Eu-ropa. Eu-angelo: In principio era - la vita, non la morte!!!

2 NOVEMBRE. "CELESTE E’ QUESTA CORRISPONDENZA D’AMOROSI SENSI". LA LEZIONE DI FOSCOLO. I VIVI RICORDANO I VIVI (E ANCHE I MORTI) - a cura di pfls

"I diritti degli dèi Mani siano sacri" (XII Tavole).
giovedì 2 novembre 2017.
 

DEI SEPOLCRI

di UGO FOSCOLO

-  Deorum Manium jura sancta sunto
-  (Duodecim tabulae)

-  All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
-  confortate di pianto è forse il sonno
-  della morte men duro? Ove piú il Sole
-  per me alla terra non fecondi questa
-  bella d’erbe famiglia e d’animali,
-  e quando vaghe di lusinghe innanzi
-  a me non danzeran l’ore future,
-  né da te, dolce amico, udrò piú il verso
-  e la mesta armonia che lo governa,
-  né piú nel cor mi parlerà lo spirto
-  delle vergini Muse e dell’amore,
-  unico spirto a mia vita raminga,
-  qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso
-  che distingua le mie dalle infinite
-  ossa che in terra e in mar semina morte?

-  Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
-  ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
-  tutte cose l’obblío nella sua notte;
-  e una forza operosa le affatica
-  di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
-  e l’estreme sembianze e le reliquie
-  della terra e del ciel traveste il tempo.

-  Ma perché pria del tempo a sé il mortale
-  invidierà l’illusïon che spento
-  pur lo sofferma al limitar di Dite?
-  Non vive ei forse anche sotterra, quando
-  gli sarà muta l’armonia del giorno,
-  se può destarla con soavi cure
-  nella mente de’ suoi? Celeste è questa
-  corrispondenza d’amorosi sensi,
-  celeste dote è negli umani; e spesso
-  per lei si vive con l’amico estinto
-  e l’estinto con noi, se pia la terra
-  che lo raccolse infante e lo nutriva,
-  nel suo grembo materno ultimo asilo
-  dall’insultar de’ nembi e dal profano
-  piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
-  e di fiori odorata arbore amica
-  le ceneri di molli ombre consoli.

-  Sol chi non lascia eredità d’affetti
-  poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
-  dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
-  fra ’l compianto de’ templi acherontei,
-  o ricovrarsi sotto le grandi ale
-  del perdono d’lddio: ma la sua polve
-  lascia alle ortiche di deserta gleba
-  ove né donna innamorata preghi,
-  né passeggier solingo oda il sospiro
-  che dal tumulo a noi manda Natura.

-  Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
-  fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
-  contende. E senza tomba giace il tuo
-  sacerdote, o Talia, che a te cantando
-  nel suo povero tetto educò un lauro
-  con lungo amore, e t’appendea corone;
-  e tu gli ornavi del tuo riso i canti
-  che il lombardo pungean Sardanapalo,
-  cui solo è dolce il muggito de’ buoi
-  che dagli antri abdüani e dal Ticino
-  lo fan d’ozi beato e di vivande.

-  O bella Musa, ove sei tu? Non sento
-  spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
-  fra queste piante ov’io siedo e sospiro
-  il mio tetto materno. E tu venivi
-  e sorridevi a lui sotto quel tiglio
-  ch’or con dimesse frondi va fremendo
-  perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
-  cui già di calma era cortese e d’ombre.
-  Forse tu fra plebei tumuli guardi
-  vagolando, ove dorma il sacro capo
-  del tuo Parini? A lui non ombre pose
-  tra le sue mura la città, lasciva
-  d’evirati cantori allettatrice,
-  non pietra, non parola; e forse l’ossa
-  col mozzo capo gl’insanguina il ladro
-  che lasciò sul patibolo i delitti.
-  Senti raspar fra le macerie e i bronchi
-  la derelitta cagna ramingando
-  su le fosse e famelica ululando;
-  e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
-  l’úpupa, e svolazzar su per le croci
-  sparse per la funerëa campagna
-  e l’immonda accusar col luttüoso
-  singulto i rai di che son pie le stelle
-  alle obblïate sepolture. Indarno
-  sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
-  dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
-  non sorge fiore, ove non sia d’umane
-  lodi onorato e d’amoroso pianto.

