Un saggio che anticipa la critica contemporanea al «pensiero unico»
Vita e valori: il «j’accuse» di Schmitt
Torna un testo del filosofo e giurista tedesco che, dopo l’adesione al nazismo, compie una svolta etica mettendo in discussione la logica «totalitaria» di una legge che trasforma lo Stato in una macchina impersonale che decide sull’esistenza dei cittadini.
L’attualità di una analisi che mette in guardia dall’invasività del pubblico nella sfera privata, ripresa oggi dal neocostituzionalismo
DI MARCO RONCALLI (Avvrnire, 14.11.2008)
Possono indicare anche qualcosa di asettico, ma non per questo non si smette di richiamarli, magari in modo generico. Se alcuni decadono, altri prendono il sopravvento. Se alcuni vengono rifiutati, altri si esibiscono innanzi alle nostre scelte finendo per assorbirle. La nostra società pare impossibilitata a farne a meno. Eppure non hanno tantissimi secoli dietro. Eppure al di là delle connotazioni rassicuranti hanno anche un lato meno confortante. Innanzitutto perché in realtà non ’sono’, ma piuttosto ’valgono’: perché se si materializzano è per riempire il vuoto del loro (e nostro?) ’non essere’; e poi perché in fin dei conti, anche assurti ’a vangelo’, di fatto valgono per una persona, un gruppo, una situazione... Parliamo dei valori. E una volta tanto senza nasconderne il loro potenziale aggressivo intrinseco, la radice nichilista, il fatto che postulano giudizi di disvalore su ciò che si oppone loro: ricordando che l’attribuzione di certe validità si fa sempre a detrimento di altre.
È la lezione, di bruciante attualità, che ci arriva da un piccolo saggio di Carl Schmitt che sta conoscendo - dopo stagioni passate - una nuova fortuna editoriale. Sì, ci riferiamo allo Schmitt più maturo (non a quello che Ernst Bloch definì il giurista per eccellenza del nazismo cui aderì nel ’ 33 apportandovi un fondamento filosofico- giuridico), e in particolare all’autore controverso, appunto, delle brevi riflessioni titolate La tirannia dei valori (ora in libreria anche con i tipi della Morcelliana a cura di Paolo Becchi, pp. 77, euro 7).
Un titolo ripreso da Nicolai Hartmann (e cui farà eco Ulfrid Neumann in uno scritto sulla dignità, Die tyrannei der Würde) per un testo anticapitalista stilato all’alba del totalitarismo finanziario, quando non imperava ancora il ’pensiero unico’ dell’economia di mercato (apparve fuori commercio originariamente nel 1960, fu pubblicato per la prima volta nel ’ 67, conobbe poi diverse edizioni su riviste e in libro).
Si tratta di pagine nate per polemizzare contro la frantumazione del reale (del mondo) in frammenti- valori raccolti in chiave economica, mercantilistica... Senza significative reazioni nemmeno dai pensatori marxisti che finivano per aggrapparsi alle stesse logiche degli approcci capitalistici. E, per altri versi anche nella persistenza di concezioni fideiste ancorate alla teodicea di un Dio confinato nel ’valore più alto’, quando già Heidegger (nella Lettera sull’’umanismo’, del 1947), ammoniva che ciò significava « degradare l’essenza di Dio». Se già qui troviamo quanto basta per considerare la tirannia dei valori schmittiana quasi una malattia assiologica che ha come effetto la relativizzazione delle prospettive e il relativismo dei valori (che alla fine non sono gestiti dagli uomini, ma lo gestiscono), non va però dimenticato - come fa notare Becchi - che obbiettivo polemico di questo scritto era anche l’interpretazione della Legge Fondamentale di Bonn (il Grundgesetz), come ordinamento di valori, consolidatosi nella Repubblica Federale Tedesca del secondo dopoguerra. Si criticava insomma quel modo di interpretare la Legge Fondamentale mirante alla giustificazione della sua applicazione diretta da parte dei giudici.
Spiega il curatore: «Secondo la concezione tradizionale, la costituzione disciplina l’organizzazione giuridica dello Stato e le sue relazioni con i cittadini, ma non è direttamente applicabile dai giudici nelle controversie che oppongono i cittadini fra di loro. Il giudice deve dunque risolvere quelle controversie applicando la legge ordinaria e non la costituzione, la quale semmai costituisce un limite al potere legislativo». Per dirla tutta con Schmitt, all’attuazione immediata dei valori della costituzione, si risponde con l’idea che « sia compito del legislatore e delle leggi da lui poste stabilire la mediazione attraverso regole calcolabili e attuabili, e scongiurare il terrore dell’attuazione diretta e automatica del valore».
Ecco quindi l’allusione al cosiddetto ’neocostituzionalismo’ dei nostri giorni, al dibattito in corso sulla pervasività della costituzione nell’intera dinamica sociale. Come a dire che ’principi fondamentali’ o ’norme programmatiche’ - al tempo di Schmitt maestro di Ernst- Wolfgang Böckenförde e oggi chiamati ’valori fondamentali’, possono applicarsi « non solo nelle controversie che oppongono un cittadino ad un potere pubblico, ma anche nelle controversie tra i privati che i giudici si trovano a giudicare». E qui non v’è dubbio che Schmitt ci aiuti a capire insieme al background dottrinale, il retroterra di quel modo di pensare, il neocostituzionalismo, al centro del dibattito.
eugenetica
Ma quel pensiero fisso finisce nell’eutanasia
di Marco Roncalli (Avvenire, 14.11.2008)
«Ci sono uomini e oggetti, persone e cose: le cose hanno un valore, le persone hanno una dignità». Le tracce di un’apertura verso la trascendenza
E semplificando le conseguenze della logica dei valori Schmitt richiama anche un libro del 1920 da poco ritornato d’attualità in Germania nell’ambito del dibattito sull’eutanasia nei confronti di neonati malformati. Titolo Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens ( letteralmente Autorizzazione all’annientamento della vita priva di valore vitale), autori il giurista Karl Binding e il medico Alfred Hoche « entrambi animati dalle migliori ragioni umanitarie » , scrive Schmitt (« come oggi molti bioeticisti laici difensori della ’ qualità della vita’... » , postilla Paolo Becchi, professore di filosofia del diritto nelle Università di Genova e Lucerna). Un titolo siffatto, buone intenzioni degli autori a parte, prima ancora della sua orrenda realizzazione vent’anni dopo indicava la logica micidiale del valore applicata al campo etico, politico e giuridico. La realizzazione di valori potenzialmente distruttrice di altri valori.
Ma quale alternativa ci offre Schmitt? «Il messaggio potrebbe forse essere cripticamente racchiuso nelle frasi iniziali: ’ci sono uomini e oggetti, persone e cose [...] le cose hanno un valore, le persone hanno una dignità’. Certo, anche la dignità è diventata un valore - e molto prima di quanto Schmitt non creda, dal momento che, a ben vedere, è già con Kant che compare quell’identificazione, tuttavia per Schmitt bisogna pensare a ’un tempo, quando la dignità non era ancora un valore, ma qualcosa di essenzialmente diverso’», scrive Becchi e alla domanda su dove poggi tale diversità risponde:
«Forse nell’apertura verso la trascendenza - resistente al processo di secolarizzazione - a cui Schmitt, non a caso proprio in quegli anni, comincia a pensare, reinterpretando con il suo celebre cristallo il pensiero di Hobbes?
Come che sia, proprio quella parola, Würde,
nella sua integrità e purezza, al di qua di qualsiasi valore sembrerebbe - per quanto sconcertante e paradossale forse apparire - l’ultimo possibile appiglio in un mare di valori in tempesta. A dignitate nascitur ordo».
Marco Roncalli
L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE (...) DEUS CHARITAS EST(1Gv., 4. 1-16).
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO (...) DIO E’ AMORE (1 Gv. 4. 1-16)
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare ai soldi)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo del ’caro-prezzo’ e della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?!
Federico La Sala
*
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO”
DEL GRANDE MERCANTE
E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro-prezzo, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
E Fellini disse al gesuita: c’è la Grazia nella «Dolce vita»
Un convegno sul regista riporta alla luce la celebre diatriba che si aprì nel mondo cattolico
DA FIRENZE ANDREA FAGIOLI (Avvenire, 14.11.2008)
Un convegno a mezzo secolo da La dolce vita non poteva non affrontare la questione dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti del film di Federico Fellini all’indomani dell’uscita nelle sale in quell’ormai lontano febbraio 1960.
A parlarne, in occasione della ’due giorni’ internazionale che si apre oggi a Rimini, al Teatro degli Atti, sarà domani mattina un gesuita, padre Virgilio Fantuzzi, anche perché (al di là che si tratti di uno studioso di cinema, critico de «La Civiltà cattolica» e amico del regista romagnolo) lo scontro, a suo tempo, avvenne proprio ’in casa’ della Compagnia di Gesù: da una parte padre Nazareno Taddei, che su «Letture » recensì positivamente il film, dall’altra i confratelli come padre Enrico Baragli che su «La Civiltà cattolica» contraddicevano l’opinione favorevole supportati anche da «L’Osservatore Romano».
Eppure, furono gli stessi superiori a dare a padre Taddei l’incarico di una ’lettura, ponderata e oggettiva’ per il loro mensile. «Rividi il film diverse volte raccontava il gesuita massmediologo scomparso nel 2006 - . Ne discussi anche con lo stesso Fellini. Tuttavia, allora, sentendo l’aria infida, chiesi ai superiori di dispensarmi dall’incarico dell’articolo, ma essi mi diedero l’ordine di ’santa obbedienza’, che è l’ordine più solenne per un gesuita».
All’anteprima de La dolce vita al San Fedele di Milano, presenti Fellini e Taddei, padre Arcangelo Favaro, fondatore e primo animatore del Centro culturale, parlò di un film con il ’sigillo della porpora’ in base alla frase che il confratello padre Angelo Arpa aveva detto arrivando da Genova dove aveva fatto vedere il film al cardinale Giuseppe Siri, che lo aveva apprezzato. «Cosa che invece - raccontava Taddei - non aveva fatto l’arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Battista Montini, che invece aveva raccolto le voci scandalizzate di alcuni suoi collaboratori».
La dolce vita, a giudizio di Taddei, trattava il tema della Grazia: «Il film lo esplicitava con le immagini iniziali (l’arrivo della statua di Cristo in elicottero) e con le immagini finali quando il protagonista, Marcello, quasi ubriaco di stanchezza dopo una notte di bagordi, si trova con un gruppo di persone in riva al mare, e Paolina, la cameriera che aveva impressionato Marcello per la sua grazia innocente, si trova sorridente al di là di un piccolo braccio di mare a chiamarlo. Marcello la vede, ma non capisce e se ne va trascinato via da una delle donne del gruppo. Paolina continua a sorridere, come a dire: ’Vai pure, al prossimo bivio mi troverai ancora lì ad aspettarti!’. La lettura era evidente, ma mi sembrava difficile - aggiungeva Taddei - che Fellini avesse voluto esprimere un tema così... teologico».
Negli incontri con il regista, il giovane religioso del San Fedele, che pagò quella ’lettura’ con l’esilio, non aveva mai parlato di ’Grazia’. Ma un giorno, all’improvviso, gli chiese: «Cos’è secondo te la Grazia?». Fellini gli rispose di botto: «Che cos’è la Grazia se non quella realtà, come Paolina, che tu non capisci e la rifiuti, ma lei sorride e ti dice: ’Vai pure! Mi troverai sempre ad aspettarti’?».
Per Taddei si trattò di una «risposta teologicamente perfetta », anche se espressa con un linguaggio semplice, che comunque sintetizzava il discorso fatto dal regista con immagini tuttaltro che devote. «Per questo, forse - concludeva Taddei - , il film scatenò tante ire».
In una lettera dell’8 gennaio 1961, nell’accennare al suo nuovo film («che con molta probabilità dovrai difendere»), Fellini metteva ironicamente in guardia Taddei dal rischio definitivo della ’scomunica’ e poi aggiungeva: «Ti ho pensato spesso e a volte con un senso di acuto rimorso, sebbene io non mi senta in colpa. E penso che un sentimento che nasce da profonda gratitudine e da amicizia possa ricompensare qualunque dispiacere, quando si ha anche solo la speranza di avere agito secondo la convinzione della propria coscienza».
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
FLS
Grundgesetz, la Legge Fondamentale tedesca: i 70 anni di un giuramento
di Edoardo Caterina ("Pandora", 02 Giugno 2019
Il primo settembre del 1948, in una Bonn ancora devastata dalla guerra, si tenne la seduta inaugurale del “Consiglio Parlamentare” (Parlamentarischer Rat). La piccola assemblea (70 componenti in tutto) si riunì in uno dei pochissimi grandi edifici rimasti illesi dai bombardamenti, il museo zoologico “Alexander Koenig”. Sarebbe stato possibile vedere i delegati aggirarsi tra elefanti e giraffe impagliate.
Probabilmente nessuno di loro pensava che da quei lavori sarebbe nata una delle costituzioni più studiate, ammirate e celebrate del mondo. Questo perché il compito a cui era stato chiamato il Consiglio era solo quello di scrivere una carta provvisoria, una “Legge fondamentale” (Grundgesetz). E qui la prima bizzarria: una costituzione che non si chiama “costituzione” (Verfassung). Non a caso: chi la aveva scritta non era una “assemblea costituente” (Nationalversammlung) ma, appunto, il “Consiglio Parlamentare”. L’organo, infatti, non era stato eletto direttamente dai cittadini tedeschi, ma si componeva di 70 delegati (di cui 5, quelli di Berlino ovest, senza diritto di voto) scelti dai parlamenti dei ricostituiti Länder della Germania occidentale. Il processo era stato avviato qualche mese prima con la Conferenza di Londra (febbraio-giugno) in cui le potenze vincitrici occidentali (Francia, Regno Unito e Stati Uniti) decisero di unificare le loro zone di occupazione in Germania costituendo un unico Stato tedesco occidentale. Il primo luglio le stesse potenze decisero di convocare una assemblea costituente per il neonato Stato, con l’obiettivo di redigere una costituzione che garantisse i diritti fondamentali e stabilisse una forma di Stato federale. Dal canto loro, i tedeschi occidentali preferirono evitare la convocazione di una “vera e propria” assemblea costituente perché temevano che ciò pregiudicasse i rapporti con la Germania orientale e la futura creazione di un nuovo Stato unitario, che ancora si credeva possibile.
Fu così che i lavori iniziati a Bonn si svolsero in sordina. Nel 1949 Werner Weber, allora professore di diritto pubblico all’università di Gottinga, in un suo pamphlet denunciava con veemenza le carenze del procedimento con cui il Grundgesetz era venuto alla luce: “Davvero di rado una costituzione dell’Europa occidentale è venuta alla luce in modo tanto opaco[1]”. Secondo un sondaggio eseguito nel giugno 1949 nella zona di occupazione americana solo il 39% dei tedeschi era a conoscenza che era stata promulgata una Legge Fondamentale per la Germania occidentale e di quelli che ne erano a conoscenza meno della metà (il 17% sul totale degli intervistati) sapeva indicarne qualche contenuto[2].
Nonostante ogni delegato del Consiglio appartenesse a un partito, non si può negare che l’organo avesse un certo stampo “tecnocratico”: la metà dei componenti con diritto di voto si poteva fregiare del titolo di “Doktor”. In particolare, a dominare la scena erano i giuristi (circa il 42%) e, in misura minore, gli economisti (circa il 14%). Più dei 2/3 dei componenti erano o erano stati in passato funzionari pubblici: professori universitari, dirigenti ministeriali, magistrati. Quattro le donne[3]. La componente femminile fu determinante per eliminare un odioso avverbio, già contenuto nella Costituzione di Weimar, e che si voleva riproporre: “Uomini e donne hanno in principio [grundsätzlich] gli stessi diritti e doveri civici” (art. 109 Cost. Weimar). Alcuni (pochi) membri del Consiglio si erano compromessi nel regime nazista, alcuni lo avevano invece attivamente combattuto ed erano anche finiti nei campi di concentramento, la maggior parte ne erano rimasti estranei o convivendoci forzatamente in patria (in molti casi erano stati licenziati per motivi politici) o emigrando all’estero.
Quanto ai rapporti di forza tra i partiti, SPD e CDU/CSU disponevano ciascuno di 27 voti, i liberali della FDP di 5 voti, i rimanenti (i cattolici del Zentrum, i comunisti della KPD e i nazionalisti della DP) di 2 voti. Il testo fu quindi soprattutto un compromesso tra CDU e SPD, rispettivamente guidati Konrad Adenauer e Carlo Schmid, i due “Dioscuri” dei lavori costituenti. Le discussioni del Consiglio Parlamentare partivano su una bozza già predisposta due settimane prima, la bozza di Herrenchiemsee, dal luogo (una bellissima isola sul lago Chiemsee in Baviera) dove venne redatta. Lì il momento tecnocratico fu ancora più forte; ai lavori sul Chiemsee parteciparono una trentina tra delegati dei Länder, collaboratori ed esperti della materia, quasi tutti giuristi, docenti universitari e alti funzionari.
Dopo la prima seduta nel museo zoologico, il Consiglio continuò i lavori nella accademia di pedagogia, un austero edificio razionalista oggi non più esistente. Il lavoro fu straordinariamente intenso e dopo circa 8 mesi, l’8 maggio 1949, venne approvata la versione finale della Legge Fondamentale. La Legge Fondamentale entrò in vigore due settimane dopo, il 23 maggio 1949, in seguito all’assenso dei tre governi militari a capo delle zone di occupazione.
Anche dopo l’entrata in vigore della Legge Fondamentale i tedeschi continuarono a guardare con distacco alla nuova democrazia. Basti pensare che alle prime elezioni per il Bundestag votarono il 78,5% dei tedeschi: una percentuale in assoluto abbastanza elevata, ma ben lontana da quelle di altri paesi che avevano appena riacquistato le libertà democratiche (in Italia alle politiche del 1948 l’affluenza superò il 92% degli aventi diritto). Per di più, “l’arco costituzionale”, cioè l’insieme dei partiti che avevano approvato la nuova Legge Fondamentale (cioè SPD, CDU e FDP - avevano invece votato contro CSU[4], DP, Zentrum e KPD) poteva contare su circa il 66% dei suffragi espressi. Poco più di un elettore su due (il 52% circa) aveva approvato indirettamente la nuova costituzione. Paradossalmente, un processo costituente così opaco e poco partecipato avrebbe avuto molto più successo dei due grandi momenti costituenti che la Germania aveva avuto in precedenza, Francoforte nel 1848-49 e Weimar nel 1919.
