mi arrischierei di definire l’ideologia italiana e lo aveva fatto nel tempo della sua massima crisi, proprio quando sommovimenti politici, trasformazioni sociali, rivoluzioni epitemologiche, avevano più che mai messo in questione quella tradizione, lasciando l’intellettuale italiano (cioè il “letterato”) sguarnito, privato della sua specifica “aura”, in uno stato di disorientamento e sradicatezza, costretto a fare i conti, senza più ripari, con quella “modernità” copernicana che, da sempre, aveva osteggiato.
Della Germania del 1935 il filosofo comunista Ernst Bloch diceva che era “il paese classico della non-contemporaneità” perché aveva una quantità eccezionalmente rilevante di materiali pre-capitalistici. Accanto alla contraddizione classica capitale-lavoro, che, secondo la scienza marxiana, determina la storia, agisce un’altra contraddizione, la contraddizione non-contemporanea, che come protagonista non ha il cosiddetto soggetto della storia (il proletariato), ma coloro che “non esistono nello stesso presente”, che “portano con sé qualcosa di anteriore che viene a mescolarsi con il presente”: è il “popolo” nella sua dimensione mistica e mitica, una dimensione che al letterato è accessibile solo esteticamente, lasciandosi guidare dal “calore degli istinti” e dalle “buie viscere” (espressioni che traggo dalle Ceneri di Gramsci).
L’analisi di Bloch vale a maggior ragione per l’Italia, paese della non-contemporaneità per eccellenza, e non solo per quella che ha generato il fascismo e che non cessa di riprodurlo in tutte le sue infinite varianti post-moderne. Non pecco certo di originalità se affermo che l’intellettuale italiano, nella forma del “letterato”, è di questa non-contemporaneità l’“usignolo”. Ad essa è fedele perché da essa trae la sua autorità. La lotta con il moderno, l’ostilità al copernicanesimo e alle sue conseguenze etico e pratiche, lo definisce nel suo essere.
Tra le immediate conseguenze pratiche della rivoluzione copernicana vi è infatti l’intollerabile (per lui) affermazione dell’uguaglianza infinita di tutti gli enti, la fine della differenza antropologica in tutte le sue forme, la fine dalla differenza di genere, di ordini, di strati sociali, il collasso delle differenze linguistiche in una neo-lingua che non è la lingua di nessuno in particolare. Tale fine è metaforicamente espressa da quei capelli lunghi e da quei jeans uguali per tutti che impediscono al letterato-entomologo, flâneur delle borgate, di procedere a un immediato e rassicurante riconoscimento delle appartenenze di classe: in un impressionante documentario, risalente alla prima metà degli anni ’60, si vede Pasolini illustrare a un intervistatore francese, che lo accompagna in un viaggio etnologico tra le borgate romane, quali sono le “posture” ideologicamente corrette che un uomo del “popolo” deve tenere a tavola, per la strada ecc., per essere “autenticamente” quello che è e che non può non essere, vale a dire un “vero” sottoproletario oppure, se è “corrotto”, un “vero” piccolo-borghese... Ed è ancora a causa di questo irriducibile anticopernicanesimo che il letterato italiano, se è di sinistra, opterà per le soluzioni millenaristiche, escatologiche, massimaliste, a forte coloritura gnostica, guardando con il disprezzo di Orson Welles nella Ricotta il riformismo “borghese” e “illuminista”. Se è invece è di destra, cosa che capita assai più raramente, ha già la soluzione pronta in casa, anche se è innominabile... La politica diventa comunque cosa intrinsecamente cattiva (il “Palazzo” e, poi, la “Casta”) quando è giudicata con il metro di una contraddizione posta fuori dalla storia naturale degli uomini. La morale la sostituisce (l’“indignazione”).
Di tale ideologia, ben radicata nel nostro cattolico paese, Pasolini, dopo la sua morte, divenne l’alfiere. Non c’è dunque da stupirsi del consenso generalizzato ricevuto. Esso era espressione di una tradizione che, all’apice di una crisi che sembrava letale, si riconosceva e finalmente poteva ricompattarsi. Rispetto ad essa ben altre sono allora le figure eretiche. Sono disperse nel tempo, sepolte sotto tesori di erudizione che ne hanno però dissimulato la forza sovversiva. E sono tutte figure anti-pasoliniane, nel senso che abbiamo qui attribuito al lemma “Pasolini”. Penso al Leopardi materialista radicale, illuminista disincantato, irriducibilmente acattolico e politicamente riformista (cioè, in Italia, rivoluzionario). Penso soprattutto a Giordano Bruno, anche lui una vittima del potere e, forse, anche lui, a suo modo, un “santo”, che, nel momento in cui si decidevano i destini dei secoli a venire, aveva provato a trarre tutte le conseguenze metafisiche, etiche e pratiche del copernicanesimo. E vi aveva scorto una possibilità di uguaglianza (infinita) e di emancipazione di tutte le creature che resterà lettera morta nella tradizione letteraria italiana, “Pasolini” compreso.
Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.
Il corsaro. Un terzo occhio sul teorema del potere
di Giovanni De Luna (la Repubblica, 28 ottobre 2015)
L’Italia di oggi nacque con il boom economico, la grande trasformazione che ne riplasmò sentimenti, mode, abitudini, comportamenti politici, scelte di vita. Pier Paolo Pasolini ne fu protagonista e testimone e il suo lavoro si propone allo storico come una fonte indispensabile per avvicinarsi al senso profondo di quegli anni.
