DEI SEPOLCRI
di UGO FOSCOLO
Deorum Manium jura sancta sunto
(Duodecim tabulae)
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l’obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusïon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ’l compianto de’ templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo,
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
col mozzo capo gl’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l’úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerëa campagna
e l’immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblïate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.
Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscían quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigïati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e prezïosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
cne tronca fe’ la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a’ regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento:
— Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idïoma
désti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste;
ma piú beata che in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtú greca e l’ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzi si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di gloria dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Troade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco,
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della giulia gente.
Però che quando Elettra udí la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: - E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama. -
Cosí orando moriva. E ne gemea
l’Olimpio: e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dí mortale,
venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: - Oh se mai d’Argo,
ove al Tidíde e di Läerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
in queste tombe; ché de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far piú bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON IL LOGO): IL SOGNO DI UNA COSA. "Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non mediante dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso sia in modo politico. Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro" (K. Marx,lettera a Ruge, settembre 1843).
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
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ANTROPOLOGIA, STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA:
RICORDANDO che "I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il #22febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare", e, ancora, che "[...] In quanto festa dell’amore, i Caristia non erano incompatibili con le abitudini cristiane, ed alcuni studiosi hanno notato delle influenze di Parentalia e Caristia sulla festa cristiana delle agapi, come il consumo di pane e vino presso la tomba sostituito dall’Eucaristia [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Caristia) forse, è opportuno svegliarsi dal sonno dogmatico e cercare nei limiti del possibile di non confondere l’amore disinteressato (il "Deus charitas est") con l’amore di mammona (il "Deus caritas est") e di non dimenticare la differenza che corre tra la caristia e la carestia: la prima rinvia alle Grazie e alla Grazia (#Charis, gr.: Xapis), la seconda al "caro" (lat. "carus") del mercato, nel senso del "prezzo", del "costoso".
CHARIDAD. s. f. Virtud Theologál, y la tercera en el orden. Hábito infuso, qualidad inherente en el alma, que constituye al hombre justo, le hace hijo de Dios, y heredero de su Gloria. Viene del Griego Charitas. Pronúnciase la ch como K: y aunque se halla freqüentemente escrito sin h, diciendo Caridád, debe escribirse con ella. Lat. Charitas. PARTID. 1. tit. 5. l. 42. La primera Charidád, que quiere tanto decir como amor de Dios mäs que de otra cosa, è de sí, è de su Christiano. NIEREMB. Aprec. lib. 1. cap. 1. El Angélico Doctor con mäs acierto dice, que aunque no es el mismo Dios, ni es infinita la Charidád, hace efecto infinito, juntando al alma con Dios. CORNEJ. Chron. lib. 1. cap. 38. Uno de los principales exercicios era por este tiempo la assisténcia à los Hospitáles, donde desahogassen los fervores de su inflamada Charidád. (Diccionario de Autoridades - Tomo II, 1729)
P. S.
CHARISTIA o CARA Cognatio ...
"I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il 22 febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare [...] Durante i Parentalia le famiglie visitavano le tombe degli antenati e condividevano dolci e vino sia come offerte che come pasto. [...] " (Wikipedia).
CHARUN: "Nella mitologia etrusca, Charun (o Charu) era uno psicopompo o necropompo del mondo sotterraneo chiamato Ade. È il nome equivalente della figura della mitologia greca Caronte. Charun [...] viene rappresentato a protezione delle porte dell’Ade [...]".
Харистии - (Charistia) или, правильнее, Каристии древнеримский праздник, относившийся к числу родительских и замыкавший так называемые dies parentales (родительские дни); он приходился на 22 февраля. Это был день радости и вознесения богам молитв за живущих ... https://latin_latin.en-academic.com/14340/CARA_Cognatio.
FLS
Passato anteriore: la nuova Preistoria
di Matteo Meschiari (Doppiozero, 3 Luglio 2022).
Julien Gracq, in La littérature à l’estomac (José Corti 1950), dice che il lettore francese, sempre pronto a mandare alla ghigliottina i propri uomini politici, è invece passivo e credulone rispetto ai grandi scrittori del passato. Per una ragione molto semplice: li ha letti poco. E proprio come fino al 1940 credeva ciecamente nell’invincibilità dell’esercito francese, allo stesso modo continua a pensare che la Francia, avendo avuto grandi scrittori in passato, li avrà per sempre. A questa mancanza di consapevolezza contribuiscono delle “operazioni magiche” perpetrate da potenze oscure (alcuni scrittori, alcuni editori, alcuni critici, alcuni professionisti della cultura) che hanno interesse a mantenere la letteratura in una zona brumosa, distante, perché la bruma serve a nascondere qualcosa di inesorabile e innominabile: l’assenza di grandezza.
Questa idea, espressa nel 1950 e ancora attuale settant’anni dopo, ha una doppia articolazione, temporale e semantica: il nostro rapporto con il passato è di ignoranza, il nostro rapporto con il presente è l’esito di quella stessa ignoranza. È così che voglio leggere l’arrivo in Italia di Il tempo sacro delle caverne di Gwenn Rigal (Adelphi 2022), un libro che può mettere ordine in molte cose. Perché diciamolo subito, il nostro rapporto immaginifico con la Preistoria si fonda nella migliore delle ipotesi su amenità paletnologiche come La guerra del fuoco di Jean-Jacques Annaud, o i romanzi polpettone di Jean Marie Auel, o qualche sbirciatina in rete da cui apprendiamo grosso modo cos’è Lascaux, ci facciamo un’idea sulla faccia dei Neanderthal dalle ricostruzioni glamour dei gemelli Kennis, orecchiamo e crediamo di afferrare le teorie sciamaniche di Jean Clottes e David Lewis-Williams. Ma no. Come nel caso del lettore francese del 1950, siamo forse disposti a pensare che la nostra Preistoria sia grandiosa, un grande calderone mitopoietico in grado di dialogare con il presente, ma la scuola non ci ha insegnato nulla più di questo, e no, non basta guardare Cave of Forgotten Dreams (2010) di Werner Herzog per gettare un ponte visionario tra Paleolitico e Antropocene.
Rigal arriva allora al momento giusto (in realtà scrive nel 2016, ma noi avevamo bisogno di pensarci con calma, no?), arriva e risponde in maniera seria e paziente alla domanda da cento milioni delle vecchie lire: che cosa significa l’arte delle caverne? Il libro fa qui quello che un bravo professionista dovrebbe sempre saper fare, cioè schierare sul tavolo teorie, strumenti, dati accessibili a tutti, per poi mostrare in 250 pagine molto ben scritte che la domanda è mal posta e che una risposta univoca non esisterà mai.
Certo, è difficile deludere tutti rivelando che la Preistoria dell’immaginario non è una lingua scomparsa da decifrare o un mistero alla Indiana Jones che sveleremo prima o poi tramite Atlantide o gli alieni. È difficile perché l’accesso a certi temi richiede un salto di complessità, in un backstage laborioso che è molto meno affascinante della prima suggestione visuale: oggi datazioni al radiocarbonio, microanalisi, neurofisiologia, neuroestetica, climatologia, tafologia, scansione 3D, sciamanesimo, zoocenosi; ieri strutturalismo, totemismo, animismo, arte per l’arte, pensiero magico. Tutte cose noiosissime se affrontate dalla corretta prospettiva scientifica, tutte cose che bisognerebbe conoscere per capirci veramente qualcosa.
Così Rigal, in agili capitoletti mai trascurati, riesce a riassumere e illustrare passato remoto, passato prossimo e presente (fino al 2016) della ricerca paletnologica, facendosi carico tanto dell’aspetto semantico-ermeneutico quanto di quello epistemologico. E così, trovando un abile equilibrio tra narrazione e informazione, consegna al pubblico dilettante uno strumento operativo, un succulento spaccato sulle origini cognitive di Homo sapiens, e un valido argomento per non scrollarsi di dosso la Preistoria con un’ingenerosa alzata di spalle. Anche i nuovi competenti, quelli che scrivono di tutto seguendo in superficie i flussi carsici della storia delle idee, ne trarranno, leggendolo, grande profitto. Ma il problema è un altro: in che modo, e perché, lo studio della Preistoria dovrebbe essere valorizzato a tal punto da diventare utile? Quali ragioni abbiamo per iniziare oggi una risoluta riconquista culturale del Paleolitico superiore?
Torniamo al titolo del libro: Il tempo sacro delle caverne. Catalizzatore inconsapevole di un’urgenza contemporanea, Rigal intercetta due parole chiave che stanno giocando un ruolo decisivo nel pensare e metabolizzare l’Antropocene. La crisi del tempo e il ritorno del sacro, iniziati certamente qualche secolo fa ma investiti da tempeste esponenziali in quest’ultimo decennio, sono l’epicentro del nostro più grande disorientamento. Tempo lineare (progresso, teleologia) e tempo ciclico (mito, eterno ritorno) sono favole della nonna che non convincono più il pensatore scaltrito, eppure resistono, maggioritarie, con strascichi che sanno di ottimistica diffidenza, di negazione dell’innegabile, di accanimento suicidiario.
Il sacro, invece, vivissimo, acceso come non mai, preme con forza un po’ ovunque, anche se per il momento sotto l’insopportabile cricca dell’irrazionalismo superstizioso e del qualunquismo mistico. È chiaro ad alcuni, invece, che proprio nella banchisa frantumata del tempo, in questo drammatico non-oltre che ci rende inintelligibile e inimmaginabile il futuro, il nostro sapere di non sapere apre la faglia del sacro e, anziché dare risposte abboccate, moltiplica lo spettro delle domande.
La “nuova” Preistoria, l’appetito che cominciamo a sentire per il nostro passato più remoto, i viaggi fantastici attraverso la fiction e le arti verso le lande gelate del Pleistocene, la saggistica divulgativa di cui il libro di Rigal è un esempio brillante, non sono solo l’indizio di un itinerario a ritroso nel tempo per trovare utensili ermeneutici più affilati e più penetranti, ma sono anche un vertiginoso cortocircuito tra necessità intellettuale di comprendere le origini del nostro immaginario (come è nato, come funziona, a cosa serviva) e urgenza esistenziale di vedere in queste origini un’epifania del sacro nella sua forma primaria e forse più autentica.
Il luogo di incontro di queste emersioni e pulsioni, l’apparecchio di cattura dell’immaginario, è allora la grotta ornata: Lascaux, prima di tutte le altre e per sempre in quanto metafora-metonimia del nostro apparire per la prima volta a noi stessi, ma anche Chauvet, una specie di dreamscape in cui andare a incubare sogni ad occhi aperti, o Cosquer, la grotta inghiottita dal mare che resterà per sempre invisibile e solo immaginabile, Altamira, con i suoi bisonti preistorici che, in quel presente remoto / passato anteriore, raccontavano già il Grande Prima agli spettatori di 16.000 anni fa.
Il tempo sacro delle caverne non è certo la bignamizzazione della storia della preistoria ma è senz’altro una generosa e meritoria epitome, come sempre ce n’è bisogno in quei cambi d’epoca in cui si confonde la fretta con l’urgenza e l’informazione con la cultura. Gwen Rigal si concede invece il dono del tempo e dell’approfondimento, sa fare sintesi ma senza rinunciare all’acribia documentaria, aiuta il lettore a immaginare ma senza scivolare in una fiction che qui aumenterebbe le zone brumose invece di dissiparle.
Come dicevo all’inizio, la doppia articolazione passato / presente e ignoranza del passato / ignoranza del presente trova in questo libro dei raggi rischiaranti e degli antidoti riparatori. Siamo cioè in presenza di un manuale di preistoria che andrebbe inserito come opera trasversale a vari livelli della programmazione didattica e anche, più inconsapevolmente, siamo in presenza di un atlante da disleggere, da fraintendere creativamente, per riconoscere da vicino e da lontano le mutazioni dell’Antropocene. Il capitolo su simbolizzazione e sacro e le conclusioni, ad esempio, sono ricche di paradigmi ermeneutici al limite della visione, proprio quello di cui abbiamo bisogno oggi per far parlare i reperti muti che l’immediato futuro ci sta mostrando in squarci temporali anomali, in apparizioni fugaci.
Ecologia sacra, sciamanesimo e animismo, prospettivismo dello spazio-tempo possono essere grandi temi declinati malissimo, dalla ciarlataneria poeticizzante alla saggistica simulata. Ma a volte c’è bisogno di rallentare e fare il punto, di rimettersi a studiare con umiltà e di uscire dalla cronaca scrittoria per lasciare alle idee lo spazio e il tempo di formarsi. Il libro di Rigal è in questo senso un’occasione, io direi quasi l’ultima (parlando dal ground zero del collasso cognitivo che ci ha investito), offerta al lettore medio per non lasciarsi riassorbire dalle brume di una Preistoria vaga, dunque inutile. Piano, allora, con la foga del riuso, con le interpolazioni da maker creativi e con l’etnofurto compulsivo. Esiste un tempo sacro, dentro e fuori dalle caverne, che è come un animale selvaggio nelle steppe del Pleistocene. Invece di mangiarlo perché è buono, proviamo a pensarlo perché c’è.
È morto il grande antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani
Lo chiamavano il "barone rosso" per le sue idee progressiste. Ha rivoluzionato la scienza umana indagando il folklore e criticando una certa visione felice del consumismo, condivisa anche a sinistra. Ha conciliato rigore della ricerca e letterarietà della scrittura
di Marino Niola (la Repubblica, 30 MAGGIO 2022)
Il "barone rosso" ha preso congedo dalla vita. Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli antropologi più importanti del nostro paese. Lo chiamavano così per la sua origine aristocratica e per le sue idee politiche, sempre decisamente progressiste. Che lo portarono anche ad entrare in Senato nel 1996 con la maglia dell’Ulivo.
Grande visione scientifica e umanità generosa, addirittura straripante. La sua fame di vita gli ha sempre fatto da bussola. E il suo ago magnetico ha sempre puntato verso il Sud, dell’Italia e del mondo. Negli anni Sessanta, nel clima concitato e a tratti drammatico della contestazione, revocò in questione la rappresentazione dominante della cultura popolare. Divisa tra marxismo e crocianesimo, distanti ma concordi nel guardare al mondo contadino come ad un’umanità ferma su un binario morto dello sviluppo. Come un relitto folklorico. Una scheggia di storia non più nostra per dirla con il Pasolini de Le ceneri di Gramsci.
Ma lui rovesciò il tavolo facendo affiorare negli usi e costumi di un Mezzogiorno che sembrava più lontano nel tempo che nello spazio, una radicale contestazione della cultura dominante, sia di quella conservatrice, sia di quella progressista. Per lui quel quarto stato con i suoi riti e i suoi miti, con le sue idee di comunità e di società, per il solo fatto di esistere, costituiva una smentita della fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del consumismo incipiente. Negli anni Sessanta scrisse libri fondamentali come Il folklore come cultura di contestazione che sviluppa, in una fusione originale ed eterodossa, le linee portanti delle scienze sociali italiane, da Antonio Gramsci ad Ernesto de Martino.
I suoi corsi all’Università di Messina, della Calabria, alla Federico II di Napoli e in seguito alla Sapienza e al Suor Orsola Benincasa erano degli autentici happening dove ragione e rivoluzione si davano convegno. Il pensiero di Lombardi Satriani è di fatto all’origine del cosiddetto Folk revival, un movimento politico e poetico che ha rivelato al paese l’esistenza di un immenso giacimento culturale che una malintesa idea dello sviluppo rischiava di cancellare troppo in fretta, relegandolo nel retrobottega della storia.
Mentre Lombardi Satriani affermava risolutamente la contemporaneità di quelle schegge di passato. Per lui le tarantolate pugliesi, le veggenti calabresi, le devote di Padre Pio non erano il residuo imbarazzante di un mondo anacronistico, ma gli anelli deboli dello sviluppo, le sorelle di "Rocco e i suoi fratelli" che erano rimaste al paese a custodire lari e penati. E l’altra faccia del miracolo economico Lombardi Satriani la rivelò anche in libri pionieristici come Folklore e profitto del 1973 dove per la prima volta venivano analizzati antropologicamente parole e immagini degli spot televisivi.
Di fatto era l’antropologia di Carosello. La grande capacità di cogliere il legame nascosto fra l’arcaico e il postmoderno, in seguito condusse Lombardi Satriani a studiare il simbolismo del sangue sullo sfondo del flagello dell’Aids, il rapporto tra contaminazione e malattia, tra male fisico e stigma morale. E nei 1982 vinse il Premio Viareggio con Il ponte di San Giacomo, un bellissimo libro scritto con Mariano Meligrana sull’ideologia della morte nel mondo contadino italiano. Dove mostrava le conseguenze tragiche della rimozione della morte in una società come la nostra, sospesa o prigioniera di un eterno presente.
Ma in realtà la forza del pensiero di Lombardi Satriani stava nella capacità di coniugare il rigore della ricerca con la letterarietà della scrittura. Una sintesi che lui considerava indispensabile per non trasformare le scienze umane in un arido elenco statistico o in un inventario notarile di curiosità locali. In realtà Luigi Maria Lombardi Satriani è sempre stato in presa diretta su ciò che rende umani gli uomini. E l’unica consolazione quando si perde un maestro come lui è pensare che ha sempre preso la vita a piene mani. Per questo ha visto prima e più degli altri.
VITA E LETTERATURA: MEMORIA, POESIA, E ARTE DOPO AUSCHWITZ.
Appunti sul tema...
LA VITA CONTRO LA MORTE. "«Le dernier à parler» è ispirato a un verso dello stesso Celan: «Parla anche tu,/ parla come l’ultimo a parlare, /dì il tuo dire»". Probabilmente, il cuore [di Gisèle Celan-Lestrange] ha le sue ragioni, che la ragione [di Maurice Blanchot] non conosce! Blaise Pascal non si sbagliava, e nemmeno Kant!
PAUL CELAN:
PARLA ANCHE TU...
Parla anche tu,
parla per ultimo,
di’ ciò che hai da dire.
Parla -
ma non separare il no dal sì.
Dai anche senso a ciò che dici:
dagli l’ombra.
Dagli ombra che basti,
dagliene tanta
quanta sai sparsa intorno a te
fra mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.
Guardati in giro:
lo vedi, che il vivo è dappertutto -
Prossimo alla morte, ma vivo!
Dice il vero, chi dice ombra.
Ma ora si stringe il luogo dove stai:
e adesso dove andrai, rivelatore d’ombre, dove?
Sali. Innalzati a tentoni.
Più sottile diventi, più irriconoscibile, più fine!
Più fine: un filo,
lungo il quale vuole scendere la stella:
per nuotare nel basso, giù in basso
dove vede se stessa luccicare: nella risacca
di erranti parole.
PAUL CELAN, PARLA ANCHE TU: "[...] A mio avviso, lo sprofondamento nell’altezza descritto nei versi conclusivi di Sprich auch du, è uno “shifter” importante per avvicinarsi a Celan, o perlomeno al Celan più notevole, che quando è al meglio di sé non è semplicemente un poeta nichilista. Per niente, anzi. Con buona pace dei tanti che l’hanno letto così, ma in fondo in fondo fraintendendolo... La visione metafisica di Celan ha tanti aspetti in comune con quella di Kafka, in realtà. Che, più disperato anche di Celan, non diversamente da Celan, in fondo, visse la frattura con la dottrina (la “malattia della tradizione” come l’ha chiamata Benjamin) come una sorta di peccato originale, che lo costrinse a convivere con angoscia e sospetto il suo abnorme bisogno di totalità e unità. [...]" (Massimo Morasso, Doppiozero, 20 aprile 2021).