70 anni dopo i tedeschi celebrano il Grundgesetz come uno dei loro maggiori orgogli. Secondo un recente sondaggio quasi il 90% dei tedeschi esprime un giudizio positivo sulla Legge Fondamentale[5]. Si tratta di un successo non scontato, realizzatosi grazie a una quotidiana prassi di democrazia e tutela dei diritti che si è andata faticosamente affermando nel tempo. Motore primo di questo processo è stato il Tribunale costituzionale di Karlsruhe, cui la Legge Fondamentale assegna un ruolo di “chiusura” del sistema. La Germania dell’immediato dopoguerra era un paese non ancora denazificato, dove rimaneva una preoccupante continuità con il passato nazionalsocialista. Basti guardare gli scioccanti sondaggi eseguiti dagli americani nella loro zona di occupazione, secondo i quali un tedesco su tre ancora riteneva che gli ebrei non dovessero godere degli stessi diritti degli altri cittadini[6]. Basti pensare a Hans Globke, capo di gabinetto e braccio destro di Adenauer, già mente giuridica dietro le leggi razziali del 1935. In questo contesto, il Tribunale di Karlsruhe ha iniziato una lenta opera di trasfusione nella realtà dei precetti astratti della Legge Fondamentale. Non sono certo mancati passi falsi, come la terribile sentenza del 1957 con cui fu ritenuto costituzionalmente legittimo il famigerato § 175 del codice penale che incriminava l’omosessualità maschile. Non meno discutibile era stata la sentenza dell’anno prima con cui era stato liquidato il partito comunista, la KPD, sentenza che accertava in astratto l’incompatibilità dei precetti del comunismo con i princìpi costituzionali. La svolta avvenne probabilmente nel 1958, con la celebre sentenza Lüth. Eric Lüth, capo ufficio stampa del governo amburghese, aveva invitato i gestori di sale cinematografiche a boicottare un film di Veit Harlan, già regista ufficiale del regime durante il nazismo, noto soprattutto per il film di propaganda antisemita “Süss l’ebreo”. Per tutta risposta, il produttore del film non solo gli fece causa, ma la vinse pure e, incredibilmente, ottenne un provvedimento giudiziale che vietava a Lüth di ripetere l’invito al boicottaggio. Con la sua sentenza il Tribunale costituzionale annullò le precedenti pronunce e chiarì che le affermazioni di Lüth erano tutelate dalla libertà di manifestazione del pensiero. La sentenza viene però ricordata non tanto per questo, ma per l’affermazione che la libertà di manifestazione del pensiero, in quanto diritto fondamentale, vale nei confronti di tutti, e non solo nei confronti di possibili interventi censori dello Stato. Questo perché i diritti fondamentali costituiscono un “ordinamento valoriale oggettivo” (objektive Wertordnung) che non può essere violato da nessuno. Un’affermazione teorica che rimane di stringente attualità ancora oggi, in tempi di colossi privati come Facebook & co. che gestiscono i nostri dati personali e incidono così fortemente sui nostri diritti.
Di qui un crescente protagonismo del Tribunale, che ha attirato anche notevoli critiche (forse la più autorevole è quella di Habermas[7]), ma che sicuramente è riuscito nel duplice compito di innervare i princìpi costituzionali nello Stato e nella società tedesca e di contrastare efficacemente l’arbitrio del potere politico. Il Tribunale costituzionale è stato sicuramente la maggiore e più profonda innovazione apportata dalla Legge fondamentale. “Non era quello che ci eravamo immaginati” (“Dat ham wir uns so nich vorjestellt”) - così, secondo l’aneddotica, commentò stizzito in dialetto renano Adenauer quando seppe che la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge fortemente voluta dal suo governo. Quale migliore complimento per una corte costituzionale?
Vale anche la pena di ricordare che il Tribunale costituzionale tedesco ormai condiziona non solo le scelte dello Stato tedesco, ma anche quelle della Unione Europea. Tutti i trattati internazionali, compresi quelli istitutivi della UE, possono passare al vaglio dei giudici costituzionali tedeschi, che in alcuni casi non hanno mancato di esprimere riserve e porre limiti alle cessioni di sovranità.
In 70 anni sono state numerose le revisioni costituzionali, ma si può dire che l’impianto di fondo è rimasto sempre lo stesso, sia nella garanzia dei diritti fondamentali, sia nella concreta organizzazione dello Stato. Le 63 revisioni che si sono succedute fino ad oggi sono state perlopiù revisioni “per accrescimento”. Con l’andare del tempo, il testo costituzionale è stato arricchito di maggiori dettagli e precisazioni. Nessuna “grande riforma” però, né, tantomeno, “fasi ricostituenti”. Unica parziale eccezione sono state forse le riforme del federalismo che si sono avute nel 2006 e 2009. Non deve quindi stupire se la Legge Fondamentale è una costituzione molto “lunga”, che scende assai più della nostra nel dettaglio, specie per quanto concerne gli aspetti di organizzazione dello Stato. Ciò invero porta anche delle controindicazioni, come ha notato criticamente Dieter Grimm [8], dal momento che la costituzione deve limitarsi all’essenziale, lasciando spazio al legislatore per il resto.
Particolarmente critico è stato il passaggio della riunificazione (1990). I costituenti di Bonn immaginavano che questa avrebbe comportato l’elezione di una assemblea costituente, la promulgazione di una costituzione e la fine della provvisoria “Legge Fondamentale”. Ciò venne espresso chiaramente nell’ultimo articolo, l’art. 146: “La presente Legge Fondamentale cesserà di avere vigore il giorno in cui subentrerà una Costituzione approvata, con libera deliberazione, dal popolo tedesco”. Si preferì tuttavia non percorrere questa via, ma utilizzare un’altra possibilità data dalla stessa Legge Fondamentale con l’art. 23, che nella versione allora vigente regolava il procedimento di adesione di nuovi Länder alla Federazione. Una scelta che ha di fatto eternato il provvisorio e ha sollevato molte discussioni. Un po’ furbescamente, fu invece modificato l’art. 146, che ora recita: “La presente Legge Fondamentale che, dopo il compimento dell’unità e della libertà della Germania, vale per l’intero popolo tedesco, ...”.
Non è facile riassumere il contenuto del Grundgesetz. Si è già detto del ruolo centrale del Tribunale costituzionale. Quanto al resto, in estrema sintesi, si può dire che la Legge Fondamentale si compone di una prima parte, i primi 19 articoli, dove sono contenuti i diritti fondamentali. Svetta il celebre art. 1, che dopo il celebre incipit, “la dignità umana è intangibile”, proclama l’inviolabilità e inalienabilità dei diritti umani. Questo articolo e il successivo articolo 20, dove si enuncia il principio della sovranità popolare e si stabilisce che la Repubblica tedesca sia uno stato democratico, federale e sociale, sono sottratti a ogni revisione costituzionale per espressa previsione dell’art. 79, comma 3, la c.d. “clausola di eternità” - altra grande innovazione della Legge Fondamentale. Da un punto di vista strettamente formale, Weimar era finita in modo legale: la famigerata “legge dei pieni poteri” del 1933 rappresentava una revisione costituzionale votata dai 2/3 del Reichstag. La “clausola di eternità” impedisce non tanto che ciò si ripeta, quanto che un simile suicidio della democrazia sia costituzionalmente legittimo.
Seguono gli articoli che determinano l’organizzazione dello Stato. La forma di governo prescelta è quella “parlamentare razionalizzata”, con il cancellierato e la “sfiducia costruttiva” (art. 67). Particolarmente rilevante l’art. 21 che regola i partiti riconoscendo il loro ruolo costituzionale e imponendo loro la democrazia interna (il nostro art. 49 ne è una versione dimidiata).
Contrariamente a una certa vulgata, la Legge Fondamentale, nella sua versione originaria, non abbracciava nessuna particolare teoria economica. E se pure lo faceva, questa non era certo quella liberista. Nel programma della CDU approvato nel congresso di Aahlen (1947) si delineava il modello della co-gestione e si auspicavano la collettivizzazione delle grandi industrie e una parziale pianificazione dell’economia. La SPD, poi, era quella ancora marxista ante Bad Godesberg. Ciò non poteva non lasciare traccia nella Legge Fondamentale. Come già detto, la Repubblica federale è definita un Sozialstaat (“Stato sociale”). La proprietà privata è garantita nei limiti dell’interesse generale (“Eigentum verpflichtet” - la proprietà obbliga - recita l’art. 14). Addirittura, l ’art. 15 (mai applicato) tutt’oggi rende possibile la collettivizzazione del suolo, di risorse naturali e di mezzi di produzione. Il diritto di sciopero non era espressamente garantito, ma era comunque ricavabile dalla libertà sindacale (art. 9). Sono state le successive revisioni del 1967 e del 2009 a introdurre il principio dell’equilibrio di bilancio e limiti all’indebitamento pubblico (i c.d. “Schuldenbremse”), dando alla Legge Fondamentale una più netta impostazione ordoliberale.
In conclusione, occorre sottolineare che la Legge Fondamentale, lungi dall’essere qualcosa di completamente nuovo o rivoluzionario, rappresenta un cauto ripensamento e un miglioramento delle precedenti esperienze costituzionali, in particolare di Weimar e Francoforte. Come nella Costituzione di Weimar, si prevede una democrazia parlamentare, ma si tenta di correggerla evitando una eccessiva debolezza dell’esecutivo e premunendola di strumenti contro i partiti e le condotte “anticostituzionali” (è la cosiddetta “democrazia militante”), come nella Costituzione di Weimar, si prevede uno Stato sociale e una serie di diritti fondamentali, ci si preoccupa però al contempo di “dare gambe” a questi princìpi istituendo un pervasivo sistema di giustizia costituzionale. Questa prudenza è risultata la maggiore forza della Legge Fondamentale, che rifugge da ogni ingenuo entusiasmo, da ogni proclamazione iperbolica, e, in modo molto pragmatico, mette a frutto le migliori esperienze della storia costituzionale tedesca. Né, tuttavia, manca un intenso contenuto ideale, tutto ricompreso in uno sguardo volto al passato più tragico, che fa tacitamente risuonare per tutto questo testo giuridico un solenne giuramento: “mai più!”. Ecco, se quella italiana può essere definita una “Costituzione-promessa”, quella tedesca è forse una “Costituzione-giuramento”.
Un modello che ha funzionato e ha saputo guadagnare una grande “output legitimacy” conquistandosi una forte “connessione sentimentale” con il popolo tedesco e divenendo anche oggetto di imitazione sul piano internazionale (fortemente ispirate alla Legge Fondamentale sono, tra le altre, le costituzioni di Spagna, Grecia, Portogallo, Sudafrica e Repubblica Ceca). La Repubblica federale tedesca, priva di un proprio “mito fondativo” (come da noi lo è stata la Resistenza), ha trovato nella Legge Fondamentale e nei princìpi in essa sanciti il proprio mito ideale.
[1] W. Weber, Weimarer Verfassung und Bonner Grundgesetz, Göttingen, 1949, p. 9.
[2] A.J. Merritt, R. Merritt, Public Opinion in Occupied Germany, Chiacago 1970, p. 315.
[3] Friederike Nadig, SPD; Elisabeth Selbert, SPD; Helene Weber, CDU; Helene Wessel, Zentrum.
[4] O meglio, 6 dei sui 8 delegati al Consiglio Parlamentare.
[5] https://www.zeit.de/gesellschaft/
[6] A.J. Merritt, R. Merritt, Public Opinion in Occupied Germany, Chiacago 1970, p. 40.
[7] Cfr. J. Habermas, Fatti e norme, Bari 2013, pp. 268 ss.
[8] Si veda da ultimo l’intervista sulla Süddeutsche Zeitung del 4/5 maggio 2019 (p. 68).
Giulietta Masina, i 100 anni di un clown perfetto e anima gemella di Fellini. Le 10 cose da sapere
La grande artista nasceva a San Giorgio di Piano, nel Bolognese, il 22 febbraio 1921, un anno e un mese dopo quello che sarà il grande amore della sua vita. Attrice talentuosissima, di lei Chaplin diceva: "È l’attrice che ammiro di più"
di Chiara Ugolini *
Attrice talentuosissima, maschera sensibile e grande intelligenza Giulietta Masina ha un po’ sofferto l’essere "moglie di" un genio come è stato Federico Fellini, ma probabilmente lei non sarebbe stata d’accordo. Il loro era un sodalizio sentimentale e professionale unico, i cui segreti probabilmente sapranno sempre e solo loro. -Ecco dieci cose che occorre sapere sulla grandissima interprete che il 22 febbraio avrebbe compiuto 100 anni.
Dalla Romagna a Roma, l’infanzia di Giulietta
È nata a San Giorgio di Piano, nel bolognese, il 22 febbraio 1921, un anno e un mese dopo Federico Fellini. I genitori erano un violinista e una maestra, ma all’età di quattro anni si trasferì a Roma a vivere con una zia rimasta vedova e frequentare le elementari e poi il collegio delle Orsoline. Il primo teatro
Fu nel teatrino delle Orsoline che Giulietta scoprì l’amore per il palcoscenico che continuò a calcare anche durante l’università. La prima scrittura la ottenne nella Compagnia del Teatro Comico Musicale.
Galeotta fu la radio
Masina incontrò Federico Fellini nel 1943, lui aveva 23 anni, lei 22 e galeotta fu la radio. Giulietta interpretava Pallina, personaggio ideato proprio da Federico, nella commedia radiofonica Le avventure di Cico e Pallina che ebbero molto successo.
Federico e Giulietta e gli auguri di Alberto Sordi
Federico e Giulietta si sposarono il 30 ottobre 1943, dando vita a quell’unione artistica e sentimentale unica che durò esattamente mezzo secolo. Dopo il matrimonio Fellini andò a vedere a teatro Alberto Sordi di cui era amico e dal palco Sordi disse al pubblico: "Non sono andato alle nozze di questo mio amico perché stavo qua, fategli un regalo che costa poco: un applauso". Nel 1945 ebbero un bambino, Pier Federico, che morì a pochi giorni e poi non hanno mai più avuto figli.
Applausi a scena aperta a Venezia
Il primo successo per Giulietta fu alla Mostra del cinema di Venezia nel 1948, strappando un applauso a scena aperta per la toccante scena di Senza pietà di Alberto Lattuada dove, come giovane prostituta in fuga, abbraccia la compagna di sventura (Carla Del Poggio). Il personaggio della prostituta è tornato spesso nella sua carriera dopo anche nel primo film del marito Lo sceicco bianco.
Gelsomina e le lodi di Chaplin
Di tutti i personaggi che ha interpretato nella sua lunga carriera il più emozionante rimane quello di Gelsomina in La strada, ideato apposta per lei dal marito che aveva rifiutato qualsiasi altra candidatura per il dolce clown che accompagna lo zingaro Zampanò (Anthony Quinn). Quel ruolo le fece guadagnarle il soprannome di Chaplin al femminile. E pare che lo stesso maestro del muto dicesse di lei "She’s the actress I admire the most", è l’attrice che ammiro di più. Insieme al fumetto che Disney fece della versione de La strada dopo che aveva vinto l’Oscar, era il riconoscimento a cui sia Fellini che Masina tenevano di più.
Una vita per il cinema e per Fellini
Tra cinema e televisione, dove ha lavorato un po’ alla fine della carriera, Giulietta Masina ha realizzato una trentina di film. Quelli insieme a Fellini sono sette: il primo ruolo fu per Lo sceicco bianco (1952), una prostituta di nome Cabiria che avrà poi il film tutto suo. L’ultimo è stato Ginger e Fred del 1986, in cui Masina tornò a lavorare con il marito a vent’anni da Giulietta degli spiriti e con il grande amico Marcello Mastroianni.
"Giulietta, please stop crying"
Nel 1993, pochi mesi prima di morire, Federico Fellini ha ricevuto l’Oscar alla carriera dalle mani di Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Il suo discorso sul palco dell’Academy terminò con “Giulietta, please stop crying” rivolto alla moglie che in sala non smetteva di piangere.
Insieme sempre
Giulietta è morta il 23 marzo 1994, cinque mesi dopo Fellini ed è sepolta accanto al marito. La loro tomba, nel cimitero monumentale Rivabella a Rimini, è sovrastata da una scultura di Arnaldo Pomodoro, Le vele, ispirata al film La nave va. Al suo funerale venne suonato dal trombettista Mauro Maur il tema di Nino Rota.
Non solo cinema: dalla cucina all’arredamento
Giulietta amava viaggiare ed era appassionata di arredamento, le piaceva sistemare le case di amici e parenti. Tra il 1966 e il 1969 fu conduttrice di una popolare rubrica radiofonica, Lettere a Giulietta Masina, poi diventati un libro. Giulietta era una gran cuoca e cucinava in quantità industriali perché il marito era capace di chiamare alle 9 e dire "non siamo quattro a cena ma 15".
* la Repubblica, 22 Febbraio 2021 (ripresa parziale).
Masina, che spirito Giulietta
Il 22 febbraio sono 100 anni dalla nascita della grande attrice e moglie di Federico Fellini. Un libro ne racconta la storia come donna e protagonista del set. Ecco il testo della prefazione
di Goffredo Fofi (Avvenire, sabato 20 febbraio 2021)
Le due sale cinematografiche del mio paese funzionavano a turno: una settimana l’una, quella “dei preti”, e una settimana l’altra, quella “dei comunisti”; ma l’unica distinzione era che nella prima c’era un prete che vedeva ogni film prima del pubblico e operava tagli aggiuntivi a quelli già operati a Roma da una censura molto bigotta. Il dilemma di un adolescente che divorava libri e film e, di conseguenza, le riviste accessibili grazie a un giornalaio amico di famiglia, ma qualcuna comprandola per le notizie e le foto, fu ben presto quello di ragionare su cosa veniva giudicato bello e su cosa veniva giudicato brutto e di formarsi un giudizio personale.
Non era facile, e ricordo quanto fui sconcertato dai giudizi che lessi (1954, avevo 17 anni) su due film (due capolavori) sostenuti il primo, Senso di Luchino Visconti, dai comunisti, e il secondo, La strada di Federico Fellini, dai democristiani. Mi piacevano entrambi, ma vedendo Senso non mi ero affatto commosso sul personaggio di Alida Valli, una nobildonna che passa i fondi della rivolta politica risorgimentale al suo amante austriaco, un vigliacco, mentre avevo pianto sul destino della povera Gelsomina, un po’ ritardata (ne avevamo una in casa, colpita bambina dalla polio) e guitta di piazza al fianco del brutale Zampanò che è il suo uomo e maestro e padrone, ma incantata dal Matto.
La strada parlava di qualcosa che conoscevo, mostrava un paesaggio che era anche il mio, tra l’Appennino e l’Adriatico - e dimostrava una grande comprensione pietà solidarietà nei confronti dei suoi personaggi, e Giulietta Masina ne era l’eroina, la vittima ingenua, un’eterna bambina sbalordita dell’esistenza, dal mondo.
E nonostante tutto entusiasta del mondo.
Avevo molto amato, I vitelloni. Mi innamorai di Gelsomina e di Fellini, punti di riferimento anche morale, ma anche provocatori. Con il cinema di Fellini, con il “modello” Fellini, ho vissuto un “corpo a corpo” che si è placato tardi, con gli ultimi film, e con la conoscenza diretta di un Federico ormai anziano e triste, e presto malato come malata era la compagna della sua vita.