Ma Pasolini ha anche egli stesso uno sguardo da storico, interessato al mutamento,alle brusche impennate della grande storia che rompono la crosta dell’immobilismo, spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si misura con una questione - quella della continuità/ rottura tra il fascismo e l’Italia repubblicana - che è tipicamente storiografica. Schierandosi decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.
La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi - attraverso il sesso - dei corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.
Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa - scriveva, nel 1974 - Non c’è più dunque differenza apprezzabile... tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori».
Con le piazze arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale.
Il nuovo Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.
"Strategia della tensione"
le parole di Moro sulla strage di Brescia
di Miguel Gotor (la Repubblica, 16.04.2012)
Nella primavera 1978 le Brigate rosse sottoposero Aldo Moro a un interrogatorio che riguardò anche la strage di piazza Fontana del 1969 e quella di piazza della Loggia del maggio 1974. Come è noto, il memoriale del prigioniero è giunto a noi incompleto, ma su quegli anni egli formulò un giudizio chiaro utilizzando la categoria di "strategia della tensione". Quel tempo fu «un periodo di autentica ed alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise». Moro espose i meccanismi e le finalità della strategia della tensione, impostata da servizi stranieri occidentali con propaggini operative in due paesi allora fascisti come la Grecia e la Spagna. Essa aveva potuto godere del contributo dei servizi italiani militari con «il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia», ossia dell’Ufficio Affari riservati diretto da Federico Umberto D’Amato.
Secondo il prigioniero lo scopo era stato quello di realizzare una serie di attentati attribuendoli alla sinistra per destabilizzare l’Italia e poi coprire i veri responsabili con appositi depistaggi: «La c. d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del ’68 ed il cosiddetto autunno caldo», anche se Moro trascurava il varo nel giugno 1972 del governo centrista Andreotti-Malagodi, dopo l’attentato di Peteano per cui è reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Secondo l’ostaggio i servizi segreti italiani non diedero vita a deviazioni occasionali, ma a un’opera sistematica di inquinamento per «bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere».
Egli fece riferimento all’azione di "strateghi della tensione", senza però offrirne un ritratto esplicito, e si espresse duramente nei riguardi della Democrazia cristiana: «Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla D. C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto». E ancora: «se vi furono settori del Partito immuni da ogni accusa (es. On. Salvi) vi furono però settori, ambienti, organi che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza».
L’attenzione di Moro si focalizzava su Giulio Andreotti, il quale aveva «mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68». In particolare con la Cia, «tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani». Moro ripeteva, per ben undici volte, il nome del giornalista neofascista Guido Giannettini, incriminato nel 1973 per la strage di piazza Fontana da cui sarà assolto, sottolineando l’importanza di un’intervista che Andreotti aveva concesso a Il Mondo nel giugno 1974, all’indomani della strage di Brescia, in cui aveva rivelato che Giannettini era in realtà un agente del Sid infiltrato in Ordine nuovo.
È come se Moro avesse voluto alludere a una pregressa consapevolezza di Andreotti ("uomo abile e spregiudicato") riguardo alle azioni messe in campo da quegli ambienti, da cui aveva deciso improvvisamente di prendere le distanze («un primo atto liberatorio fatto dall’On. Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato»).
Tale ricostruzione sarà confermata nell’agosto 2000 da Gianadelio Maletti, il responsabile dell’ufficio D del Sid dal 1971 al 1975, condannato per avere agevolato la fuga di Giannettini all’estero, il quale, in un’intervista a Daniele Mastrogiacomo per questo giornale, dichiarò «La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell’estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l’arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione». In che modo? «Lasciando fare», e Andreotti «era molto interessato. Soprattutto del terrorismo di destra e dei tentativi di golpe in Italia».
È significativo notare che Pier Paolo Pasolini nel novembre 1974, ossia pochi mesi dopo la strage di Brescia e l’intervista dell’allora ministro della Difesa Andreotti che scaricava l’agente dei servizi militari Giannettini, scrisse sul Corriere della Sera l’articolo Cos’è questo golpe? Io so, in cui individuava l’esistenza di due diverse fasi della strategia della tensione: la prima, con la strage di piazza Fontana, anticomunista, funzionale a chiudere con l’esperienza dei governi di centro-sinistra e ad arginare l’ascesa del Pci; la seconda, con le bombe di Brescia, antifascista, ossia utilizzata per bruciare quanti ancora erano impegnati a creare le condizioni di un golpe nero e di una soluzione militare in Italia, esattamente come fatto da Andreotti con Giannettini: «Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista) ». Forse per sempre senza nome. Così scriveva un anno prima di essere ucciso il poeta che ebbe l’ardire di farsi storico del suo presente: l’ultima profezia, come ribadisce la sentenza dell’altro ieri sulla strage di Brescia.
Un saggio di Sergio Flamigni denuncia la collaborazione tra ex Br ed esponenti del potere democristiano
Segreti e bugie
quel patto occulto sul caso Moro
di Benedetta Tobagi (la Repubblica, 26.10.2015)
-*** IL LIBRO Patto di omertà di Sergio Flamigni (Kaos, pagg. 306 euro 18).
“Patto di omertà“(Kaos) è molto più di un nuovo (ennesimo) libro sul caso Moro: è una lezione di metodo e una pietra d’inciampo. L’autore, Sergio Flamigni, ex senatore del Pci in cui ha militato sin dalla giovinezza, partigiano prima, poi giovanissimo dirigente forlivese, è il massimo esperto della vicenda, a cui si dedica da una vita, da quando entrò nella prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto (1979-‘83).
