UN’ESORTAZIONE *
*John Maynard Keynes, OCCUPAZIONE INTERESSE E MONETA. TEORIA GENERALE, Prefazione (14.12.1935), Torino 1968, pp. IX-XI.
Una premessa*... di civiltà
di Federico La Sala *
Al di là dell’etica edipica, generale e cattolica, e dello spirito del capitalismo: cambiamo il paradigma che finora ha governato il mondo...
L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide vuol essere un ’manifesto’ sul coraggio di servirsi della propria intelligenza, oggi - per diventare uomini liberi e donne libere, cittadini sovrani e cittadine sovrane, non imprenditori e imprenditrici, sfruttatori e sfruttatrici, della propria o dell’altrui ’forza-lavoro’. Esso riprende il discorso avviato in La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica (Antonio Pellicani editore, Roma 1991) e in Della Terra, il brillante colore (Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 1996) e propone una nuova prospettiva di ricerca e una possibile via di uscita da duemila e più anni di labirinto: una ontologia chiasmatica, segnata da una relazione non più azzoppata e accecata dalla cupidigia del sapere-potere edipico-capitalistico, ma da una relazione illuminata dal sapere-potere dell’amore, umano e politico, di sé, dell’altro e dell’altra.
Al fondo di questo lavoro, come di quelli precedenti, c’è la persuasione che “il campo - tavolo da gioco, la ben rotonda sfera entro e su cui ancora stiamo a giocare” (cfr. Le “regole del gioco” dell’Occidente, in La mente accogliente..., cit., pp. 162-189), sta diventando sempre di più un campo di sterminio, e c’è la volontà di contribuire al crescente e vasto sforzo di ritrovare le ragioni e le radici del nostro stesso esistere e di riaffermare - al di là della necessità e del caso - la libera scelta per l’essere, non per il nulla.
Uscire dai cerchi di filo spinato che delimitano dappertutto il nostro presente storico è la scommessa. Come fecero i militari italiani internati nel lager tedesco di Wietzendorf (cfr. il Presepio del lager - Natale 1944, ricostruito nella Basilica di sant’Ambrogio, nel Natale 2000) e fece Enzo Paci, anch’egli in un lager tedesco [nello stesso: con Paul Ricoeur, Mikel Dufrenne, Giovannino Guareschi e Altri - fls] nel 1944 (cfr. Nicodemo o della nascita, in Della Terra..., cit., pp. 120-125), oggi non possiamo che riaprire la mente e il cuore alle domande fondamentali e cercare di dare a noi stessi e a noi stesse le risposte giuste: Come nascono i bambini? Come nascono le bambine? Qual è il principio di tutti gli esseri umani? Come si diventa esseri umani? Come io sono diventato Io? Cosa significa che io sono il figlio, la figlia, dell’UNiOne di due esseri umani?... Essi avevano cominciato a capire l’enigma antropologico dell’Egitto dei Faraoni, delle loro Piramidi e delle loro Sfingi, e il ’segreto’ di Betlemme, del presepio di Greccio (1223) e di Francesco e Chiara di Assisi.
Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “Statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. (Milano, 20.01.2001 d.C.).
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* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e p. c., a Nelson Mandela), Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp. 7-8.
Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico
YOUTUBE: The secret birth of the federal reserve (italiano)
Keynes e la battaglia delle idee
di Riccardo Evangelista (Pandora Rivista, 30 maggio 2020)
Accade di frequente che tra il pensiero di un autore ingombrante e l’interpretazione dei posteri si insinuino corrosivi tentativi di depotenziamento teorico, soprattutto quando la fedeltà all’impostazione originaria implica un attacco per nulla tiepido al sapere costituito.
John Maynard Keynes è forse l’emblema di questa tendenza riduzionistica, tanto che nel 1965, come riportato dalla rivista Time, un economista liberista e conservatore come Milton Friedman poteva affermare con una certa serenità: «Siamo tutti keynesiani, adesso!». Erano i trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, la cosiddetta golden age del capitalismo, in cui per definirsi keynesiani bastava accettare il ruolo positivo dell’intervento pubblico a sostegno della domanda aggregata e quindi dell’occupazione. Vi si ritrovavano piuttosto agevolmente i liberisti come i socialisti, comunque pronti ad accusarsi vicendevolmente di utilizzare le politiche espansive per salvare il capitalismo dalla crisi o per aprire la strada al socialismo.
Una certa ambivalenza, va riconosciuto, è conforme alla natura più profonda di Keynes: il prodotto del miglior liberalismo inglese, di cui ha saputo elevare teoricamente gli atteggiamenti pragmatici, ma al contempo uno dei suoi più acuti e influenti critici. A partire da una tensione irrisolta, tutta la sua opera si sviluppa lungo un percorso di severa autoriflessione, nel corso del quale l’avanzamento della conoscenza coincide con la messa in discussione della propria eredità intellettuale, fino a definirla del tutto incapace di «risolvere i problemi economici del mondo reale»[1].
Nel suo lavoro maggiore e tra i più importanti del Novecento, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicato nel 1936, Keynes sottopone la teoria economica a una decostruzione dal di dentro: non tanto, cioè, attraverso la sollevazione di «crepe logiche nella sua analisi», ma mostrando che «i suoi presupposti taciti non sono mai o quasi mai soddisfatti»[2]. Così procedendo, l’analisi viene sorretta da una grandiosa battaglia delle idee contro i principi fallaci dei comuni modi di pensare l’economia «in uno di quei momenti della vicenda umana nei quali si può essere salvati solo dalla soluzione di un problema intellettuale»[3].