Conobbi Fellini quando Cico e Pallina erano invecchiati, anche se mai del tutto domati. Sono stato due o tre volte a casa loro in via Margutta, ma non ho mai incrociato Giulietta, che era già assai malata, e tutti pensavano che sarebbe stata lei a morire per prima.
Chiedevo notizie e le risposte erano sconsolate. Ma avvertivo, ed era impossibile che così non fosse, un legame di coppia saldissimo, una comunione radicata e infrangibile. Della Masina si apprezzavano, intorno, la compostezza e la misura di una moglie comprensiva e fedele nonostante tutto, e il Federico che ho frequentato non era più lo spavaldo Federico degli anni d’oro...
Il personaggio affidato a Giulietta, creato da Fellini e con Giulietta, restò infine anche nei film di altri registi, quello di Gelsomina e di Cabiria, con l’unica variante “borghese” del film che su di lei Fellini costruì per parlare infine di donne non “maggiorate” (da vignette del “Marc’Aurelio”) ma vere e del tempo. E con le loro diversità, le loro rivendicazioni, la loro autonomia. E la vera Giulietta aveva molto della Giulietta degli spiriti, ma non credo che Fellini se ne sarebbe a suo tempo innamorato e le fosse stato a sua modo fedele se non avesse ritrovato in lei altre Giuliette: il suo ideale giovanile di moglie e di compagna; e l’immagine di Gelsomina e poi di Cabiria, che di Gelsomina è una variante.
Con qualcosa di Charlot, certamente, ma anche con qualcosa dei clown dei poveri circhi di un tempo, con qualcosa delle suorine ingenue e francescane anche senza saperlo, con qualcosa dei marginali della strada e della piazza (di una “Leggera” assai faticata), della marginalità dei poveri e degli sfigati, dei periferici e dei dimenticati. Degli “umiliati e offesi”, avrebbe detto Dostoevskij. Dei “poveri e semplici”, avrebbe detto Anna Maria Ortese. E anche con qualcosa della Iduzza di La storia di Elsa Morante. “Beati i poveri di spirito” avevano detto - all’origine delle visioni di questi grandi - il Nazareno e l’Umbro...
Di tutto questo Giulietta Masina era cosciente e partecipe, e fu anche per questo che accettò il magistero del consorte, di farsi cinematograficamente sua creatura, sin dal tempo di Senza pietà e, più tardi, di Europa ‘51.
E se nel Miracolo di Rossellini scritto con Fellini e da Fellini co-interpretato, nel personaggio della povera di spirito resa dalla grande Magnani troviamo una sorta di modello (di sorella maggiore) della Masina, mi sembra assolutamente vero ciò che dice Fulvi nel suo racconto/saggio così profondo partecipe affettuoso, commosso e commovente del confronto reale tra le due, con l’assunzione da parte di Giulietta Masina di un lascito rosselliniano di quella Magnani che Fellini e Rossellini andarono definendo secondo ispirazioni senz’altro comuni sin dai primi film del neorealismo, così diversi e così lontani e così più profondi dei coevi personaggi zavattinian-desichiani.
Fellini, antropologo e profeta
di Gabriele Gimmelli (Doppiozero, 02 Novembre 2018)
«Comincia un grande futuro», scrive Tullio Kezich nell’ultima pagina della sua biografia felliniana, riprendendo uno dei tanti necrologi apparsi in occasione della scomparsa del grande regista. Quel futuro è il nostro presente: un quarto di secolo ci separa ormai da quel 31 ottobre 1993 in cui Federico Fellini cessava di vivere, dopo due settimane di agonia seguite dalle televisioni di mezzo mondo (con macabra ironia, qualcuno parlerà di “set felliniano”).
In fondo, alla morte - non solo la sua - Fellini ci aveva preparati da sempre. La sua filmografia, dai Vitelloni in avanti, non è che una continua meditazione/esorcismo sul tempo che passa e consuma la vita e i sogni («Una mattina ti svegli, eri ragazzo fino a ieri e adesso non lo sei più») e sul mistero del “dopo”, al quale avrebbe voluto dedicare un intero film, quel Viaggio di G. Mastorna che non riuscì mai a realizzare. Eppure, io credo che se si montassero una dietro l’altra tutte le sequenze di feste banchetti parate sagre circhi matrimoni orge processioni capodanni carnevali dei suoi film, probabilmente avremmo in mano la più vasta meditatio mortis del XX secolo. Ora, se questo è quel che ci ha lasciato, quale futuro per Fellini?
Un Fellini “futuribile”. Nell’immaginario comune, la sua immagine è legata semmai al passato, alla nostalgia, al sogno, insomma al fellinismo. Un prodotto rigorosamente Italian Style, esportabile al pari della pizza e dell’alta sartoria. A pensarci bene, anche il (poco) cinema italiano davvero spendibile oltre i confini ha un retrogusto inequivocabilmente felliniano. Penso ovviamente a La grande bellezza (prontamente insignito dell’Oscar) e a un po’ tutta la filmografia di Sorrentino a partire da L’amico di famiglia. Ma penso anche a registi più insospettabili: a Nanni Moretti, per esempio (il “Sol dell’avvenire” in cartapesta di Palombella rossa, il Vaticano di Habemus Papam); oppure a Matteo Garrone, ai corpi grotteschi e disturbanti dei suoi primi film (L’imbalsamatore, Primo amore), al suo gusto per il fiabesco (Reality, Il racconto dei racconti), per non parlare del Pinocchio prossimo venturo, un progetto a lungo cullato da Fellini e diluito poi in altri film, a cominciare dal Casanova.
Pian piano, però, dal 1993 a oggi, tra omaggi e convegni (l’ultimo solo pochi giorni fa), il cliché dell’artista perso fra le sue rêveries si è andato via via appannando - o quanto meno problematizzando: «A ben vedere», ha scritto Emiliano Morreale, «Fellini non è identificabile con la dimensione della nostalgia. In lui, il passato è dapprima carico di una connotazione inquietante e addirittura orrorifica, e poi messo in scena come un vero e proprio repertorio».
Possiamo insomma incominciare a considerare il regista riminese per quello che effettivamente è stato: un grande antropologo della modernità italiana, di quello strano oggetto continuamente sospeso «fra arcaicità e fantascienza», per usare un’espressione di Giulio Bollati. Studi recenti come quelli di Andrea Minuz (Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, 2012), e, prima ancora, di Gianni Celati (Fellini on the Italian Male, 2009, solo in parte tradotto in italiano) hanno messo in luce la straordinaria capacità del cinema felliniano di penetrare l’identità (politica, storica, sessuale) italiana e i modi con cui essa si rappresenta, restituendone una visione critica “dall’interno”, con tutto il suo amalgama irrisolto di repulsione e attaccamento.
Pensiamo ad Amarcord (1973). I primi quaranta minuti sono fellinismo puro (non a caso il film venne premiato con l’Oscar): il giovane Titta in calzoncini, la “Fogarazza”, le fantasie masturbatorie, i genitori, il nonno, i professori, lo struscio serale, l’eterna provincia, le musiche di Nino Rota... Poi però arriva il momento dell’adunata. Con un twist repentino, Fellini ci rivela che quasi tutti i personaggi visti fin lì, con i quali abbiamo ormai familiarizzato e simpatizzato - l’avvocato, i compagni di scuola, la tabaccaia, persino la “leggendaria” Gradisca - sono tutti irrimediabilmente, entusiasticamente, fascisti. E se all’inizio possiamo ancora sorridere dell’atmosfera farsesca, con i gerarchi a passo di corsa, i labari e i motti deficienti (“IMMARCESCIBILMENTE”), il divertimento cede il posto al disagio e infine al fastidio, durante la scena in cui il padre di Titta, antifascista, è costretto con la forza a buttar giù l’olio di ricino. Un fastidio non troppo diverso da quello che proviamo nella sequenza successiva, quando lo zio scapolo del protagonista - che poco prima abbiamo visto pavoneggiarsi in orbace ed esclamare, garrulo: «Mussolini c’ha due coglioni così!» - dopo essersi appartato con una turista straniera, torna dagli amici dichiarando con finta pudicizia che la donna, innamoratissima, gli ha concesso addirittura «l’intimità posteriore». Altro che elegia del passato: per dirla con Italo Calvino, Fellini «ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino».
E il Fellini “futuribile” di cui dicevamo all’inizio? Quello che non solo ci racconta ciò siamo diventati, ma anche quel che diventeremo? L’aggettivo “profetico” è stato utilizzato spesso, soprattutto per i suoi ultimi film. A rivederli oggi, non se ne capisce bene il motivo. Davvero la TV commerciale e rivistaiola del cavalier Lombardoni (sic!) raffigurata in Ginger e Fred (1985) o la “Sagra della Gnoccata” ne La voce della luna (1990) sarebbero delle prefigurazioni dell’Italia berlusconizzata di fine millennio che il regista non vide mai? Il Fellini degli anni Ottanta - corteggiato dai media, imbalsamato dalla critica, sistematicamente disertato dal pubblico - è un artista amareggiato e un po’ confuso, che fatica a comprendere il presente, figuriamoci il futuro: «Io sono tentato di stare a guardare tutti questi mutamenti con rispetto», dichiara in un’intervista del 1985. «Mi domando soltanto com’è successo, quando, dov’ero io quando accadeva. C’è questa nuova creatura umana, che apparentemente ci somiglia, [...] ma che sa fare straordinariamente a meno delle cose alle quali noi siamo stati educati».
Anzi, rivedendo in questi giorni La voce della luna, più che dagli apoftegmi contro il fracasso della contemporaneità («Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire»), rimango colpito semmai da quei personaggi in cui Fellini raffigura pezzi di se stesso: l’oboista Sim, che si è rifugiato in un loculo del camposanto per difendersi dalla musica (dal cinema?) «che promette, promette, e non mantiene mai»; l’ex prefetto paranoico Paolo Villaggio, ossessionato dall’idea che i vicini lo possano contagiare con «la loro orrenda malattia: la vecchiezza»; il folle disincarnato Roberto Benigni, “abitato” da una cacofonia di «schiocchi di frusta» e «migliaia e migliaia di voci» che non è (più?) in grado di decifrare.
«Ma dammi almeno un raggio di sole!», dice il produttore a Fellini nel finale di Intervista (1987). Il “Maestro” da cui tutti si aspettano un monito o un parere, ma che non riesce a dire nulla, è un’immagine ricorrente negli ultimi film del regista. In E la nave va (1983), Orlando (Freddie Jones), cronista a bordo di un piroscafo nel fatidico 1914, confessa sconsolato la propria impotenza allo spettatore: «“Io scrivo, racconto... Ma cos’è poi che voglio raccontare? Un viaggio per mare? Il viaggio della vita? Ma questo non si racconta, si fa, ed è già tanto”... È banale, eh? È stato già detto. E meglio! Ma tutto è stato già detto! E fatto!». L’Arte, quella con la Maiuscola, si riduce allo svago solipsistico e masturbatorio del feticista che, nel chiuso della cabina, riproietta ossessivamente le immagini della propria cantante preferita. Oppure trova spazio nei luoghi più inospitali: la sala macchine in cui i virtuosi dell’ugola si esibiscono a favore dei virtuosi del badile; e le cucine dove due vegliardi maestri di musica eseguono Schubert all’arpa di vetro fra le stie dei polli e il borbottare sommesso delle pentole.
Ecco, se c’è un film che merita la qualifica di “profetico”, fra gli ultimi diretti da Fellini, direi che è proprio E la nave va. Rivista a più di trent’anni di distanza, questa fantasia in stile belle époque, con il prologo muto alla Lumière e la nave allestita da Dante Ferretti che traversa un mare di plastica, mi pare che dica parecchie più cose sulla nostra contemporaneità di tutto il cosiddetto “cinema del reale” realizzato nell’ultimo decennio. Il transatlantico diretto nell’Egeo per spargere le ceneri del soprano Edmea Tetua, versione ammodernata della stultifera navis, non è forse un’allegoria perfetta dell’Europa (anzi, dell’Occidente) di oggi, che avanza compunta verso il proprio funerale? E i suoi ospiti, granduchi principesse aristocratici militari sceicchi attori intellettuali, un po’ comici e un po’ (melo)drammatici, che giocano a non capirsi e che proclamano soddisfatti «Siamo seduti sulla bocca di un vulcano!», non somigliano in modo preoccupante ai leader sovranisti, agli alfieri del capitalismo smart e ai loro portaparola, che sembrano accogliere gongolando ogni sentore di una catastrofe prossima ventura?
Ancora: davanti all’apparizione, improvvisa e inspiegabile, di una folla di profughi serbi (siamo all’indomani dell’attentato di Sarajevo) sulla tolda della nave, gli scambi di battute fra capitano e passeggeri indispettiti («Il comandante è tenuto a raccogliere i naufraghi», «Fra quelli che lei definisce profughi, si nascondono professionisti dell’assassinio», «Ho dato ordine di isolare gli individui pericolosi») non richiamano alla mente altri scambi, altri profughi, altre navi? Infine il naufragio: per un istante sembra quasi che Orlando/Fellini stia rivelando le vere ragioni dello scoppio della Grande Guerra... ma poi tutto si consuma in una nebulosa di “si dice”, “pare che”, “altri sostengono”. Congetture che si elidono l’un l’altra come segni opposti di un’operazione algebrica: una prassi fin troppo familiare, in tempi di post-verità e fake news.
Intendiamoci, non voglio fare della «triviale simbologia profetica», per dirla con Furio Jesi. Però Fellini, che era stato in cura da Ernst Bernhard e aveva sfogliato Jung, conosceva il potere suggestivo di certi archetipi. L’aveva capito bene anche uno spirito laico e illuminista come Calvino, che, in occasione dell’uscita, riservò al film parole calorose: «Il transatlantico “Gloria N.” diventa un’immagine del mondo in cui ci troviamo sempre più stretti, in cui da un giorno all’altro scopriamo che distanze geografiche e sociali sono annullate [...] ai cui problemi non si trovano soluzioni se non in affermazioni di principio che poi non si riesce a rispettare». E della catastrofe finale scrive: «Da molto tempo viviamo come cittadini di un giudizio universale a rallentatore. [...] La sola cosa che possiamo fare è contemplare vecchie immagini di naufragi come per tranquillizzarci, dato che siamo sopravvissuti fin qui».
Insomma, il Fellini che sembra annunciare la fine del mondo (o soltanto la fine di “un” mondo: il nostro), porta con sé anche il contravveleno. Nel momento più drammatico, mentre il piroscafo cola a picco, la regia fa un passo indietro, svelandoci che in fondo è tutto un trucco: la nave è finta, il mare è di plastica, il cielo dipinto, il rollio generato da una colossale idromacchina. Senza dubbio, un modo di celebrare per l’ultima volta una tradizione artigianale del nostro cinema che nel 1983 era giunta al capolinea. Ma forse anche un monito rassicurante rivolto a chi vien dopo (cioè a noi): un’apocalisse non è una cosa seria, dopotutto, e una catastrofe può essere anche una possibilità di rinascita. Come quella della rinocerontessa malata d’amore e di dissenteria, che ritroviamo sana e salva, insieme a Orlando, a bordo di una scialuppa in mezzo al mare. «Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?», bisbiglia il cronista, rivolto alla macchina da presa. Sul significato riposto di quel latte si sono versati fiumi di parole e d’inchiostro. Io, che mi son già dilungato abbastanza, m’accontenterei di adoperarlo per brindare alla memoria di Federico Fellini.
IL VATICANO E IL VALORE ASSOLUTO DELLA VITA. La critica anticipatrice di Carl Schmitt e di Federico Fellini
Federico La Sala
Uno spettro si aggira per l’Europa: Carl Schmitt
di Roberto Esposito (la Repubblica, 01.02.2018)
La traduzione del saggio di Carl Schmitt su Legalità e legittimità, curata e introdotta magistralmente da Carlo Galli per il Mulino, presenta più di un motivo di interesse. Pubblicato nel 1932, subito dopo le ultime elezioni tedesche, prelude al collasso della Repubblica di Weimar e alla vittoria nazista. Se non si può dire che prepari la svolta totalitaria - pure accettata di buon grado dall’autore l’anno successivo - coglie tutti gli elementi della crisi che avrebbe portato al crollo della democrazia in Germania. Il tramonto dello Stato legislativo apre un varco nell’ordinamento che spezza l’equilibrio costituzionale tra legalità e legittimità, norma e decisione, diritto e politica.
Schmitt, almeno in linea di principio, non contrappone i due termini. Anzi tenta di articolarli, collocando il potere costituente nella volontà del popolo tedesco. In questo modo resta all’interno del quadro democratico, ma lo spinge all’estremo limite arrivando a richiedere un Custode della Costituzione capace di incarnare la volontà popolare. Ciò che in sostanza Schmitt propone è una democrazia plebiscitaria che modifichi in senso autoritario il regime di Weimar. Il secondo motivo di interesse è l’attitudine camaleontica dell’autore a “ripulire” a ritroso la propria storia, ampiamente compromessa col nazismo.
Nella postfazione, scritta nel 1958, Schmitt individua in Legalità e legittimità il «tentativo disperato di salvare» la Costituzione di Weimar dall’attacco concentrico delle forze antisistema di destra e sinistra. Ora è vero che Schmitt non fuoriesce formalmente dalla cornice costituzionale. Ma schierandosi per un rafforzamento senza bilanciamento dei poteri del presidente, apre la strada allo strappo del 1933, quando si passa dalla possibile dittatura commissaria di Hindemburg alla reale dittatura sovrana di Hitler: la legge sul conferimento dei pieni poteri e l’abrogazione dei partiti sono l’esito controfattuale del tragico tentativo di stabilizzare la Repubblica, lacerandone il tessuto istituzionale.
Eppure l’interesse del saggio di Schmitt non è circoscrivibile a una vicenda storica fortunatamente chiusa. Nonostante la distanza che ci separa, sono troppi gli echi che risuonano in queste pagine.
A cos’altro richiamano la crisi di legalità e il deficit di legittimità, l’impotenza del Parlamento e il conflitto dei partiti, le forzature della costituzione e il rischio di ingovernabilità, se non alle ferite delle nostre democrazie?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VOLONTA’ DI POTENZA E DEMOCRAZIA AUTORITARIA. CARLO GALLI NON HA ANCORA CAPITO CHE, NEL 1994, CON IL PARTITO "FORZA ITALIA", E’ NATO ANCHE IL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.