VITA E POESIA: "LA PAROLA PURPUREA, CHE NOI CANTAVAMO". PER UNA FILOSOFIA "A PIU’ VOCI". In ricordo della straniera di Mantinea ...
PAUL CELAN E IL "PSALM". Dopo Eco e Narciso, dopo "Romeo e Giulietta", dopo "I Promessi Sposi", e dopo Auschwitz, c’è il Psalm (nella Rosa di Nessuno ,"Die Niemandrose", 1963) dell’ Amore (più forte di Morte), quello del "Cantico dei cantici, quello della "Purpurwort, das wir sangen". L’amore no è lo zimbello del tempo" (Shakespeare, "Sonetto 116").
Federico La Sala
La piccola Neve, in Liguria la più antica sepoltura di una neonata
di Osvaldo Baldacci *
L’hanno chiamata Neve. È stata scoperta in Liguria la più antica sepoltura di una neonata in Europa risalente a 10.000 anni fa: si tratta di un’eccezionale testimonianza del Mesolitico e rivela una società di cacciatori-raccoglitori che teneva in particolare considerazione anche i suoi membri più giovani. Il ritrovamento è avvenuto nel sito dell’Arma Veirana, in provincia di Savona ed è oggi pubblicato su “Scientific Reports”, rivista del gruppo “Nature”.
I ritrovamenti e la più antica sepoltura di una neonata
Scavando in una grotta del comune di Erli, nell’entroterra di Albenga, un team internazionale di ricercatori ha scoperto la più antica sepoltura fino ad oggi mai documentata in Europa relativa a una neonata mesolitica. Le attività di scavo e di ricerca sono state condotte in regime di concessione da parte del Ministero dei Beni Culturali, per conto della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Imperia e Savona, rilasciata al professor Fabio Negrino, in quanto coordinatore e responsabile scientifico del progetto.
Un antichissimo rito funebre per la sepoltura di una neonata
La scoperta permette di indagare un eccezionale rito funerario della prima fase del Mesolitico, di cui sono note poche sepolture, che testimonia un trattamento apparentemente egualitario di un loro giovanissimo membro. La comprensione di come i nostri antenati trattassero i loro morti ha un enorme significato culturale e consente di indagare sia i loro aspetti comportamentali sia quelli ideologici.
Esiste una buona documentazione di sepolture riferibili alla fase media del Paleolitico superiore (Gravettiano), nonché alle sue fasi terminali (Epigravettiano recente). Non frequenti sono le sepolture riferibili al Mesolitico e particolarmente rare, per tutte le epoche considerate, quelle attribuibili a soggetti infantili. La scoperta di Neve è quindi di eccezionale importanza e ci aiuterà a colmare questa lacuna, gettando luce sull’antica struttura sociale e sul comportamento funerario e rituale di questi nostri antenati.
Lo studio delle gemme dentarie
L’istologia virtuale delle gemme dentarie della neonata, realizzata presso il laboratorio di luce di sincrotrone Elettra a Trieste, ha stabilito la sua età di morte, avvenuta 40-50 giorni dopo la nascita; ha inoltre evidenziato come la madre di Neve avesse subito alcuni stress fisiologici, forse alimentari, che hanno interrotto la crescita dei denti del feto 47 e 28 giorni prima del parto. L’analisi del carbonio e dell’azoto, sempre estratto dalle gemme dentarie, ha inoltre evidenziato che la madre si nutriva seguendo una dieta a base di prodotti derivanti da risorse terrestri (come ad esempio animali cacciati), e non marine (come la pesca o la raccolta di molluschi).
Gli ornamenti
La sepoltura ha restituito, insieme ai resti del piccolo corpo, un corredo formato da oltre 60 perline in conchiglie forate (Columbella rustica), quattro ciondoli, sempre forati, ricavati da frammenti di bivalvi (Glycimeris glycimeris) e un artiglio di gufo reale. Lo studio degli ornamenti, costituiti da conchiglie cucite su di un abitino o un fagotto in pelle, ha evidenziato la particolare cura che era stata investita nella loro produzione; inoltre, diversi ornamenti mostrano un’usura che testimonia come fossero stati prima indossati per lungo tempo dai membri del gruppo e che solo successivamente fossero poi stati impiegati per adornare la veste della neonata. Neve testimonia dunque che anche le femmine più giovani erano riconosciute come persone a pieno titolo in queste antiche società.
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DESIDERIO DI CONOSCERE E DIVIETO DI SAPERE ∗
di Paul C. Racamier∗∗
Qualche disturbo di voce mi impedisce purtroppo di presentare direttamente il mio breve lavoro. Mi dispiace anche perché apprezzo molto queste Giornate di Studio. Tuttavia abbiamo la fortuna di ascoltare il mio contributo letto da una voce amica che sarà così gentile da utilizzare la sua voce per ringraziarvi dell’attenzione.
D’altra parte ho solo alcune annotazioni da presentarvi che spero non saranno troppo dispersive. Non stupitevi che questi appunti siano l’eco delle mie preoccupazioni attuali.
Sappiamo bene che il desiderio della conoscenza si alimenta ad una sorgente essenziale, cioè al desiderio di conoscere i segreti della sessualità, partendo da quella dei genitori. Tornerò alla fine sulla questione dei segreti.
Questa curiosità essenziale si origina quindi nella camera dei genitori. Tuttavia la fonte non basta. Essa necessita anche - permettetemi una o due immagini alla mia maniera - di uno spazio e di un letto. Lo spazio consiste in un’area di discrezione che avvolge l’attività sessuale dei genitori in maniera da svolgere una funzione di "para-eccitazione". Senza questa area di discrezione - che é quasi un’area di transizione - non ci sarebbe spazio nel bambino per fabbricare il fantasma e tesserlo; senza questa area di para-eccitazione la sessualità dei genitori sarebbe davvero solo una seduzione invadente, un’effrazione traumatica, come venne descritta da Freud e come la si può incontrare ancora oggi nella pratica clinica.
In tal caso la psiche del bambino viene portata, direi perfino trascinata nel temibile ambito dove il sessuale non psichizzato rimane allo stato grezzo; un ambito dove non rimane spazio per il lavoro dello psichico sul sessuale; un ambito la cui espressione ultima è costituita secondo me dall’incesto e in modo più ampio dall’incestualità, cioé dal corto-circuito e dall’esclusione di qualsiasi elaborazione lipidica, dato che l’incestuale non é altro che il colmo dell’anti-libidinale.
Non anticipiamo troppo. Ma vale la pena di porsi da adesso una domanda: se il desiderio di sapere é per l’uomo un’estensione del desiderio di conoscere i segreti del sesso, bisogna chiedersi a quale condizione tale estensione sia possibile. Come mai questa curiosità si estende ad altri tipi di sapere? Perché ciò avvenga è indispensabile che le sia lasciato lo spazio. Bisogna che quell’area di elaborazione a cui accennavo sia preservata. Ora, l’effrazione genitoriale, se avviene, è traumatica nel senso che invade o distrugge quest’area di discrezione. Perché si sviluppi la voglia di sapere, bisogna prima che il sapere non sia stato piantato come un chiodo nella testa e nel corpo del bambino. Il sapere, per crescere, ha bisogno di essere avvolto da un materasso di silenzio.
Una fonte, dicevo. A questa fonte serve un letto. Questo letto è quello che io chiamo il pensiero delle origini. Mi sembra che questo pensiero giochi una parte essenziale nello sviluppo armonico della vita psichica. Non si limita affatto alla conoscenza o al fantasma delle nostre origini; non consiste nella ricerca delle cause. Rappresenta un’intera modalità del funzionamento psichico e sono tentato di situarla al di sotto dei processi primario e secondario del pensiero senza i quali niente si può apprendere né sapere.
Con "pensiero delle origini" intendo la capacità fondamentale e indelebile di provare, fantasticare, concepire e pensare che ogni cosa, ogni conoscenza, ogni persona, abbiano delle origini che a loro volta hanno altre origini, e così di seguito. L’origine è quello che precede: è a monte. Non ci sono limiti alle origini ma il pensiero delle origini non corrisponde all’onnipotenza perché è riuscito a passare attraverso la strettoia del lutto originario che inaugura la rinuncia all’onnipotenza. E’ lì che inizia il filo della vita e questo filo sarà vissuto come una creazione personale, o piuttosto, secondo il mio vecchio amico Antœdipo, come una coproduzione dei genitori e di se stesso.
Perdonatemi questa escursione in concetti che sembreranno complessi, a meno che vi siano familiari. Tuttavia questa deviazione ci porta a due affermazioni molto semplici.
1. Il bambino o l’adulto che non è riuscito a confezionarsi un pensiero delle origini, che quindi non ha rinunciato alla conoscenza assoluta e alla padronanza onnipotente delle proprie origini e della propria vita, probabilmente non avrà né la voglia di sapere né la disponibilità interiore, area di silenzio di cui bisogna disporre nel proprio mondo interno, necessaria per investire in nuove conoscenze. Tale è il caso dei soggetti con patologia narcisistica grave. Non sopportano di imparare perché in ogni conoscenza nuova vedono meno quello che avrebbero da guadagnare di quello che, essendogli sconosciuto, gli fa difetto e ferisce il loro irresistibile fantasma di onnipotenza e onniscienza. Accettando di imparare sembrerebbe loro di derogare a questo fantasma; tant’è che per imparare bisogna prima ignorare. Ora l’ignoranza non è altro che una vergognosa debolezza quando la si guarda dall’alto di un narcisismo intollerante. I narcisisti più "accesi" hanno una vera anti-voglia di imparare.
2. L’altro punto è più temerario. Non mi sembra azzardato ritenere che l’imparare e il sapere
costituiscano già un atto di creazione. Atto modesto, certo, ma fondamentalmente della stessa
natura della creazione vera e propria, e che presenta alcune delle sue caratteristiche principali.
Se non è una creazione vera e propria, fa parte almeno della stessa famiglia. Ogni cosa appresa
ha infatti questo carattere sia personale che universale che nella sua ambiguità, è propria di ogni
cosa creata.
Come ogni creazione nuova, ogni sapere nuovo provoca un ampliamento ed
un’estensione dell’io. Non da ultimo, l’acquisizione del sapere e anche la sua trasmissione, è
creativa nel senso che è il frutto di una coproduzione. Per imparare bisogna prendere e offrire;
non per caso il verbo apprendere (in francese apprendre) può intendersi secondo due modi
diversi: si può insegnare a qualcuno e apprendere da qualcuno; due correnti pulsionali avverse e
complementari che si completano strettamente in questa attività.
Vediamo qui come le strade si incrociano. Se é vero che l’esistenza di ciascuno di noi è il frutto di una coproduzione, dato che la vita ci è stata data ma non cessa di sgorgare in noi stessi, se quindi questo fantasma di fondazione è il perno delle origini; e se questo pensiero delle origini è realmente il letto del desiderio e della capacità di apprendere; se infine l’atto di apprendere è in se stesso una sorta di creazione, allora si vede bene che i nostri concetti si raggiungono nel sapere.
Se mi dite che la conoscenza di se stesso attraverso la relazione psicoanalitica è in se stessa il frutto di una coproduzione, ne converrò sicuramente. Se dite che all’origine dei disturbi del sapere e, più in generale, all’origine delle occlusioni gravi della vita psichica c’è uno sbarramento di vecchia data sul pensiero delle origini, ne converrò anche.
Ma basta con queste grandi idee. Volevo parlarvi del piacere. E per quello vorrei parlarvi dei segreti. Esistono due tipi di segreti. Vi sono i segreti libidici, come i segreti dell’alcova e i segreti di corridoio, che parlano sempre del piacere e che presentano il felice paradosso di circolare tra le generazioni rimanendo nell’ambito del privato: quei segreti sono dei serbatoi di fantasmi, delle macchine per pensare e degli stimoli del sapere. Il culto della verità naviga nelle stesse acque di quello del sapere. Li sospetto entrambi di trarre una forza considerevole dall’auto-erotismo: è proprio quando la verità, che non si incontra comunemente per strada, diventa un oggetto di piacere che l’io le corre dietro: non è vero tra l’altro che la verità viene descritta solitamente come una signora che, quando esce, va in giro svestita?
Al contrario esistono dei segreti anti-libidici. Essi impediscono l’accesso alla conoscenza, alla comprensione, allo scambio e al pensiero così come alla parola. Sono dei segreti inibitori. Di generazione in generazione esercitano i loro effetti paralizzanti. Li incontrerete dappertutto dove regna l’impero incestuale. Ciò significa che li incontrerete spesso. Il regno del segreto esercita un’influenza della peggiore specie. Si tratta di un divieto molto crudele e molto primitivo che ostacola ogni sapere per impedire la scoperta di alcuni saperi. Questo divieto di dire, questo divieto di sapere, questo divieto di pensare si esercita non tramite l’Io ma direttamente sull’Io, nel cuore stesso dell’Io. Perciò penso che sia molto diverso dal Super Io edipico.
Si potrebbe dire che il Super Io edipico prende l’io da parte e gli ingiunge: "Tu, Io, dirai ai tuoi amichetti, i fantasmi erotici, di tenersi tranquilli e di non fare troppo baccano in fondo alla classe". E l’Io obbedisce più o meno. Ecco come si comporta un Super Io di buona compagnia.
In un regime incestuale e sotto l’impero di un narcisismo abusivo e perforante, come quello che abbiamo visto trasgredire le aeree di transizione e di para-eccitazione di cui l’Io ha bisogno per svilupparsi, succede tutt’altro; sembra che una forza pressante prema l’Io da tutte le parti, gli prenda la testa, gli tappi gli occhi e le orecchie e gli imponga gradualmente un divieto assoluto di imparare, e perfino di pensare. "Se sai, dice, se vuoi sapere, se pensi, allora mi fai morire e muori".
Il Super Io edipico vieta l’incesto ma ne lascia passare il desiderio e il fantasma; lascia anche passare il desiderio di sapere e il piacere di desiderare; all’opposto l’oppressione appena descritta e che chiamerei volentieri, usando un neologismo, un super-anti-io, questa oppressione crudele permette l’incesto ma non lascia spazio al desiderio nonché al sapere, alla conoscenza e al pensiero.
Così viene confermato dal suo contrario quello che sappiamo da sempre: che la conoscenza e il piacere sono legati tra di loro e con la vita. La mia lettrice ed io vi ringraziamo per l’attenzione.
∗ Desiderio di conoscere e divieto di sapere di Paul C. Racamier Gennaio - Giugno 2002. Ringraziamo la Sig.ra Racamier per la gentile concessione alla pubblicazione di questo lavoro e l’Editore del “Bulletin de l’ACIRP” che ha pubblicato gli Atti del Convegno “Envie de savoir, envie d’apprendre”, Besançon, 23 marzo 1996.
∗∗ Traduzione in italiano a cura di Josiane Lots.
Fonte: Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2002) Vol. 15, pp. 11-15. 2
Storia /
Dal Milite Ignoto all’altare della Patria
Centenario della traslazione 4 novembre 1921- 4 novembre 2021 per ricordare tutti i caduti in guerra d’Europa.
di Riccardo Radi (FiloDiritto, 08 Luglio 2021)
Il 4 novembre 1921, anniversario della fine della Prima guerra mondiale, la bara del Milite Ignoto, portata a spalla da 12 decorati di Medaglia d’oro al valor militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne deposta nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma, situata al monumento del Vittoriano di Roma e al caduto ignoto fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare.
Il monumento del Milite Ignoto è dedicato ai 651.000 mila caduti italiani del Primo conflitto mondiale, in particolare a coloro dei quali non è stato possibile pervenire all’identificazione, al fine di dedicare loro una degna sepoltura e il riconoscimento di tutti gli onori.
Dei tantissimi giovani che persero la vita in quel conflitto, in un Paese agricolo come era l’Italia nei primi del Novecento, molti provenivano dalle campagne e dal Mezzogiorno, chiamati dalla coscrizione obbligatoria a combattere nel Nord d’Italia e con commilitoni che condividevano la comune cittadinanza italiana ma sovente lingue e idiomi diversi.
La legge 11 agosto 1921, n. 1075, recante “la sepoltura in Roma, sull’Altare della Patria, della salma di un soldato ignoto caduto in Guerra”, all’articolo 1, disponeva, a cura dello Stato, la solenne tumulazione al Vittoriano della salma di un soldato sconosciuto caduto in combattimento nella guerra 1915-1918.
Un secolo dopo, il senso profondo del Milite Ignoto acquista nuovi contenuti ponendosi a monito per le nuove generazioni secondo l’articolo 11 della Costituzione che recita: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali [...] promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Pertanto, anche lo stesso sorgere dell’Unione europea che ha unito i popoli che durante la Prima guerra mondiale si combatterono, rappresenta un lascito importante nel ricordo dei caduti nei due conflitti mondiali del nostro Continente.
La Commissione Difesa della Camera dei deputati ha approvato il 31 marzo 2021 la risoluzione n. 7-00604 che impegna il Governo a organizzare un viaggio della memoria con un treno d’epoca, nella composizione più possibile fedele, che compia un identico percorso con le stesse tappe e gli stessi tempi del treno che portò il Milite Ignoto a Roma.
Il ricordo del Milite Ignoto è un momento che accomuna tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Stati che, alla fine dei due conflitti mondiali che hanno segnato profondamente il Novecento, hanno rinunciato a una parte della loro sovranità a favore dell’Unione e hanno conferito a quest’ultima parte dei propri poteri, al fine di creare un contesto stabile e di pace.
La commemorazione del Milite Ignoto è diffusa tra i Paesi membri dell’Unione europea e Alleati. A partire dal 1920-21, la costruzione di tombe e monumenti per la commemorazione della figura del Milite Ignoto si diffuse anche all’estero. Sarebbe auspicabile un ricordo comune per tutti per i caduti del Primo conflitto mondiale unendo i Militi Ignoti d’Europa in un abbraccio corale che ricordi l’unità raggiunta e i valori costituenti della pace e della fratellanza tra i popoli, e tutti i caduti in guerra.
In cammino con Dante/16.
La luce di Pia de’ Tolomei, splendore di umanità
La figura della donna senese, tradita e fatta uccidere dal marito, pur collocata alla fine del canto V del Purgatorio lo illumina e lo segna indelebilmente, incarnando l’idea stessa del disfacimento
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 4 luglio 2021)
Lontana dai caratteri vivaci e inquieti di Sapia (Purg., XIII) e di Cunizza da Romano (Par., IX), donne di dispettoso ardore, Pia de’ Tolomei appare nel poema per disparirvi, come già fosse parvenza di Paradiso, trepida anticipazione di Piccardi Donati: «Così parlommi, e poi cominciò ’Ave, / Maria’ cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave» (Par., III, 121123). Delle anime che esibiscono, nel canto V del Purgatorio, gli istanti finali della loro morte violenta, Pia non ha alcun tratto; non il lento contemplare la propria morte di Jacopo del Cassero: «Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco / m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io / de le mie vene farsi in terra laco» ( V, 82-84); e neppure il pari venir meno di Bonconte: «arriva’ io forato ne la gola, / fuggendo a piede e sanguinando il piano. // Quivi perdei la vista e la parola» ( V, 98-100).