-  Dal dí che nozze e tribunali ed are
-  diero alle umane belve esser pietose
-  di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
-  all’etere maligno ed alle fere
-  i miserandi avanzi che Natura
-  con veci eterne a sensi altri destina
.
-  Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
-  ed are a’ figli; e uscían quindi i responsi
-  de’ domestici Lari, e fu temuto
-  su la polve degli avi il giuramento:
-  religïon che con diversi riti
-  le virtú patrie e la pietà congiunta
-  tradussero per lungo ordine d’anni.
-  Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
-  fean pavimento; né agl’incensi avvolto
-  de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
-  contaminò; né le città fur meste
-  d’effigïati scheletri: le madri
-  balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
-  nude le braccia su l’amato capo
-  del lor caro lattante onde nol desti
-  il gemer lungo di persona morta
-  chiedente la venal prece agli eredi
-  dal santuario. Ma cipressi e cedri
-  di puri effluvi i zefiri impregnando
-  perenne verde protendean su l’urne
-  per memoria perenne, e prezïosi
-  vasi accogliean le lagrime votive.
-  Rapían gli amici una favilla al Sole
-  a illuminar la sotterranea notte,
-  perché gli occhi dell’uom cercan morendo
-  il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
-  mandano i petti alla fuggente luce.
-  Le fontane versando acque lustrali
-  amaranti educavano e vïole
-  su la funebre zolla; e chi sedea
-  a libar latte o a raccontar sue pene
-  ai cari estinti, una fragranza intorno
-  sentía qual d’aura de’ beati Elisi.
-  Pietosa insania che fa cari gli orti
-  de’ suburbani avelli alle britanne
-  vergini, dove le conduce amore
-  della perduta madre, ove clementi
-  pregaro i Geni del ritorno al prode
-  cne tronca fe’ la trïonfata nave
-  del maggior pino, e si scavò la bara.

-  Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
-  e sien ministri al vivere civile
-  l’opulenza e il tremore, inutil pompa
-  e inaugurate immagini dell’Orco
-  sorgon cippi e marmorei monumenti.
-  Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
-  decoro e mente al bello italo regno,
-  nelle adulate reggie ha sepoltura
-  già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
-  morte apparecchi riposato albergo,
-  ove una volta la fortuna cessi
-  dalle vendette, e l’amistà raccolga
-  non di tesori eredità, ma caldi
-  sensi e di liberal carme l’esempio.

-  A egregie cose il forte animo accendono
-  l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
-  e santa fanno al peregrin la terra
-  che le ricetta. Io quando il monumento
-  vidi ove posa il corpo di quel grande
-  che temprando lo scettro a’ regnatori
-  gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
-  di che lagrime grondi e di che sangue;
-  e l’arca di colui che nuovo Olimpo
-  alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
-  sotto l’etereo padiglion rotarsi
-  piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
-  onde all’Anglo che tanta ala vi stese
-  sgombrò primo le vie del firmamento
:
— Te beata, gridai, per le felici
-  aure pregne di vita, e pe’ lavacri
-  che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
-  Lieta dell’aer tuo veste la Luna
-  di luce limpidissima i tuoi colli
-  per vendemmia festanti, e le convalli
-  popolate di case e d’oliveti
-  mille di fiori al ciel mandano incensi:
-  e tu prima, Firenze, udivi il carme
-  che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
-  e tu i cari parenti e l’idïoma
-  désti a quel dolce di Calliope labbro
-  che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
-  d’un velo candidissimo adornando,
-  rendea nel grembo a Venere Celeste;
-  ma piú beata che in un tempio accolte
-  serbi l’itale glorie, uniche forse
-  da che le mal vietate Alpi e l’alterna
-  onnipotenza delle umane sorti
-  armi e sostanze t’invadeano ed are
-  e patria e, tranne la memoria, tutto.
-  Che ove speme di gloria agli animosi
-  intelletti rifulga ed all’Italia,
-  quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
-  venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
-  Irato a’ patrii Numi, errava muto
-  ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
-  desïoso mirando; e poi che nullo
-  vivente aspetto gli molcea la cura,
-  qui posava l’austero; e avea sul volto
-  il pallor della morte e la speranza.
-  Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
-  fremono amor di patria. Ah sí! da quella
-  religïosa pace un Nume parla:
-  e nutria contro a’ Persi in Maratona
-  ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
-  la virtú greca e l’ira. Il navigante
-  che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
-  vedea per l’ampia oscurità scintille
-  balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
-  fumar le pire igneo vapor, corrusche
-  d’armi ferree vedea larve guerriere
-  cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
-  silenzi si spandea lungo ne’ campi
-  di falangi un tumulto e un suon di tube
-  e un incalzar di cavalli accorrenti
-  scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
-  e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
-  Felice te che il regno ampio de’ venti,
-  Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
-  E se il piloto ti drizzò l’antenna
-  oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
-  certo udisti suonar dell’Ellesponto
-  i liti, e la marea mugghiar portando
-  alle prode retèe l’armi d’Achille
-  sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
-  giusta di gloria dispensiera è morte;
-  né senno astuto né favor di regi
-  all’Itaco le spoglie ardue serbava,
-  ché alla poppa raminga le ritolse
-  l’onda incitata dagl’inferni Dei.