LA BRUTTEZZA DI UNA DIPINTURA: "FABULA LEMURUM". In memoria di Giambattista Vico
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL "GIOCO" DEI "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
Un buon antidoto alle derive impolitiche
«Che fare di Carl Schmitt?» del filosofo francese Jean-François Kervégan per Laterza
di Geminello Preterossi (il manifesto, 05.10.2016)
Carl Schmitt era una sorta di «reazionario giacobino»: un critico radicale della modernità, ma dall’interno, tendendone all’estremo i concetti. I legittimismi codini gli erano estranei: quando una credenza politica è caduta, esaurita, è inutile e persino ridicolo pretendere di tenerla in piedi forzosamente. Questa impostazione gli ha permesso di cogliere tanto le logiche e i rischi della politica «assoluta» quanto il nesso - che ci riguarda potentemente, nel mondo globale senza nomos - tra spoliticizzazione, deterritorializzazione e tecnocrazia. Per questo Schmitt resta un pensatore decisivo, anche e per certi versi soprattutto per la sinistra (perlomeno per una sinistra che non scambi la critica sociale con la retorica moraleggiante).
COME METTE IN LUCE efficacemente Jean-François Kervégan in Che fare di Carl Schmitt? (pp. 254, euro 24, tradotto da F. Mancuso per Laterza), al di là degli assunti ideologici, delle scelte opportuniste e censurabili, delle opzioni concrete di politica del diritto, assumendo teoricamente il rischio del «politico», da «teologo della scienza giuridica», Schmitt ha colto la costitutiva politicità del diritto e presentito le conseguenze del suo sradicamento. Il conflitto è fonte di energia politica, e allo stesso tempo, soprattutto se estremo, il «problema» che la decisione deve contenere.
Se si dimentica questa «ipoteca», magari pensando di liberarsi dal potere, ci si consegna a forme di dominio e di ostilità «totalizzanti», che tali rimangono anche quando si presentano con un volto fintamente mite - quello dell’empowerment e della governance -, mirando a produrre docili soggettivazioni neoliberali: non a caso queste «maschere» che tanti hanno sedotto stanno cadendo, per quanto fatichi a manifestarsi una forza antagonista strutturata, portatrice di un paradigma alternativo (semmai, le fratture sociali indotte dalla globalizzazione sfociano in una contrapposizione giocata sul piano antioligarchico e identitario).
IL PARADIGMA NEOLIBERALE pretenderebbe di conseguire la compiuta e definitiva neutralizzazione tanto del conflitto, quanto della necessità della decisione costituente. Naturalmente, si tratta di un’illusione. Peggio, di un inganno ideologico, che veicolando una teologia antipolitica mira ad essere performativo, a produrre il proprio mondo come se fosse «naturale» (siamo in presenza, con il neoliberalismo, di una vera e propria metafisica inconscia della rinaturalizzazione).
Ma qualcosa non torna: in questo pseudo-ordine globale presuntamente spontaneistico e pacificato guarda caso proliferano muri, stati di emergenza (più o meno quotidiani) e guerre-non guerre feroci. Bisogna ammettere che Schmitt aveva ragione, quando prevedeva un’intensificazione inusitata della violenza, e del caos, una volta che fosse abbandonata qualsiasi prospettiva di legittimità «katéchontica», cioè in grado di frenare ostilità e potenze «indirette», di cui fanno parte tanto i poteri economici sregolati quanto i fondamentalismi religiosi. E quando ci invitava a ripensare a un nuovo nomos radicato e multipolare.
Il problema è che il globalismo postmoderno è speculare all’irenismo «progressista» della cosmopoli (al di là delle buone intenzioni normativiste di quest’ultimo). Entrambi sono catturati dalla logica neoliberale. Per evitare la spoliticizzazione che ne deriva e rispondere alla sfida del residuo ineliminabile della violenza occorre riconoscere l’impossibilità di fuoriuscire integralmente dalla logica (teologico-politica) della rappresentazione. Anche un rilancio democratico dal basso, partecipativo, per essere efficace, deve tenerne conto.
Certo, prendersela con la crisi del «rappresentato», sottovalutando gli effetti della crisi del «rappresentante», rischia di costituire un alibi, ed è perdente ai fini di una politica «diversa». Siamo nell’immanenza sociale: questo è un punto da riconoscere e assumere. Ma siamo sicuri che essa non si sia costituita, e necessiti tutt’ora, tanto più in una prospettiva trasformatrice che assuma coerentemente i bisogni «popolari» di chi oggi patisce deflazione salariale, disoccupazione e demolizione dei diritti sociali, di una qualche forma di trascendenza collettiva, di rappresentazione politico-simbolica?
IL «POTERE COSTITUENTE» non permane mai allo stato puro e continuo, ma si dà sempre nella forma della rappresentazione, trascendendo dall’interno l’immanenza. Non so se sia di nuovo il tempo del potere costituente, che peraltro è sempre un evento imprevedibile (e rischioso). Ma certo la generazione di un’eccedenza di energia politica, in grado di contrastare quell’uniformazione coatta al neoliberismo in nome della quale non si esita a liquidare il costituzionalismo democratico e sociale, è la sfida intensamente politica che dobbiamo aver il coraggio di raccogliere. A tal fine, le categorie di Schmitt - contro Schmitt - ci servono ancora.
Rivalutare la pluralità ascoltando Carl Schmitt
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 28.08.2016)
La pubblicazione dei Quaderni neri ha riportato al centro delle discussioni l’opportunità di leggere autori il cui legame con il nazismo è ormai un fatto assodato. Vale per Martin Heidegger e vale per Carl Schmitt, che a più riprese, e spesso in modo patetico (neppure ai gerarchi sfuggì il suo opportunismo), cercò di «assumere intellettualmente il comando del movimento nazista» (Jaspers). Il giudizio sulla persona, in entrambi i casi, non può che essere negativo, ma in fondo importa poco. Ciò che conta sono le idee: perché continuare a occuparsi delle teorie di questi cattivi maestri?
Il paradosso di Schmitt, spiega Jean-François Kervégan nel libro Che fare di Carl Schmitt? (traduzione di Francesco Mancuso, Laterza, pp. 238, e 24), è che molte delle sue idee, pur compromesse con il regime nazista, offrono spunti di riflessione per affrontare i nostri problemi da angolature interessanti. Così è per la teoria dei «grandi spazi». Visto che i singoli Stati non sono più in grado di garantire l’ordine (e questa è forse l’osservazione più attuale: la crisi dello Stato nazione), è auspicabile una divisione del mondo in zone d’influenza controllate da grandi potenze.
Alla fine degli anni Trenta questa teoria serviva a giustificare l’espansionismo hitleriano. Ma nel dopoguerra non è stata proprio la divisione in due grandi blocchi la garanzia di un cinquantennio di relativa stabilità?
L’obiettivo, oggi, è ricostruire un nuovo ordine prescindendo da queste divisioni potenzialmente conflittuali, nel nome della pace e di un diritto universale condiviso. Un’idea stupenda, ma per Schmitt impossibile, perché non esiste un diritto puro, autonomo o neutrale. Il diritto trova il suo fondamento in un atto politico, e la politica presuppone sempre il perseguimento del proprio interesse contro quello degli altri: implica dunque una pluralità di agenti e il rischio del conflitto. Per questo la guerra ci sarà sempre e non ha senso stigmatizzarla: è parte della lotta politica. Il problema è piuttosto come contenerla e regolarla, lasciando cadere le distinzioni morali tra buoni e cattivi: non ci sono guerre giuste, ma ci deve essere un «giusto», vale a dire delle regole rispettate, nella guerra.
Così successe nell’età moderna ed è questo ciò a cui bisogna aspirare oggi per evitare di finire in una «guerra civile mondiale» senza limiti, in cui ciascuno si ritiene portatore di verità universali insindacabili. Che queste teorie fossero sfruttate in difesa della potenza nazista, impegnata in quegli stessi anni in una guerra di sterminio a Est, ha dell’incredibile. Ma come negare che queste analisi potrebbero servire a inquadrare i problemi di una globalizzazione sempre più fuori controllo? E magari potrebbero aiutare a definire un ruolo possibile per l’Europa sullo scenario mondiale.
Una delle tendenze più vistose dei nostri tempi è stato il tentativo di neutralizzare la dimensione politica delle relazioni umane, nella convinzione che il progresso economico o scientifico avrebbe offerto soluzioni nuove e definitive. Le proposte di Schmitt non sempre, anzi quasi mai, sono del tutto condivisibili. Ma le sue analisi ci ricordano che il «politico» è parte integrante della condizione umana, e su questo è difficile dargli torto.
Lo spiega bene Kervégan: «L’unificazione tecnica del mondo è un fatto acclarato: ma derivarne la necessità di una unificazione politica, o piuttosto di una unificazione nell’oltrepassamento del politico, del conflitto, del negativo, è una illusione», che rischia di lasciarci senza strumenti per comprendere ed eventualmente intervenire sulla realtà che ci circonda - una realtà che è e rimane plurale. Nei giorni della catastrofe siriana viene da pensare che forse non è ancora arrivato il momento di sbarazzarsi di Schmitt.
di ANTONIO GNOLI *
Il Leviatano è un grandissimo libro di teoria politica. Ancora oggi ci turbano le sue analisi. Ancora oggi stupisce la capacità introspettiva con cui Thomas Hobbes indagava la natura umana, estraendone miserie e nefandezze: la cupidigia e l’ invidia, l’ ostilità e la paura, la menzogna e il tradimento, la violenza e il sopruso. Sentimenti dell’ uomo sorretti dal bisogno innato di prevalere sul proprio simile.
Si tratta di descrizioni note che tornano alla mente in occasione della nuova edizione del Leviatano (edita da Rizzoli) e della pubblicazione di un vecchio saggio di Carl Schmitt: Sul Leviatano (edito da il Mulino). Entrambi i libri presentano un’ introduzione di Carlo Galli che ricostruisce con grande competenza l’ alfa e l’ omega del capolavoro hobbesiano.
Quando nel 1651 Hobbes pubblica il suo libro, l’ Europa - con la pace di Westfalia - ha messo fine al lungo periodo di guerre civili e religiose. Si avverte nel continente la necessità di un rinnovo profondo delle istituzioni, fino ad allora eccessivamente condizionate da una visione feudale e teologica. Hobbes è conscio che soltanto un gesto radicale che azzeri tutto quanto è accaduto in passato, possa far nascere un organismo così potente e persuasivo da regolare la vita dei sudditi.
La macchina politica hobbesiana - che Galli riconduce alla prima costruzione del moderno Stato rappresentativo del diritto - ignora i problemi legati alla legittimazione divina e va dritta alla questione essenziale: come superare il disordine che è insito nella natura umana, creando un ordine che sia stabile, duraturo e condiviso? Il passaggio dallo stato di natura allo Stato propriamente detto (e riconosciuto) si avvale secondo Hobbes di un patto di non belligeranza che gli uomini stringono tra loro, perché fuori da quel patto la vita risulterebbe brutale e insicura.
Tuttavia, un accordo così vasto non può che essere un artificio grazie al quale Hobbes formalizza la nascita dello Stato moderno e del legame sociale. Garantendo la pace e con essa la vita degli individui, lo Stato spoglia i suoi sudditi di tutti gli altri diritti. Non a caso c’ è chi ha visto in Hobbes delinearsi una prima forma di totalitarismo.
Galli ridimensiona questa preoccupazione e semmai scorge nel volto barocco del Leviatano (il nome allude a un mostro marino che Hobbes riprese dalla tradizione biblica) una potenza costantemente minacciata dalle forze della storia. Lo stato hobbesiano è in grado di arginare e ritardare il conflitto, ma non di debellarlo definitivamente. È il dramma nichilistico nel quale versa il pensiero di Hobbes.
Il Leviatano ha avuto numerosi interpreti. Da Rousseau, Kant ed Hegel fino agli stimoli novecenteschi offerti da Benjamin, Strauss, Macpherson, Bobbio e ovviamente Carl Schmitt. Il cui libro, Sul Leviatano, fu pubblicato nel 1938. Giurista autorevole, ma ormai inviso al regime nazista, Schmitt ci consegna pagine esoteriche, attraversate da deliranti pulsioni antisemite, ma anche capaci di illuminare il destino teorico di Hobbes. Già in passato Hobbes era stato al centro dei suoi interessi, ma qui si configura un problema nuovo: è in grado lo Stato leviatanico di affrontare e risolvere quei conflitti per i quali era predisposto?
Schmitt mette in dubbio la solidità di fondo dello Stato moderno insidiato dalla imprevedibilità dei soggetti patologici (ai quali lo stesso partito nazista appartiene). È probabile che una tale convinzione la ricavi dalla consapevolezza di vedere i primi segni della crisi dello jus publicum europaeum. Il crepuscolo della sovranità statale sarà infatti uno dei temi portanti del Nomos della Terra. Con l’ opera del 1950 Schmitt si va sempre più convincendo che lo spazio geopolitico stia mutando radicalmente e che gli stessi soggetti della politica (in primis gli Stati nazione) come Hobbes li aveva teorizzati, stavano tramontando.
Strana coppia Hobbes e Schmitt. Così la definisce efficacemente Galli. Tanto uno è all’ inizio del Moderno quanto l’ altro si colloca alla fine di quell’ esperienza. «Si tratta», osserva Galli, «di due visioni prospettiche della medesima epoca storica».
Scrivendo il Leviatano Hobbes immaginò che il disordine originario, fonte di mortale pericolo, dovesse essere quanto più possibile neutralizzato e sostituito dalle certezze dell’ ordine normativo creato dalla ragione umana. È proprio ciò che alla fine Schmitt mise in discussione: l’ efficacia di contenere il politico dentro una forma giuridica stabile e condivisa. Era convinto che le potenze (piùo meno segrete) della storia difficilmente si sarebbero adeguate alla misura umana. E alla sua ragione.
*Archivio: la Repubblica, 29.10.2011
La guerra all’Is e i dettami di Kant
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 21 novembre 2015)
NON sappiamo quanto lunga sarà la convivenza con il terrorismo. I timori per la vita non sono amici diretti della libertà; eppure sono condizioni essenziali per creare la sicurezza, grazie alla quale soltanto la libertà può crescere. Su questo paradossale legame di paura, sicurezza, libertà - il paradosso del Leviatano - si incastonano le nostre istituzioni e i nostri diritti.
Non si dà diritto e quindi libertà senza una cornice di sicurezza e di sovranità statale le cui funzioni siano costituzionalizzate e il potere limitato e temperato dalla legge. Su questo “abc” si basa l’Occidente, quel grappolo di libertà, civili, politiche, morali che contraddistingue la nostra vita quotidiana. Se la guerra è una condizione tragica (e a volte necessaria) che ci accomuna tutti alla specie umana, la pratica della legge e dei diritti è quella straordinaria costruzione che qualifica la nostra tradizione dall’antichità, permeando tutte le sfere di vita, religiosa e secolare, privata e pubblica. Questo è l’Occidente.
E lo è soprattutto quando la violenza terroristica, cieca e imprevedibile, costringe a pensare in fretta e con determinazione quali misure prendere. Che cosa fare. Il governo francese ha messo in atto immediatamente dopo l’attentato, quasi reagendo all’emozione dell’indeterminato, una strategia di guerra e di polizia. François Hollande ha proposto modifiche d’urgenza alla Costituzione francese, per estendere nel tempo e nelle prerogative lo stato d’emergenza, e per dettare criteri di revoca della cittadinanza francese nel caso di terroristi che ne abbiano due. Le misure di guerra in Siria e quelle di stato d’emergenza interno prefigurano condizioni di eccezionalità che possono destare preoccupazione.
L’esperienza americana dopo l’11 settembre 2001 dovrebbe assisterci nelle nostre valutazioni. A partire da quella tragedia, George W. Bush prese due decisioni che si rivelarono onerosissime per gli Stati Uniti e il mondo, entrambe improntate alla logica della guerra: contro i nemici esterni e contro i nemici interni (cittadini americani e non). Tutte le forme di intervento vennero rubricate e gestite come operazioni di “guerra”. Si ebbe prima l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq (dove l’argomento era distruggere i siti di produzione di armi nucleari e cacciare il dittatore Saddam Hussein) e, nel frattempo, la creazione di un campo di reclusione per prigionieri-nemici totali situato fuori della giurisdizione americana, a Guantánamo, Cuba (poiché la Costituzione, che non venne comunque mai cambiata, avrebbero vietato una detenzione arbitraria dentro i confini statali).
Come riconoscono ormai tutti gli esperti, queste misure si sono rivelate onerose e fallaci da tutti i punti di vista: giuridico, economico, militare e politico. Con l’alleanza della Gran Bretagna di Tony Blair (il quale recentemente ha chiesto scusa per gli errori commessi con l’invasione dell’Iraq) gli Stati Uniti hanno creato oggettivamente le condizioni di instabilità radicale nelle quali fiorisce oggi il terrorismo dell’Is: la demolizione dello Stato di Hussein in Iraq ha consegnato parte di quel territorio vasto e ricco di petrolio a forze militari terroristiche o a loro sodali. Una condizione che si è recentemente ripetuta con la Libia.
Ha spiegato Romano Prodi, in alcune interviste rilasciate in questi giorni, che la strategia da anteporre a quella militare, e da integrare con quella di polizia, dovrebbe essere l’intervento sulle “libertà economiche” di cui godono i terroristi: libertà di vendere petrolio alle compagnie multinazionali occidentali a costi probabilmente competitivi o a mercato nero. L’introito miliardario di quel libero commercio consente ai terroristi di acquistare armi. Intervenire sul mercato delle armi e del petrolio è possibile solo se tutti gli stati si uniscono per limitare una condizione di quasi totale anarchia, a causa della quale le nostre libertà rischiano di morire.
L’Occidente ha dunque l’arma della legge, che è fortissima se usata con l’obiettivo giusto in mente, quello di combattere le forze terroristiche prima di tutto con l’intelligence e le forze dell’ordine, e intanto togliere loro risorse materiali e sostegno sulla scena globale.
Una sinergia di azioni coordinate tra tutti gli stati che si riconoscono nella famiglia dell’Onu può essere vincente, seguendo i dettami della pace perpetua di Kant: primo fra tutto, quello per cui la libertà si difende con armi proprie, che sono il diritto e la legge
L’ordine politico dei grandi spazi
Una nuova edizione di alcuni testi del filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt nel volume Adelphi «Stato, Grande Spazio, Nomos». Saggi che mantengono inalterata una funzione di antidoto all’estremismo dell’universalismo liberale
di Carlo Galli (il manifesto, 15.01.2016)
Stato, Grande Spazio, Nomos (Adelphi, pp. 528, euro 60) raccoglie, selezionati e tradotti da Giovanni Gurisatti, alcuni importanti saggi che Carl Schmitt pubblicò dal 1927 al 1978, precedentemente accolti in due importanti antologie tedesche - una del 1996, l’altra del 2005. Vi compaiono alcuni dei lavori più celebri del giurista: tra gli altri, la prima versione di Il concetto di «politico» (quella in cui il «politico», il rapporto amico/nemico, è interpretato come un ambito specifico, mentre di lì a poco diventerà, ancora più radicalmente, il grado estremo d’intensità del conflitto); la quarta edizione, del 1941, dell’opuscolo su L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale (in cui venne aggiunto, tra l’altro, un capitolo contenente una polemica anti-ebraica contro Kelsen; per questo libro Schmitt corse il rischio di finire imputato a Norimberga come complice della guerra d’aggressione nazista verso l’Urss); il densissimo saggio del 1943 sul Mutamento di struttura del diritto internazionale (1943), che anticipa il grande libro del 1950 su Il Nomos della Terra; il testo del 1952 su L’Unità del mondo, in cui la guerra fredda è interpretata non come scontro duale fra Usa e Urss ma come una tensione interna ad un unico campo teorico e pratico, cioè la Terra dominata dalla tecnica; un’originale interpretazione di Clausewitz come pensatore politico (1967); e infine il canto del cigno di Schmitt, La rivoluzione legale mondiale (1978), un articolo che si conclude con un dittatore che in punto di morte, invitato dal sacerdote a perdonare i nemici, risponde «non ne ho: li ho ammazzati tutti» (ed è, per Schmitt, la metafora dei poteri che utilizzano il loro monopolio del diritto per spazzare via legalmente il nemico politico come criminale e nemico dell’umanità).