Instancabile “cercatore di verità”, come ama definirsi, fondatore del principale archivio italiano sul terrorismo, otto libri all’attivo (il più noto “La tela del ragno”), torna sulla vicenda e ripercorre le carte alle luce delle acquisizioni più recenti. Perché - ecco il metodo- nel proliferare incontrollabile di pubblicistica interessata, memorie contraddittorie e dichiarazioni tardive, spesso su funzionari dello Stato ormai defunti (lo storico Gotor ha ben analizzato come il proliferare di narrazioni e testimonianze, solo in parte veritiere, comunque verosimili, sia funzionale all’oscuramento della verità sugli aspetti più indicibili del delitto), i documenti restano il riferimento imprescindibile, e vanno riletti e ristudiati nel tempo, con pazienza e umiltà.
C’è stato (e ancora resiste) un patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano: questa la tesi di fondo, ampiamente documentata, di Patto d’omertà . Lo scopo? Impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro, in cui trovino risposta i quesiti ancora aperti (Flamigni stila un elenco circostanziato delle lacune, gravissime: basti ricordare che ancora non si conosce l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani).
Al posto della verità, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la collaborazione sotterranea tra figure chiave delle due parti (mentre all’esterno si sbandierava strumentalmente la retorica della “riconciliazione”, ricordate?) ha confezionato una ricostruzione lacunosa e in più punti falsa del caso Moro da dare in paso all’opinione pubblica, le cui architravi sono:
(1) la strage di via Fani e i 55 giorni sono stati eseguiti e gestiti solo dalle Br, senza aiuti e complicità esterne;
(2) non vi furono omissioni e manovre occulte all’interno degli apparati dello Stato durante i 55 giorni;
(3) non vi furono trattative occulte.
Una versione di comodo sia per gli ex Br, perché salvaguardava i loro miti identitari della “purezza rivoluzionaria” e della “geometrica potenza”, sia per la Dc (Cossiga e Andreotti in testa), perché contrastava con le evidenze di un’insufficiente impegno governativo per salvare Moro. L’architrave della versione ufficiale, sdoganata grazie alla compiacenza, ahimè, di vari esponenti della magistratura coinvolti nei processi Moro, è il cosiddetto “memoriale Morucci” (passato dalla scrivania dell’allora presidente Cossiga prima di pervenire ai magistrati), che tradisce la propria natura mistificatoria sin dal nome: bisognerebbe chiamarlo infatti “memoriale Morucci-Cavedon”, perché è frutto di molti colloqui tra l’ex Br dissociato e Remigio Cavedon, giornalista, direttore del quotidiano Dc Il popolo e consulente personale di politici del calibro di Mariano Rumor, al punto che Morucci ammise di non saper più distinguere con precisione cosa fosse esclusivamente farina del proprio sacco (indigna leggere che il magistrato, anziché approfondire il punto, abbia lasciato correre).
La parte più consistente e appassionante del saggio di Flamigni è la meticolosa analisi testuale del documento, che mette in luce omissioni e falsità sulla base delle innumerevoli fonti scritte e orali accumulatesi nei decenni. L’altra sezione “scandalosa” e illuminante riguarda il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.
Ha il pregio della chiarezza, il libro di Flamigni. Grazie alla limpida cronologia sinottica degli avvenimenti e delle indagini dalla mattina del 16 marzo 1978 al ’97, quando l’ex capo delle Br Moretti ottenne la semilibertà, fornita in apertura, si presta ad essere letto e compreso anche da chi sa poco o nulla. Circoscrive le lacune e le omissioni documentali per poter ribadire quanto invece sappiamo per certo, a dispetto delle menzogne governative e brigatiste.
Per anni Flamigni è stato deriso, denigrato come un pazzo visionario, osteggiato con cause per diffamazione (da cui è sempre uscito vincente, anche contro Cossiga), adesso, dopo che i fatti gli hanno dato ragione su tutto (dalle carte rimaste nascoste in via Montenevoso all’esistenza di un “quarto uomo”, solo per citare le più clamorose “anticipazioni” scaturite dalle sue ricerche), il rischio è che la sua voce limpida sia sommersa dal rumore.
Mentre la nuova Commissione Moro, agli occhi degli addetti ai lavori, sembra dedita principalente a confondere le acque e sfornare scoop di dubbia fondatezza con pretese di scientificità (clamorosa la “ricostruzione 3D” della strage di via Fani che fa a pugni con le perizie) che non a far procedere le conoscenze e dove, a dispetto delle direttive altisonanti del Governo sugli archivi del terrorismo, ancora non sono saltati fuori i verbali delle riunioni del comitato di crisi interforze attivo durante il sequestro (e pieno di affiliati alla P2), questo saggio è una preziosa pietra d’inciampo.
Sappiamo moltissimo, del caso Moro, e ciò che non sappiamo getta luce sull’“anatomia del potere italiano” (per citare un saggio di Gotor, altro caposaldo sulla vicenda) e le caratteristiche del terrorismo in Italia: Patto di omertà consolida e approfondisce il patrimonio di verità, insegna a ragionare e a non cedere allo scetticismo.