-  E me che i tempi ed il desio d’onore
-  fan per diversa gente ir fuggitivo,
-  me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
-  del mortale pensiero animatrici.
-  Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
-  il tempo con sue fredde ale vi spazza
-  fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
-  di lor canto i deserti, e l’armonia
-  vince di mille secoli il silenzio
.

-  Ed oggi nella Troade inseminata
-  eterno splende a’ peregrini un loco,
-  eterno per la Ninfa a cui fu sposo
-  Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
-  onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
-  talami e il regno della giulia gente.
-  Però che quando Elettra udí la Parca
-  che lei dalle vitali aure del giorno
-  chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
-  mandò il voto supremo: - E se, diceva,
-  a te fur care le mie chiome e il viso
-  e le dolci vigilie, e non mi assente
-  premio miglior la volontà de’ fati,
-  la morta amica almen guarda dal cielo
-  onde d’Elettra tua resti la fama. -
-  Cosí orando moriva. E ne gemea
-  l’Olimpio: e l’immortal capo accennando
-  piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
-  e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
-  Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
-  cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
-  sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
-  da’ lor mariti l’imminente fato;
-  ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
-  le fea parlar di Troia il dí mortale,
-  venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
-  e guidava i nepoti, e l’amoroso
-  apprendeva lamento a’ giovinetti.
-  E dicea sospirando: - Oh se mai d’Argo,
-  ove al Tidíde e di Läerte al figlio
-  pascerete i cavalli, a voi permetta
-  ritorno il cielo, invan la patria vostra
-  cercherete! Le mura, opra di Febo,
-  sotto le lor reliquie fumeranno.
-  Ma i Penati di Troia avranno stanza
-  in queste tombe; ché de’ Numi è dono
-  servar nelle miserie altero nome.
-  E voi, palme e cipressi che le nuore
-  piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
-  di vedovili lagrime innaffiati,
-  proteggete i miei padri: e chi la scure
-  asterrà pio dalle devote frondi
-  men si dorrà di consanguinei lutti,
-  e santamente toccherà l’altare.
-  Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
-  mendico un cieco errar sotto le vostre
-  antichissime ombre, e brancolando
-  penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
-  e interrogarle. Gemeranno gli antri
-  secreti, e tutta narrerà la tomba
-  Ilio raso due volte e due risorto
-  splendidamente su le mute vie
-  per far piú bello l’ultimo trofeo
-  ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
-  placando quelle afflitte alme col canto,
-  i prenci argivi eternerà per quante
-  abbraccia terre il gran padre Oceàno.
-  E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
-  ove fia santo e lagrimato il sangue
-  per la patria versato, e finché il Sole
-  risplenderà su le sciagure umane
.


IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON IL LOGO): IL SOGNO DI UNA COSA. "Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non mediante dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso sia in modo politico. Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro" (K. Marx,lettera a Ruge, settembre 1843).

VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori

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