Un successo globale
Molti di questi testi sono già noti al lettore italiano, ma spesso in traduzioni parziali e incomplete, oppure molto datate (degli anni del fascismo), oppure ancora collocati in sedi raggiungibili solo dagli specialisti; da oggi, invece, sono disponibili a un pubblico più vasto, per un supplemento d’informazione e di riflessione sul lascito intellettuale, sempre sconcertante, di uno studioso, Carl Schmitt, la cui fama continua a dilagare nel mondo: dall’originaria singolare fortuna italiana degli anni Settanta e Ottanta (tuttora fortissima) alla consistente attenzione francese, spagnola e sudamericana (sempre crescente), alla consacrazione nella sua patria tedesca (che, dapprima incredula e riluttante, lo ha poi legittimato inserendolo dagli anni Novanta nella potente macchina accademica delle dissertazioni dottorali), all’inondazione del mercato filosofico anglo-americano, fino all’elevazione, nella Cina comunista, a filosofo politico di regime (con particolare riguardo alla sua produzione autoritaria di epoca nazista; qualcosa di simile era già successo nella Corea del Sud).
Tutti (a destra e a sinistra) ormai vedono tutto, in Schmitt - con maggiore o minore fondatezza e acribia filologica, s’intende. Autore della decostruzione e della teologia politica, dell’autorità e della ribellione partigiana, della decisione e della costituzione, dello Stato e del suo superamento, dell’ordine e del conflitto, Schmitt esibisce tanto una camaleontica versatilità spinta ben oltre i limiti dell’opportunismo (la sua adesione al nazismo fa scorrere fiumi d’inchiostro, ma non lo condanna alla infamia e alla damnatio memoriae come vorrebbero alcuni critici) quanto una ricchezza e molteplicità di pensiero che lo ha reso ormai un classico della politica, i cui libri sono imprescindibili come quelli, ad esempio, di Max Weber - benché il pensiero di Schmitt sia, ancor più di quello weberiano, coinvolto profondamente nella politica (di lui si diceva che, ascoltandolo, non si capiva se si dovesse invadere la Francia o darsi allo studio approfondito dello jus publicum europaeum). Le aporie della modernità
Una parte di questa fortuna nasce dall’idea che Schmitt abbia la capacità di fornire chiavi interpretative del mondo contemporaneo, sia perché l’emergenza sarebbe il modo normale con cui funziona il sistema politico nel mondo neoliberista, sia perché il suo realismo politico sarebbe assai indicato a decifrare i limiti e le intrinseche contraddizioni dell’ideologia universalistica della globalizzazione anglosassone.
In realtà le cose sono più complesse. Schmitt è stato un formidabile pensatore novecentesco, impigliato esistenzialmente nella decostruzione delle aporie della modernità al tramonto, piuttosto che un autore post-moderno appaesato nel XXI secolo. E ciò proprio per il dato strutturale della onnipervasività dell’odierna economia capitalistica, e quindi del mutato ruolo dello Stato, che moltiplica sì le eccezioni, le forzature extraistituzionali, ma che al contempo rende difficile ipotizzare oggi una significativa vigenza della grande decisione sovrana.
Certo, la critica schmittiana del potenziale discriminatorio implicito nell’universalismo ideologico che sorregge la politica internazionale - che non riconosce nemici politici ma solo «criminali», «pirati», nemici dell’umanità - è convincente e appropriata; ma la sua teoria dei Grandi Spazi, pensata sia come superamento della forma-Stato sia come antidoto all’astrattezza e all’estremismo dell’universalismo, non solo si scontrò a suo tempo con la dottrina nazista dello Spazio vitale (anch’esso illimitato e discriminatorio, e quindi lontano dalla concretezza a cui aspirava Schmitt), ma è resa oggi quanto meno dubbia dal prevalere della potenza di sradicamento del capitalismo rispetto a ogni politica di fissazione dell’ordinamento sul suolo, e di chiusura ordinativa dello spazio. Non a caso Schmitt è, come Heidegger, concentrato sulla critica della tecnica (marina, contrapposta alla terrestrità dello Stato e anche del partigiano) molto più che sulla critica dell’economia.
La potenza dell’etere
La verità è che Schmitt è ancora giurista, e quindi legato a quello Stato di cui pure attua la radicale destrutturazione, ovvero è orientato all’ordine - benché sia al contempo tragicamente consapevole della sua interna contradditorietà e abissale infondatezza. La sua capacità critica e analitica è grande, ma non va al di là dello svelamento e della decostruzione dei meccanismi con cui lo Stato nasce, agisce, crea il sistema mondiale degli Stati, e agonizza; oltre lo Stato - di cui ha lucidamente colto la contingenza storica - Schmitt sa bene che si deve andare, ma non sa come (soprattutto quando, nel dopoguerra, il pensiero dei Grandi Spazi non fu più immediatamente proponibile). La sua teoria del nomos (dell’ordine internazionale orientato) funziona retroattivamente, per spiegare (benché parzialmente) con potenti campiture splendori e miserie dell’età moderna e dello jus publicum europaeum; ma applicata al presente assume un ambiguo significato mitico, o nostalgico di perduti radicamenti.
Com’è giusto, Schmitt, il quale si è spinto fino a presagire la nuova rivoluzione spaziale, quella del web (da lui intravista nel trionfo del nuovo elemento, l’aria - come prevalenza del potere aereo, ma potremmo dire come potenza dell’etere, dello spazio virtuale -, che prende il sopravvento sulla terra e sul mare, protagonisti della modernità), non può pensare per noi. Proprio da chi ha sostenuto che la verità è vera una volta sola, all’interno di determinate configurazioni di potere, viene l’invito a noi, perché pensiamo la verità, l’ordine e il disordine, del nostro tempo. Congedandoci, per quanto possiamo, dal lungo congedo schmittiano dalla modernità. Procedendo con Schmitt oltre Schmitt.
Schmitt, forme dell’Impero nella finis Europae
«Stato, grande spazio, Nomos» da Adelphi. Il disorientamento del grande giurista che aderì al nazismo in un mondo in cui la politica e il diritto si erano ormai congedati dall’ancoraggio alla «terra»
di Sandro Mezzadra (Il manifesto, Alias, 10.01.2016)
Basata su due raccolte pubblicate negli scorsi anni in Germania a cura di Günter Maschke, esce ora da Adelphi un’ampia antologia di testi di Carl Schmitt titolata Stato, grande spazio, nomos (a cura di Giovanni Gurisatti, Adelphi, pp. 527, euro 60,00) che intende documentare sua la produzione «internazionalistica», negli anni che precedono e seguono la pubblicazione del Nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum». La ripresa della prima edizione del celebre saggio dedicato a Il concetto del politico, datata 1927, ha più che altro il senso di rendere evidente la cesura che nella riflessione di Schmitt si determina quando, nella seconda metà degli anni trenta, il suo interesse comincia a rivolgersi in modo prioritario al diritto internazionale - sulla base di una riflessione sul rapporto tra spazio e diritto, «ordinamento» e «localizzazione», che troverà proprio nel Nomos della terra la sua articolazione più sistematica.
Degli scritti di Schmitt raccolti da Gurisatti - che portano in epilogo le premesse di Günter Maschke all’edizione originale - scritti tutti già editi in italiano, benché non facilmente reperibili, i più interessanti sono due ampi studi pubblicati negli anni della seconda guerra mondiale: il «contributo sul concetto di impero nel diritto internazionale» intitolato L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale (del 1941, ma la prima edizione è del ’39) e il saggio Mutamento di struttura del diritto internazionale (del 1943), che consentono di cogliere con precisione l’origine della riflessione di Schmitt sul rapporto tra spazio e diritto nella temperie della guerra, tentando di costruire un quadro d’insieme al cui interno collocare e legittimare le politiche espansioniste tedesche.
L’adesione di Schmitt al nazismo (sia pure in una peculiare interpretazione del suo significato e dei suoi obiettivi) appare qui eclatante, e il lettore vi troverà ampie tracce del suo noto antisemitismo; ma non perciò questi testi sono meno interessanti. La seconda guerra mondiale, in cui «su tutto il pianeta si lotta per l’ordinamento della terra intera», si presenta agli occhi di Schmitt come momento decisivo all’interno di un processo di più lungo periodo, caratterizzato dalla crisi dello Stato come unità essenziale di riferimento e organizzazione della politica. È un punto che appare chiaro proprio assumendo la prospettiva del diritto internazionale: le «grandezze fautrici e artefici della coesistenza tra i popoli», si legge nello studio dedicato al concetto di impero, «non sono più, come nel XVIII e XIX secolo, Stati, bensì Reiche, ‘imperi’». E l’impero è la forma in cui si presenta «il legame tra grande spazio, popolo e idea politica», ovvero il principio fondamentale attorno a cui Schmitt immagina l’articolazione di un nuovo nomos, di un nuovo ordinamento complessivo su scala globale.
Il concetto di «grande spazio», collegato nella propaganda e nelle politiche naziste a quello di «spazio vitale», indica per Schmitt in primo luogo un «coerente ‘spazio operativo’»: è «un ambito della pianificazione, dell’organizzazione e dell’attività umana che nasce da una tendenza generale dell’attuale sviluppo». Oggi lo si definirebbe uno spazio logistico o infrastrutturale, considerata l’importanza che Schmitt assegna - all’origine dell’emergere della «economia dei grandi spazi» - alle questioni relative allo «sfruttamento razionale della varietà degli impianti per la produzione di energia» e alla necessaria «collaborazione pianificata tra vaste reti di elettrodotti e gasdotti». Attorno allo sviluppo di queste e altre infrastrutture prese avvio - a suo giudizio a partire dalla prima guerra mondiale, «in un periodo di impotenza dello Stato» - «un processo organizzativo di importanza generale» che non ha ancora trovato una forma politica e giuridica adeguata. L’impero, nella prospettiva di Schmitt, era precisamente questa forma, che stava sorgendo nel vecchio continente al ritmo travolgente - e per lui, almeno nel ’41, inarrestabile - in cui l’esercito tedesco avanzava nell’Europa centrale e orientale.
La nozione di «spazio operativo» è indubbiamente molto interessante (in particolare laddove si tenga conto dell’enorme rilievo che il tema delle infrastrutture ebbe nell’avvio del processo di integrazione europea dopo la guerra). Ma che cos’è un «impero», per Schmitt? Imperi, per lui, «sono le potenze egemoni, la cui idea politica s’irradia in un grande spazio determinato, e che per questo spazio escludono per principio gli interventi di potenze esterne».
La «dottrina Monroe», proclamata dagli Stati Uniti nel 1823, rappresentò in quegli anni per Schmitt un modello del principio di non intervento, in cui individuava uno dei cardini della possibile nuova articolazione del pianeta in una pluralità di «grandi spazi» imperiali.
Nel saggio del 1943 sul Mutamento di struttura del diritto internazionale, comprensibilmente più cauto rispetto alle sorti future della guerra, un’attenzione particolare è quindi dedicata allo «sconfinamento» degli Stati Uniti, al «passaggio dalla terra al mare» delle pretese egemoniche del «nuovo Occidente». Già costretta a fronteggiare a Oriente l’«universalismo» rivoluzionario della Russia sovietica, la Germania si trovava ora, dopo l’intervento americano, a fare i conti con una politica espansionista di tipo nuovo, il cui carattere «marittimo» e la cui tendenza globale non erano riconducibili al progetto schmittiano dei «grandi spazi», saldamente ancorato al primato della «terra».
Questo primato della «terra», la «casa» della politica e del diritto opposta alla «nave» che solca i «mari» della tecnica, sarebbe rimasto costante negli scritti di Schmitt all’indomani della seconda guerra mondiale, di cui il lettore può trovare un’ampia selezione in Stato, grande spazio, nomos. Di nuovo, non mancano testi di indubbio interesse, come ad esempio il Dialogo sul partigiano (del 1970) con il maoista Joachim Schickel o il lungo saggio dedicato a Clausewitz come pensatore politico (del 1967). Ma in particolare, leggendo gli interventi più direttamente legati ai temi del Nomos della terra è difficile sottrarsi all’impressione che Schmitt, come scrive Gurisatti nella sua introduzione, smarrisca qui «la leggendaria vocazione per le ‘formulazioni nette’, limitandosi ad accenni, allusioni, esigenze, auspici».
I toni di Schmitt si fanno malinconici, la sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale si sovrappone alla finis Europae in uno scenario complessivamente contraddistinto dalla cifra del «tramonto». La radicata ostilità di Schmitt all’«universalismo» anglo-americano può certo regalare qualche battuta corrosiva sull’«umanitarismo» come copertura della politica di potenza, così come le sue analisi del «nichilismo della tecnica» potranno apparire di tanto in tanto preveggenti. Ma è evidente che il grande giurista (e il grande contro-rivoluzionario, per usare una definizione che non gli sarebbe dispiaciuta) faticava ormai a orientarsi in un mondo in cui la politica e il diritto avevano preso congedo dall’ancoraggio alla «terra».
Schmitt rimane, secondo la tesi più volte avanzata da Carlo Galli, uno straordinario interprete dell’epoca dello jus publicum europaeum e della crisi della forma politica attorno a cui quell’epoca si è organizzata, ovvero dello Stato moderno. I nuovi assemblaggi di «territorio, autorità e diritti» (per citare il titolo di un libro di Saskia Sassen), che cominciarono a emergere proprio con la fine della seconda guerra mondiale per dispiegarsi compiutamente nel tempo della globalizzazione e delle «reti», gli rimasero tuttavia sempre estranei e oscuri.
La ricerca di un «nuovo nomos», di un nuovo pluralismo dei grandi spazi nell’età del bipolarismo può ancora una volta risultare anticipatrice di questioni che si presentano oggi, nella crisi dell’unilateralismo statunitense. Ma Schmitt non è soltanto parco di indicazioni sulla concreta organizzazione giuridica e politica di questi spazi: non si liberò mai della convinzione che ogni grande spazio dovesse organizzarsi attorno a una «terra» intesa come principio di una sostanziale omogeneità culturale ed «etnica» - trasfigurazione, in fondo, di quell’«idea politica» che negli anni della guerra vedeva incarnata nelle politiche espansioniste del terzo Reich.
Vecchie e nuove destre (e magari anche qualche teorico «rosso-bruno») possono a buon diritto trovare fonte di ispirazione in questo Schmitt; di certo non può trovarne, invece, chi tenta di ripensare la stessa articolazione degli spazi politici e giuridici (di quello europeo in primo luogo) a fronte delle inedite condizioni di mobilità in cui si gioca nel nostro presente la reinvenzione del nesso tra libertà e uguaglianza.
Carl Schmitt (1888-1985)
Il giurista dell’eccezione
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.01.2016)
Quattro nuovi libri di Carl Schmitt in sei mesi: i numeri parlano da soli. Di fronte a questa messe di pubblicazioni il primo pensiero è che non si tratti soltanto del doveroso recupero di un geniale pensatore troppo a lungo emarginato per la sua compromissione con il nazionalsocialismo. Deve esserci qualcos’altro. E alcuni dei curatori dei volumi in questione lo rivendicano esplicitamente: Carl Schmitt non sarebbe mai stato così attuale come oggi.
Se l’insistenza sulle capacità profetiche del giurista tedesco suona a volte un poco stucchevole, è innegabile che alcuni dei concetti coniati o abbozzati da Schmitt appaiono cruciali per spiegare l’ordine, o meglio il disordine, internazionale affermatosi con la caduta dell’Unione Sovietica e manifestatosi per la prima volta esplicitamente con l’attentato alle Torri Gemelle.
Sin dagli anni Quaranta Schmitt aveva denunciato infatti il pericolo di un mondo globalizzato e dominato dalla tecnica, uniformato dal primato del Capitale sulla politica all’ombra di una sola grande potenza, segnato dalla sostituzione delle vecchie guerre tra Stati con operazioni di polizia internazionale indirizzate contro i tentativi di resistenza alla omologazione ma allo stesso tempo esposto agli attacchi “dall’interno” di un partigiano-terrorista quale inevitabile correlativo dialettico della scomparsa delle vecchie distinzioni culturali e politiche. Questo sarebbe il segno della definitiva vittoria del mare (principio di mobilità incarnato da Inghilterra e Stati Uniti) sulla vecchia tradizione giuridica continentale.
Non è strano che queste categorie esercitino oggi tanto fascino. L’opera di Schmitt richiede tuttavia che il lettore impari a pensare, allo stesso tempo, con lui e contro di lui. Ciò è particolarmente chiaro quando si esce dalla lettura di Stato, grande spazio, nomos (Adelphi). Il quadro generale rimane quello degli scritti più noti: l’alternativa mostruosa tra il potere post-politico della tecnica globale e il terrorista “costretto” alle violenze più inaudite dalla natura asimmetrica del conflitto e dalla fine di ogni mutuo riconoscimento tra belligeranti.
Eppure il volume curato da Giovanni Gurisatti, presentando alcuni testi meno noti composti durante la guerra, ci aiuta a vedere quello che dai libri maggiori non appare altrettanto chiaro: agli occhi di Schmitt una via d’uscita ci sarebbe, anche se dopo il 1945 evita di menzionarla in maniera esplicita. E questa via d’uscita è la riorganizzazione multipolare del mondo in un sistema di imperi con le loro rispettive aree di influenza - imperi capaci di riprodurre su scala planetaria l’ordine conflittuale con cui, in età moderna, gli Stati europei erano riusciti a mettere la guerra «in forma» e a contenere gli scontri.
Curiosamente, nello stesso momento in cui Heidegger viene chiamato a rispondere di un odioso antisemitismo, il fatto che Schmitt abbia elaborato la propria teoria dei «grandi spazi» per sostenere in punta di diritto le ambizioni espansioniste di Hitler non sembra preoccupare troppo i lettori di oggi (sebbene Schmitt si spinga a sostenere una precisa relazione tra «ordine marino» ed ebraismo).