Essa sola sembra rappresentare l’economia del perdono che governa il canto: «Noi fummo tutti già per forza morti, / e peccatori infino a l’ultima ora; / quivi lume del ciel ne fece accorti, // sì che, pentendo e perdonando, fora / di vita uscimmo a Dio pacificati » ( V, 52-56). E meglio di tutti interpreta l’intento stesso del pellegrino che va cercando e offrendo pace: «Voi dite, e io farò per quella pace / che, [...] / di mondo in mondo cercar mi si face» ( V, 61-63).
Parla per ultima, con un accento di vigile premura per gli affanni del ’viandante dell’eterno’: «Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via» ( V,130-131), conferendo così al viaggio di Dante un umanissimo accento non di eccezionalità, di elezione, di rapimento mistico, ma di agognato riposo dopo un lungo cammino, pellegrino come tanti sulla via della Redenzione.
Pia è forse quella che più fedelmente interpreta il senso del poema: un viaggio che appare lunghissimo, ma non è che un raccolto disegno della mente e della memoria, come ebbe a chiosare Francesco da Buti: «E riposato de la lunga via: bene è lunga la via: passare dall’una superfice de la terra a l’altra per lo centro. Montare lo monte altissimo, passare la spera del fuoco, montare al paradiso delitiarum e poi per tutti li cieli infine al cielo empireo, per certo questo è lo più longo e più alto viaggio che mai si facesse; ma allegoricamente si de’ intendere esser fatto questo viaggio co la mente». E nella mente essa stessa ricompone la propria vita, come fosse ante litteram un’epigrafe di Spoon River, di sé evocando solo il nome, il luogo di nascita e di morte: «Ricorditi di me, che son la Pia; / Siena mi fé, disfecemi Maremma» ( V, 133-134).
Quel «disfecemi Maremma» è verbo di lenta agonia e di profonda malinconia, che Dante applicherà a sé, alla storia di Firenze, quando con lo stesso verbo farà delineare a Cac- ciaguida l’estinguersi di quella nobiltà fiorentina che fu orgoglio di un vivere onesto ed è ora nome vano: «Udir come le schiatte si disfanno / non ti parrà nova cosa né forte, / poscia che le cittadi termine hanno» (Par., XVI, 76-78). E non meno significativo del verbo è il sostantivo ’Maremma’ che, da Dante a Carducci, è luogo di cruda insania: «Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. // Non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che ’n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi cólti» (Inf., XIII, 4-9). È una terra inospite, qui la Maremma pisana, che si prolunga in figure mostruose: «E io vidi un centauro pien di rabbia / venir chiamando: ’Ov’è, ov’è l’acerbo?’ // Maremma non cred’io che tante n’abbia, / quante bisce elli avea su per la groppa / infin ove comincia nostra labbia» (Inf., XXV, 17-21). E invera, al più terribile grado, il «disfecemi», il corrompersi di corpi ormai irriconoscibili che sfigurati appaiono al fondo dell’Inferno: «Qual dolor fora, se de li spedali / di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre / e di Maremma e di Sardigna i mali / fossero in una fossa tutti ’nsembre, / tal era quivi, e tal puzzo n’usciva / qual suol venir de le marcite membre» (Inf., XXIX, 46-51).
Così, poco importa sapere se Pia sia stata dei Tolomei, andata sposa a Nello Pannocchieschi, capitano di Taglia guelfa nel 1284, che l’avrebbe fatta uccidere per essere libero di sposare Margherita Aldobrandeschi; il solo ricordo che le rimane è quella geografia di morte, nella selvaggia Maremma, e quella «gemma» tradita che brilla, solitaria, ultima parola del canto di Dante e della donna innamorata: «Salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma» ( V, 135-136).
Per questi due versi finali, Pia de’ Tolomei è stata eroina romantica, opera lirica di Donizetti e tragedia di Carlo Marenco, rappresentata in Europa e nelle Americhe, mito dolente di austera innocenza: «Pia: ’Ma agli occhi di Dio sarò innocente’; Ugo: ’Non temi il disonor?’; Pia: ’Temo la colpa’’ (Carlo Marenco, atto I, sc. 5). E tuttavia essa vive per quel solo: «Siena mi fé, disfecemi Maremma», che Ezra Pound ripeterà in Hugh Selwyn Mauberley, (1920) e che ancora ispirerà T. S. Eliot, The Waste Land (The Fire Sermon): «Highbury bore me. Richmond and Kew / undid me», «Highbury mi fe’. Disfecemi Richmond e Kew», col suo indimenticabile congedo: «Ardere ardere ardere ardere / O Signore Tu mi cogli / O Signore Tu cogli // bruciando».
In cammino con Dante/14.
L’attesa di Belacqua: e il Purgatorio si proietta nel ’900
La malinconica estenuante attesa del personaggio che Dante incontra nel canto IV verrà presa a modello da Beckett. Ma è il poeta a fare per primo del Purgatorio un immenso territorio intermedio
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 20 giugno 2021)
Il retrocedere, oggi, della morte e del lutto dalla pubblica coscienza ci priva dell’enorme beneficio che con l’insediarsi del Purgatorio nell’economia della salvezza - grazie anche all’opera di Dante - il mondo dei viventi ha contratto col mondo dell’invisibile, un "sacro commercio" di orazioni, desideri, sogni e ispirazioni che da sant’Agostino a Filippo Fabbri si sono intrecciate tra il mondo terreno e le anime defunte.
Scrive Agostino nel De civitate Dei: «Infatti le anime dei fedeli defunti non sono separate dalla Chiesa che anche nel tempo è il regno di Cristo» (lib. XX, 9, 2); e Filippo Fabbri preciserà acutamente: «La prima ragione [della preghiera per i defunti] è che i Santi e i Beati certo pregano per le anime del Purgatorio, ma non possono tuttavia giovare a esse prendendo su di sé i loro tormenti, poiché essi [Beati] non possono patire pena alcuna. Segue dunque che le loro orazioni giovino in forma di supplica, ma senza alcuna soddisfazione di pena, e per mero atto di gratuità » (Disputa XXXVII, p. 465).
L’anima di Belacqua è dunque lì, in una posa malinconica e rassegnata, rannicchiato abbracciando le ginocchia: «Ed elli: ’O frate, andar in sù che porta? / ché non mi lascerebbe ire a’ martìri / l’angel di Dio che siede in su la porta» (IV, 127-129). Nella fretta delle anime a espiare, ad ascendere, egli è l’uomo dell’attesa, indeterminata, perché tutto dipende da quella memoria orante che si attende dai vivi: «Se orazïone in prima non m’aita / che surga sù di cuor che in grazia viva; / l’altra che val, che ’n ciel non è udita?» (IV, 133-135).
Questa partecipazione dei vivi al mondo dell’Aldilà è uno dei frutti più silenti e profondi della Commedia, non solo segnale della sovranità divina, ma anche della comunicazione reciproca «visibilium omnium et invisibilium». E Belacqua in questa parabola si delinea soprattutto come figura del XX secolo, per la vigorosa simbolicità di cui l’ha munito Samuel Beckett in tutta la sua opera.
Eroe di quell’attesa senza fine è il protagonista di En attendant Godot, 1952; Estragon è in scena, esattamente come Belacqua: «Estragone si siede e cerca di togliersi le scarpe. Ma poco dopo vi rinunzierà rannicchiandosi con la testa fra le gambe e le braccia davanti alla testa ». E quell’attesa senza fine è dettata solo da una promessa, senza alcuna apparizione:
ESTRAGONE (Si volta verso Vladimiro): "Andiamocene".
VLADIMIRO: "Non si puo?’.
Es. "Perché?".
Vl. "Aspettiamo Godot".
Es. "Gia?, è vero. (Pausa). Sei sicuro che sia qui?"
Vl. "Cosa?"
Es. "Che lo dobbiamo aspettare".
Vl. "Ha detto davanti all’albero". (Guardano l’albero). "Ne vedi altri?"
Es. "Che albero è?"
Vl. "Un salice, direi".
Es. "E le foglie dove sono?"
Vl. "Dev’essere morto".
Es. "Finito di piangere".
Il salice piangente spoglio è, altrettanto, la «pianta dispogliata / di foglie» dell’allegoria apocalittica di Purgatorio XXXII, 38-39. Come nell’attesa di colui «che non può essere nominato» (l’Innommable) inizia la pièce, così nell’attesa ancora si chiude:
Es. "Non posso piú andare avanti cosí".
Vl. "Sono cose che si dicono".
Es. "Se provassimo a lasciarci? Forse le cose andrebbero meglio".
Vl. "C’impiccheremo domani". (Pausa). "A meno che Godot non venga".
Es. "E se viene?".
Vl. "Saremo salvati". (Vladimiro si toglie il cappello - che è quello di Lucky - ci guarda dentro, ci passa la mano, lo scuote, lo rimette in testa).
Es. "Allora, andiamo?"
Vl. "I pantaloni".
Es. "Come?"
Vl. "I pantaloni".
Es. "Vuoi i miei pantaloni?"
Vl. "Tirati su i pantaloni".
Es. "Già, è vero". (Si tira su i pantaloni. Silenzio).
Vl. "Allora andiamo?"
Es. "Andiamo". Non si muovono.
Il modello-Belacqua non è una nostra supposizione, ma la conferma viene da Beckett stesso: «Sono incapace di concepire il grado d’ingegnosità necessario per collocare il mio lavoro sotto l’etichetta di "italianità". [...] Certo ci sono diversi elementi italiani, dei quali il più tenace è Belacqua (Purg IV, 106 e ss.). La sua attitudine e postura (che ho scoperto l’altro giorno nei disegni di Botticelli per la Commedia, esattamente come l’avevo immaginata) è certamente familiare ai modi delle mie creature: "Ed un di loro, che me sembrava lasso, / Sedeva ed abbracciava le ginocchia, / Tenendo il viso giù tra esse basso". Così come il suo stanco "l’andare in su che porta?". Per una ragione o per un’altra, sono stato certo affascinato dal personaggio e mi son dato da fare per saperne di più sulla sua vicenda. Ma non si sa granché, se non che era liutaio a Firenze, amico di Dante e conosciuto per la sua indolenza e apatia. Ci sono molti gradoni che lo separano dal "Non nominabile", ma è dello stesso lignaggio». [Lettera di Samuel Beckett a A. J. Leventhal et Ethna MacCarthy-Leventhal (21. IV. 1958), Lettres, t. III, 1957-1965, Gallimard, 2016].
In un altro luogo delle sue opere, in Murphy, 1936, Beckett ci dice anche meglio la ragione di quell’adesione a Belacqua: «In quel momento Murphy avrebbe fatto dono di tutta la sua speranza dell’Antipurgatorio per cinque minuti nella sua culla; avrebbe rinunciato al rifugio del masso di Belacqua e a quel riposo quasi embrionale, al di sopra del mare australe che tremolava all’alba dietro le canne, e del sorgere del sole piegando verso il nord; e a nessuna espiazione si sarebbe piegato fintanto che non avesse tutto ripassato in sogno, nel sogno libero dell’infanzia, a partire dalla spermateca sino ai forni crematori. Aveva una così alta opinione di questa situazione postuma, i suoi vantaggi si delineavano nella mente in tali dettagli che osava quasi aspirare alla longevità. Così sarebbe stato lungo il tempo ch’egli avrebbe passato a sognare, a vedere le aurore percorrere il loro zodiaco, prima della lunga ascensione al Paradiso. [...] Era, questa, la sua fantasia "Belacqua", una delle meglio organizzate della sua collezione. Essa lo attendeva aldilà della frontiera della sofferenza, era il primo paesaggio della libertà».
L’attesa: oltre le frontiere della sofferenza, al di qua della lunga marcia di espiazione; l’"invenzione del Purgatorio", che in Dante culmina, ha questa straordinaria conseguenza di modernità: non più soltanto - in modo manicheo - buoni e cattivi, dannati e salvati, ma un territorio immenso di attesa, di commercio di speranza, di gestazione della redenzione, o anche solo di paziente silenzio.
STORIA E FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO....
Veltroni colpisce ancora. Ovvero l’ignoranza della storia genera mostri
di Angelo d’Orsi *
Allora, il fatto è noto, almeno in cerchie dell’antifascismo. In un programma televisivo (“Le Parole”), il conduttore, Massimo Gramellini, giornalista, divenuto poi narratore di successo e anche intrattenitore del piccolo schermo, in occasione del 75esimo del XXV Aprile, non trova di meglio che intervistare Walter Veltroni. A cui dopo l’introduzione di rito (perché è così difficile per una parte del Paese accettare l’idea che la data della Liberazione costituisca una ricorrenza condivisa, un punto fermo nella identità nazionale della Repubblica) pone la domanda, ossia se non sembri all’illustre ospite (in collegamento...) che quella festa sia importante e che ogni cittadino di questa nazione dovrebbe sottoscriverla, senza polemiche fuori luogo. Ebbene l’intervistato annuisce gravemente, come se stesse facendo una importante concessione all’intervistatore. E ammette, che sì, il 25 aprile 1945 va ricordato e festeggiato, dal popolo italiano, non dimenticando però “la tragedia delle foibe”, su cui come per il 25 aprile non c’è il necessario unanime consenso.
C’è da strabuzzare gli occhi, fregarsi le orecchie, cercare conforto in qualcuno che eventualmente stia assistendo al programma. Ha detto proprio così. L’ex segretario dei DS e poi del PD, ha detto che per apprezzare il XXV Aprile dobbiamo ricordarci delle foibe..., dell’altro “crimine orrendo”. Dunque ha messo sullo stesso piano la Liberazione d’Italia dall’invasore e oppressore nazista, e dal fascismo suo complice-succube, con le “foibe”, un circoscritto episodio su cui dalla fine degli anni Novanta si è montata una macchina di propaganda che in Italia non ha l’eguale. Una macchina che ha cercato nel corso del tempo una impossibile equiparazione tra foibe e campi di sterminio nazista, e ora arriva Veltroni, il grande stratega, lo storico provetto, il politico progressista, a mettere sullo stesso piano quella vicenda con la più grande, la sola rivoluzione che si sia mai fatta in Italia, vittoriosamente, quella culminata con la liberazione di Milano, il 25 aprile 1945.
Poco meno di un anno dopo quella data assurse a simbolo della nuova Italia, sotto il Governo De Gasperi, esattamente il 22 aprile 1946, con un decreto “luogotenenziale” firmato dal principe Umberto II, allora “luogotenente del Regno d’Italia” (la Repubblica sarebbe nata qualche settimana dopo): nel decreto si stabiliva «A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale». Tre anni più tardi quella giornata, il 25 aprile, entrò ufficialmente nel calendario civico dell’Italia repubblicana, tra le festività nazionali, accanto al 2 giugno.
Ma Veltroni, opinionista, saggista, scrittore, regista (difficile decidere in quale ambito abbia dato il peggio, dopo aver detto più o meno addio alla politica attiva, ambito in cui aveva fatto sufficientemente danno), tutto questo sembra ignorarlo. Come pare ignorare la speculazione politica sulle “foibe”, e si spinge all’ardito accoppiamento. Gramellini, più accorto di lui, lascia correre, ma proseguendo nel suo ragionamento, relativo alla ovvietà del 25 aprile 1945 come data simbolo dell’Italia che ha sconfitto il fascismo, cita l’esempio altissimo dei Fratelli Cervi, martiri del fascismo, e per sottolineare che la Resistenza non era solo comunista, afferma che i Cervi non lo erano. Veltroni tace e acconsente, citando come protagonisti della lotta partigiana socialisti, liberali, cattolici, monarchici, militari... Non fa la minima menzione del ruolo che il PCI ebbe in quella lotta, dopo aver già costituito il nerbo dell’antifascismo clandestino e all’estero, nel Ventennio. Né il cenno lo fa Gramellini. Finisce lì, con Veltroni che invitato ancora a spiegare il senso della Liberazione se ne esce con un discorsetto grottesco relativo alla situazione determinata dalla pandemia. Grazie, Walter. Ciao, Massimo.
Il giorno dopo Maurizio Acerbo, segretario del PRC, ossia Rifondazione Comunista, con un intervento sul “manifesto” chiede le scuse di Gramellini, precisando che i Cervi erano comunisti, esprimendo sconcerto per l’atteggiamento di Veltroni. E la settimana seguente Gramellini, dando prova di correttezza a supplire la propria scarsa informazione storica, apre la puntata del suo programma con la precisazione: “I fratelli Cervi provenivano da una famiglia cattolica ed erano comunisti”.
Rimane l’agghiacciante silenzio di Veltroni. E rimane l’amaro della deriva storica di una generazione, quella venuta dopo Berlinguer, che non solo ha scientemente affossato il PCI, ma ha cercato in ogni modo di cancellare il patrimonio ideale e politico che in quel partito si riassume. Del resto, già parecchi anni or sono, nel 2011 (se non sbaglio) l’ex sfidante (trombato) di Berlusconi, dichiarava di non essere mai stato comunista, sottolineando: “Non ero ideologicamente comunista”.
In effetti, Veltroni era probabilmente soltanto “veltroniano”, anche quando obbediva senza fiatare alle dirigenze del partito in cui militava, dopo una lunga carriera nella FGCI, anche quando era dentro la cappa del “socialismo reale”, anche quando insomma “faceva il comunista senza esserlo”. Né poteva essere comunista da segretario dei DS (Democratici di Sinistra) e men che meno da primo segretario del neonato PD (Partito Democratico, di cui fu uno degli inventori). Certo il suo curriculum studiorum è modestissimo (“diploma di istituto professionale per la cinematografia e la televisione”), ma possibile che una militanza lunga e da leader nelle file di partiti “antifascisti” (dal PCI ai DS al PD), non gli abbia insegnato neppure l’abc? E non prova vergogna a parlare dell’importanza della memoria da trasmettere ai “giovani”?
Forse il punto sta proprio nella parola “memoria”. Ancora una volta dobbiamo smettere di usare questo termina ambiguo e fallace, e parlare piuttosto di “storia”. E cominciare a studiarla. La memoria comprende l’oblio e l’errore, e in fondo consente a tutti una giustificazione. Perciò rimane fondamentale lo studio della storia. Accetti un buon consiglio, Veltroni: la bibliografia su fascismo, antifascismo, Resistenza, è molto estesa. E se non sa da che parte cominciare chieda consiglio. Personalmente sono pronto a fornirle qualche utile indicazione. Così eviterà in futuro figuracce come quella che ha compiuto proprio nella ricorrenza del 75esimo della Liberazione. È proprio vero che l’ignoranza della storia genera mostri.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, EVANGELO, e NOTTE DELLA REPUBBLICA (1994-2016) : PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI .
fls
Resistere ancora, a distanza di settantacinque anni
di Teresa Simeone *
La domanda, che ritorna ogni anno, con periodica vis polemica, “Che senso ha celebrare la Festa della Liberazione? E liberazione da cosa, se ormai viviamo in una democrazia?” chiama ancora in causa la nostra concezione di libertà e di società e rimanda a eventi che, sia pure storicamente collocati, continuano a interrogarci come cittadini e soggetti eticamente connotati.