Pasolini
I 90 anni del poeta corsaro
Anche se non c’è più continua a vivere nei suoi «anatemi» che sono diventati il nostro presente con mercificazione della cultura razzismo opportunismo e ignoranza assurti a valori della vita
di Giancarlo Liviano D’Arcangelo (l’Unità, 04.03.2012)
È canuto e segaligno, aggraziato negli sguardi denudanti e per questo centellinati, intento a muovere con furia nevrotica gli arti affusolati, intricati, pungenti come rovi e duri come la quercia. Nascosto dietro un paio di ombreggianti occhiali da sole di celluloide nera, autoironica concessione al cliché del regista, dell’intellettuale santificato per ansia di disinnesco e relegato al ghetto sepolcrale dell’apparenza. È dura scorgere ciò che accade dietro quegli occhi artificiali dalle lenti ampie e nere di pece, dismessi solo per dormire o per leggere. Eppure Pasolini, prossimo al suo novantesimo compleanno, seppur stanco, depotenziato dalla fatica psichica profusa sulle pagine e ingobbito da quella fisica dissipata sul set, seppur seviziato nei nervi dalla propria ossessione auto-annichilente, è ancora il curculione dal pungiglione avvelenato che, per metà annidato in serra e per metà incalzato da furia insetticida, si nutre e prova a distruggere culture troppo sintetiche per essere trasfigurate in paradisi convincenti. Lampeggia idee. Protesta.
Assomiglia al vecchio Hamm beckettiano di Finale di partita, che giunto alla fine della sua esistenza, un’esistenza fin dall’inizio votata alla sconfitta se correlata alla sua ambizione ancestrale, la liberazione dell’uomo, non può che sospendersi e perdersi fino all’eternità in una sorta di estraneazione fondata sulla ciclica e ineluttabile alternanza di mosse e contromosse, guerra spiroidale senza fine tra lui e il mondo esterno, divenuti archetipi. Il giocatore/individuo, ora santo ora demoniaco, in disperata competizione con avversari senza volto: i bari per eccellenza, il caos e «il potere». Vera e propria nemesi per l’outsider e palliativo per l’uomo, utile solo a rinviare ancora un po’ la fine, temuta e al tempo stesso desiderata. In questi anni, tra traduzioni e saggi critici, tra invettive e qualche annuncio apocalittico, Pasolini ha completato Petrolio, golem premiato, glorificato e al contempo demolito, com’è possibile fare in malafede per ogni capolavoro inclassificabile, mastodontico per ambizione e urgenza e fallace per definizione.
Ha girato l’opera definitiva su San Paolo, appuntandosi come una medaglia l’ennesima scomunica di una chiesa più che mai carnevalesca, facendo del guerriero di Tarso il primo traditore di Cristo e il primo mistificatore eretico del messaggio evangelico.
Ha realizzato con Eduardo de Filippo e Franco Citti Porno-Teo-Kolossal, un film cosmogonico, eroicomico e grottesco, un’opera vagheggiata e organizzata tra mille ostacoli, voluta con prepotenza e imbellettata dal solito amore per il pastiche, in cui accade che una cometa, allegoria babilonese dell’ideologia, trascina dietro a sé un Re Magio interpretato dallo stesso Eduardo, un eroe puro che seguendo quella scia viaggia a lungo maturando esperienza dello scibile intero, del metafisico, del sensoriale e del mistico. L’opera di una vita, insomma. L’unica opera possibile dopo quell’incredibile profezia sulla furia mortuaria della modernità che è stata Salò e le 120 giornate di Sodoma, epigrafe sul potere anarchico dei giorni nostri, messa in evidenza funebre della promiscuità tra carnefici e vittime che s’immolano impotenti, ridotti a corpi-oggetto di sfruttamento, cronaca della perpetrazione fredda e alienante di vita e piacere come routine senza coinvolgimento, affresco dall’estetica cimiteriale tipica del mondo incancrenito dal capitale, che come il sadico non raggiunge mai il grado sublimato del piacere e non gode mai, nemmeno quando ha seviziato e ucciso l’oggetto del proprio godimento, che si tratti del corpo, dell’umanesimo o della natura.
A sorpresa, s’era ridotto all’eremitaggio Pasolini, negli anni 80, quelli in cui molti dei suoi anatemi hanno acquisito forma fenomenica: la vertiginosa mercificazione della cultura ad esempio, o il fascismo insito nel neocapitalismo edonista e consumista, «un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler». Durante gli anni di Drive In insomma. E ancor di più dopo la morte di Moravia nei 90, quelli dell’esplosione delle televisioni commerciali, colpo di grazia tecnologico agli ultimi afflati del mondo originale in cui, prima dell’odierna e placida vecchiaia, Pier Paolo aveva cercato accettazione.
PROFESSIONE BORGHESE
Lui, borghese per professione e paria rifiutato dalla stessa borghesia, immune per coscienza ipertrofica alla borghesia intesa come morbo svelato da una sintomatologia infallibile fatta di razzismo, opportunismo, utilitarismo e ignoranza assorti a valori della vita. Il mondo, quello che batteva, ormai altrettanto corrotto e che l’avrebbe di certo ucciso, se solo Pasolini, già allora ricco e ricattabile oltre che pieno di nemici, nella notte tra il primo e il due novembre si fosse presentato sulla spiaggia dell’Idroscalo con Pelosi e i tre milioni di lire necessari a recuperare le pizze di Salò, anziché ripensarci per miracolo, all’ultimo momento. Già allora, forse, per un uomo che l’amico Carmelo Bene chiamava violento e corruttore in quanto portatore vivente del dubbio e della crisi come ideologia, non c’era più niente da corrompere. E come testimonia il trattato pedagogico Gennariello, volutamente lasciato incompiuto, nemmeno più nulla da insegnare.
Guai a chiamarlo maestro, infatti. Perché mai come oggi, in procinto di compiere novant’anni, Pasolini, come se fosse destinato ad averne per sempre cinquantatré, predicherebbe deciso che i maestri non servono a niente, così come aveva predetto attraverso la voce stridula del corvo di Uccellacci e Uccellini. Vanno superati. E sono fatti, come lui ha sempre dimostrato, «solo per essere mangiati in salsa piccante».