Di fronte a quelli che non sono banali incidenti di percorso, non si tratta, naturalmente, di bandire un’altra volta i suoi scritti, ma sarebbe almeno giusto che gli schmittiani di destra e di sinistra prendessero consapevolezza che insistere tanto sulle sue presunte capacità profetiche implica di necessità anche un giudizio favorevole sulla tesi centrale degli anni di guerra: vale a dire sulla idea che, se la Germania non avesse vinto, il mondo sarebbe caduto nel baratro della coppia globalizzazione-terrore.
Per pensare con e contro Carl Schmitt allo stesso tempo è necessario però ricostruire genealogicamente le sue tesi. Decisiva risulta soprattutto la loro radice hegeliana e in particolare l’interpretazione della storia umana come perenne conflitto. Qui disponiamo di un’importante testimonianza: negli anni Cinquanta Schmitt intrattenne una densa corrispondenza a proposito della guerra nel pensiero di Hegel con il più originale hegeliano del tempo, il russo (francesizzato) Alexandre Kojève. Ma al di là delle loro lettere, è impressionante come Schmitt e Kojève - da hegeliani - fossero ossessionati dallo stesso problema della fine della Storia. Per Kojève essa significherà la scomparsa dell’uomo come “agente forte” e la sua trasformazione in consumatore o in snob: come minimo un Paradiso un po’ dubbio. Per Schmitt invece la fine della dialettica militare tra Stati è destinata a tramutarsi semplicemente in un incubo: non la scomparsa dei conflitti, ma la loro generalizzazione terroristica.
L’inarrestabile successo di Schmitt ha ovviamente a che fare con la nostra paura. La «grande narrazione» liberale del post-1989, La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama, aveva declinato la stessa trama di Kojève in termini più ottimistici e conciliati, perché l’approdo della lunga catena di tesi, antitesi e sintesi non sarebbe altro che il trionfo planetario della democrazia. Ma, come ha ben messo in luce Peter Sloterdjik (un altro hegeliano, ammiratore di Fukuyama), il mondo della post-Storia è una serra a forma di Sfera, e tutte le serre sono - come è noto - particolarmente vulnerabili. Schmitt oggi ci sembra così attuale proprio perché nella sua critica della globalizzazione americana ribalta l’ingenuo entusiasmo degli anni Novanta e mostra i lati oscuri della fine della guerra fredda.
L’alternativa al mondo americano sarebbe dunque il rifiuto della globalizzazione e la chiusura in nuovi confini? L’Europa, dopo tutto, ha le dimensioni giuste per costituirsi in «grande spazio», secondo le ambizioni dello Schmitt degli anni di guerra... Ed ecco allora che il consenso istintivo che le tesi del giurista di Hitler ricevono oggi tanto a destra quanto a sinistra ci dice qualcosa di decisivo di un tempo in cui le tentazioni identitarie di ieri ricevono crescenti legittimazioni, al punto che diventa sempre più difficile distinguere le battaglie dei socialisti per «l’eccezione culturale francese» dagli slogan (pseudo)repubblicani di Marine Le Pen.
Per Schmitt, rappresentare lo scontro finale prima dell’Apocalisse come la lotta tra la diversità delle tradizioni e un’anonima forza sovvertitrice dell’ordine terreno non era naturalmente un’opzione neutra, ma serviva a difendere le ragioni di un preciso ordine mondiale alternativo a quello americano: quello del Terzo Reich. Troppo facilmente i suoi esegeti di oggi tendono a dimenticarlo, quando invece occorrerebbe far saltare l’antitesi tra difesa identitaria e globalizzazione spoliticizzante. I contemporanei di Schmitt invece lo sapevano bene, e saggiamente rifiutavano di giocare la partita all’interno delle sue categorie. Ma in questo - occorre dirlo - erano enormemente favoriti dalla esistenza di un movimento socialista che rivendicava una propria ipoteca sul futuro, in alternativa tanto ai miti nazionalisti della terra e del sangue quanto all’«American way of life». Perché, in fondo, la sorprendente remissività di oggi verso le analisi di Schmitt (o, sul versante opposto, di Fukuyama e Sloterdjik) è anche il risultato dell’enorme vuoto politico che si è aperto ormai più di venti anni or sono.
Roberta De Monticelli si scaglia contro lo scetticismo morale che pervade i costumi degli italiani e che non risparmia i filosofi
Platone è meglio dell’«Italian Theory»
di Mario Ricciardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 8.11.2015)
Per chi ha conosciuto Roberta De Monticelli leggendo i suoi scritti teoretici, e in particolare L’ascesi filosofica (Feltrinelli, 1995), i lavori più recenti di questa filosofa sono stati, se non una rivelazione, una sorpresa. Da qualche anno, infatti, De Monticelli ha intrapreso un percorso di riflessione che l’ha portata a confrontarsi con una questione centrale del dibattito pubblico: il rapporto tra moralità e politica. L’ha fatto scegliendo una forma letteraria che ha precedenti illustri nella nostra tradizione: il sermone civile, un discorso che aspira a essere al contempo argomentazione ed esercizio pedagogico. A questa evoluzione ha fatto seguito un parziale mutamento delle letture di riferimento e dello stile, di qui la sorpresa di cui dicevo.
Senza abbandonare del tutto i suoi autori, da Husserl a Jeanne Hersch, De Monticelli si è aperta nei suoi scritti recenti a orizzonti intellettuali diversi - come quello della teoria della giustizia e dell’etica pubblica post-rawlsiana - entrando in dialogo anche con interlocutori che non appartengono al mondo della filosofia: giuristi, studiosi di scienze sociali, intellettuali pubblici. La novità si avverte nella scrittura: che diventa tesa, procede a scatti, più vicina ai ritmi del parlato che a quelli del saggio accademico.
Si ha quasi l’impressione che, presa dall’urgenza di fare i conti con i temi della vita pubblica, Roberta De Monticelli abbia ingaggiato un corpo a corpo con un avversario temibile, cui non riesce ancora a dare un nome. L’ultima testimonianza di questo scontro è Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori. Un libro che segna probabilmente un cambio di passo rispetto ai precedenti, perché abbandona la forma del sermone civile e ritorna a modalità argomentative più prossime a quelle tipiche della filosofia.
La spiegazione di questo cambiamento si trova verosimilmente nel fatto che l’autrice abbia avvertito il bisogno di fare un bilancio delle sue esplorazioni «nello stato presente dei costumi degli italiani» (per riprendere il titolo di uno scritto di Leopardi di cui si avverte spesso l’eco nei lavori recenti della De Monticelli).
In effetti, nelle pagine di Al di qua del bene e del male ci viene offerta una diagnosi di ciò che è andato storto nei nostri costumi, ovvero nel modo in cui agiamo, parliamo e pensiamo, e una proposta relativa alla cura di cui avremmo bisogno per tornare in salute. La ricostruzione dei sintomi da cui saremmo affetti è una delle parti più appassionanti e persuasive del libro: la cecità rispetto alla dimensione normativa del mondo sociale, ridotto a fatto bruto, l’indifferenza alle diverse dimensioni del valore, il rattrappirsi della sensibilità morale, l’apatia civile.
Più complessa è la parte terapeutica, che consiste essenzialmente in una serie di argomenti per confutare lo scetticismo morale. Qui la De Monticelli si impegna in una battaglia su diversi fronti: contro lo storicismo, contro il nichilismo, contro una certa lettura del pluralismo dei valori, e contro il relativismo.
Devo dire che la parte sul pluralismo è quella che mi ha convinto meno. L’interlocutore principale con cui si confronta l’autrice, Isaiah Berlin, non è mai arrivato a una formulazione soddisfacente delle proprie tesi sul pluralismo.
D’altro canto mi pare che la De Monticelli trascuri le tensioni concettuali della tesi dell’unità del valore di Ronald Dworkin, che viene presentato nel libro come il più illustre rappresentante di una tendenza antipluralista nel dibattito contemporaneo. Per menzionare l’esempio della libertà, ci sono buone ragioni per resistere alla normativizzazione di questo concetto. Distinguere la libertà dalla licenza è un’abile mossa che Dworkin si concede per eludere le obiezioni dei critici, ma il rispetto che dobbiamo alla verità ci impedisce di accettarla.
L’aspetto centrale di questo libro è costituito comunque dalla critica serrata alle tendenze intellettuali che, secondo la De Monticelli, avrebbero abdicato alla missione del Socrate dei dialoghi di Platone per abbracciare invece uno scetticismo morale che crea l’ambiente adatto per la corruzione dei costumi. Le pagine sul «pensiero della disperanza che si lamenta invano» sono vigorose e non prive di una certa perfidia.
L’autrice non si lascia incantare dai fumi dell’Italian Theory, l’eredità che l’operaismo degli anni settanta ha lasciato al mondo. Giustamente la De Monticelli respinge l’idea che si possa criticare il capitalismo finanziario o la globalizzazione senza tener conto degli sviluppi che l’economia politica ha avuto dalla seconda metà dell’Ottocento in poi.
Incapaci di fare i conti con gli argomenti libertari che, a partire dagli anni ottanta, hanno preso il sopravvento sul “consenso socialdemocratico”, gli Italian Theorists parlano d’altro. Chiudendosi nella riserva di dipartimenti in cui è improbabile imbattersi in una Roberta De Monticelli che rivolga loro domande imbarazzanti come quelle poste in questo libro sull’appropriazione di Heidegger e Schmitt da sinistra.
Anche sui due tristi figuri recuperati dall’Italian Theory ci sono pagine sferzanti. Del primo ci offre un breve ritratto intellettuale che chiude la questione del rapporto tra la sua filosofia e l’adesione al nazismo: sì, la sua filosofia era nazista. Altrettanto spietata è con lo scritto sulla “tirannia dei valori” di Schmitt.
L’autrice fa a pezzi “questo mediocre saggio” - che ha tanti estimatori nel nostro paese - lasciando il lettore liberale in uno stato di esultante simpatia, un po’ come il ragionier Filini quando Fantozzi urla cosa pensa della Corazzata Potëmkin.
In questa dimensione critica, in cui si nota più forte la continuità con i sermoni civili pubblicati negli ultimi anni, c’è un richiamo vigoroso che l’autrice rivolge ai propri colleghi: agli educatori, ai filosofi, agli intellettuali. Non abdicare alla missione di Socrate, la ricerca della verità, anche se questo comporta andare contro la corrente.
Antigone aveva torto
Soltanto il dialogo consente la convivenza
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera - La Lettura, 01.11.2015)
Uno spettro si aggira per l’Europa ma non è quello del comunismo: è quello di Antigone, l’eroina del mito, la compagna di chi oppone la propria coscienza all’oppressione del potere, la resistente. È un mito che ha attraversato indenne i secoli e che è esploso nel Novecento, nell’ora dei totalitarismi. Come ad esempio nella pièce di Bertolt Brecht, che ambientò la tragedia in una Berlino cupa, piena di SS, con i disertori impiccati per le strade, e Creonte intabarrato in un cappotto militare.
Le due guerre erano state esperienze troppo dure: anche in un racconto di Marguerite Yourcenar le strade di Tebe tremavano al passaggio dei carri armati. Le forme di oppressione del resto sono molteplici: per il pensiero femminista Antigone è la rivendicazione dell’alterità femminile, irriducibile alle logiche del potere maschile. Altri avrebbero potuto celebrarla come la giovane che non accetta di sottostare all’eterno dominio delle vecchie generazioni.
La tragedia di Sofocle, il punto di riferimento per tutte queste riprese, racconta però una storia meno edificante, se si ha la pazienza di leggerla.
C’è stata una guerra. Eteocle ha salvato la città sacrificando la vita in un combattimento mortale con il fratello Polinice, il traditore della patria. La decisione del nuovo sovrano, Creonte, è prevedibile: il primo sarà seppellito con tutti gli onori, la memoria del secondo sarà esecrata con la proibizione che sia seppellito nei confini della città. Tutti quelli che depongono corone di fiori il 25 aprile capiscono perché; e con loro il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, quando decise che il cadavere di Osama Bin Laden fosse gettato in mezzo al mare per evitare che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggio. I morti contano.
Ma Antigone rifiuta e seppellisce il fratello. Perché? Dubbi non ce ne sono. Per Antigone la legge di Creonte non vale nulla: «Questo editto non Zeus proclamò per me né Giustizia». Il mondo degli uomini, con i suoi valori e le sue regole, non conta; solo il mondo degli dei conta; le leggi umane non sono niente rispetto alle «leggi non scritte, incrollabili, eterne, divine».
Mai una volta, in tutta la tragedia, Antigone fa menzione della guerra che ha rischiato di distruggere Tebe, la sua città: non è cosa che possa interessarla. Antigone è «autonoma», alla lettera: si dà le leggi e i valori (in greco nomos ) da sola (in greco autos ). Nulla può resistere all’urto delle sue convinzioni: l’universo religioso e il mondo della città sono separati nettamente.
L’ombra del gesto di Antigone si allunga fino a noi. Sarà forse eccessivo evocare i fanatismi religiosi che insanguinano tanta parte del mondo. Ma è difficile non pensare a tutte le Kim Davis (l’impiegata americana finita in carcere per aver rifiutato la licenza matrimoniale a una coppia di omosessuali) che oppongono la loro fede religiosa alle leggi dello Stato. O alle posizioni di chi, sull’onda di vicende come quella del pensionato che ha ucciso un ladro a Vaprio d’Adda, invoca un diritto assoluto all’autodifesa che sconfina nel farsi giustizia da soli. Anche questo è Antigone, e non è molto rassicurante, per chi pensava che simili conflitti fossero ormai un ricordo del passato.Forse converrebbe togliere a Creonte il cappotto militare e considerare con più attenzione le sue ragioni.
L’obiettivo di Creonte, in fondo, era quello di costruire un mondo in cui gli uomini potessero convivere. Lo sapeva bene il grande filosofo del diritto austriaco Hans Kelsen, di cui l’editore Quodlibet ha appena ripubblicato la lezione di congedo dall’insegnamento, tenuta a Berkeley nel 1952, Che cos’è la giustizia?. Una domanda vitale per uno che a Berkeley era arrivato esule, in fuga dal terrore nazista. La giustizia è il risultato di scelte condivise, che stanno alla base della società umana, non un’imposizione calata dall’alto.
Era una proposta che ben si confaceva al nuovo mondo democratico che stava sorgendo dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Gli uomini, scriveva Kelsen, sono sempre stati dominati dal bisogno di credere in verità assolute. Ora, finalmente, stavano imparando a liberarsi da questa ossessione, impossibile da realizzare. Sarebbe bello dividere tra buoni e cattivi, tra bianchi e neri; nel mondo degli uomini, però, tutto è più complicato: la giustizia assoluta è «una delle eterne illusioni dell’umanità» e nessuno può pretendere di possederla. Occorre imparare la tolleranza per costruire uno spazio comune.
Anche Creonte ha le sue ragioni. La tragedia di Sofocle, però, andava ancora oltre, sollevava domande ancora più inquietanti. Le idee di Kelsen costituiscono un valido antidoto contro i fanatismi che troppo spesso avvelenano la vita in comune degli uomini. Ma riescono a salvare questo nuovo mondo umano da se stesso, dalla spirale di violenza che sempre può innescarsi?
Sofocle racconta non una, ma due storie, entrambe tragiche nella loro solitudine: e su entrambe bisogna riflettere. C’è Antigone, certo, che morirà per il suo gesto di ribellione, e ancora più per il suo ostinato rifiuto del mondo umano: Antigone non si oppone soltanto a Creonte; disprezza la sorella, non parla quasi al fidanzato che per lei si ucciderà.
Ma non c’è solo Antigone. Non meno importante è la parabola di Creonte, che da buon politico si trasformerà in tiranno, un despota che per salvare la sua città finirà per distruggerla. Messo di fronte alla sfida di Antigone, per paura che la disobbedienza di una sola persona possa riaprire le porte al caos, Creonte s’irrigidisce nella difesa dei valori della città, diventa intollerante, rifiuta il confronto, si rifugia nella violenza e finisce per fare il deserto intorno a sé. È una storia più sfuggente ma anche più interessante per noi. Perché questa degenerazione dalla politica alla forza? Era inevitabile?
Proprio negli anni in cui Kelsen teneva le sue ultime lezioni a Berkeley, in Germania si riaffacciava sulla scena il giurista e politologo Carl Schmitt, dopo un periodo di forzato silenzio dovuto alla sua compromissione con il regime nazista. Apparentemente era poca cosa, la partecipazione a un seminario ristretto e la pubblicazione di un piccolo saggio, La tirannia dei valori. In realtà era una lucidissima diagnosi di quello che stava succedendo; ed era anche una risposta al problema di Creonte.
Il mondo moderno si era progressivamente emancipato dal peso di princìpi assoluti, Dio o il Bene, che venivano imposti in modo autoritario. Benissimo. Il nuovo mondo, il nostro mondo, era quello dei valori, che gli uomini liberi si danno consapevolmente e responsabilmente. Benissimo. I valori, però, sono molteplici, relativi, spesso incompatibili. I valori confliggono. Ma qual è, allora, la validità di un valore rispetto all’altro? I valori valgono, osservava Schmitt giocando sull’etimologia della parola, finché valgono: un valore «non è nulla se non s’impone; la validità deve continuamente essere attualizzata, cioè essere fatta valere. Chi dice valore vuol far valere e imporre». «Non appena l’imporre e il far valere diventano una cosa seria, la tolleranza e la neutralità si ribaltano nel loro opposto, cioè in ostilità».
In assenza di fondamenti, il rischio è che l’unica legittimità di un valore consista nella forza di chi lo propone; e il pericolo è che per farli valere si ricorra alla violenza, ricadendo nel fanatismo, in opposizioni non negoziabili: la tirannia dei valori, appunto, come quella descritta nella parabola di Creonte, il politico diventato tiranno per difendere i valori della comunità dalla sfida di Antigone. Oggi, questa tirannia si traduce nel conformismo, nell’erigere se stessi a misura di tutte le cose per paura del confronto con gli altri. Di fronte alle grandi sfide che si stanno profilando all’orizzonte, è una situazione ancora più complicata di quella che Creonte ha cercato vanamente di controllare.
Si ritiene che la modernità sia nata quando la religione è stata spazzata via e Creonte ha preso il posto di Antigone, confinando le sue esigenze morali e religiose nello spazio del privato. Ma è una ricostruzione superficiale, che non rende conto della realtà in cui viviamo.
Piuttosto si dovrebbe riconoscere che tanto Creonte quanto Antigone hanno ugualmente ragione e ugualmente torto: esprimono punti di vista legittimi, che possono degenerare in fondamentalismi ugualmente nocivi. I danni delle varie Antigoni non serve quasi ricordarli; la scoperta dei tempi più recenti è che neppure Creonte è in grado di trovare una soluzione ai nostri problemi. Gli opposti estremismi non portano da nessuna parte. Niente di nuovo sotto il sole: erano gli stessi problemi di cui si discuteva duemilacinquecento anni fa.