Non è certo un falso il consenso altissimo di cui per lungo tempo il regime riuscì a godere, almeno fino al 1938, anche presso raffinati intellettuali della cui adesione si servì per legittimare, in campo internazionale, la propria continuità. Tale consenso poi, lentamente, iniziò a scendere per dissolversi nell’impietosa conta giornaliera dei morti in guerra: rinnegata dai suoi stessi capi in quel luglio del ’43, l’ideologia fascista non cessò di esistere ma si autoconfinò in un’area del Nord, lì ridotta a patetico ologramma del Terzo Reich. Dal tragico 8 settembre, com’è storia, iniziarono l’occupazione nazista, le massicce deportazioni di ebrei verso i campi di sterminio e si consumarono le stragi di civili più feroci che il territorio italiano abbia vissuto. Stragi che raggiunsero il culmine intorno alla metà del ’44, con il consolidarsi delle formazioni resistenziali, finalizzate a spezzare il legame tra la popolazione e i partigiani italiani, che avevano unito la propria alle voci dei migliaia che combattevano nel resto d’Europa. E, finalmente, quel 25 aprile, scelto come data simbolica della rinascita, si poté festeggiare.
Tre giorni dopo, ha scritto Norberto Bobbio, quando i partigiani entrarono a Torino e i tedeschi, seguiti dai fascisti, furono messi in fuga, “Fu come se un vento impetuoso avesse spazzato d’un colpo tutte le nubi e alzando gli occhi potessimo rivedere il sole di cui avevamo dimenticato lo splendore; o come se il sangue avesse ricominciato a scorrere in un cadavere, risuscitandolo. Un’esplosione di gioia si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case. Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva.” Si poteva ricominciare a sperare. “Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi.”[1]
Quella libertà, per tutti, per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, come disse in seguito Arrigo Boldrini, non fu un regalo né un miracolo, ma la conquista di chi, contro ogni calcolo sulla sproporzione delle forze, aveva creduto nell’“ottimismo della volontà” e con coraggio aveva scelto da che parte stare. Lo fece in giorni bui, in cui decidere non era ininfluente per la propria vita. E questo avvenne in tutta Europa. Chi contesta la Resistenza dovrebbe dire, con onestà, cosa avrebbe fatto in quei giorni e cosa avrebbe voluto: la vittoria della Germania nazista? L’estensione del potere hitleriano sull’Europa intera? I campi di sterminio per quanti non rientrassero nel concetto di “normalità” fisica, sociale, religiosa, politica, stabilita dal fuhrer? O forse avrebbe preferito che non sorgesse, dalla coscienza dei popoli, un movimento di ribellione e che si lasciasse ai soli eserciti in campo la difesa della propria libertà? Che non si sentisse il dovere di reagire, quel dovere che solo ha consentito di salvare la dignità di cittadini e di esseri umani? Che permise ad Alcide De Gasperi nel ‘46, alla conferenza di Parigi, di non piegare la testa e di pronunciare parole autenticamente importanti perché di un antifascista convinto, portavoce di un paese che aveva saputo liberare se stesso dal regime e rivendicare una presenza proprio grazie alla lotta di liberazione. Facendo pesare, perché ce ne erano stati a migliaia, i morti di questa battaglia di civiltà.
Tanti uomini e tante donne vi avevano partecipato, ciascuno a suo modo: imbracciando le armi; organizzando la difesa; aiutando i gruppi partigiani; ciclostilando volantini; anche solo tacendo e non tradendo; nascondendo chi era braccato; procurandogli documenti falsi; rifiutando di allearsi con il nemico e di lavorare per lui, come fecero gli oltre 600.000 IMI, troppo a lungo ai margini della storiografia, forse perché simbolo di una sconfitta, di una tragedia che il paese voleva dimenticare in fretta, ma di cui la ricerca sui documenti sta faticosamente ricostruendo il dramma. Costoro, intenzionalmente non equiparati dai nazisti a prigionieri di guerra e dunque privati delle tutele loro dovute, “invitati” a collaborare, rifiutarono di arruolarsi nelle forze armate tedesche e repubblichine, pagando nei lager con condizioni durissime, spesso con la vita, la loro “resistenza passiva”.
Resistenza armata, Resistenza disarmata, Resistenza civile: forme diverse assunse la Resistenza, ma ci fu. E dev’essere ricordata perché fu storia di tanti. Non di tutti, certamente. E anche di questo non sarebbe giusto chiedere conto. Erano tempi difficili, di scelte tragiche cui, per fortuna, non siamo più chiamati: la massiccia e pervasiva azione d’indottrinamento fascista, dall’atto del concepimento (la campagna demografica entrava anche nelle stanze da letto) fino all’età adulta, con quella che Philip V. Cannistraro ha definito la fabbrica del consenso, il controllo dell’informazione e la repressione di ogni forma di dissenso e una liturgia che puntava all’adesione quasi religiosa, sicuramente mistica, rendeva gli effetti dell’apparato propagandistico difficilmente eludibili. La comprensione della difficoltà di sottrarvisi, però, non deve esonerarci dal chiederci “cosa sarebbe successo se...”. I denigratori della Resistenza tendono a sottovalutarne il peso e a riportare al solo contributo degli alleati la conquista della libertà. Questo non corrisponde al vero, ma solo a ciò che una parte politica non avrebbe voluto che fosse accaduto, e cioè la presa di coscienza di chi non accettava il fascismo.
In un celebre discorso che Gustavo Zagrebelsky tenne a Torino il 25 aprile del 2015, si chiese: “E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita? La sconfitta del III Reich e della repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della Resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo che lottava per la sua identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro.” E ancora: “In ogni caso, la Resistenza in Italia, a differenza di ciò che accadde in Germania, fu ciò che permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico, eletto a suffragio universale, del nostro Paese; il primo frutto fu la Costituzione.”
Ed è proprio intorno alla Costituzione che si è formato un nuovo concetto di identità e di comunanza nazionale, una memoria condivisa, un sentimento diffuso di appartenenza con la fedeltà che la Costituzione richiede, come ci ricorda il presidente emerito dell’ANPI , Carlo Smuraglia, in un omaggio che ha voluto farle nel libro “Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica.”, e come l’attuale presidente, Carla Nespolo, prima donna e prima non partigiana a ricoprire tale incarico, dopo la svolta di Chianciano del 2006, i quali, a più riprese, invitano all’unità e al dialogo tra le diverse voci che sono confluite nel testo fondativo della nostra Repubblica.
Se si resta al facile binomio, cui ricorrono pretestuosamente in molti, antifascista/comunista, si darà sempre spazio alle semplicistiche riduzioni ad unum di coloro che, per denigrare il moto resistenziale, preferiscono considerarlo un monolite comunista.
A smentire tale lettura è la semplice analisi dei gruppi che combatterono, dal momento che il CNL (al di fuori del quale è giusto ricordare altre brigate come quelle anarchiche), riuniva esponenti di tutti i partiti antifascisti che si erano organizzati nell’estate del ’43 e, oltre quelli del Partito comunista, del Partito liberale, del Partito repubblicano, del PSIUP, della Democrazia Cristiana, del Partito d’Azione, del Partito democratico del lavoro. Molte di tali formazioni, insieme ad altre che nacquero nel dopoguerra, confluirono nell’Assemblea Costituente.
La Costituzione, perciò, ha un’anima plurale. Ma, questo sì, irriducibilmente antifascista. Non c’è bisogno di citare un articolo preciso né far riferimento soltanto alla XII Disposizione transitoria, più correttamente finale, in essa contenuta. -Come ha chiaramente affermato il nostro presidente della Repubblica, Mattarella, in occasione del Giorno della Memoria di due anni fa: “La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta.” Eppure si continua a evitare di pronunciare, in tante occasioni, il termine “antifascismo” perché divisivo. Divisivo? E certo che lo è: divide chi è a favore di una dittatura da chi non lo è! In realtà, anche quelle formazioni che fanno continuamente appello al rispetto della Costituzione, rivendicando per sé una libertà di espressione comodamente “elastica”, nel rifiutarsi di celebrare la Festa della Liberazione dimenticano questa indiscutibile verità. Non riconoscono, cioè, il significato civile di una giornata che ricorda la fine dell’oppressione e la rinascita alla dignità e alla libertà del popolo italiano, almeno del popolo che si riconosce in quei valori. Appunto.
In tale ottica, la Resistenza non è mai finita: se lo è come moto storico, continua a essere viva come resistenza civile a tutto ciò che degradi la condizione sociale a quella servile. E poiché tale pericolo esiste, sotto ogni latitudine e dentro ogni sistema politico e si slatentizza nelle situazioni di crisi in cui più forte è la tentazione di delegare i propri diritti personali, bisogna essere pronti a coglierne e interpretarne i segni, per neutralizzarne gli effetti. Le parole con cui Camus chiude La peste, efficace metafora del morbo nazifascista che contagiò l’Europa civile, e che ricordano come il bacillo si annidi, silente, negli armadi e tra gli indumenti, pronto a riattivarsi, restano un monito sempre valido per allertare alla vigilanza intelligenze e sensibilità.
Il fascismo è sempre presente nel tessuto della nostra società: lo è in forme diverse, è ovvio. Non più col fez e in camicia nera, ma in abiti civili. Un fascismo eterno, come l’ha definito Umberto Eco. Quotidiano e, per questo, più strisciante e insidioso, come è ampiamente trattato nel prossimo numero di Micromega, in uscita il 30 aprile.
Qual è la possibile copertura difensiva, al di là di un apparato legislativo potente quale quello contenuto nella citata Disposizione della Costituzione, nella legge Scelba del 1952 e nella legge Mancino del 1993? Probabilmente ancora una lenta, progressiva e paziente azione culturale, di ricerca storica e di studio faticoso, l’unica speranza di vivere onoratamente, come scrisse Gramsci, e di formarci una coscienza democratica che consenta la piena, irrinunciabile vita civile che ciascuno di noi ha il diritto di realizzare e il dovere di perfezionare.
[1] Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza, Einaudi, e-book, posiz. 325-330-335
* MicroMega, 24 aprile 2020.
Gli anziani come foglie
di Rosaria Gasparro (Comune-info, 15 Aprile 2020)
Oggi ho chiamato Nzina, la mia vicina di casa di un tempo, vive da sola nel nostro vecchio angolo dove ci sedevano al sole a “la pantagne”. Ha più di ottant’anni, almeno credo. Come stai? Non c’è male. Oggi sono andata alle Poste con la mascherina. In chiesa non ci vado più da tempo. Non sto uscendo. Quando c’è il sole mi siedo fuori. Non c’è nessuno. Solo io.
Ho poi chiamato zia Lina, novantenne, che dice di non lamentarsi, che non le manca niente, che ringrazia Dio per come sta. E poi zia Vituccia, novantotto anni a maggio, ha una voce serena e allegra. Anche lei sta bene, solo che vede con “la muruscene”, per dire l’ombra. Faremo una festa per i suoi cento anni. No, meglio prima, dice mio cugino, che pattuglia le strade. Di notte non c’è nessuno, e di giorno sono medici e infermieri quelli che fermiamo. Non vedo la zia da tempo, gli dico di mandarmi una foto. Ha la faccia come la voce, mette di buonumore vederla.
Ieri la zia di cui mi prendo cura compiva gli anni, novantasei. Le ho preparato la torta con le fragole, non sapeva che fosse il suo compleanno. Na, sto pense... Si n’one sciuti li carabinieri (è convinta che siano loro a impedirmi di andarle a trovare ogni giorno)? ma ce stè succede? m’à scì a llu cimitere? E questa finale è la sua fissa, quella di andare a trovare i suoi cari. E vicina mia madre, novantacinque anni a giugno, che si sfinisce di preghiere. Povere Criste, lu sto mette a’n crosce.
Come foglie. Penso ai versi di Giorgio Caproni. Per dire degli anziani deceduti, una generazione scomparsa senza far rumore. Qualcuno darà conto di questa strage.
Quanti se ne sono andati...
Quanti.
Che cosa resta.
Nemmeno
il soffio.
Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.
Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.
Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.
Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.
Tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi.
Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.
Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.
Ci vorrà una Spoon River della Val Seriana, del Pio Albergo Trivulzio e di tutte le Rsa d’Italia in cui sono morti migliaia di anziani soli. Ci vorrà la giustizia per la verità su quanto accaduto e la letteratura che racconti la piccola gente.
*
Rosaria Gasparro, maestra, vive in Puglia ed è una delle animatrici dell’associazione Attacco poetico. Ha aderito alla campagna di sostegno di Comune “Ricominciamo da tre“. Altri suoi articoli sono qui.
James Joyce - Lettera al fratello Stanislaus
(25 settembre 1906. Da Lettere, a cura di G. Melchiori, Mondadori, 1974)
Caro Stannie, [...] ieri sono andato a vedere il Foro. Mi sono seduto su una panca di pietra con una veduta delle rovine. C’era il sole e faceva caldo. Carrozze cariche di turisti, venditori di cartoline, venditori di medagliette, venditori di fotografie. Ero così commosso che mi sono quasi addormentato e mi sono dovuto riscuotere bruscamente. Ho osservato con desiderio la panca di pietra ma era troppo dura e l’erbetta vicino al Colosseo era troppo lontana. Così me ne sono tornato tristemente a casa. Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna. (da: "S.P.Q.R." di Luigi Di Cicco, "Nazione Indiana" , 05.04.2020).
Un delitto efferato/
Bob Dylan. Murder Most Foul
di Alessandro Carrera *
Con un messaggio sul suo sito www.bobdylan.com e poi su vari social media, Bob Dylan ha annunciato l’uscita di questa sua canzone,Murder Most Foul, dedicata all’uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy a Dallas, Texas il 22 novembre 1963.
La canzone, postata su youtube e ripresa da vari siti, è la prima in otto anni firmata da Dylan (dall’uscita di Tempest, 2012) e stando alla voce e dall’arrangiamento sembra registrata non più di cinque anni fa. “Murder most foul”, il delitto più efferato, è una citazione dall’Amleto di Shakespeare (Atto I, Scena 5; lo spettro del padre descrive la sua morte ad Amleto) e tutta la canzone, come è nello stile di Dylan, contiene moltissime citazioni da canzoni e film, riferimenti letterari e storici, in particolare relativi all’assassinio di Kennedy il riferimento alla “collinetta erbosa” o grassy knoll verrà immediatamente compreso da chi è convinto che proprio dietro quella collinetta della Dealey Plaza di Dallas si celasse un tiratore scelto) ma non solo.
L’ultima parte è una vera e propria litania, in cui Dylan invoca il disc jockey Wolfman Jack (Robert Preston Smith, 1938-1995) perché suoni, come lamento funebre per il presidente ucciso e per l’America tutta, una selezione di brani musicali (ma anche film) che copre l’intera storia della popular music americana e inglese del Novecento.
La prima volta che Dylan aveva affrontato il tema risale alle ultime settimane del 1963, in una serie di poesie intitolate Kennedy Poems e ufficialmente ancora inedite. Come già Tempest, la canzone dell’album omonimo dedicata all’affondamento del Titanic, Murder Most Foul è una finestra aperta sul tempo, ma non è legata nessun anniversario particolare e la sua uscita nei tempi della pandemia può risuonare come una meditazione sulle speranze tradite dell’America e allo stesso tempo una celebrazione del potere dell’arte di dare senso a eventi la cui verità sembra destinata a sfuggire per sempre (vari accenni fanno capire che Dylan non sembra avere molta fiducia nelle conclusioni ufficiali raggiunte dalla Commissione Warren, ma d’altra parte qui Kennedy è celebrato più per il suo mito che per la sua eredità storica).
La musica può ricordare a tratti Not Dark Yet dall’album Time Out of Mind del 1997, ma è più semplice, appena accennata, e fa di Murder Most Foul quasi un poema intonato con accompagnamento musicale di pianoforte, viola, contrabbasso e batteria. Di sedici minuti e cinquantasei secondi, è il brano più lungo registrato da Dylan.
Il testo merita una lunga e dettagliata analisi che non è questa la sede per affrontare. Ne offro una traduzione basata su una trascrizione trovata in internet, da me rivista e corretta sulla base dell’ascolto del brano.
Alessandro Carrera
Un delitto efferato
Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,
giorno d’infamia per l’eternità
il Presidente Kennedy era sulla cresta dell’onda,
un bel giorno per vivere, un bel giorno per morire.
Condotto al macello come un agnello da sacrificio,
dice un momento ragazzi, voi sapete chi sono?
Sicuro che lo sappiamo, sappiamo bene chi sei tu.
Era ancora in macchina quando la testa gliela fecero saltare.
Ammazzato come un cane alla luce del sole,
questione di tempo, e il tempismo era perfetto.
Hai dei debiti in sospeso, siamo qui per ritirare,
ti uccideremo con odio, senza il minimo rispetto.
Ne rideremo, ti stordiremo, te lo butteremo in faccia,
abbiamo già qualcuno qui per prendere il tuo posto.
Il giorno che al re fecero saltare le cervella
migliaia guardavano, nessuno vide niente,
avvenne così in fretta, così in fretta di sorpresa,
proprio lì davanti agli occhi di ciascuno,
la più grande magia mai compiuta sotto il sole,
perfetta esecuzione, un tocco da maestro,
Uomo lupo, oh uomo lupo, oh uomo lupo manda il tuo ululato,
è il gioco del cucù, è un delitto efferato.
Zitti bambini, che poi lo capirete,
stanno arrivando i Beatles, per la mano vi terrete.
Una scivolata giù per la ringhiera, andate a prendere la giacca,
attraversate il Mersey e afferrate il mondo per la gola.
Ecco tre barboni, vestiti da far pena,
raccattate i pezzi e a mezz’asta le bandiere.
Io vado a Woodstock, è l’Era dell’Acquario,
poi andrò ad Altamont e starò vicino al palco.
Sporgiti dal finestrino, goditi la vita,
c’è un party proprio dietro quella collinetta erbosa.
Impila i mattoni, versa il cemento,
non dica che Dallas non la ama, Signor Presidente.
Pigia sull’acceleratore, infila il piede fin nel serbatoio
cerca di arrivare al triplo sottopassaggio.
Tu cantante al nerofumo, tu pagliaccio con la biacca,
non fatevi vedere dopo il calar del sole.
Nel quartiere a luci rosse come un poliziotto in caccia
a vivere nell’incubo di Elm Street.
Se ti trovi a Deep Ellum metti i soldi in una scarpa,
non chiedere che cosa il tuo paese farà mai per te,
qui non si fa credito, soldi da bruciare,
A Dealey Plaza a sinistra devi svoltare.
Vado all’incrocio, farò l’autostop,
fede, speranza e carità, è lì che sono morte.
Sparategli che corre, ragazzi, sparategli finché potete,
Vediamo se l’uomo invisibile lo colpirete.
Addio Charlie, addio Zio Sam,
francamente, Miss Scarlett, non me ne frega niente.
Qual è la verità? Dove se n’è andata?
Chiedi a Oswald e Ruby, dovrebbero saperlo.
Civetta saggia dice, risparmia pure il fiato,
Gli affari sono affari, è un delitto efferato.
Tommy, mi senti? Sono la Regina dell’Acido,
viaggio in una Lincoln limousine, lunga e nera,
sul sedile posteriore di fianco a mia moglie
e per destinazione l’aldilà.
Mi chino a sinistra, ho la testa sul suo grembo,
oh Dio, sono finito in una trappola.
Bene, non chiediamo tregua e tregua non ne diamo,
siamo qui sulla strada vicino a quella dove stai.
Gli hanno mutilato il corpo, gli hanno preso le cervella,
che altro hanno fatto, accanirsi sulla pena,
ma la sua anima non c’era, dove mai poteva stare,
per cinquant’anni non han fatto altro che cercare.
Libertà, oh libertà, libertà dal bisogno,
mi spiace dirglielo, signore, ma solo I morti sono liberi.
Dammi un po’ d’amore, non dirmi una bugia,
getta l’arma nello scolo e vattene via.