Noi, come Pasolini: sappiamo chi in Italia uccide la cultura
di Vanni Ronsisvalle *
Ora basta, chi ha ammazzato Pasolini? Chi sa parli. Le piazze di Roma. La piazza Navona dove si celebravano i funerali della cultura italiana che muore uccisa sappiamo da chi. Questo lo sappiamo. La piazza di Campo de’ Fiori di un novembre lontano e vicino. Mi viene in mente, nel disperdersi sereno della folla di piazza Navona (il provvisorio sollievo che segue queste liberazioni collettive) quel grumo di carne pesta, pestata, calpestata, schiacciata che invocava mamma fino a che il corpo fu inerte, come una cosa qualunque. Carne tornata bambina. Oppure, mamma ossia l’umanità offesa, siamo noi. Grumo di carne e fango su cui la scientifica, ah, ah, ricavava impronte sagomate di copertoni, straordinario decoro imprimé sulla maglietta che fascia il torace esile di Pier Paolo. «Calma» mi disse il direttore del Tg di allora alle 11 e 15 di quella mattina. Mi aveva atteso ai piedi della grande scala a chiocciola di via Teulada 66. «È soltanto una storia di froci».
Mentre sogno nel Texas, Stati Uniti, esplode un pozzo di petrolio. Tre morti. Nel golfo del Messico di fronte agli Stati Uniti scoppia un pozzo subacqueo e diluiscono la morte nell’oceano milioni e milioni di «barili» di petrolio. Barili. Questo nome impressionante di una unità di misura, per la cordialità che lo assimila al vino, è assolutamente improprio, maschera il trucco come è di tutte le «risorse» del capitalismo. Fu improprio quel è una storia di froci . Il giovane turco che accoltella e decapita un prete, un vescovo, grida ai circostanti HO AMMAZZATO IL GRANDE SATANA. È una storia di froci (più o meni così) il comunicato del governo turco. Mentre il Papa è a Cipro. Petrolio. La morte di Mattei a Bescapè, il suo piccolo aereo aziendale esplode in cielo e tutta quella macelleria di pezzi d’aeroplano, i pezzi del passeggero e del pilota si sparpagliano nel fango padano. Mattei era partito dalla Sicilia dove sotto gli occhi di pastori e contadini esterrefatti e ammirati si scavavano pozzi di petrolio.
Due civiltà alle prese, una guerra di seduzioni. Un cacciavite nel motore del biplano. Una storia di Mafia? o il Grande Gioco delle Sette Sorelle, cioè la stessa cosa? Il Direttore del TG, bravuomo, in quel lontano mattino mi sussurrava, giunto a passi felpati per non disturbare, davanti alla mia scrivania in redazione: «Rallenta, Vanni. È solo una storia di froci». Prima, preoccupatissimo, mi aveva atteso per affidarmi, quale responsabile di una redazione innocua, la cultura (quandanche con raccomandazioni e cautele) il delitto politico . La natura si ribella al contronatura in generale? Messa così è un castigo del cielo o qualcosa che riguarda gli ambientalisti. Il Segreto di Stato? Dio, cosa evochiamo... Il romanzo giallo , il romanzo evasivo, un bel trucco; interessa a quegli scrittori di legal-thriller ? per tutti quelli che affollavano piazza Navona non è un Segreto di Stato chi uccide la cultura. Quelli che uccidono quel che siamo, saremmo noi ridotti a ben poco per tutto il resto, e l’Immagine Italia. L’immagine che traluce nei volti dipinti, ad esempio, da Giotto in giù... Sulla cattedra di Salamanca un tale posò una pistola mentre parlava il filosofo Unamuno. Viva la muerte e abajo la intelighencia ....
Viva la morte e abbasso l’intelligenza. E Unamuno non parlerà più, era il 1939. Madrid era caduta. A duemila chilometri, mentre sfila in parata il Grande Reich millenario (era una millanteria) Gobbels fa sapere ai tedeschi e al mondo che lui quando sente la parola cultura mette mano alla rivoltella . Siamo nel cuore del Secolo Breve. Tutto si tiene. Il culturame del ministro Scelba, titolare degli Interni, in era trionfante della DC, Anni Cinquanta preludio del falso boom del decennio successivo. «È una storia di froci, Vanni. Puoi dire quello che ti pare». Allora posso sfogare il culturame e vi aggiungo di mio la libera commozione personale. Poichè non è politico questo assassinio . 1968. A Venezia, altra piazza, uscendo dalla casa di Ezra Pound dove il vecchio poeta strapazzato dall’equivoco culturale circa il fascismo ci aveva appena risposto: la buona letteratura nasce dalle macerie non dall’odio. Oi Barbaroi gli aveva appena citato PPP. 1975.
Piazza di Campo dei Fiori ancora anni dopo, Rafael Alberti il poeta spagnolo esule in Italia che abitava là vicino passando davanti alla statua di Giordano Bruno si produceva in una deliziosa pantomima di piccoli inchini. In quel punto avevano bruciato un santo, un eretico? Viva la muerte abajo la intelighencia . Stanno uccidendo la cultura. (Dio, questa parola radicalchic , si esibiscono quelli della invettiva populista.) Intanto un museo frutterebbe in Italia quanto una fabbrica. Così stanno uccidendo questo e quello, compreso il buon senso. E lo speciale senso comune del pudore, ossia in realtà l’umile riserva dietro cui si trincerano quelli che veramente praticano l’arte, la cultura, la ricerca, la vita dell’umanità. Avete presente il Cristo morto del Mantegna? Quel morto per noi rappresenta anche tutto questo. O solo tutto questo? Non sono loro il Grande Satana? Le istituzioni sono bigotte, impaurite contro il Grande Satana della Cultura? Qui vi è un perverso scambio di ruoli. Intercettare il Grande Satana come lo intendiamo noi non sarà più possibile. Gomorra ha suggerito al giovane Saviano quella assonanza carica di sensi con Camorra.