Oggi, ampliando il discorso, si parla del conflitto tra Atene (Creonte) e Gerusalemme (Antigone), tra la ragione e la rivelazione. Sono due ordini di senso diversi e inconciliabili, che si combattono sempre senza mai prevalere. La ragione non può escludere la rivelazione (l’esistenza di Dio non può essere provata, ma neppure confutata), ma la rivelazione non può dimostrare se stessa (l’esistenza di Dio non può essere confutata, ma neppure provata). Una tensione ineliminabile rimane.
A pensarci bene, però, questa tensione non è poi un male, perché ci costringe alla discussione, impedendoci di cadere in una visione unilaterale, e dunque dottrinaria, della realtà. Dialogare, confrontarsi: quello che Antigone e Creonte non sono stati capaci di fare. Del resto, non è proprio questa tensione che fa la specificità della nostra civiltà europea ed occidentale?
Fino ad oggi, con alti e bassi, siamo stati capaci di conservare un equilibrio tra queste spinte divergenti. Non era facile. E domani? Questa è la domanda di Sofocle, a cui dobbiamo dare una risposta pratica.
Il kolossal dell’addio che ricorda la «Dolce vita»
di Alberto Crespi (l’Unità, 1 marzo 2013)
Il Papa ha trasformato il suo addio in un kolossal, forse perché nessuno pensi che potrebbe invece trattarsi di un thriller. Le immagini dell’elicottero che ha sorvolato Roma prima di dirigersi verso Castel Gandolfo hanno stuzzicato la memoria di qualunque cinefilo: siamo usciti da Habemus Papam, il film che sta andando in scena in Vaticano da svariati giorni, e siamo entrati in altri due film, uno sublime e l’altro orrendo. Il pensiero è volato ad Angeli e demoni, uno dei film più brutti di tutti i tempi ispirato a un romanzo demente (sì, demente: dire demenziale sarebbe fargli un complimento) di Dan Brown.
Nel finale di quel thriller religioso, un elicottero si alza in volo sopra il Vaticano per poi esplodere in una deflagrazione atomica: Tom Hanks cade nel Tevere dall’altezza di qualche chilometro e si limita a rialzarsi spolverandosi la giacca, manco fosse Wyle E. Coyote.
Sublime, invece, è il ricordo di La dolce vita, un film che all’epoca passò al vaglio delle alte sfere vaticane ottenendo finalmente il placet del cardinale Siri e, indirettamente, di Giovanni XXIII.
Lo sconvolgente affresco creato dalla fantasia di Federico Fellini si apriva con un elicottero che sorvolava gli acquedotti dell’Appia portando appesa ad un cavo l’enorme statua di un Cristo benedicente. Dai pratoni della Caffarella - proveniente, si potrebbe dire, dai Castelli e quindi da Castel Gandolfo... - l’elicottero sorvola il quartiere Don Bosco e arriva sopra San Pietro.
È una sorta di epifania sacra, subito «laicizzata» dalle ragazze in bikini che, da un terrazzo, salutano il Cristo e chiedono dove lo stiano portando. «Dal Papa», è la risposta di Mastroianni, cronista d’assalto che assieme al complice fotografo Paparazzo sta «coprendo» l’evento viaggiando su un altro elicottero al seguito. Fellini aveva già capito tutto. Ci vorrebbe davvero il suo occhio, così visionario e perspicace, per capire qualcosa dei giorni turbolenti che l’Italia sta vivendo.
Un Papa che si dimette mentre un ex Gesù condiziona la vita politica del Paese è una fantasia grottesca che anche Fellini avrebbe faticato ad immaginare; ma forse solo lui riuscirebbe a raccontarla, in un altro affresco che potrebbe non avere più nulla di dolce.
Vi state chiedendo chi sia l’ex Gesù di cui sopra? Era proprio Beppe Grillo in uno dei due film importanti che ha interpretato come attore: Cercasi Gesù di Luigi Comencini, dove alla fine faceva addirittura un miracolo (l’altro era Scemo di guerra di Dino Risi, e non faremo facili battute). Anche Cercasi Gesù sta andando ininterrottamente in scena in questi giorni, con i cronisti che inseguono vanamente Grillo e Bersani che prima lo chiama in causa come un «normale» avversario politico, e poi si accinge ad attenderlo invano in Parlamento dove magari non si farà nemmeno vedere. Farà i miracoli in contumacia.
Visto che ieri Grillo ha messo sul suo blog il manifesto di 47 morto che parla con la faccia di Bersani al posto di quella di Totò, qualcuno potrebbe «postargli» a tradimento qualche scena di quei due film: nonostante fosse diretto da due grandissimi registi, come attore il guru non era davvero granché.
Il Papa ha tutta un’altra classe. Per essere eletti a quel soglio, bisogna essere attori consumati. L’arte della messinscena con la quale Benedetto XVI ha gestito il proprio addio è degna di Cecil B. De Mille o di Steven Spielberg. Il fatto che l’elicottero, prima di puntare sui Castelli, abbia sorvolato tutta Roma è stato un «coup de theatre» fantastico e, al tempo stesso, un gesto toccante. È come se il Papa avesse voluto riempirsi per un’ultima volta gli occhi con tutta quella bellezza che stava lasciando.
Naturalmente Roma - come ogni città - ha anche angoli molto brutti, ma da un elicottero si percepisce solo la sua conformazione scenografica, i colli e i monumenti, i tentacoli di case che si allungano fra i giardini e i pratoni che arrivano quasi fino in centro. Anche chi non è credente, e considera il Papa solo un uomo di potere, non può cancellare un brivido di fronte a questo gran finale.
Fra poco inizierà un altro grande film, il primo conclave moderno con l’ex pontefice ancora vivo ad assistere, sia pure a distanza. Cercasi Papa. O Cercasi Papa 2, visto che uno ci sarebbe già..
LEGGE E CARISMA, SECONDO BARBARA SPINELLI: "l comando non è solo imperio della legge, rule of law. C’è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n’è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un’emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell’imperio della legge e del carisma". (cit. dall’art., qui sotto riportato)
di BARBARA SPINELLI *
CI VIENE spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi ferree leggi, la sapienza del comando. Quest’arte ruvida, che in democrazia è sempre guardata con un po’ di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima. C’è diffidenza perché l’immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando. Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità, che del comando è la logica conseguenza, in qualche modo l’ornamento. Ma la responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il comandoha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite, quando tutto, salvezza o disastro, dipende da chi è al comando, sempre che qualcuno ci sia. L’esempio lo conosciamo ormai: ce l’ha dato Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare frasi sull’inaudita trasgressione appena commessa: l’abbandono del posto di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.
Difficile dimenticare il tono di quell’ingiunzione a rispettare le regole: incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s’era udita a Capodanno, inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattore e al tempo stesso ne profitta - le parole sono di Mario Monti - "mettendo le mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse". È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca. Manca d’altronde non solo da noi ma anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce perché è assente, ai vertici dell’Unione, l’occhio in più che dia l’ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in salvataggio di tutti.
Ma in Italia la questione è incandescente, perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l’urlo di chi s’indigna e l’urlo di chi dall’alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la potenza accumulata dalla cultura dell’urlo. L’intimazione stentorea di autorità emblematiche come il comandante di Livorno o le Guardie di finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto in de Falco un eroe ma non è un eroe. Il suo modo d’essere dovrebbe essere la normalità: è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a amici complici in irresponsabilità, e impunemente s’avvolgono nella propria incuria come in un manto.
Chi ha letto Joseph Conrad sa le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il protagonista di Tifone: "Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva, per quanto concerne l’aspetto esteriore, una fisionomia che rispecchiava fedelmente l’animo suo: non presentava alcuna distinta caratteristica di fermezza o di stupidità; non aveva caratteristiche pronunciate d’alcun tipo; era soltanto comune, insensibile e imperturbabile".
Il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C’è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n’è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un’emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell’imperio della legge e del carisma.
Torniamo ancora a Conrad, quando narra la nostra Linea d’ombra: d’un colpo scorgiamo innanzi a noi "una linea d’ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch’essa, la dobbiamo lasciare addietro". Il protagonista del racconto affronta a quel punto la massima prova esistenziale: l’esercizio del comando. Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il prezzo - in dolore, rimpianto, vita d’angoscia - del peccato originale commesso quando abbandonò la nave. La linea d’ombra, in Italia, è come se non la scorgessimo mai. C’è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l’autorità, la legge, lo Stato.
Stentiamo a capire una cosa, dell’ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è quello che ci protegge dall’esplosione dell’urlo scomposto, dal caos propizio allo Stato d’eccezione. Fu con l’urlo che Hitler s’affacciò al mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal ’31 quel che nel futuro dittatore più spaventava: "Non l’uomo in sé, che non esiste. Ma il rumore, che egli scatena". Stentiamo a capire soprattutto in Italia, perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide - era il ’79, dilagava il terrorismo - nell’apologo Prova d’Orchestra. Il tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come degenera in urlo, e perché degenera.
L’Italia benpensante accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell’autore buie propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio, perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non ebbe. "Tutto è prova d’orchestra", disse il regista. E sulla pellicola capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista, clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.
Qualcosa di simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di ammansire l’ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell’Italia smarrita e infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l’autorevolezza che accresce l’autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti, e a chieder conto. Non dimentichiamo la fine del film di Fellini: il direttore d’orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla scomposte, mescolando vocaboli italiani e parole d’ordine naziste. "Estrema pazienza e estrema cura", questo il comando secondo Conrad: oltrepassata la linea d’ombra, sempre possiamo mancare la prova, sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco perché la via di Monti è così stretta.
* la Repubblica, 25 gennaio 2012
iconografia
Una bellezza di nome Grazia
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 30.01.2010)
Norma? E chi è, una ragazza che abita a Brooklyn? La battuta circolava ai tempi della pop art e stava a indicare il deliberato superamento di ogni consuetudine. Il gioco di parole torna in mente, leggermente variato, al termine del saggio che Raffaele Milani, docente di Estetica all’Università di Bologna, ha dedicato a I volti della grazia. Concetto del tutto centrale per quasi tre millenni dell’esperienza artistica e letteraria dell’Occidente, ma oggi apparentemente emarginato da una mentalità intenzionata a respingere proprio l’intuizione di quel « più in là » con cui il « non so che » della grazia tende a identificarsi. Grazia, a questo punto, potrebbe davvero essere soltanto il nome di una ragazza che vive in qualche periferia, non per questo però cesserebbe di avere un significato profondo, autentico e necessario.
Documentatissimo sul piano delle letture e dei riferimenti, il libro di Milani è molto preciso nell’indicare nei tempi di passaggio, e quindi di crisi, la stagione più feconda per il dibattito sulla grazia. Accade nel mondo tardoantico, quando per merito di Agostino il concetto classico di charis si connota definitivamente in senso teologico, divenendo così charitas. E accade nel Rinascimento, con la riscoperta dell’antico quale fonte di armonia, e poi ancora nella temperie inquieta che sfocerà nel Romanticismo, con le riflessioni di autori come Schiller, Schelling e Winckelmann, al quale si deve l’insuperata definizione della grazia come «il piacevole secondo ragione».
È un itinerario complesso e affascinante, non estraneo alle suggestioni del sogno e agli squarci visionari dell’esperienza mistica. Un intreccio che giustamente Milani ricostruisce anche attraverso un continuo raffronto fra tradizione occidentale e sapienza orientale, riuscendo a individuare più di un punto di contatto ( manifestazione della grazia è anche l’atman , il respiro cosmico delle scritture vediche).
In generale, si potrebbe sostenere che la storia della grazia si muove lungo due direttrici, non sempre in equilibrio fra loro. Da un lato la bellezza si riempie di significato sino a rivelare il proprio nucleo sacro, ma sull’altro versante è il sacro stesso a estetizzarsi, riducendosi a emozione passeggera oppure a ricognizione erudita. Si sarebbe quasi tentati di affermare che, in questo senso, la disaffezione nei confronti della grazia è in effetti una conseguenza del processo di secolarizzazione, per cui la cultura contemporanea, dimenticato il lessico elementare del cristianesimo, non riesce più a immaginare un sovrasenso che sappia dare senso alla bellezza delle forme.
Il che non significa negare l’origine classica della riflessione sulla grazia ( il nome di Plotino, più volte richiamato nel saggio, basterebbe da solo a rivendicare questa primogenitura), quanto piuttosto interpretare alcuni specifici momenti della riflessione antica, tra cui la meditazione di Seneca nel De beneficiis, come avvisaglie di un fecondo, e in parte ancora inesplorato, cristianesimo naturale. Non per niente, le pagine più intense del lavoro di Milani riguardano il ruolo della Madre, dolorosa e « lacrimosa » già nei racconti del mito e infine pienamente rivelata nel suo ruolo salvifico dalla mediazione di cui è protagonista Maria.
Resta aperta, in ogni caso, la questione del «lutto dell’arte » che nel saggio viene riferita all’intera esperienza contemporanea. Studioso attento anche al cinema e alle diverse diramazioni del fantastico, Milani potrebbe forse verificare questa ipotesi con una campionatura più legata agli ultimi anni, nei quali romanzi come La strada di Cormac McCarthy e film come American Beauty di Sam Mendes hanno dato nuova centralità al sentimento di un « essere nella bellezza » che diventa, da ultimo, un «essere nella misericordia».
Sperimentare la grazia, insomma. E scoprire dove ha deciso di abitare oggi questa ragazza tanto sfuggente, tanto straordinaria.
Raffaele Milani
I VOLTI DELLA GRAZIA
Il Mulino. Pagine 258. Euro 22,00
intervista a Camillo Ruini
"I nostri sono valori non negoziabili"
a cura di Orazio La Rocca (la Repubblica, 10 dicembre 2009)
«L’uomo non è un semplice prodotto della natura. E’ questa la base su cui poggiano tutte quelle tematiche che Benedetto XVI riassume, per cattolici, credenti, non credenti e uomini di buona volontà, quando parla di "valori non negoziabili"». Valori che - ricorda il Papa - hanno come fine ultimo la difesa della vita dal concepimento fino alla fine naturale. Di valori non negoziabili - ma non solo - si parlerà a Roma al convegno «Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto», organizzato dal cardinale Camillo Ruini, presidente del Progetto Culturale Cei. Un confronto sullo stato di "salute" della fede, anche per ribadire la strada maestra che i cattolici doc devono seguire nelle scelte sociali.
Cardinale Ruini, perché un convegno dedicato a Dio oggi?
«Per due ragioni. La prima è il nostro compito di sempre: annunciare e rendere testimonianza a Dio è infatti la missione essenziale della Chiesa. La seconda ragione riguarda l’attuale contesto culturale, nel quale è forte la negazione di Dio, o almeno la convinzione che di Dio la ragione umana non possa sapere nulla, ed eventualmente solo la fede, come fatto soggettivo, possa aprire una strada verso Dio».
Dio discusso come un qualsiasi altro argomento culturale: non c’è il rischio di banalizzarlo?
«Promuovere un confronto culturale riguardo a Dio significa cercare di adempiere al mandato contenuto nella prima lettera di Pietro: "Rendere ragione della speranza che è in noi". Non significa però pensare che Dio possa essere "padroneggiato" dai nostri discorsi e neppure significa dimenticare che quella di Dio non è soltanto una questione dell’intelligenza: è una questione di tutto l’uomo, che mette in gioco la nostra libertà, sensibilità, il senso e l’orientamento della nostra vita».
Con questo convegno spera di poter fermare, almeno in parte, l’attuale processo di scristianizzazione?
«Non penso di poterlo fermare, ma di poter in piccola misura dare un contributo per orientare il divenire della cultura italiana in una direzione più aperta alle piene dimensioni dell’intelligenza e della libertà dell’uomo che, come dicono i teologi, è "capace di Dio", e rimane tale anche nell’Italia e nell’Occidente di oggi».
Anche la Chiesa ha colpe per questa scristianizzazione?
«Tra gli uomini e le donne che formano la Chiesa, accanto a molti santi e autentici testimoni di Dio, vi sono, e temo vi saranno sempre, anche dei testimoni meno attendibili, tra i quali penso purtroppo di rientrare anch’io. Dio stesso, però, ci chiama tutti a una testimonianza più generosa e più coerente: questo è anzitutto un dono di Dio, per il quale personalmente prego ogni giorno».
La sentenza del Tribunale di Strasburgo che impone di togliere i crocifissi dalle scuole italiane non è in parte figlia di questo processo di scristianizzazione?
«Lo è certamente, e mostra l’ambiguità di questo processo. Infatti, pensando di tutelare al massimo la libertà del singolo, il Tribunale ha trascurato di salvaguardare la libertà di espressione di un popolo, le sue tradizioni, la sua cultura, il sentimento profondo che lo lega alla croce di Cristo».
Rilanciare Dio nella società di oggi significa anche rilanciare temi morali cattolici come la difesa della vita, la condanna dell’aborto, il no all’eutanasia, la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna che Benedetto XVI ha più volte definito "non negoziabili"?
«Obiettivo dell’evento internazionale su Dio è affrontare quel grande tema che è Dio stesso, la sua esistenza, il suo vero volto, il suo significato per noi. Di per sé, non entreremo dunque negli argomenti da lei indicati. E’ vero però che soltanto se Dio esiste, l’uomo, ogni essere umano, può essere qualcosa di più e di diverso da un semplice prodotto della natura, può essere un fine in se stesso. Questa è la base comune di tutti i temi che Benedetto XVI ha definito "non negoziabili": una base che può rimanere anche soltanto implicita, perché il valore dell’uomo ha una sua immediata evidenza».
A chi è destinato il messaggio legato a Dio oggi? Politici, gente comune, uomini di Chiesa?
«E’ destinato a tutti, non in particolare all’una o all’altra categoria, anche se il tipo di trattazione di un incontro di questo genere è più facilmente accessibile per chi ha una certa preparazione culturale».
Ma preti, vescovi, cardinali e papi hanno sufficiente attenzione verso Dio?
«Benedetto XVI ha scritto, nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo scorso, che per lui e per la Chiesa tutta rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio è la priorità che sta al di sopra di tutte le altre. E’ una parola che ci interpella tutti e dalla quale mi sento personalmente interpellato nel profondo».
I valori rifugio
di Barbara Spinelli (La Stampa, 8/3/2009)
C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.
Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.
Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.
Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.
I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no.
Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II - con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista - sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».
I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione - o trasvalutazione - dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi - pur discordando - deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti.
Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.
La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il "puro rendiconto".(...) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».
Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti.