Svegliati piccola Suzie, andiamo a fare un giro,
oltre il Trinity River, teniamo gli occhi aperti.
Accendi la radio, non toccare i comandi,
da qui a Heartland Hospital sono solo sei miglia.
Mi fai girare la testa Ms. Lizzy, mi riempi di piombo,
quella tua magica pallottola viene avanti come niente.
Sono solo un allocco, un patsy come Patsy Cline,
non ho mai sparato a nessuno né davanti né dietro,
ho sangue in un occhio, sangue in un orecchio,
alla nuova frontiera non ci arriverò mai
Il film di Zapruder l’ho visto ieri notte,
trentatré volte almeno, forse anche di più.
È orrendo, un inganno, è crudele, è cattivo,
la cosa più brutta che si possa vedere.
L’hanno ucciso una volta, l’hanno ucciso una seconda
l’hanno ucciso come in un sacrificio umano.
Il giorno che l’hanno ucciso qualcuno mi ha detto ragazzo mio,
l’età dell’Anticristo è appena cominciata.
L’Air Force One è arrivato all’imbarco
Johnson ha giurato alle 2.38.
Fammelo sapere quando la spugna avrai gettato,
È quello che è, un delitto efferato.
Gattina mia, qual è la novità, che cosa c’è da dire?
Ho detto che l’anima della nazione è stata lacerata,
la sua lunga decadenza ormai è cominciata,
e che siamo a trentasei ore dopo il giorno del giudizio
Wolfman Jack parla in lingua,
a pieni polmoni e non la smette più.
Metti su una canzone, Mr. Wolfman Jack
suonala per me nella mia lunga Cadillac.
Suonami Only the Good Die Young,
portami là dove hanno impiccato Tom Dooley.
La Saint James Infirmary alla corte di King James,
se vuoi ricordare è meglio che ti scrivi i nomi.
Suonami anche Etta James, suonami I’d Rather Go Blind,
suonala per l’uomo con la mente telepatica.
Suona John Lee Hooker, suona Scratch My Back,
per quello che teneva lo strip club e di nome aveva Jack.
Guitar Slim, Goin’ Down Slow,
Suonala per me e per Marilyn Monroe.
Suona Please, Don’t Let Me Be Misunderstood.
Suonala per la first lady che non si sente niente bene.
Suona Don Henley, suona Glenn Frey,
porta tutto all’estremo e poi mollalo lì.
Suonala pure per Carl Wilson
che guarda da lontano alla Gower Avenue,
suona la tragedia, suona Twilight Time,
riportami a Tulsa, alla scena del delitto.
Suonane un’altra e Another One Bites the Dust,
suona The Old Rugged Cross e In God We Trust.
Monta su quel cavallo dal pelo rosa, prendi la strada deserta,
sta’ lì e aspetta che gli esploda la testa.
Suona Mystery Train per Mr. Mystery,
l’uomo che cadde morto come un albero senza radici.
Suonala per il reverendo, suonala per il parroco,
suonala per il cane che non ha un padrone.
Suona Oscar Peterson, suona Stan Getz,
suona Blue Skies, suona Dickey Betts,
suona Art Pepper, Thelonious Monk,
Charlie Parker e tutta quella roba,
tutta quella roba e tutto quel jazz,
suona qualcosa per L’uomo di Alcatraz.
Suona Buster Keaton, suona Harold Lloyd,
suona Bugsy Siegel, suona Pretty Boy Floyd,
gioca i numeri del lotto, calcola le quote,
suona Cry Me a River per il signore degli dei
suona Number Nine e suona il numero sei,
suona per Lindsey e per Stevie Nicks,
suona Nat King Cole, suona Nature Boy,
suona Down in the Boondocks per Terry Malloy,
suona Accadde una notte e One Night of Sin
ti stanno ascoltando in dodici milioni.
Suona il Mercante di Venezia, suona i mercanti di morte,
suona Stella by Starlight da Lady Macbeth.
Non tema Presidente, c’è aiuto in arrivo,
saranno qui i suoi fratelli, gliela faranno pagare.
Fratelli, che fratelli? Che cosa faranno pagare?
Ditegli che li aspettiamo, vengano pure, sistemeremo anche loro.
Love Field è dove l’aeroplano è atterrato,
ma poi non è più ripartito.
Impossibile stargli alla pari, secondo a nessuno.
l’hanno ucciso sull’altare del sole nascente.
Suona Play Misty for Me e That Old Devil Moon,
suona Anything Goes e Memphis in June,
suona Lonely at the Top e Lonely Are the Brave,
suona per Houdini che si rivolta nella tomba,
suona Jelly Roll Morton, suona Lucille,
suona Deep in a Dream e suona Driving Wheel,
Suona la Sonata al Chiaro di Luna in fa diesis
e Key to the Highway eseguita dal re dell’armonica.
Suona Marching through Georgia e Dumbarton Drums,
suona Darkness and Death che verrà quando verrà,
suona Love Me or Leave Me del grande Bud Powell,
suona lo stendardo insanguinato, suona il delitto efferato.
* Doppiozero, 02.04.2020 (ripresa parziale).
FLS
All’improvviso torna Bob Dylan con un brano su JFK di 17 minuti. E un appello: "State a casa e che Dio sia con voi"
Il cantautore pubblica ’Murder Most Foul’, la canzone più lunga della sua carriera, a distanza di otto anni dall’ultimo album di inediti, ’Tempest’. Un brano "composto qualche tempo fa" sull’assassinio dell’amato presidente. Dove, cantando il passato, ci ricorda la fragilità del presente
di VALERIA RUSCONI (la Repubblica, 27 marzo 2020)
"Saluti ai miei fan e follower con gratitudine per tutto il vostro supporto e lealtà nel corso degli anni. Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa che potreste trovare interessante. State al sicuro, state attenti e che Dio sia con voi. Bob Dylan". Il messaggio arriva all’improvviso con un post su Twitter, inatteso probabilmente anche dal management di Dylan: impossibile gestire fino in fondo un uomo e un artista come lui, sorprendente, in ogni cosa che ha fatto e continua a fare, sempre pronto a scombinare le carte, da quasi sessant’anni a questa parte. Isolato eppure una presenza costante. Incapace di stare fermo, di venire a patti persino con se stesso.
bobdylan.com
✔
@bobdylan
Greetings to my fans and followers with gratitude for all your support and loyalty across the years.
This is an unreleased song we recorded a while back that you might find interesting.
Stay safe, stay observant and may God be with you.
Bob Dylan https://bobdylan.lnk.to/MurderMostFoulTA ...
Così, come un fulmine nel cielo più buio che l’umanità abbia scrutato da molto tempo a questa parte, appare Murder Most Foul, ’L’assassinio più disgustoso’, una monumentale storia musicata lunga quasi 17 minuti - 16 minuti e 56 secondi per la precisione - che racconta dell’uccisione, il 22 novembre 1963, di uno dei presidenti americani più amati, John Fitzgerald Kennedy.
È un pezzo inedito che arriva a otto anni da Tempest, l’ultimo disco di brani originali di Dylan del 2012, ed è, per quanto si sappia, la canzone più lunga di sempre del suo repertorio: Highlands, da Time Out of Mind del 1997, il capolavoro prodotto da Daniel Lanois, durava 16 minuti e 31 secondi.
Tempest era un disco bellissimo e potente, con un Dylan - ancora una volta a rimescolare le carte - che si mostrava prima ironico e spavaldo (guardate il video della traccia di apertura, Duquesne Whistle) per poi chiudere con Roll on John, racconto crudo degli ultimi istanti di vita di John Lennon. Curioso come, anche in questo nuovo brano, Murder Most Foul, una sorta di opera shakespeariana musicata in cui la musica è solo un accompagnamento o un mezzo - ci sono un piano delicato, un violino, i piatti della batteria appena carezzati - si citino anche i Beatles.
La voce di Dylan è roca ma non ancora al punto in cui la conosciamo oggi: temporalmente, questo pezzo potrebbe avere anche più di qualche anno, come con disarmante sincerità ha ammesso, in una nota, un rappresentante dell’artista spiegando che "un po’ di tempo fa" per uno come Dylan potrebbe voler dire mesi fa o addirittura anni addietro.
"Era un giorno buio a Dallas, novembre del ’63, un giorno che vivrà nell’infamia, il presidente Kennedy andava a gonfie vele, era un bel giorno per vivere e un bel giorno per morire": così si apre la maestosa traccia che, nella struttura del testo, rimanda ai pezzi più complessi della produzione di Dylan, come Highway 61 Revisited, e musicalmente può ricordare le atmosfere dolcemente sospese nella loro tragicità create da Nick Cave più recentemente.
Il pezzo è calato profondamente negli anni Sessanta, con le sue innumerevoli citazioni: non solo i Fab Four che "stanno arrivando" (la ’presa’ degli Usa di Paul McCartney e compagni risale al 1964) ma anche "l’era dell’Acquario" menzionata nel musical Hair o l’imminente festival di Woodstock, il sogno spezzato dell’Estate dell’Amore con il dramma di Altamont e poi di nuovo dentro al dolore con la Grassy knoll, la collinetta a Dealey Plaza, Dallas, da dove presumibilmente il cecchino sparò a Kennedy. Kennedy nel "giorno in cui fecero saltare le cervella al re", lo dice così Dylan, su quella musica forte e fragile al tempo stesso, tanto da creare un contrappasso lacerante in chi è all’ascolto. Si arriva alla fine degli anni Sessanta - è il 1969 - con l’altro incubo musicale scritto dagli Who, l’opera rock Tommy, quando Dylan cita Tommy, Can You Hear Me?, una traccia del disco, e canta "Tommy, mi puoi sentire? Sono la Regina dell’Acido" per poi sussurrare "cavalco in una lunga, nera limousine, cavalco sul sedile posteriore accanto a mia moglie, andando dritto verso l’aldilà, mi chino a sinistra e ho la testa sul suo grembo".
I riferimenti si affollano, compaiono come lampi - ci sono anche Marilyn Monroe, Buster Keaton e Houdini - poi arriva l’inizio della fine: un finale che è come un mantra, in cui Dylan ripete titoli di canzoni e intona "suona Etta James", "suona John Lee Hooker", "suona Don Henley", "suona Glenn Frey", "suona Thelonious Monk, Charlie Parker e tutta quella spazzatura", "suona Stevie Nicks", "suona Nat King Cole". È una coda lunghissima, un elenco di visioni, tasselli di storia, ricordi.
Cosa vorrà dirci Bob Dylan con questa traccia tirata fuori solo oggi, in cui la morte che per sessant’anni lui ha cantato in modo così vivo, è una presenza costante?
Questa volta non serve chiederselo, non serve il rumore degli interrogativi nella tua testa. Questa volta bisogna solo fare silenzio. E ascoltare.
Il testo completo di Murder Most Foul
Twas a dark day in Dallas, November ’63
A day that will live on in infamy
President Kennedy was a-ridin’ high
Good day to be livin’ and a good day to die
Being led to the slaughter like a sacrificial lamb
He said, "Wait a minute, boys, you know who I am?"
"Of course we do. We know who you are."
Then they blew off his head while he was still in the car
Shot down like a dog in broad daylight
Was a matter of timing and the timing was right
You got unpaid debts; we’ve come to collect
We’re gonna kill you with hatred; without any respect
We’ll mock you and shock you and we’ll put it in your face
We’ve already got someone here to take your place
The day they blew out the brains of the king
Thousands were watching; no one saw a thing
It happened so quickly, so quick, by surprise
Right there in front of everyone’s eyes
Greatest magic trick ever under the sun
Perfectly executed, skillfully done
Wolfman, oh wolfman, oh wolfman howl
Rub-a-dub-dub, it’s a murder most foul
Hush, little children. You’ll understand
The Beatles are comin’; they’re gonna hold your hand
Slide down the banister, go get your coat
Ferry ’cross the Mersey and go for the throat
There’s three bums comin’ all dressed in rags
Pick up the pieces and lower the flags
I’m going to Woodstock; it’s the Aquarian Age
Then I’ll go to Altamont and sit near the stage
Put your head out the window; let the good times roll
There’s a party going on behind the Grassy Knoll
Stack up the bricks, pour the cement
Don’t say Dallas don’t love you, Mr. President
Put your foot in the tank and step on the gas
Try to make it to the triple underpass
Blackface singer, whiteface clown
Better not show your faces after the sun goes down
Up in the red light district, they’ve got cop on the beat
Living in a nightmare on Elm Street
When you’re down in Deep Ellum, put your money in your shoe
Don’t ask what your country can do for you
Cash on the ballot, money to burn
Dealey Plaza, make left-hand turn
I’m going down to the crossroads; gonna flag a ride
The place where faith, hope, and charity died
Shoot him while he runs, boy. Shoot him while you can
See if you can shoot the invisible man
Goodbye, Charlie. Goodbye, Uncle Sam
Frankly, my Scarlet, I don’t give a damn
What is the truth, and where did it go?
Ask Oswald and Ruby; they oughta know
"Shut your mouth," said the wise old owl
Business is business, and it’s a murder most foul
Tommy, can you hear me? I’m the Acid Queen
I’m riding in a long, black limousine
Riding in the backseat next to my wife
Heading straight on in to the afterlife
I’m leaning to the left; got my head in her lap
Hold on, I’ve been led into some kind of a trap
Where we ask no quarter, and no quarter do we give
We’re right down the street from the street where you live
They mutilated his body, and they took out his brain
What more could they do? They piled on the pain
But his soul’s not there where it was supposed to be at
For the last fifty years they’ve been searchin’ for that
Freedom, oh freedom. Freedom from need
I hate to tell you, mister, but only dead men are free
Send me some lovin’; tell me no lies
Throw the gun in the gutter and walk on by
Wake up, little Suzie; let’s go for a drive
Cross the Trinity River; let’s keep hope alive
Turn the radio on; don’t touch the dials
Parkland hospital, only six more miles
You got me dizzy, Miss Lizzy. You filled me with lead
That magic bullet of yours has gone to my head
I’m just a patsy like Patsy Cline
Never shot anyone from in front or behind
I’ve blood in my eye, got blood in my ear
I’m never gonna make it to the new frontier
Zapruder’s film I seen night before
Seen it 33 times, maybe more
It’s vile and deceitful. It’s cruel and it’s mean
Ugliest thing that you ever have seen
They killed him once and they killed him twice
Killed him like a human sacrifice
The day that they killed him, someone said to me, "Son
The age of the Antichrist has only begun."
Air Force One coming in through the gate
Johnson sworn in at 2:38
Let me know when you decide to thrown in the towel
It is what it is, and it’s murder most foul
What’s new, pussycat? What’d I say?
I said the soul of a nation been torn away
And it’s beginning to go into a slow decay
And that it’s 36 hours past Judgment Day
Wolfman Jack, speaking in tongues
He’s going on and on at the top of his lungs
Play me a song, Mr. Wolfman Jack
Play it for me in my long Cadillac
Play me that "Only the Good Die Young"
Take me to the place Tom Dooley was hung
St. James Infirmary and the Port of King James
If you want to remember, you better write down the names
Play Etta James, too. Play "I’d Rather Go Blind"
Play it for the man with the telepathic mind
Play John Lee Hooker. Play "Scratch My Back."
Play it for that strip club owner named Jack
Guitar Slim going down slow
Play it for me and for Marilyn Monroe
Play "Please Don’t Let Me Be Misunderstood"
Play it for the First Lady, she ain’t feeling any good
Play Don Henley, play Glenn Frey
Take it to the limit and let it go by
Play it for Karl Wirsum, too
Looking far, far away at Down Gallow Avenue
Play tragedy, play "Twilight Time"
Take me back to Tulsa to the scene of the crime
Play another one and "Another One Bites the Dust"
Play "The Old Rugged Cross" and "In God We Trust"
Ride the pink horse down the long, lonesome road
Stand there and wait for his head to explode
Play "Mystery Train" for Mr. Mystery
The man who fell down dead like a rootless tree
Play it for the Reverend; play it for the Pastor
Play it for the dog that got no master
Play Oscar Peterson. Play Stan Getz
Play "Blue Sky"; play Dickey Betts
Play Hot Pepper, Thelonious Monk
Charlie Parker and all that junk
All that junk and "All That Jazz"
Play something for the Birdman of Alcatraz
Play Buster Keaton, play Harold Lloyd
Play Bugsy Siegel, play Pretty Boy Floyd
Play the numbers, play the odds
Play "Cry Me A River" for the Lord of the gods
Play Number 9, play Number 6
Play it for Lindsey and Stevie Nicks
Play Nat King Cole, play "Nature Boy"
Play "Down In The Boondocks" for Terry Malloy
Play "It Happened One Night" and "One Night of Sin"
There’s 12 Million souls that are listening in
Play "Merchant to Venice", play "Merchants of Death"
Play "Stella by Starlight" for Lady Macbeth
Don’t worry, Mr. President. Help’s on the way
Your brothers are coming; there’ll be hell to pay
Brothers? What brothers? What’s this about hell?
Tell them, "We’re waiting. Keep coming." We’ll get them as well
The field is where his plane touched down
But it never did get back up off the ground
Was a hard act to follow, second to none
They killed him on the altar of the rising sun
Play "Misty" for me and "That Old Devil Moon"
Play "Anything Goes" and "Memphis in June"
Play "Lonely At the Top" and "Lonely Are the Brave"
Play it for Houdini spinning around his grave
Play Jelly Roll Morton, play "Lucille"
Play "Deep In a Dream", and play "Driving Wheel"
Play "Moonlight Sonata" in F-sharp
And "A Key to the Highway" for the king on the harp
Play "Marching Through Georgia" and "Dumbaroton’s Drums"
Play darkness and death will come when it comes
Play "Love Me Or Leave Me" by the great Bud Powell
Play "The Blood-stained Banner", play "Murder Most Foul".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AMORE DI DIO ("CHARITY"), NATALE, E LIBERTA’. NUOVO ALBUM DI BOB DYLAN : "CHRISTMAS IN THE HEART" !!!
FLS
Fellini, antropologo e profeta
di Gabriele Gimmelli (Doppiozero, 02 Novembre 2018)
«Comincia un grande futuro», scrive Tullio Kezich nell’ultima pagina della sua biografia felliniana, riprendendo uno dei tanti necrologi apparsi in occasione della scomparsa del grande regista. Quel futuro è il nostro presente: un quarto di secolo ci separa ormai da quel 31 ottobre 1993 in cui Federico Fellini cessava di vivere, dopo due settimane di agonia seguite dalle televisioni di mezzo mondo (con macabra ironia, qualcuno parlerà di “set felliniano”).
In fondo, alla morte - non solo la sua - Fellini ci aveva preparati da sempre. La sua filmografia, dai Vitelloni in avanti, non è che una continua meditazione/esorcismo sul tempo che passa e consuma la vita e i sogni («Una mattina ti svegli, eri ragazzo fino a ieri e adesso non lo sei più») e sul mistero del “dopo”, al quale avrebbe voluto dedicare un intero film, quel Viaggio di G. Mastorna che non riuscì mai a realizzare. Eppure, io credo che se si montassero una dietro l’altra tutte le sequenze di feste banchetti parate sagre circhi matrimoni orge processioni capodanni carnevali dei suoi film, probabilmente avremmo in mano la più vasta meditatio mortis del XX secolo. Ora, se questo è quel che ci ha lasciato, quale futuro per Fellini?