La cultura è anche questo: il lampo che ti fa sintetizzare in una parola. Spiegare al bigotto musulmano, a quelli che hanno sbattuto avanti il povero Pelosi chi è il Grande Satana. È l’ultima possibile pedagogia. A Piazza Navona lo sapevano tutti. Chi c’era e chi non c’era, Petrolio . L’ultimo testo misterioso, criptico di PPP. Trafugato. Segreto di Stato? Mamma . Dal piccolo grumo di carne di poeta, la parola esce infantile come dentro un fumetto ben disegnato, un misto tra Pratt e Schultz, o di quei francesi bravissimi a fare del tetro grandi comics; da lì dentro si leva l’invocazione. Allora non c’è risposta a quel mamma come un perché? Vi ricordate di quel dirigibile che solcava il cielo di Roma pubblicizzando i copertoni della Goodyear? Era terribile, al passaggio meridiano un ombra gelava l’oro di piazza di Spagna. I copertoni si fabbricano con i residuati della lavorazione del greggio del petrolio. Tracce di copertone a raggiera si dipartivano dal crocicchio di Fiumicino dove era stato massacrato PPP. Ancora disegnavano in chi ha vissuto quelle ore il tessuto del racconto.
La poetessa Amelia Rosselli, figlia di uno dei fratelli martiri antifascisti, si torceva le mani, così quando la si vedeva passare davanti al Caffè Rosati di Piazza del Popolo di quegli anni ad un passo dalla follia, fulminata da intuizioni terribili sul futuro delle generazioni. Come Pier Paolo. Erano quegli anni. È una storia di froci mi disse quel direttore di quel TG. È morto Pier Paolo Pasolini, introduceva formale il conduttore del TG. Ce ne parla (ce ne parla?!) eccetera . Ed io partivo con un forbito bla bla bla . Gli italiani alle 13,30 di quel giorno erano già tutti a tavola o alla mensa aziendale. Le impronte di copertone scorrevano sui teleschermi, la mia voce si modellava su quelle immagini incongruenti (come lo è un dipinto astratto per i detrattori di quella pittura). Non astratta la mano di quel direttore di quel TG che poggiava paterna sulla mia spalla mentre io dietro il leggio dello Studio Quattro al quarto piano di via Teulada 66 recitavo il mio De Profundis . «Antonio davanti al corpo di Cesare ti fa un baffo» concluse con sollievo ed un pizzico di cultura, questo sì, quel paterno quando uscimmo dallo Studio. Andai in onda in tutte le edizioni. Addio, addio sussurravamo giorni dopo alla bara che passava in piazza di Campo dei Fiori. Pensavo a questo guardando le immagini del Tg3 di piazza Navona decenni e decenni, un abisso di tempo dopo. Funerali.
* l’Unità, 09 giugno 2010
Fino al 18 dicembre un fitto calendario di incontri, proiezioni, letture, concerti
in diversi spazi della città, dal Lincoln Center all’Istituto italiano di cultura
New York celebra Pier Paolo Pasolini
vita e opere del poeta delle ceneri
di RITA CELI *
POETA, giornalista, scrittore, pittore, regista. Non è possibile sintetizzare l’opera e l’arte di Pier Paolo Pasolini, intellettuale e narratore del dopoguerra ucciso nel 1975, all’età di 53 anni. A diciassette anni dall’ultima retrospettiva al MoMA, Pasolini torna a New York che fino al 18 dicembre celebrerà l’artista italiano con Pier Paolo Pasolini: Poet of ashes, un fitto calendario di mostre, seminari, incontri, proiezioni, spettacoli teatrali, letture, appuntamenti musicali e cinematografici.
"Nessuna singola istituzione, forma d’arte o tendenza politica può contenere le sue energie, arrabbiate e squisite", ha scritto il New York Times nell’articolo dedicato agli incontri pasoliniani che verranno ospitati da diverse istituzioni newyorchesi, come il Lincoln Center, che ha in programma la rassegna cinematografica Epifanie Eretiche, e l’Istituto italiano di cultura, che celebrerà il "poeta delle ceneri" con mostre, letture e conferenze.
Pur spaziando dal grande schermo alla prosa, dal romanzo alla poesia, Pasolini non è molto conosciuto negli Stati Uniti. L’ultima retrospettiva al Museum of Modern Art risale del 1990 ma ancora Pasolini, sempre secondo il New York Times "l’artista più prodigiosamente talentuoso prodotto dall’Italia", offre materia di acceso dibattito.
Il poeta emarginato e ribelle, nato a Bologna nel ’22 e cresciuto a Casarsa, in Friuli, visitò New York nell’estate del 1966. Lì conobbe Allen Ginsberg, scrittore e omosessuale come lui. E lì avrebbe voluto ambientare un film su san Paolo, che non fu mai realizzato.
Il centro cinematografico del Lincoln Center ha preparato la rassegna Epifanie eretiche: i pellegrinaggi cinematografici di Pier Paolo Pasolini, che comprende la retrospettiva dei film da Accattone al Vangelo secondo Matteo, fino al 4 dicembre. Una serie di poster e locandine, invece, sono in mostra fino al 2 dicembre alla Frieda & Roy Furman Gallery.