Intervista a Carlo Galli: tre libri per spiegare cosa resta della politica
Destra sinistra e il demone Carl Schmitt
"Il criterio per distinguerle non può più essere la contrapposizione libertà-autorità" Ordine e disordine sono categorie che vanno ripensate alla luce di quello che è accaduto
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 04.02.2010)
Sono ben tre i libri che parzialmente o interamente rimandano a Carlo Galli, filosofo della politica che insegna all’Università di Bologna.
Il primo è Genealogia della politica che il Mulino ristampa a distanza di 15 anni. Si tratta di un lavoro monumentale su Carl Schmitt, un’opera imprescindibile per chiunque intenda mettere le mani su questo controverso giurista che appoggiò la causa del nazismo, ma la cui esperienza teorica non può ridursi alle nefandezze di quel regime.
Il secondo è un volumetto proprio di Carl Schmitt su Cattolicesimo romano e forma politica, edito sempre dal Mulino con una postfazione di Carlo Galli. Pubblicato nel 1923, l’opera è un grande omaggio alla Chiesa cattolica, alla sua capacità di adattamento, restando fondamentalmente se stessa. Ma è altresì un’analisi del suo potere che non può, spiega Schmitt, fondarsi su mezzi economici ma su di una esperienza giuridica che ne fanno la vera erede della giurisprudenza romana.
Infine un terzo libro, in uscita dall’editore Laterza, che Carlo Galli ha scritto sul concetto di destra e sinistra.
Mi chiedo se c’è un filo che unisca questi tre lavori: «Direi», risponde Galli, «la passione per la radicalità del ragionamento politico, per il gesto teorico che ha la capacità di ricondurre la complessa fenomenologia della politica alle sue origini. In certi momenti, penso, sia più importante sparigliare saperi consueti e consunti che seguire opinioni tramandate e ricevute».
Le sue analisi hanno poco di conformistico. Ma è ancora attuale riproporre oggi quel testo di Schmitt dai toni trionfalistici sulla missione della Chiesa?
«Certamente quel trionfalismo non credo interessi più le gerarchie, benché queste non siano particolarmente devote al concilio Vaticano II. Per Schmitt la politica è creare forma - sempre transitoria e minacciata - a partire dal disordine del mondo. Ora la "burocrazia dei celibi", come Schmitt chiama la Chiesa, è la maestra di questa creazione d’ordine, molto prima e molto meglio dello Stato moderno».
La Chiesa, agli occhi del giurista, era la sola che potesse arginare la catastrofe che la civiltà moderna aveva innescato. Ma in che modo sarebbe stato possibile?
«Per Schmitt senza rappresentazione dall’alto (come d’altro canto senza conflitto) non c’è politica. E lui era convinto che la civiltà moderna, sebbene tutta centrata sulle immagini, e sull’immagine dell’uomo, non sa rappresentare».
Il Parlamento è una forma di rappresentazione.
«Non per Schmitt, il quale riduceva la rappresentazione del parlamento a chiacchiera e vedeva solo nella Chiesa la forza per frenare quella catastrofe cui lei alludeva».
Date queste premesse, perché a un certo punto a sinistra ci si è innamorati di questo pensatore che è difficile non collocare a destra?
«Schmitt, più di ogni altro, coglie la radicale indeterminatezza della politica moderna. Il "politico" è appunto la politica come energia che opera nel disordine e mai definitivamente racchiudibile in una forma giuridica. Una potenza che può essere trattata solo con la decisione e non con la ragione. Schmitt era convinto che il mondo mai e poi mai sarebbe stato a misura d’uomo. Ai suoi occhi contava solo ciò che i rapporti di potenza di volta in volta disegnano. È chiaro che per non avere neppure tentato di riflettere su una politica umanistica egli va ascritto ai pensatori di destra. Il che non toglie che sia stato doveroso conoscerlo, senza farsene una bandiera, anche a sinistra. La sfida che egli ha portato all’umanesimo - ingenuo o sofisticato - che è o dovrebbe essere l’emblema della sinistra, è tutt’altro che banale. Quindi fu giusto misurarsi col suo pensiero, aprirsi alle sue vertiginose prospettive e alle sue tragiche durezze. L’importante fu non aderirvi oltre che condannarne le aberrazioni».
Su destra e sinistra lei aggiunge un nuovo libro. In che misura il suo lavoro si distacca da quello che Bobbio dedicò parecchi anni fa all’argomento?
«La mia tesi è che sinistra e destra sono due modalità in cui necessariamente si presenta la politica moderna. Il criterio per distinguerle non può essere quello consueto che contrapponeva la libertà all’autorità, o la tradizione al progresso, o la collettività all’individuo (dove i primi termini sarebbero riferiti alle sinistre e i secondi alle destre). Queste antitesi sono tutte perfettamente rovesciabili: ci sono destre progressiste che puntano sullo sviluppo e sinistre che teorizzano la decrescita; ci sono destre comunitarie e sinistre liberali, concentrate sull’autonomia dell’individuo; destre che esaltano la libertà e sinistre che credono, o hanno creduto, in una qualche autorità. Quanto alla proposta di Bobbio - che sia l’eguaglianza a costituire il discrimine tra la sinistra che la propugna e la destra che la nega - è parecchio più attuale e comprensiva. Io ho cercato di andare oltre questa asserzione e di individuarne la causa nel modo stesso con cui la politica moderna originariamente si presenta. Ossia nella sua indeterminatezza».
In che senso intende che la politica alla sua origine è indeterminata?
«Intendo che la novità davvero epocale del pensiero politico moderno, nelle sue versioni più consapevoli, consiste nel non fare più ricorso a una idea di Ordine dato, rispetto al quale misurare il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. La verità è che la politica non ha nessuna misura intrinseca e che il suo ambiente è il grande caos del mondo, lo stato di natura in cui tutto è possibile. Nondimeno in questo caos c’è un seme di ragione, di libertà, di uguaglianza, ossia l’uomo, che deve essere salvaguardato e sviluppato nell’ordine politico».
Lei rovescia l’opinione abbastanza diffusa che è la destra ad amare l’ordine e la sinistra il disordine. Come è giunto a questa conclusione?
«L’amore della destra per l’ordine è proporzionale alla percezione che esso sia continuamente minacciato, che sia cioè instabile e infondato. E, aggiungerei, la destra sa anche presentarsi come la potenza che più radicalmente assume questa infondatezza. Mentre la sinistra deve il suo pedagogismo e il suo costruttivismo, e anche la propria tendenza a modificare radicalmente le condizioni del mondo storico, proprio all’idea che si debba liberare e sviluppare un dato di valore normativo: l’uomo nella sua complessità e pluralità»
Ma ha ancora senso la coppia destra/sinistra, o è una sopravvivenza lessicale senza più contenuto specifico?
«La sua efficacia sta nel fatto che anche in un contesto politico per molti versi post-moderno la posta in gioco sembra essere sempre la medesima: da una parte la destra resta attaccata alla consapevolezza che il reale è un caos infinitamente plasmabile, un disordine che impone di adattarsi in ogni modo ai rischi e ai pericoli sempre insorgenti. Mentre la sinistra - quando è all’altezza del proprio compito e della propria storia - vorrebbe sviluppare il lato normativo della modernità, ossia vorrebbe centrare la politica su un set di valori inderogabili che hanno come riferimento l’umanesimo moderno».
All’attuale crisi della sinistra corrisponde il tentativo della destra di creare una nuova egemonia. È possibile che la destra si doti di una cultura all’altezza delle sue ambizioni?
«La destra ha già creato una nuova egemonia, non grazie ai partiti ma all’uso combinato delle televisioni e alla capacità di azzerare - nello spazio virtuale della rappresentazione televisiva - ogni riferimento politico diffuso a linee di continuità, a brusche fratture, a lotte ideali per costruire la democrazia. Voglio dire che la dimensione storica è sostituita dai casi personali, dagli aneddoti privati schiacciati sul presente nel quale il mondo è percepito come una sorta di giungla pericolosa in cui tutto è permesso per difendersi e affermarsi. Un mondo che non è a misura d’uomo, ma di altre entità che lo sovrastano e gli dettano legge a cui si deve adattare: il mercato, la competizione geopolitica, l’identità culturale e religiosa. Sì, la destra la sua egemonia l’ha costruita, tanto quanto la sinistra l’ha perduta».
Non si può processare la guerra tedesca
Dalla difesa di un industriale a Norimberga alle riflessioni contro il mondo globalizzato
di Massimiliano Panarari (La Stampa - TuttoLibri, 28.11.2015)
Nella devastata (e liberata) Berlino della fine della guerra, Carl Schmitt (1888-1985) riteneva di essersi sottratto al rischio di imputazioni spostando il proprio campo di studio verso la politica internazionale e «mondando» la sua elaborazione dal suprematismo della «comunità di sangue» del «popolo» quale fondamento dell’ordinamento.
Nell’estate del 1945, decise di dedicarsi alla stesura di un ben remunerato Parere richiestogli dai legali di un big (tra siderurgia e carbone) dell’industria germanica, Friedrich Flick, preoccupato di un’eventuale incriminazione per complicità nella guerra d’aggressione. Un lavoro alla fine inutile perché il magnate venne condannato, in un ramo secondario del processo di Norimberga, e per crimini contro l’umanità.
Il 26 settembre del ’45 sarà poi lo stesso Schmitt a venire arrestato e internato per quasi un anno (nel corso del quale, guidato dalla «sapienza della cella», stilerà clandestinamente gran parte del famoso Ex captivitate salus). Il parere legale, a metà tra il documento difensivo e la dissertazione accademica, aveva circolato solo in fotocopie fino alla pubblicazione nel ’94; e ora viene tradotto da noi col titolo La guerra d’aggressione come crimine internazionale (a cura di Carlo Galli).
Sullo sfondo del tema cardine della fine dello jus publicum europaeum, Schmitt riadattava alcune delle sue intuizioni sul mutamento integrale della natura della guerra all’obiettivo puntuale della tutela del committente stemperandone maliziosamente la radicalità.
Lungi dall’ammettere il carattere epocale di cesura della seconda guerra mondiale - come appunto aveva (e, ancor più, avrebbe) evidenziato nella sua produzione scientifica, tra la dottrina dei Grandi Spazi post-statuali e la violentissima polemica (ovviamente omessa in questa sede) contro la filosofia politica individualistica anglosassone che, a suo dire, ammantava con l’universalismo liberale la politica (e volontà) di potenza di Imperi “marittimi” e «deterritorializzati» - puntava a normalizzarla quanto più possibile. Il conflitto mondiale, allora, come una “qualsiasi” guerra moderna, da considerare un affare di Stato e, quindi, un atto di sovranità che rientrava nella sua totale responsabilità.
Scagionando in tal modo il cittadino «normale» Flick (che così ordinario chiaramente non lo era, anche se Schmitt lo indicava in maniera pelosa quale «ordinary businessman economicamente attivo»), tenuto, come chiunque altro, ad obbedire al potere legale, mentre semmai andavano esclusivamente puniti gli «eccessi» di violenza di SS e Gestapo.
Così argomentando, il sempre strumentale e coltissimo Schmitt si smentisce, fingendo che l’ordine moderno del diritto pubblico europeo (continentale) sia ancora in essere, ribadendo il principio «nullum crimen, nulla poena sine lege», e abbracciando quel positivismo giuridico funzionalistico che aveva tanto criticato negli anni dell’adesione all’hitlerismo. Dunque, la guerra (anche d’aggressione) non poteva essere processata, e in questo Schmitt, come sempre, si collocava agli antipodi del detestato grande avversario Hans Kelsen, teorico di un sistema giuridico universale.
Nella tipica doppiezza (e bassezza morale) del suo autore, «terribile giurista» lugubre e geniale, un volume di notevole interesse nella sua pars destruens per la capacità disincantata di analizzare l’avvento post-westfaliano dell’età globale e quel processo di giuridificazione della politica in cui siamo immersi da allora.
E Adelphi (l’editore che ha sdoganato nel dibattito italiano il pensiero negativo e la grande cultura reazionaria del ’900) manda adesso in libreria Stato, grande spazio, nomos (a cura di Giovanni Gurisatti, pp. 527,€ 60), una summa antologica che raccoglie mezzo secolo - da Il concetto del politico del 1927 a La rivoluzione legale mondiale del ’78 - di riflessione schmittiana sul diritto e le relazioni internazionali, un vertice ante litteram di (per così dire...) pensiero antiglobalizzazione.
Alla ricerca dello spazio perduto
Lo sforzo intellettuale di Schmitt per definire un nuovo ordinamento giuridico del pianeta appare oggi nient’altro che una splendida archeologia di fronte al disordine mondiale del nostro tempo
di Mario Andrea Rigoni (Corriere della Sera, La Lettura, 6.12.2015)
Il nome di Carl Schmitt (1888-1985) si associa, ormai anche nell’opinione corrente, oltre che all’odioso antisemitismo, antiamericanismo e filonazismo delle sue posizioni personali (fu arrestato e processato dagli Alleati a Norimberga per l’autorevole sostegno dato al Terzo Reich), anche e innanzitutto all’elaborazione di fondamentali analisi e concetti politico-giuridici, delineati con impressionante lucidità teorica ed esposti con una nitidezza ed efficacia da eccellente scrittore (lo stile è appartenuto sempre più ai conservatori o ai reazionari che ai progressisti).
Molti dei temi del suo pensiero, al quale si sono interessati esegeti e studiosi di ogni tendenza, marxisti ed ex marxisti compresi, sono ripresi in una raccolta di saggi scritti fra il 1927 e il 1978 e pubblicati adesso da Adelphi con il titolo Stato, grande spazio, nomos, che fanno da corona, nella forma della precisazione, dell’integrazione o dello sviluppo, alle opere maggiori del giurista tedesco.
Il primo di questi saggi, Il concetto del politico , già noto in Italia (ma qui riproposto nell’edizione del 1927), distingue l’area limitata della politica (die Politik), che si identifica con le istituzioni statali, dal politico (das Politische). L’aggettivo sostantivato (entrato in uso solo agli inizi del secolo scorso) include l’area non giuridica, riveste un carattere ubiquitario e trova la sua essenza nella polarità amico-nemico, da intendersi non in senso privato, ma pubblico: quando il Vangelo esorta ad amare i propri nemici, intende i nemici privati, l’ inimicus, l’avversario, non il nemico pubblico, l’ hostis.
L’idea di questa polarità è ricavata sia dall’opera di un esponente del tacitismo spagnolo del Seicento, Alamos de Barrientos, sia dall’ Arthasastra del teorico dello Stato indiano Kautilya (IV sec. a. C.), ma essa figura anche altrove, come nella riflessione sulla politica antica svolta dal nostro Leopardi nello Zibaldone di Pensieri, che quasi certamente Schmitt non conosceva. In ogni caso la distinzione fra amico e nemico sostanzia non solo, come è ovvio, il fenomeno della guerra, ma anche il nomos, ossia il possesso e l’ordinamento della terra, un concetto al centro di un grande libro di Schmitt, di spirito o di significato sorprendentemente «liberale», intitolato appunto Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum» (1950).
In almeno due saggi della raccolta (che è anche fornita di preziose e sistematiche note) Schmitt torna sul tema del nomos. Storicamente, esso ha conosciuto tre fasi. La prima, caratterizzata da un mondo ristretto e puramente terraneo, arriva fino al Cinquecento, quando le scoperte geografiche operate dall’Europa dischiudono lo spazio agli oceani, dominati dalla potenza marittima più forte, che era l’Inghilterra. Il nomos eurocentrico, basato sull’equilibrio fra terra e mare, andò in pezzi con la Prima guerra mondiale, dopo della quale si aprì un’ulteriore dimensione, quella dello spazio aereo. Al momento in cui Schmitt scrive Il nuovo nomos della terra (1954), il mondo è diviso in un Oriente comunista e un Occidente capitalista, che si fronteggiano nella guerra fredda. Quale sarà dunque il nuovo nomos della terra?
Schmitt prospetta diverse possibilità, nessuna delle quali sembra però essersi realizzata. La sua inclinazione o il suo auspicio si rivolgeva alla formazione di molteplici grandi spazi autonomi in grado di instaurare un equilibrio fra loro, alla condizione, egli precisa, come rileva Giovanni Gurisatti nella sua introduzione, che «siano delimitati in modo sensato e risultino in sé omogenei»: uno di questi spazi è naturalmente l’Europa, di cui Schmitt nel suo ultimo scritto (1978) lamenta non solo il vuoto di unità politica, ma anche l’assenza del desiderio e dell’interesse stesso di crearla in nome di un patriottismo europeo.
Dei vari concetti fondamentali ai quali Schmitt deve la sua fama, pochi restano e resteranno sempre attuali, assumendo configurazioni in perenne e sorprendente movimento. Uno è purtroppo, e sicuramente, la contrapposizione amico-nemico; l’altro è «lo stato di eccezione», ossia quella condizione di pericolo estremo per la sopravvivenza dello Stato, che chiama in causa la questione della sovranità decisionale: chi giudicherà? Schmitt concorda con Hobbes che l’autorità, non la verità, fa la legge. D’altronde la risposta della storia è che il diritto viene sempre scritto dal vincitore, il quale è «il signore anche della grammatica».
Morto nel 1985, Schmitt non potè assistere ai più recenti fenomeni, capitali e imprevedibili, non senza rapporto tra loro, che hanno mutato il volto del mondo. La dinamica degli elementi, terra, acqua, aria, è stata annullata o almeno profondamente modificata dalla rivoluzione informatica, che ha sovvertito non solo l’omogeneità dei «grandi spazi», ma lo spazio e il tempo stesso, ha creato anzi un nuovo spazio e un nuovo tempo virtuale: lo sviluppo della «tecnica scatenata», che Schmitt ha tanto deprecato, ha reso tutto permeabile, ubiquo e simultaneo.
Al crollo del comunismo sovietico, che faceva sperare in un’epoca di pace, hanno fatto seguito invece arcaici, feroci e diffusi scontri religiosi. La Cina, che ha instaurato un inedito comunismo capitalista, opera una silenziosa infiltrazione in varie parti del mondo, Africa inclusa. La proletarizzazione delle masse arabe ha indotto flussi migratori di proporzioni bibliche, che intaccano i confini tradizionali e impediscono la distinzione fra l’interno e l’esterno. La guerra non è più né la guerre en forme dello jus publicum europaeum interstatuale né la guerra partigiana, a cui Schmitt ha dedicato scritti illuminanti, ma il terrorismo planetario. Sembra dunque venir meno proprio quella «localizzazione» (Ortung) senza la quale, secondo Schmitt, non è possibile un ordinamento mondiale (Ordnung).
L’opera del giurista tedesco rischia di apparire una splendida archeologia, mentre il futuro del nomos della terra è diventato più che mai imperscrutabile. Coglie perfettamente nel segno, mi sembra, l’osservazione di Günter Maschke nell’epilogo della raccolta, che «la grandezza di Schmitt non sta nelle sue risposte, che mancano talora di forza di persuasione, bensì nelle sue domande e nel modo di porle - domande che non possono essere aggirate nemmeno quando non troviamo la risposta».