Un Fellini “futuribile”. Nell’immaginario comune, la sua immagine è legata semmai al passato, alla nostalgia, al sogno, insomma al fellinismo. Un prodotto rigorosamente Italian Style, esportabile al pari della pizza e dell’alta sartoria. A pensarci bene, anche il (poco) cinema italiano davvero spendibile oltre i confini ha un retrogusto inequivocabilmente felliniano. Penso ovviamente a La grande bellezza (prontamente insignito dell’Oscar) e a un po’ tutta la filmografia di Sorrentino a partire da L’amico di famiglia. Ma penso anche a registi più insospettabili: a Nanni Moretti, per esempio (il “Sol dell’avvenire” in cartapesta di Palombella rossa, il Vaticano di Habemus Papam); oppure a Matteo Garrone, ai corpi grotteschi e disturbanti dei suoi primi film (L’imbalsamatore, Primo amore), al suo gusto per il fiabesco (Reality, Il racconto dei racconti), per non parlare del Pinocchio prossimo venturo, un progetto a lungo cullato da Fellini e diluito poi in altri film, a cominciare dal Casanova.
Pian piano, però, dal 1993 a oggi, tra omaggi e convegni (l’ultimo solo pochi giorni fa), il cliché dell’artista perso fra le sue rêveries si è andato via via appannando - o quanto meno problematizzando: «A ben vedere», ha scritto Emiliano Morreale, «Fellini non è identificabile con la dimensione della nostalgia. In lui, il passato è dapprima carico di una connotazione inquietante e addirittura orrorifica, e poi messo in scena come un vero e proprio repertorio».
Possiamo insomma incominciare a considerare il regista riminese per quello che effettivamente è stato: un grande antropologo della modernità italiana, di quello strano oggetto continuamente sospeso «fra arcaicità e fantascienza», per usare un’espressione di Giulio Bollati. Studi recenti come quelli di Andrea Minuz (Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, 2012), e, prima ancora, di Gianni Celati (Fellini on the Italian Male, 2009, solo in parte tradotto in italiano) hanno messo in luce la straordinaria capacità del cinema felliniano di penetrare l’identità (politica, storica, sessuale) italiana e i modi con cui essa si rappresenta, restituendone una visione critica “dall’interno”, con tutto il suo amalgama irrisolto di repulsione e attaccamento.
Pensiamo ad Amarcord (1973). I primi quaranta minuti sono fellinismo puro (non a caso il film venne premiato con l’Oscar): il giovane Titta in calzoncini, la “Fogarazza”, le fantasie masturbatorie, i genitori, il nonno, i professori, lo struscio serale, l’eterna provincia, le musiche di Nino Rota... Poi però arriva il momento dell’adunata. Con un twist repentino, Fellini ci rivela che quasi tutti i personaggi visti fin lì, con i quali abbiamo ormai familiarizzato e simpatizzato - l’avvocato, i compagni di scuola, la tabaccaia, persino la “leggendaria” Gradisca - sono tutti irrimediabilmente, entusiasticamente, fascisti. E se all’inizio possiamo ancora sorridere dell’atmosfera farsesca, con i gerarchi a passo di corsa, i labari e i motti deficienti (“IMMARCESCIBILMENTE”), il divertimento cede il posto al disagio e infine al fastidio, durante la scena in cui il padre di Titta, antifascista, è costretto con la forza a buttar giù l’olio di ricino. Un fastidio non troppo diverso da quello che proviamo nella sequenza successiva, quando lo zio scapolo del protagonista - che poco prima abbiamo visto pavoneggiarsi in orbace ed esclamare, garrulo: «Mussolini c’ha due coglioni così!» - dopo essersi appartato con una turista straniera, torna dagli amici dichiarando con finta pudicizia che la donna, innamoratissima, gli ha concesso addirittura «l’intimità posteriore». Altro che elegia del passato: per dirla con Italo Calvino, Fellini «ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino».
E il Fellini “futuribile” di cui dicevamo all’inizio? Quello che non solo ci racconta ciò siamo diventati, ma anche quel che diventeremo? L’aggettivo “profetico” è stato utilizzato spesso, soprattutto per i suoi ultimi film. A rivederli oggi, non se ne capisce bene il motivo. Davvero la TV commerciale e rivistaiola del cavalier Lombardoni (sic!) raffigurata in Ginger e Fred (1985) o la “Sagra della Gnoccata” ne La voce della luna (1990) sarebbero delle prefigurazioni dell’Italia berlusconizzata di fine millennio che il regista non vide mai? Il Fellini degli anni Ottanta - corteggiato dai media, imbalsamato dalla critica, sistematicamente disertato dal pubblico - è un artista amareggiato e un po’ confuso, che fatica a comprendere il presente, figuriamoci il futuro: «Io sono tentato di stare a guardare tutti questi mutamenti con rispetto», dichiara in un’intervista del 1985. «Mi domando soltanto com’è successo, quando, dov’ero io quando accadeva. C’è questa nuova creatura umana, che apparentemente ci somiglia, [...] ma che sa fare straordinariamente a meno delle cose alle quali noi siamo stati educati».
Anzi, rivedendo in questi giorni La voce della luna, più che dagli apoftegmi contro il fracasso della contemporaneità («Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire»), rimango colpito semmai da quei personaggi in cui Fellini raffigura pezzi di se stesso: l’oboista Sim, che si è rifugiato in un loculo del camposanto per difendersi dalla musica (dal cinema?) «che promette, promette, e non mantiene mai»; l’ex prefetto paranoico Paolo Villaggio, ossessionato dall’idea che i vicini lo possano contagiare con «la loro orrenda malattia: la vecchiezza»; il folle disincarnato Roberto Benigni, “abitato” da una cacofonia di «schiocchi di frusta» e «migliaia e migliaia di voci» che non è (più?) in grado di decifrare.
«Ma dammi almeno un raggio di sole!», dice il produttore a Fellini nel finale di Intervista (1987). Il “Maestro” da cui tutti si aspettano un monito o un parere, ma che non riesce a dire nulla, è un’immagine ricorrente negli ultimi film del regista. In E la nave va (1983), Orlando (Freddie Jones), cronista a bordo di un piroscafo nel fatidico 1914, confessa sconsolato la propria impotenza allo spettatore: «“Io scrivo, racconto... Ma cos’è poi che voglio raccontare? Un viaggio per mare? Il viaggio della vita? Ma questo non si racconta, si fa, ed è già tanto”... È banale, eh? È stato già detto. E meglio! Ma tutto è stato già detto! E fatto!». L’Arte, quella con la Maiuscola, si riduce allo svago solipsistico e masturbatorio del feticista che, nel chiuso della cabina, riproietta ossessivamente le immagini della propria cantante preferita. Oppure trova spazio nei luoghi più inospitali: la sala macchine in cui i virtuosi dell’ugola si esibiscono a favore dei virtuosi del badile; e le cucine dove due vegliardi maestri di musica eseguono Schubert all’arpa di vetro fra le stie dei polli e il borbottare sommesso delle pentole.
Ecco, se c’è un film che merita la qualifica di “profetico”, fra gli ultimi diretti da Fellini, direi che è proprio E la nave va. Rivista a più di trent’anni di distanza, questa fantasia in stile belle époque, con il prologo muto alla Lumière e la nave allestita da Dante Ferretti che traversa un mare di plastica, mi pare che dica parecchie più cose sulla nostra contemporaneità di tutto il cosiddetto “cinema del reale” realizzato nell’ultimo decennio. Il transatlantico diretto nell’Egeo per spargere le ceneri del soprano Edmea Tetua, versione ammodernata della stultifera navis, non è forse un’allegoria perfetta dell’Europa (anzi, dell’Occidente) di oggi, che avanza compunta verso il proprio funerale? E i suoi ospiti, granduchi principesse aristocratici militari sceicchi attori intellettuali, un po’ comici e un po’ (melo)drammatici, che giocano a non capirsi e che proclamano soddisfatti «Siamo seduti sulla bocca di un vulcano!», non somigliano in modo preoccupante ai leader sovranisti, agli alfieri del capitalismo smart e ai loro portaparola, che sembrano accogliere gongolando ogni sentore di una catastrofe prossima ventura?
Ancora: davanti all’apparizione, improvvisa e inspiegabile, di una folla di profughi serbi (siamo all’indomani dell’attentato di Sarajevo) sulla tolda della nave, gli scambi di battute fra capitano e passeggeri indispettiti («Il comandante è tenuto a raccogliere i naufraghi», «Fra quelli che lei definisce profughi, si nascondono professionisti dell’assassinio», «Ho dato ordine di isolare gli individui pericolosi») non richiamano alla mente altri scambi, altri profughi, altre navi? Infine il naufragio: per un istante sembra quasi che Orlando/Fellini stia rivelando le vere ragioni dello scoppio della Grande Guerra... ma poi tutto si consuma in una nebulosa di “si dice”, “pare che”, “altri sostengono”. Congetture che si elidono l’un l’altra come segni opposti di un’operazione algebrica: una prassi fin troppo familiare, in tempi di post-verità e fake news.
Intendiamoci, non voglio fare della «triviale simbologia profetica», per dirla con Furio Jesi. Però Fellini, che era stato in cura da Ernst Bernhard e aveva sfogliato Jung, conosceva il potere suggestivo di certi archetipi. L’aveva capito bene anche uno spirito laico e illuminista come Calvino, che, in occasione dell’uscita, riservò al film parole calorose: «Il transatlantico “Gloria N.” diventa un’immagine del mondo in cui ci troviamo sempre più stretti, in cui da un giorno all’altro scopriamo che distanze geografiche e sociali sono annullate [...] ai cui problemi non si trovano soluzioni se non in affermazioni di principio che poi non si riesce a rispettare». E della catastrofe finale scrive: «Da molto tempo viviamo come cittadini di un giudizio universale a rallentatore. [...] La sola cosa che possiamo fare è contemplare vecchie immagini di naufragi come per tranquillizzarci, dato che siamo sopravvissuti fin qui».
Insomma, il Fellini che sembra annunciare la fine del mondo (o soltanto la fine di “un” mondo: il nostro), porta con sé anche il contravveleno. Nel momento più drammatico, mentre il piroscafo cola a picco, la regia fa un passo indietro, svelandoci che in fondo è tutto un trucco: la nave è finta, il mare è di plastica, il cielo dipinto, il rollio generato da una colossale idromacchina. Senza dubbio, un modo di celebrare per l’ultima volta una tradizione artigianale del nostro cinema che nel 1983 era giunta al capolinea. Ma forse anche un monito rassicurante rivolto a chi vien dopo (cioè a noi): un’apocalisse non è una cosa seria, dopotutto, e una catastrofe può essere anche una possibilità di rinascita. Come quella della rinocerontessa malata d’amore e di dissenteria, che ritroviamo sana e salva, insieme a Orlando, a bordo di una scialuppa in mezzo al mare. «Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?», bisbiglia il cronista, rivolto alla macchina da presa. Sul significato riposto di quel latte si sono versati fiumi di parole e d’inchiostro. Io, che mi son già dilungato abbastanza, m’accontenterei di adoperarlo per brindare alla memoria di Federico Fellini.
IL VATICANO E IL VALORE ASSOLUTO DELLA VITA. La critica anticipatrice di Carl Schmitt e di Federico Fellini
Federico La Sala
Antologia di Spoon River
I morti fieri di aver vissuto di Edgar Lee Masters
di Renzo S. Crivelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 18.11.2018)
«Ero la vedova McFarlane,/ Tessevo tappeti per tutto il villaggio./ E di voi ho pietà, voi che ancora attendete al telaio della vita». Così parla, nell’enigma del proprio epitaffio, una delle tante anime sepolte dell’Antologia di Spoon River, di Egar Lee Master. La sua qualità di tessitrice ben rappresenta i 248 personaggi che popolano il cimitero della cittadina immaginaria di Spoon River (modellata sui villaggi di Petersburg e Lewiston, vicino a Springfiled nell’Illinois, luoghi della sua infanzia) proprio in quanto personificazione della Parca che tesse i fili della vita e di una Penelope che ordisce la tela dell’amore e della fedeltà coniugale. Fino a prefigurare la struttura di un arazzo che ognuno di noi completa nella convinzione che nasconda l’impronta della Speranza, «dell’amore e della bellezza» (con la sua cifra segreta che ci porta alla Figura nel tappeto di Henry James). E che, invece, contiene solo l’immagine della nostra morte («Il telaio s’inceppa! La trama è disfatta!»), giacché fatalmente ognuno di noi sa solo «cucire il proprio sudario».
L’Antologia di Spoon River, pubblicata da Masters nel 1916 ma uscita a puntate sul «Reedy’s Mirror» tra il 1914 e il 1915, è un testo molto famoso, riscoperto specie in Europa negli anni ’60, il cui scopo è quello di riprodurre uno spaccato della provincia americana (ma il discorso ha toni ben più ampi che lo collegano alla tradizione arcaica) ricreando un microcosmo che si auto-narra attraverso l’artifizio post mortem del cimitero e delle iscrizioni tombali. La sua originalità sta proprio nel saper innestare la quotidianità nella dimensione drammatica della morte, abdicando a ogni lusinga declamatoria per scegliere l’asciuttezza narrativa dell’esperienza.
C’è in questa raccolta uno spessore epico che non scaturisce dall’ambientazione e dalla dolorosa rinuncia ai beni terreni ma dall’intima esigenza di ognuno dei protagonisti di testimoniare la propria esistenza, fatta di gioia e di sofferenza. Se è facile citare, tra le fonti ispirative, l’Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray (1751), va però riconosciuta a Masters una straordinaria capacità di travalicare la struttura iconografica romantica della lamentazione per incamminarsi verso la riproduzione asciutta di un mondo popolare che prescinde dal mero rimpianto del passato. Tutti gli abitanti della città dei morti di Spoon River, infatti, mostrano un istintivo distacco dalla propria vita che, ben lungi dal generare auto-commiserazione espiatoria (come nel caso della Rima del vecchio marinaio di Coleridge), si risolve semplicemente in una voglia di raccontare la Verità, la loro più che quella ufficiale dei giudici e dei preti.
E dunque il rimando non può che essere, da un lato, agli epitaffi greci dell’Antologia Palatina (libro VII con tematiche funebri), la cui lettura fu suggerita a Masters dall’amico William Reedy, e, dall’altro lato, alla contro-epica Modernista, che di lì a pochi anni avrebbe saputo raccontare lo stoicismo dell’uomo comune (si pensi solo al Joyce di Gente di Dublino, tutti morti che si narrano). Qui sta la grandezza dell’Antologia di Spoon River, che ha saputo giungere fino al nostro secolo intatta, con i suoi calchi universali.
Tradotta più volte, a partire dall’azzardo di Fernanda Pivano che nel 1943 sfidò la censura fascista pagando di persona, ora esce per Feltrinelli a cura di Enrico Terrinoni, che ci dà una nuova versione accuratissima (con molte utili annotazioni). Terrinoni, nella bella prefazione, parla del cimitero di Masters come del «centro di un universo che da locus mortis diviene un pullulare di esistenze e di voci tutt’altro che silenziate negli spazi dell’al di là».
Ed è vero che i vari Robert Tanner (il trappoliere finito nella sua stessa trappola), Chase Henry (il beone saggio), il giudice Sommers (che fu famoso ma dimenticato a favore del beone), Emily Sparks (la vecchia maestra che ancora ammonisce i suoi ex-allievi), il dottor Meyers (che pagò per un aborto compassionevole), Flossie Cabanis, (l’attrice che vorrebbe sepolta accanto a sé la Duse), Lucius Atherton (il don Giovanni dei poveri, finito sdentato e irriso), Nellie Clark (stuprata a otto anni), Robert Burke (che stravide per un politico populista e mentitore); è vero, come si diceva, che questa umanità - paga di non essere solo dolente ma fiera di aver vissuto - ci racconta un passato che è sempre presente. L’attualità di queste storie emblematiche, racchiuse nell’alzata di una tomba, ha saputo colpire, come è noto, anche un grande cantautore come Fabrizio De André, che nel 1971 traspose in un album memorabile, Non al denaro non all’amore né al cielo, nove personaggi dell’Antologia.
Curiosamente, Masters non ritrovò più la grazia creativa dell’Antologia di Spoon River e la sua fama restò legata a un’unica opera (il tentativo di una New Spoon River Anthology del 1924 fallì miseramente). Morì, infatti, squattrinato e fu sepolto nel cimitero di Petersburg. In ideale compagnia di quello spaccato di mondo, con il suo bravo epitaffio che si pubblicò da solo.
GIAMBATTISTA VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI .... *
La meraviglia del giardino dei Lari a Pompei
di Paolo Isotta (Libero, 7. X. 2018)
Guardo “Rainews” e leggo che a Pompei è stata scoperta una nuova casa, o almeno una nuova stanza. Dedicata al culto dei Lari, gli dei del più geloso culto familiare. Dieci fotografie mostrano un affresco d’incanto. Da quel che scorgo, oltre uccelli, dipinti con una delicatezza commovente, quella che mi pare una testa di cavallo, ma così affusolata che nella miniatura del Medio Evo diverrà, con la sola aggiunta del segno della fecondità, quella del liocorno. Un policromo pavone ad ali chiuse. Due leoni che azzannano alla caccia un cinghiale. La Natura, contemplare la quale è gioia: per l’Antico. Un sentimento panico che rinasce a volta a volta anche nel Medio Evo, e che il cristianesimo non riesce a reprimere. Alcuni Santi appartengono alla corrente, e fanno eccezione: Francesco, certo, ma sorprende più che tale sentimento esprima un ferreo uomo di potere come Sant’Ambrogio, quando la Chiesa si preparava a sostituire nell’imperio il vacillante Impero.
Poi, due simboli centrali. Una pigna, e ai suoi lati bellissimi serpenti color dell’oro che avvolgono in senso circolare le spire. C’è tutta la filosofia dell’Antico. La pigna è il simbolo della morte, d’immemoriale antichità; accompagna la Magna Mater, Cibele; e sovrasta anche il tirso delle seguaci di Dioniso, dio della morte rituale e della rinascita, perché smembrato e poi risorto; come Osiride. A fianco, un uomo con testa di cane. È Anubis, il dio egizio che presiede agl’Inferi, un po’ Ermes, un po’ Ade: nel sincretismo religioso tipico della tarda Repubblica, del primo Impero. Ci fosse, nel sacello pompeiano, un’immagine di Mitra, il dio misterico venerato particolarmente dai legionarî ma del quale era adepto pure Tiberio, avremmo tutto.
Il secondo simbolo è l’aureo serpente che col corpo disegna un cerchio. È l’immagine dell’Eterno Ritorno. La morte, la vita, l’Eterno Ritorno dell’identico. Il Tempo è un’illusione, omnia redeunt , “tutto ciclicamente torna”, canta Ovidio. Pensiamo al giudeo-cristianesimo: il Tempo come linea, che incomincia con la Creazione dovuta al capriccio del Dio ebraico - quando gli antichi sapevano perfettamente che la materia è eterna è increata -, si ferma con l’Incarnazione e, o, colla finis temporum e il Giudizio che condanna al fuoco senza fine chi è difforme: per razza, per pensiero. Quale immenso regresso culturale! (Sant’Agostino viene definito “filosofo” anche da molti colti storici ...)
Nel giudeo-cristianesimo, il serpente incarna il Male: perché vuole infondere all’ “innocente” bestia Adamo il senso della conoscenza. E la conoscenza, per le religioni che hanno prevalso, è il Male stesso. Onde il Peccato Originale. Per il mondo antico, il serpente, che corona il caduceo, è l’emblema del messaggero degli Dei, Mercurio, e rappresenta Esculapio, la medicina che risana divinamente. Nella Natura è il principio della morte che diventa anche della vita.