Oltre che il regista, verrà celebrato anche Pasolini poeta e scrittore con diverse iniziative all’Istituto italiano di cultura, con la partecipazione della nipote Graziella Chiarcossi e di Vincenzo Cerami. "Mi sono sempre tenuto lontano dalle commemorazioni del mio maestro" ha spiegato Cerami, alunno di Pasolini alle scuole medie quando il professore friulano insegnava materie letterarie, "ma adesso è passato del tempo, è sopraggiunta una certa serenità e dunque la manifestazione diventa l’occasione per fare il punto su Pasolini".
"Non lo si può capire fino in fondo concentrandosi solo su un linguaggio" ha detto ancora Cerami prima della partenza. "Per capire ogni singola opera bisognerebbe partire da quella immediatamente precedente. Se si vuole comprendere un film bisogna aver letto il romanzo o l’articolo di giornale o il poema che lo ha preceduto. A New York andremo a proporre una concezione dell’arte nella sua complessità, per far emergere come Pasolini sia stato lo storico più importante del nostro dopoguerra. Nessun altro meglio di lui ha descritto quello che accadeva a livello antropologico, oltre che politico, dal fascismo al boom economico, fino all’esplodere del terrorismo" ha aggiunto Cerami, che terrà anche due incontri su Il racconto della realtà alla Yale University il 30 novembre e al Cuny Graduate Center il 3 dicembre.
L’Istituto italiano di cultura ospiterà anche una serie di documentari - tra cui Una disperata vitalità (1998) di Mario Martone e Laura Betti, III B facciamo l’appello (1971) di Enzo Biagi - e una mostra fotografica intitolata La verità del corpo con le foto di scena di Angelo Novi sui set dei film da Mamma Roma (1962) a Teorema (1968).
Il 29, 30 e 31 novembre, invece, a La MaMa Experimental Theater Club andrà in scena la performance teatrale Monnezza diretta da Andrea Mancini e Lorenzo Bassotto. Il 4 dicembre al Walter Reade Theater del Lincoln Center, infine, ci sarà lo spettacolo musicale Accattone in Jazz con Roberto Gatto alle percussioni, Danilo Rea al pianoforte e voce recitante di Valerio Mastandrea, che declamerà alcuni passi dal copione del film d’esordio di Pasolini.
In occasione di questa celebrazione uscirà il libro in inglese Pier Paolo Pasolini. The Poet of Ashes curato da Andrea Mancini e Roberto Chiesi. Dopo New York, la retrospettiva su Pasolini si trasferirà ad Atene prima di fare ritorno oltreoceano, a Toronto e a Los Angeles.
* la Repubblica, 30 novembre 2007.
Una rassegna a New York
I lettori americani alla riscoperta dell’opera letteraria di Pasolini
di Gian Maria Annovi (il manifesto, 06.12.2007)
Tra i molti progetti di Pier Paolo Pasolini lasciati incompiuti al momento della sua morte, c’è la sceneggiatura per un film su San Paolo ambientato a New York, città che Pasolini visitò per la prima volta nel 1966, per presentare il Vangelo secondo Matteo. Nel pubblico c’era anche una giovanissima Patti Smith, folgorata dalla carica rivoluzionaria che emergeva da quel film. Lo ha ricordato lei stessa qualche sera fa, durante un incontro alla Casa Italiana di New York, nell’ambito di una rassegna organizzata dall’Istituto di Cultura Italiana, che in questi giorni si propone di ripercorrere l’opera di quello che il New York Times ha definito «il più prodigioso talento italiano» del secolo scorso. A diciassette anni dalla prima retrospettiva pasoliniana organizzata dal MoMa, la manifestazione - Pier Paolo Pasolini: Poet of Ashes - intende presentare al pubblico newyorkese un ritratto a tutto tondo del nostro «poeta delle ceneri».
Negli Stati Uniti, infatti, dove Pasolini è tra gli artisti italiani più studiati e apprezzati, la sua figura viene associata soprattutto alla produzione cinematografica. Nonostante le buone traduzioni antologiche, non ultima quella curata da Norman MacAfee, ad oggi non esistono in America studi di rilievo sulla sua opera poetica, e anche l’interesse per la sua narrativa - se è vero che la titanica traduzione di Petrolio ad opera di Anna Goldstein viene svenduta on-line per pochi dollari - resta circoscritto a opere giovanili come Ragazzi di vita. Anche la produzione saggistica, a parte una discreta traduzione di Empirismo eretico, è ancora pressoché sconosciuta al pubblico statunitense.
Eppure l’America - quella dell’accademia e degli intellettuali metropolitani, ovviamente - non può non amare Pasolini: l’eretico, il marxista, l’omosessuale. Anche Pasolini l’ha amata l’America, ma quella «giovane, disperata, idealista» che raccontava entusiasta - in una intervista intitolata Un marxista a New York - a una Oriana Fallaci divertita e spaventata dalla sua gioiosa ingenuità. Fa sorridere infatti rileggere quella intervista, dove Pasolini scambiava una New York «magica, travolgente e bellissima», con l’America intera, divisa dalla follia della guerra del Vietnam.
Nel 1969, però, alla sua seconda visita newyorkese, il poeta - che già maturava le riflessioni sul genocidio culturale degli italiani, causato anche da un consumismo ben incarnato dagli Stati Uniti - si stupiva che tutto a New York gli apparisse «sospeso e come morto». È proprio questa capacità di abiurare se stesso che rende l’opera di Pasolini ancora nuova e sorprendente, e che forse permette alla sempre più contraddittoria America di oggi di rispecchiarsi in questo poeta delle ceneri, «più moderno di ogni moderno», sempre rinascente dalle proprie rovine.