E voi? Siete dalla parte delle fiamme eterne o dell’Eterno Ritorno?
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Quando venni dagli uomini, li trovai assisi su di un’alterigia antica" (Nietzsche, Così parlò Zarathustra).
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal).
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
Il cimitero dei sogni americani: l’Antologia di Spoon River compie un secolo
Il capolavoro di Edgar Lee Masters torna in libreria con una nuova traduzione
di Gianni Riotta (La Stampa, Tuttolibri, 29.10.2016)
Al filo spinato della diffidenza verso la cultura popolare è a lungo rimasto appeso il poeta americano Edgar Lee Masters (1868-1950), celebre ormai per un solo libro, l’ Antologia di Spoon River del 1916, che raccoglie gli epitaffi - raccontati in prima persona dai defunti - di un’immaginaria cittadina Usa, simbolo dei borghi di Petersburg e Lewistown, dove il poeta visse e risiedette anche il presidente Lincoln, che detestava. Davanti alla schiettezza ruvida con cui Masters racconta adulteri, aborti, tradimenti, bancarotta e banche strozzine, i concittadini storsero il naso, come la critica che, fatto salvo l’elogio di Ezra Pound «la frontiera ha un poeta robusto», lamentava con W.D. Howells che i versi di Masters fossero «prosa in brandelli». Non «Antologia», nel senso ellenistico de l’«Antologia Palatina», ma romanzo mascherato, dove i personaggi dialogano da un Oltretomba paganizzante, dove si ama, odia, spettegola, invidia, brama come sulla Terra.
Invisa agli accademici, Spoon River è adorata dai lettori e, in Italia, ricordata per la traduzione di una giovanissima Nanda Pivano, che ebbe il libro dall’innamorato Pavese e pagò il lavoro col carcere fascista, quindi per la versione elegante del compianto poeta Antonio Porta e infine per le ballate ubique di Fabrizio De André. Bene fa dunque Mondadori, per sottrarre i versi al logorio della fama, a proporre una nuova traduzione, affidata a Luigi Ballerini, poeta, critico, italianista nelle università americane. Tra «prosa» e «poesia» Ballerini non ha dubbi, lo dichiara in un saggio forbito (scrive senza esitazioni di «favolelli eziologici») che apre il volume.
Di poesia si tratta, come poesia va tradotta, e la Commedia Umana di Masters, la sua critica del capitalismo feroce, legge corrotta, violenza della polizia, famiglia ipocrita, non va banalizzata in sentimentalismo. Dimenticate la voce suadente di De André, pena perdere la virile musicalità restaurata di Masters.
Ballerini rilegge Spoon River da testo classico, Masters si vantava di leggere Dante in italiano e, nell’introduzione, ricorda il nesso originario tra Bibbia e letteratura americana. Nel 1973 Einaudi pubblicò un libro meraviglioso, Iscrizioni funerarie, sortilegi e pronostici di Roma antica, curato dalla studiosa Lidia Storoni Mazzolani, raccolta di epitaffi dalle lapidi romane e solo a quella concisa forza nell’attraversare la morte si può paragonare Masters. Merito di Ballerini è proteggere il libro, logorato dal troppo uso, anche grazie all’apparato di note redatte sulla formidabile edizione critica 1992 di John Hallwas.
La scelta di seguire metro e lirica più della «prosa» induce però a volte Ballerini in tentazione, «to chisel» è reso sempre con «incidere», quando è invece anche «scolpire», e perfino «graven», in Cassius Hueffer, è omogeneizzato come «inciso» e non «scolpito». Il «whiskey» americano ubriaca come il «whisky» scozzese, ma ha sapore, storia e cultura diverse e dunque «whiskey» doveva restare. Come i «cinque centesimi di pancetta» di Jones l’indignato sono ormai, in italiano, «cinque centesimi di bacon». «Canning works» diventa l’orribile «scatolificio», ma è fabbrica di cibi in scatola, conserve. Il ragazzino Johnnie Sayre è travolto dal treno mentre marina la scuola, ma perché quando la ruota «sink into the crying flesh of my leg», «affonda nella carne urlante della mia gamba», «crying» diventa «ululante», retorico e fuori contesto? Il micidiale «loaded cane» di uno sbirro non è un «manganello», ma «bastone animato» da una lama, o bastone dal pomo pesante. Se Masters scrive «I leaned against the mantel, sick, sick», perché tradurre «Mi sono appoggiato alla mensola, disgustato, nauseato», perdendo sia che «mantel» copre il caminetto, sia la voluta iterazione dell’autore «sick, sick»? Le «focacce» «hot pies» in Illinois non erano «piccanti», ma «calde». Infine la poesia da noi più celebre, Carl Hamblin, i cui versi sono scolpiti sulla tomba dell’anarchico Pinelli. Il giornalista del Clarion è «tarred and feathered», «cosparso di catrame e piume» per punizione, come accadde ai sindacalisti IWW nel 1917 e nel 1920 in Oklahoma e California. Perché appiattire la crudeltà a «esposto al pubblico ludibrio»?
Quando però Ballerini è fedele al programma originale, ridarci una Spoon River essenziale e senza chitarre in sottofondo, il successo è nitido: questo è un libro da leggere per chiunque ami, o abbia amato da giovane, le Voci della Collina, così familiari e dolenti.
Edgar Lee Masters, «Antologia di Spoon River» (introduzione e traduzione di Luigi Ballerini) pp. 732, € 16
Le ceneri di Gramsci di P. P. Pasolini
di Alessandro Banda *
Giusto sessant’anni or sono, nel giugno del 1957, uscivano per l’editore Garzanti Le ceneri di Gramsci, quello che di solito viene considerato il più importante volume di versi di Pier Paolo Pasolini. Il poeta medesimo lo giudicava una delle sue massime riuscite. Lo scrive esplicitamente nel novembre del 1973, recensendo su “Tempo” Calderòn. Il fatto che si tratti di un’auto-recensione dovrebbe far riflettere. Del resto Pasolini non era nuovo a questo procedimento. Già due anni prima, il 3 giugno del 1971, aveva recensito lui stesso quello che poi risulterà essere il suo ultimo libro di poesie italiane, cioè Trasumanar e organizzar.
Se un autore è costretto a questa pratica, significa che non gode certo del favore popolare, e nemmeno di particolare attenzione da parte della critica. Ma questa è una questione ben nota, che già nel 1980, a soli cinque anni dalla morte del poeta, Arbasino, nella prima edizione di Un paese senza, aveva sintetizzato come meglio non si poteva e una volta per sempre: “Pasolini, vivo, veniva commiserato e insultato proprio dai medesimi che lo proclamano Vate da morto”. Ne accenniamo solo perché, ogni volta che si celebra Pasolini, andrebbe sempre ricordato che il Pasolini vivo e il Pasolini morto costituiscono due entità del tutto differenti e, a rigore, non molto comunicanti.
Infatti, per parlare delle Ceneri, prendiamo l’abbrivio da uno scritto di un “nemico” di Pasolini. Alludiamo a Alfredo Giuliani, esponente di spicco di quel Gruppo 63 che con il Nostro tenero non fu mai.
Giuliani nella Prefazione 1965 all’antologia I Novissimi tratteggia un perfido ritratto di Pasolini, tacendo insistentemente il suo nome e titolandolo invece di “neo-crepuscolare”. Giuliani scrive che il neo-crepuscolare è ossessionato dalla storia, è accanito, soffocato e verboso. Aggiunge che è pur bravo a descrivere i paesaggi periferici in cui vive, oltre che la mamma che gli spolvera la scrivania. Ma tace, il neo-crepuscolare, dice Giuliani, sulle sue reali esperienze economiche e sessuali. L’affondo finale è questo: “per combattere il cosiddetto Novecento... era andato a rivisitare i nostri poveri sepolcri ottocenteschi”. Eccetera eccetera.
Il teorico e autore della Neo-avanguardia specifica che gli autori riesumati da Pasolini sono Tommaseo, Pascoli, D’Annunzio, Saba e Gramsci e che alla fine il risultato dell’operazione approda a un “mostruoso miscuglio di nazionalismo raté e di socialismo velleitario”.
Noi invece lo prendiamo alla lettera, il testo di Giuliani. Soprattutto per quel che riguarda i “sepolcri ottocenteschi”.
È vero: Pasolini, nel 1954, anno in cui fu composto il poemetto che dà il titolo alla raccolta, Le ceneri di Gramsci, appunto, apparso poi sul numero 17-18 di “Nuovi argomenti” (novembre 1955-febbraio 1956), nel 1954, dunque, Pasolini che fa? Una cosa molto semplice: fa poesia sepolcrale. Riattiva un genere ottocentesco. Anzi: sette-ottocentesco. Se è vero, com’è vero, che il genere nacque nel 1750, in Inghilterra, con la famosa Elegy written in a Country Churchyard di Thomas Gray. Tradotta poi da Melchiorre Cesarotti con il titolo Elegia di Tommaso Gray sopra un cimitero di campagna e pubblicata per la prima volta in Italia nel 1772. Non occorre ricordare che, a Padova, Cesarotti fu uno dei maestri di Ugo Foscolo, probabilmente quello più influente sul giovane veneto-greco.
Quindi: il Foscolo dei Sepolcri, usciti nel 1807, è uno degli antecedenti più immediati del Pasolini delle Ceneri.
Risulta questa perciò (o: anche questa) “imprevista riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi o tradizionali nel senso corrente del termine” di cui il Nostro teorizzerà nel giugno 1957, in contemporanea con l’uscita del volume di versi, su “Officina”, nel celebre scritto di poetica intitolato La libertà stilistica.
Del resto anche Italo Calvino, in una lettera a Pasolini del primo marzo 1956, si era espresso con sicurezza in tal senso: “ Ceneri di Gramsci. Bravura tecnica da sbalordire. Poi tutta concatenata di pensiero come I Sepolcri”.
Più chiaro di così!
Ma quali differenze tra il modello ottocentesco e la sua ri-attualizzazione medio-novecentesca!
Nel testo del Foscolo la terra che ricopre i Grandi del passato è “bella e santa”. Nelle terzine pasoliniane, con i loro endecasillabi ipermetri o ipometri, con le loro rime che sconfinano nell’assonanza o consonanza, con la loro musica che procede per accordi lenti, l’aggettivazione che riguarda il cimitero degli Inglesi, dove è sepolto Gramsci, è di tutt’altro tenore: buio giardino straniero, giardino gramo, sito estraneo, silenzio fradicio e infecondo e così via.
Foscolo è esaltato dalla vista delle tombe degli antichi, degli eroi del passato. Siano eroi dell’azione o della conoscenza. Sono versi famosi: “A egregie cose il forte animo accendono/ l’urne dei forti”.
Cosa contrappone Pasolini a queste celebrate “urne dei forti”? Contrappone la chiusa sconsolata della quinta sezione del suo poemetto, che suona: “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ di abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?”.
Se Foscolo si recava in Santa Croce per “trarre gli auspici” da quei monumenti funebri, cioè per ricavarne un incitamento all’azione, Pasolini, di fronte alla tomba di Gramsci, formula un interrogativo che non aspetta risposta alcuna: “ Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la nostra storia è finita?”.
Il genere sepolcrale è stato sì ripristinato, ma per subire un capovolgimento totale. Dal positivo al negativo.
Gramsci è un “morto disadorno” e non già un “forte”. Oltretutto non è nemmeno un “padre”, Gramsci, ma un “umile fratello”. E questa parola, per la particolare biografia di Pasolini, ha un inevitabile rintocco tragico.
Comunque, per quanto sottoposto a tale significativo ribaltamento, il genere sepolcrale non è limitato al poemetto eponimo. Si rifrange, crediamo, anche in altri componimenti, non in tutti e undici forse, ma in alcuni certamente sì. Per esempio nel testo di apertura della raccolta: L’Appennino. In esso tutta l’Italia è rappresentata simbolicamente dal monumento funebre di Ilaria del Carretto nel duomo di Lucca: “Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia/ perduta nella morte”. Si pensi anche solo alla prossimità fonica dei due nomi: Ilaria e Italia. Sotto le palpebre chiuse di Ilaria del Carretto dorme il suo sonno marmoreo la nazione intera. E il suo “clamore non è che silenzio”. Come non pensare qui al Leopardi della Canzone al Mai, con il suo “clamor dei sepolti”? Anche lì l’Italia è rappresentata come una terra mortuorum.
Similmente nel testo che chiude l’opera, cioè La Terra di Lavoro, i contadini campani che viaggiano nel treno sono descritti come defunti ormai disincarnati: “viene una luce che scopre anime/ non corpi”.
Per non dire di Comizio, il quarto poemetto, dove il poeta si perde in mezzo a un gruppo di neofascisti, definiti significativamente “fiera di ombre”. In mezzo a loro compare improvviso “un compagno” inatteso, lo spettro del fratello Guido, autentico revenant.
E anche Il pianto della scavatrice, forse il testo più bello della raccolta, non presenta, esibiti fin nel titolo, echi luttuosi? Mediante l’azione della scavatrice viene creato un nuovo quartiere. Ma com’è? È “bianco come cera”, “chiuso in un decoro ch’è rancore”, preso in un “ordine ch’è spento dolore”. Ci si chiede: ma è un nuovo quartiere o un cimitero?
Abbiamo sondato solo qualche aspetto di quest’opera ricchissima e sulla quale si sono già versati fiumi d’inchiostro, ma forse anche queste poche gocce (d’inchiostro) si potranno rivelare non del tutto inutili a chi vorrà rileggerle o leggerle, LE CENERI DI GRAMSCI.
* DoppioZero, 02.06.2017 (ripresa parziale - senza immagin).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.
LA LEZIONE DI FOSCOLO. I VIVI RICORDANO I VIVI (E ANCHE I MORTI)
L’URLO DI PIER PAOLO PASOLINI (1974). PER L’ITALIA E LA COSTITUZIONE
Giovanni Falcone, chi lo chiamava “cretino” e chi non lo votò al Csm: ecco i nemici del giudice ucciso nella strage di Capaci
Dalle offese di Carnevale agli attacchi in diretta televisiva fino all’ultima provocazione di Berlusconi. A 25 anni dalla strage di Capaci ecco i nomi di chi ha provato in tutti i modi a rendere difficile l’esistenza del magistrato palermitano. Come Lino Jannuzzi che ai tempi della Superprocura definiva lui e De Gennaro "i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Una coppia la cui strategia ha approdato al più completo fallimento"
di Giuseppe Pipitone *
C’è chi non si è pentito delle offese lanciate persino quando l’avevano già assassinato, ma anche chi ha chiesto scusa. Chi ha fatto delle scelte poi rivelatesi errate e adesso porta in tribunale i giornali che le ricordano, chi non ha mai più commentato certe critiche lanciate a favor di telecamera e chi invece nega persino le sue stesse parole. Sono i nemici di Giovanni Falcone, quelli che lo hanno osteggiato in vita rendendogli impossibile l’esistenza. Una categoria che non viene mai - o quasi mai - citata nelle decine di eventi organizzati ogni anno per commemorare il giudice palermitano.
“I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Un quarto di secolo dopo quel maledetto 23 maggio del 1992, tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che negli anni sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi di cui sono piene le cronache degli ultimi anni e che soltanto nell’isola dei paradossi poteva andare in scena.
I nemici di Falcone - Confusa tra mille riflessi è stata anche la figura stessa di Falcone: la storia del giudice più trombato d’Italia, per citare la sorella Maria, è stata trasformata - spesso dai suoi stessi detrattori - in quella perfetta del magistrato sempre appoggiato da superiori e opinionisti lungo la sua intera esistenza. Venticinque anni dopo la sua morte, il ricordo del giudice siciliano è finito annacquato da fiumi di retorica: oggi sembra quasi che Falcone sia stato in vita un uomo amato da tutti, mai attaccato o ostacolato da nessuno. E pazienza se i fatti siano andati in maniera diversa. D’altra parte la figura del magistrato palermitano viene usata oggi come una sorta di santino: un nome da citare per dare solidità a qualsiasi tipo di ragionamento o di ragionatore.
Solo per fare un esempio, rivendica di aver conosciuto Falcone persino quello che è considerato il capo dei capi di Mafia capitale. “Una volta mi accollarono un reato in Sicilia (il delitto di Piersanti Mattarella ndr), presi l’avvocato e andai da Falcone, il giudice Falcone a Palermo”, dice in un’intercettazione Massimo Carminati. “Ma Falcone lo hai conosciuto di persona te?”, gli chiedono i suoi compari, come racconta il giornalista Lirio Abbate. “Mi ha interrogato. Persona intelligentissima, si vedeva proprio, aveva l’intelligenza che che gli sprizzava dagli occhi. Era anche una persona amabile nei modi”, risponde il Cecato dando vita a un dialogo grottesco.
Sono al limite dell’imbarazzo, invece, le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi.”Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”, ha detto l’ex cavaliere, intervistato dal Foglio. Chi magari pensava che il magistrato simbolo per Berlusconi dovesse somigliare al corrotto Vittorio Metta è dunque rimasto deluso. Ma l’ex premier ha addirittura rilanciato: “Al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Il magistrato siciliano purtroppo non può replicare. In alternativa avrebbe respinto al mittente qualsiasi connessione con la ex Cirielli, il lodo Alfano, e la depenalizzazione del falso in bilancio, solo per citare qualche “idea sulla giustizia” di Forza Italia, partito fondato da Marcello Dell’Utri, detenuto a Rebibbia dopo la condanna in via definitiva per concorso esterno. Vale la pena di ricordare che Berlusconi - tra le altre cose - è stato lungamente indagato come mandante a volto coperto delle stragi del 1992 e 1993. “So che ci sono fermenti di procure che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93, ’94: follia pura. Quello che mi fa male è che c’è chi sta cospirando contro di noi“, disse invece il leader di Forza Italia da presidente del consiglio in carica, quando la procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino.
D’altra parte è sempre uno dei governi di Berlusconi che nel 2003 inserì un comma in Finanziaria per concedere al giudice Corrado Carnevale di essere reintegrato, recuperando gli anni di contributi pensionistici persi a causa delle inchieste a suo carico. Carnevale era stato lo storico presidente della prima corte di Cassazione che nel 1992 avrebbe dovuto giudicare le sentenze del primo Maxi processo a Cosa nostra. Per il gran numero di annullamenti decisi negli anni precedenti si era guadagnato un soprannome evocativo: l’Ammazzasentenze. Ed è per evitare di ammazzare pure gli ergastoli del primo Maxi processo che Falcone - nel frattempo approdato alla direzione degli Affari Penali del ministero della Giustizia - ottenne l’applicazione di un criterio di rotazione per i casi di mafia approdati alla Suprema corte. Carnevale non la prese bene. “I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone: perché i morti li rispetto, ma certi morti no“, diceva in una conversazione l’8 marzo del 1994, a meno di due anni dalla strage di Capaci. Un’intercettazione in cui il giudice non risparmia neanche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. “Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso“, dirà senza un minimo di compassione per la coppia appena assassinata da Cosa nostra.
Il risentimento dell’Ammazzasentenze - Quando il 10 novembre dello stesso anno gli investigatori gli danno lettura di quelle conversazioni, l’Ammazzasentenze confida: “Devo ammettere che io ho avuto del risentimento nei confronti del dottor Falcone”. Gli chiedono: “Neppure dopo la morte di Falcone si è placato quel suo grave risentimento?”. “No, devo ammettere di no”. Processato per concorso esterno, Carnevale è stato assolto in primo grado, condannato in appello a sei anni, prosciolto definitivamente in Cassazione. Dopo l’assoluzione torna a fare il giudice della corte di Cassazione, pensa di ricandidarsi come presidente della prima sezione ma lascia perdere. Poteva rimanere in servizio fino al 2015, ma decide di andare in pensione nel 2013 quando ha ormai 83 anni. Alcuni mesi dopo va a testimoniare al processo Capaci bis - quello nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza - e dice incredibilmente: “Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo”. Ai giornalisti del Foglio e del Giornale che lo vanno a trovare a casa per intervistarlo invece racconta: “La casta a cui appartengo fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia“.
Ha azzerato praticamente gli interventi mediatici Vincenzo Geraci, altro nome che ha un ruolo nella carriera di Giovanni Falcone, perché insieme al magistrato siciliano era presente ai primi interrogatori di Tommaso Buscetta. Anni dopo Geraci è tra i consiglieri del Csm che la sera del 19 gennaio del 1988 bocciano la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Era lo stesso posto ricoperto da Antonino Caponnetto, l’inventore del pool antimafia: sembrava scontato che la successione toccasse a Falcone. “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore”, dirà Geraci annunciando il suo sostegno alla candidatura dell’anziano Antonino Meli: di mafia sapeva poco o nulla ma era stato internato dai tedeschi. Venne nominato consigliere istruttore con 14 voti a favore, 10 contrari (tra i quali Gian Carlo Caselli) e 5 astenuti.
“Un giuda ci ha traditi” - “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli”, si sfogherà Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992. Borsellino non indicherà mai chi fosse quel Giuda: venne ucciso, infatti, meno di tre settimane dopo quell’intervento. Molti anni dopo, quindi, quando il giornalista Rino Giacalone tirerà in ballo Geraci, quest’ultimo lo querelerà per diffamazione. Oggi Geraci è procuratore generale aggiunto della Cassazione: in pratica è il vice di Pasquale Ciccolo, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.
Il Corvo senza nome - Sempre per rimanere nel campo delle toghe non si può non citare il famoso caso del Corvo di Palermo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno: addirittura di averlo chiamato a Palermo per mandarlo a caccia dei boss del clan dei corleonesi. Accusato di essere il Corvo fu il giudice Alberto Di Pisa, condannato in primo grado a un anno a sei mesi e poi assolto definitivamente nel 1993. L’identità del Corvo non sarà mai individuata mentre tra i detrattori di Falcone si possono annoverare anche personaggi estranei alla magistratura. A cominciare magari da semplici e normali privati cittadini.
“Spostate i magistrati in periferia” - La Palermo in cui ha vissuto Giovanni Falcone era molto diversa dalla Palermo che si è svegliata dopo quello che i mafiosi battezzarono come l’Attentatuni. Un esempio? Una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia negli anni ’80. A scriverla è una donna che abita nelle vicinanze del condominio in cui Falcone fa ritorno ogni sera, blindato dalle auto della scorta. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Parole che fanno un certo effetto. Soprattutto oggi che l’albero Falcone - nei pressi dell’abitazione del magistrato - sarà invaso da persone arrivate a Palermo da tutta Italia.
L’attacco in diretta tv - Le cose per Falcone non andavano meglio quando accettava di partecipare a qualche trasmissione televisiva. Nota, anzi notissima, è la puntata che Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano in tandem alla memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso nell’agosto del 1991. In studio tra gli ospiti c’è il giudice palermitano, attaccato più volte in quell’occasione da personaggi che avranno storie future completamente diverse. “Falcone ha dichiarato che è notorio che l’onorevole Salvo Lima utilizzava la macchina degli esattori Salvo”, è l’intervento - in collegamento da Palermo - di Leoluca Orlando. “C’era bisogno che lo dicessi io perché si sapesse dei rapporti tra i Salvo e i Lima”, risponde Falcone, raccogliendo la replica dell’allora leader della Rete. “Ecco un’ulteriore conferma“, dice in diretta televisiva Orlando, che in pratica accusava Falcone di non aver perseguito volontariamente l’europarlamentare della Dc. Quelle accuse a Falcone saranno rinfacciata per anni al primo cittadino palermitano, il quale chiederà poi scusa per le sue parole.
Quella trasmissione, però, è passata alla storia anche per l’intervento di Totò Cuffaro. “Ho assistito ad una volgare aggressione alla classe migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male di dieci anni delitti”, è una parte dello sfogo del futuro governatore della Sicilia, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Per il video di
quell’intervento - intitolato su youtube “Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone” - l’ex presidente siciliano ha querelato Antonio Di Pietro, che lo aveva postato sul suo blog: il tribunale gli ha dato ragione.
“Giovanni vattene da Roma” - E se oggi tutti concordano nel valutare come un salto di qualità nella lotta alla mafia il passaggio di Falcone a Roma per dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, così non era in quel 1992. “Secondo me Falcone farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali, perché l’aria non gli fa bene proprio“, disse l’avvocato Alfredo Galasso nella stessa puntata del Maurizio Costanzo Show, nota per l’esordio televisivo di Cuffaro. “Questo mi sembra scarso senso dello Stato. Al ministero di Grazia e Giustizia ci sono posti espressamente previsti per i magistrati”, fu la replica di Falcone, attaccato spesso per il suo trasferimento a Roma anche in altre salotti televisivi. “Noi abbiamo imparato a conoscerla quando viveva barricato laggiù e forse l’abbiamo un po’ mitizzata. Adesso che sta al ministero e che scrive editoriali sulla Stampa, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ deluso negli ultimi tempi ma sicuramente è cambiato: lei lo sa? Ne è consapevole?”, gli chiede il 12 gennaio del 1992 Corrado Augias durante una puntata di Telefono Giallo. Una trasmissione che passa alla storia soprattutto per la domanda posta da una componente del pubblico. “Lei - chiederà una donna a Falcone - dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?” La reazione del magistrato è amara: “Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
Critiche asprissime arriveranno a Falcone nello stesso periodo anche sulla stampa. È il momento in cui il magistrato siciliano è candidato a dirigere la cosiddetta Superprocura (cioè la procura nazionale antimafia) e il poliziotto Gianni De Gennaro la Dia. Lino Jannuzzi, però, sul Giornale di Napoli li indicherà come i “maggiori responsabili della debacle dello Stato di fronte alla mafia... una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento. Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”.
Jannuzzi in seguito sarà senatore di Forza Italia per ben due legislature. In precedenza, tra l’altro - lo ricorda Caselli sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa - erano stati altri due futuri parlamentari di centrodestra ad attaccare Falcone dalle colonne del Giornale e del Giornale di Sicilia: Ombretta Fumagalli Carulli e Guido Lo Porto. Nei loro articoli il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme, un meccanismo spacciato come giuridico”, mentre i procedimenti genericamente contro Cosa nostra vengono bollati come “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”.
“Un mediocre pubblicista” - Gli opinionisti non saranno teneri neanche quando Falcone darà alle stampe un libro - Cose di Cosa nostra - scritto alla fine del 1991 insieme a Marcelle Padovani. “Scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”, scriverà Sandro Viola in un’editoriale durissimo pubblicato da Repubblica il 9 gennaio del 1992. “A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre particolari illuminazioni: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista“, sarà la chiusa di quell’articolo, che oggi è quasi introvabile online. Come i nemici di Falcone: attivissimi quando il giudice era vivo, evaporati dopo il botto di Capaci. E in qualche caso diventati amici intimi del magistrato assassinato. Ma - ovviamente - soltanto post mortem.
*Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Dialogo sulla vita con chi non c’è più
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 2 novembre 2013)
Non solo c’è il giorno dei Morti che tra tutte le feste, a mio parere, è quella capace di esprimere un grado altissimo di gentilezza d’animo e spirito poetico, ma ogni tanto il calendario, come fosse un padrone di casa desideroso di strafare, ci regala anche il weekend dei Morti, e allora si sentono pronunciare delle frasi che assumono involontariamente un tono arcaico, da antica leggenda: cosa fai il weekend dei Morti, sarà bel tempo il weekend dei Morti...
Nessuno di noi può saperlo con certezza, ma sarebbe una vera consolazione filosofica pensare che dall’altra parte, lo stesso giorno, i morti festeggino il giorno dei Vivi, che a volte si può trasformare (ammesso che anche laggiù esistano le settimane) nel weekend dei Vivi. E così come noi facciamo una passeggiata al cimitero, loro potrebbero scegliere una breve visita in un centro commerciale, in un cinema multisala, in un giardino pubblico.
Naturalmente, nel caso nostro come nel loro, l’invisibile dovrebbe essere l’ingrediente fondamentale della ricorrenza. Sicuramente è così per noi, costretti a pensare alla morte come a sipario di stoffa scura e pesante, che non lascia nessuna possibilità di dare almeno una sbirciatina. Tu puoi credere che ci sia qualcosa, oltre quel sipario, oppure essere convinto che non ci sia nulla, o ancora oscillare nell’incertezza: la verità è che di fronte a questo argomento tutte le distinzioni tra gli uomini crollano, perché non possiamo fidarci di nessuno, e viviamo nella consapevolezza che quando toccherà a noi niente sarà come lo avevamo immaginato.
Dunque questa festa dei Morti e le visite nei cimiteri e tutte le altre forme di celebrazione che si possono immaginare assumono anche un profondo significato filosofico e civile, e quasi vorrei dire politico, perché ricordando chi non c’è più noi veniamo a patti con la presenza dell’invisibile e di conseguenza con la nostra ignoranza. E non c’è nulla di più prezioso tra tutte le cose che possa pensare e sentire l’umanità della consapevolezza dell’essere sostanzialmente all’oscuro di tutto.
Quando noi crediamo di aver superato o in qualche modo aggirato l’ignoranza, fatalmente diamo il peggio di noi. L’individuo che dimentica di non sapere nulla diventa una caricatura di se stesso; quanto alle collettività, il ripudio dell’ignoranza conduce irresistibilmente sul piano inclinato dell’aggressività e del fascismo. Ed ecco i morti, evocati dalla loro festa e a volte dal loro weekend, che arrivano a rimetterci un poco in sesto lo spirito, ricordandoci che noi viviamo nel mondo come un acaro vive nella moquette: non avendo idea, in poche parole, di che diavolo si tratti.
Quanto ai morti, come accennavo, non riesco a immaginare un’esistenza ultraterrena se non in condizioni di ignoranza invertite ma identiche. Credo insomma che non vedano la vita come noi non vediamo la morte.
La più bella invenzione, a questo proposito, spetta a Giacomo Leopardi, che in una delle Operette morali racconta che in certi rarissimi momenti, separati l’uno dall’altro da migliaia di anni, in occasione di certi allineamenti di astri, i morti tornano nel mondo per una notte.
Leopardi immagina che, appena svegli, cantino in coro una specie di inno alla vita. E proprio all’inizio di questo bellissimo inno, la vita viene definita «stupenda», che però, nell’uso dell’italiano che fa Leopardi, non significa affatto qualcosa come «bellissima», bensì incomprensibile, capace di destare un infinito stupore.
«Arcana e stupenda», definiscono i morti di Leopardi la nostra vita, e ci conviene fidarci di loro, che hanno tutto il tempo di pensarci su. È esattamente quello che noi potremmo dire della morte, come se invece del contrario della vita essa ne fosse lo specchio più fedele, e viceversa.
E poi, devo confessare che trovo davvero consolante l’idea che gli enigmi non si sciolgano nemmeno dall’altro lato del sipario. Dal ramo nodoso dell’ignoranza pende questo frutto meraviglioso che è lo stupore. Se Adamo ed Eva avessero mangiato quello, invece che la dannata mela, tutto il mondo sarebbe diventato l’Eden e nessuno avrebbe cacciato nessuno da nessuna parte.
Ed è anche vero che lo stupore non ci restituisce nulla di chi abbiamo perso, non sa lenire la nostalgia e il rimpianto, e semmai li rende più acuti. Ma almeno ci mette, noi e loro, sullo stesso piano, e fa della nostra vita una specie di palestra, di preparazione: dall’ignoranza transitoria all’ignoranza eterna.
CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! .... *
Il sacrificio secondo Recalcati
Il coraggio di affrontare il desiderio
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 10.04.2018)
È un ritratto potente, e per certi aspetti sconsolato, del nevrotico quello che emerge dalle pagine di Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Raffaello Cortina, 2017), il recente saggio di Massimo Recalcati che sviluppa e approfondisce temi già toccati in libri precedenti, e in particolare in L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica (stesso editore, 2010). Nei brevi e limpidi capitoli di questo libro il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta e anche alla memoria personale, come se l’autore, individuato uno dei peggiori e più insidiosi nemici della vita umana, intendesse stanarlo e aggredirlo moltiplicando i punti di vista e le possibili strategie. Ed ecco emergere, pagina dopo pagina, la cupa figura dello «schiavo del peccato», del rinunciante sempre invischiato nell’economia perversa del «fantasma sacrificale». Tutto ciò di cui non gode, pensa quest’uomo, costituisce un capitale, o meglio un investimento che gli sarà restituito a tempo debito. Non c’è impoverimento della propria vita (e di quella di chi gli è vicino!) che non gli appaia conveniente in nome di un finto ideale di purezza e superiorità morale che è solo un alibi per non assumersi mai la responsabilità del proprio desiderio.
Nello Zarathustra, Friedrich Nietzsche escogitò la metafora del «cammello» per irridere questa vita tanto priva di spirito quanto fondata sulla penitenza e l’ascetismo. Lo sguardo rivolto a terra, la schiena carica di pesi, il «cammello» è la perfetta incarnazione di un’esistenza del tutto spogliata di senso da un imperativo morale che sembra sempre giungere da fuori e dall’alto, ed esige cieca obbedienza e rassegnazione. Recalcati non ha dubbi: così sottomessa a una Legge che si afferma negando il desiderio, l’esistenza dello «schiavo della colpa» è un errore irredimibile, una pulsione di morte travestita da virtù. «La vita interiore prende il posto della vita: ruminazione incessante, abnegazione, autocolpevolizzazione, risentimento, sacrificio di sé».
Il compito dell’analisi, per Recalcati, è riconoscere che proprio l’identificazione della vita e del sacrificio è «la malattia più grande del nevrotico». La posta in gioco è altissima, perché consiste nella possibilità di fondare e rafforzare un’alleanza vitale fra la Legge e il desiderio. Se c’è una «colpa», essa va riconosciuta nell’aver tradito la propria singolarità e tutte le sue inclinazioni, di non essersi caricati sulle spalle l’unico peso che è davvero necessario assumersi, che è quello di ciò che si vuole.
Si leggono queste pagine di Recalcati come un messaggio di speranza ancora più che come un rigoroso discorso scientifico e filosofico, capace di far interagire, con grande sapienza dialettica, i Vangeli e Nietzsche, Søren Kierkegaard e Jacques Lacan. Uno dei meriti dei saggi di Recalcati è quello di far sempre proseguire per conto suo il lettore nel percorso iniziato con la lettura.
Tutto sommato, è della nostra vita che si tratta, e del rischio perenne di sprecarla e dissiparla. Proprio per questo, mi sembra urgente formulare a questo bel libro, e al suo autore, una domanda: una volta liberati dal «fantasma sacrificale», come diventiamo in grado di riconoscere ciò che davvero vogliamo, e che ci definisce come individui? Non è questo un altro pezzo di strada lungo il cammino in direzione della nostra libertà?
Per il momento Recalcati confina questa ulteriore questione in una nota a piè di pagina. Ma mi sembra che valga la pena di scavare ancora in un terreno così fertile. Magari in un nuovo libro, dedicato questa volta all’arte più difficile che esiste: quella di conoscere sé stessi.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
A proposito di Jeremy Bentham, il carcere modello e l’utilità dei cadaveri
di ARMANDO MASSARENTI (Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2016)
Liberilibri di Macerata pubblica (in perfetto stile Aldo Canovari, l’editore più libertario d’Italia) un aureo libretto dello storico dell’arte tedesco Christian Welzbacher dedicato a Jeremy Bentham, Il folle radicale del capitale, e i suoi due progetti più estremi e significativi: il Panopticon e l’Auto-Icona.
Welzbacher mostra la stretta relazione intercorrente tra le due idee, che a prima vista appaiono assai lontane. Che cosa potrà mai avere a che fare il Panopticon, cioè il progetto di un carcere modello, capace di migliorare le condizioni infernali che caratterizzavano il sistema penitenziario, con il piano, coltivato fin dal 1769, all’età di 29 anni, di lasciare in “eredità” il proprio cadavere alla scienza, culminato nel saggio Auto-Icona o dei possibili usi dei morti per il bene dei vivi?
Si tratta, in entrambi i casi, di mettere in atto i principi della dottrina morale fondata da Bentham, l’utilitarismo, quella che avrebbe dovuto consacrarlo come il «Newton delle scienze morali», sulla scorta della sua opera principale, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, un caposaldo della dottrina giuridica che sta alla base del liberalismo e del capitalismo moderni.
Ed è nell’Introduzione che Bentham parla di una scienza oggettiva della felicità che nel progetto architettonico dell’Inspection house può trovare una concreta attuazione. Dal centro del complesso carcerario ipotizzato da Bentham, volto al miglioramento radicale delle condizioni dei detenuti, l’ispettore, non visto, avrebbe potuto osservare direttamente l’effetto che le norme educative pensate dal riformatore avrebbero avuto sui detenuti. All’interno di ogni singola cella si misurava il”calcolo felicifico” ipotizzato da Bentham che andava poi riportato in tabella: il valore di felicità prodotto serviva a valutare il progresso dell’internato verso la riabilitazione. Il momento opportuno per il rilascio veniva in questo modo stabilito su una base oggettiva e razionale, e non sui criteri soggettivi e fallaci della direzione. In questo modo ogni detenuto diventava «fabbro della propria felicità».
Siamo dunque all’opposto dall’idea che avrebbe ispirato utopie negative come 1984 di Orwell o le riflessioni del Michel Foucault di Sorvegliare e punire: non una struttura repressiva ma il cuore di una riforma carceraria volta alla riabilitazione del detenuto.
Bentham auspicava peraltro la liberalizzazione dei centri di pena, un’idea ancora oggi dibattuta. Economia e morale, grazie alla sostenibilità economica del progetto, potevano andare così di pari passo. E ciò valeva anche per l’Auto-Icona.
Il corpo di Bentham, morto a 84 anni, il 16 luglio 1832, secondo le disposizioni del filosofo, divenne oggetto di una lezione pubblica di anatomia in una singolarissima cerimonia funebre, basata sul principio per cui i morti devono contribuire alla felicità dei vivi. Il cadavere sezionato fu poi ricomposto nell’Auto-Icona di Bentham che ancora oggi si trova esposta allo University College di Londra.
L’intero rito era volto alla costruzione di una “religione profana” incentrata sull’altruismo e sull’utilità i cui ragionamenti si basavano su una desacralizzazione del corpo del defunto volta a metterlo a disposizione del prossimo. Oggi l’idea centrale di Bentham, di fondare la morale sul concreto aumento della felicità umana, è stata presa sul serio e portata avanti, su basi psicologiche assai più elaborate ed efficaci di allora, dallo psicologo e premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman. Il sogno riformatore di Bentham, capace di unire felicità e libertà dell’uomo, ha ancora molto da dire.