LAMENTO PER LA MORTE DI PASOLINI
di Giovanna Marini *
Persi le forze mie persi l’ingegno
Che la morte m’è venuta a visitare
E leva le gambe tue da questo regno!
Persi le forze mie persi l’ingegno
Le undici le volte che l’ho visto
Gli vidi in faccia la mia gioventù
Oh Cristo me l’hai fatto un bel disgusto
Le undici le volte che l’ho visto
Le undici e un quarto io mi sento ferito
Davanti agli occhi ho le mani spezzate
E la lingua mi diceva "è andata è andata"
Le undici e un quarto mi sento ferito
L’undici e mezza mi sento morire
La lingua mi cercava le parole
E tutto mi diceva che non giova
Le undici e mezza mi sento morire
Mezzanotte m’ho da confessare
Cerco il perdono da la madre mia
E questo è un dovere che ho da fare
lo a mezzanotte m’ho da confessare
Ma quella notte volevo parlare
La pioggia il fango e l’auto per scappare
Solo a morire lì vicino al mare
Ma quella notte volevo parlare
E non può non può
Può più parlare può più parlare
Non può non può
Può più parlare può più parlare
Persi le forze mie persi l’ingegno
Che la morte m’è venuta a visitare
E leva le gambe tue da questo regno!
Persi le forze mie persi l’ingegno
*
Il canto ricalca la narrazione per orario tipica del modo narrativo popolare. È nelle passioni religiose, soprattutto nel Lazio, in Umbria e nelle Marche, che si cantano le ore collegandole a momenti significativi della Crocefissione.
Pierpaolo Pasolini poeta, scrittore e regista cinematografico, è stato uno dei più ispirati intellettuali del ’900. Fu ucciso il 2 novembre 1975 all’idroscalo di Ostia, nei pressi di Roma.
Pasolini
L’eros. Tra i demoni alla ricerca dell’Origine
Le contraddizioni e le pulsioni vissute nella propria carne
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 28.10.2015)
Sono diverse e note le contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini: individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale, si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante entra in un conflitto aspro con il Pci; ateo, marxista, resta cristiano nello spirito; anticonformista, detesta l’anticonformismo; contestatore vigoroso del “sistema” si schiera contro i giovani contestatori del ’68; anti-paternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua, resta critico irriducibile di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, conduce pascolianamente la poesia verso i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come insuperabile la figura del maestro; poeta sublime dei corpi e della loro esuberanza pulsionale, ne ha messo in scena il loro oltraggio e la loro devastazione; omosessuale e ribelle è un conservatore dei valori della tradizione.
Ragione e passione, storia e natura, pensiero critico e pulsione non trovano mai in lui una conciliazione stabile, ma permangono in uno stato di perenne dissidio. La sua stessa psicologia individuale appare scissa tra gentilezza e attitudine alla provocazione, altruismo e rapacità pulsionale, divismo e umiltà, mondanità e solitudine. Libertario nei modi e nel pensiero, è preda di un fantasma che lo obbliga ad un godimento compulsivo simile a quello di cui è stato, paradossalmente, un feroce critico.
È forse quest’ultima contraddizione quella che lo ha reso veggente, capace cioè di leggere nello sviluppo promosso dal capitalismo italiano del secondo dopoguerra, salutato come una redenzione, l’inizio di un’epoca di barbarie, un “nuovo fascismo”, il volto più prossimo dell’inferno. Pasolini ha potuto decifrare quell’inferno - l’inferno della mutazione antropologica dell’uomo in consumatore, ovvero della distruzione dell’uomo - perché lo viveva intimamente nella sua stessa carne?
Se ci chiediamo da dove scaturiscano tutte queste contraddizioni che così radicalmente lo dilaniano non possiamo non mettere in primo piano la sua spinta indomita ad attingere all’Origine, alla fonte prima, alla verità del Mito, ad un “essere” non ancora, come si esprimeva Artaud, tradito dal linguaggio. Non è forse questo fantasma ad orientare Pasolini e la sua opera?
Pasolini-Rousseau? L’esordio dell’ Emilio del filosofo francese suona come una sintesi perfetta del fantasma pasoliniano: «Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera nelle mani dell’uomo». Lo sviluppo è senza progresso perché ci allontana dalla verità dell’Origine, ci costringe a perdere contatto con la vita e con il suo fondamento sacro e mitologico. Nelle mani della ragione strumentale tutto non può che degenerare. Pasolini si muove allora verso Sud - come Nietzsche, Rimbaud, Van Gogh - per trovare il corpo nudo, incorrotto e immacolato del popolo (friulano, romano, africano) e della sua lingua.
Il suo presupposto è anti-storico. Si può ridurre il suo genio ad un Edipo irrisolto? Se nel legame con la madre si gioca sempre il problema del nostro legame con la vita e con la sua Origine, le contraddizioni di Pasolini rivelano la sua difficoltà ad abbandonare non tanto la madre, ma l’idea nostalgica di una armonia ineffabile della vita che precede l’esistenza del linguaggio di cui la madre è solo il simbolo. È questo, a mio giudizio, il cuore inconscio dell’uomo e della sua opera.
Preservando il mito della vita come assoluto Bene, egli non può che restare diviso tra la trascendenza del desiderio che lo sospinge in avanti e un rimpianto struggente nei confronti della perdita inevitabile dell’Origine che lo mantiene costantemente ripiegato all’indietro, preda della spinta conservatrice, come direbbe Freud, della pulsione e del suo godimento, il quale, se privato della trascendenza del desiderio, non può che rivelarsi distruttivo.