Attraverso una disamina di alcuni punti salienti della Teoria generale, il contributo cercherà di mettere in evidenza come il pensiero di Keynes sia, nonostante i tentativi di addomesticamento, un colossale invito a riflettere sui fini della nostra società, la natura ultima dei problemi economici e i giudizi di valore che a questi siamo chiamati a dare nel tentativo di risolverli.
Obiettivi e problemi della Teoria generale
Scrive Keynes nella celebre prefazione all’edizione inglese della Teoria generale:
Le idee da cui risulta tanto difficile evadere in campo economico sono i postulati della cosiddetta legge di Say[5] o degli sbocchi, derivati dalla teoria classica ma sopravvissuti fino ad oggi, secondo cui l’offerta di beni e servizi in un’economia capitalistica crea sempre la propria domanda, garantendo un equilibrio di piena occupazione. Ne consegue che la disoccupazione involontaria non può darsi nel lungo periodo, in quanto viene riassorbita tramite una riduzione proporzionale dei salari monetari che stimola l’investimento mancante e riporta il sistema al suo funzionamento ottimale. I corollari della legge di Say hanno rappresentato, sin dalla sua formulazione, l’argomento economico e politico decisivo in difesa del laissez faire: se il sistema tende al suo equilibrio di pieno utilizzo delle risorse produttive, allora ogni intervento esogeno diventa facilmente, oltre che inutile, perfino dannoso.
Nella Teoria generale, Keynes dimostra che «una teoria su questa base è evidentemente inadatta ad affrontare i problemi della disoccupazione e del ciclo economico»[6]. Non esiste nessuna garanzia a priori, questa la tesi centrale e tremendamente eretica del testo, che un’economia capitalistica raggiunga in maniera stabile e duratura la piena occupazione, ossia che tutte le risorse vengano pienamente utilizzate. Al contrario, la tendenza è verso equilibri da sottoccupazione, in cui il sistema economico si mantiene «intorno a una posizione intermedia, sensibilmente al di sotto dell’occupazione piena e sensibilmente al di sopra di quel livello minimo d’occupazione, al di sotto del quale se ne metterebbe in pericolo l’esistenza»[7].
La ragione sta nella propensione, tipica di un’economia monetaria decentralizzata, dei risparmi privati a non tramutarsi completamente in investimenti, in quanto le due decisioni sono logicamente e temporalmente separate: «Un atto di risparmio individuale [...] non è una sostituzione di una domanda futura a una domanda presente di consumo, ma è una diminuzione netta di tale domanda»[8]. Per di più, la riduzione del consumo corrente può indurre le imprese a ritenere plausibile anche una sua ulteriore discesa futura, generando un clima di sfiducia che si autoalimenta.
È questo uno dei passaggi chiave della Teoria generale: le decisioni d’investimento in beni capitali, quindi di lungo periodo, risultano decisive per determinare il livello del reddito, tuttavia sono sottoposte a violente fluttuazioni perché governate da un’incertezza strutturale, non di tipo probabilistico, ma cognitivo, che riguarda il rendimento futuro dei beni capitali stessi, sul quale semplicemente non si hanno elementi conoscitivi. La razionalità che guida il mercato e da cui dipendono le sue virtù, spiega Keynes, non trova fondamento reale. Ben più rilevanti nelle decisioni economiche fondamentali risultano, al contrario, atteggiamenti dalle basi fragili e mutevoli, quali il livello di fiducia nel futuro e le aspettative che le proprie previsioni si realizzino: «lo stato di fiducia è importante perché è uno dei principali fattori determinanti la scheda marginale del capitale, che è la stessa cosa della domanda d’investimento»[9]. In un’economia monetaria, in altri termini, le opinioni riguardanti il futuro sono decisive perché influenzano la situazione presente.
Le aspettative di lungo termine dei rendimenti di beni capitali, non potendosi dunque fondare su criteri oggettivi o quantomeno probabilistici, vengono generate per una comune attitudine psicologica dalle condizioni presenti, che quindi «entrano piuttosto sproporzionalmente nella formazione delle aspettative a lungo termine; la prassi comune consiste infatti nel prendere la situazione attuale e di proiettarla nel futuro, modificandola soltanto in quanto vi siano ragioni più o meno definite di attendersi un mutamento»[10].
L’attestazione dell’investimento a un livello tale da garantire l’equilibrio di piena occupazione è ulteriormente ostacolata dalla logica di funzionamento dei mercati finanziari, che nelle economie capitalistiche hanno un ruolo preponderante e ne rappresentano la principale cornice istituzionale. Per il singolo, l’acquisto di titoli borsistici ha il vantaggio di rendere l’investimento meno rischioso e più liquido, dal momento che può sempre dirigersi verso opportunità di guadagno migliori. Per la società nel complesso, invece, questo «feticcio della liquidità», come lo definisce Keynes, abile psicologo del mercato, diviene una fonte permanente di destabilizzazione: il corso delle azioni non è determinato da aspettative di profitto verificabili sul lungo periodo, ma dall’opinione volubile di altri innumerevoli investitori che agiscono allo scopo di intercettare o anticipare le decisioni altrui. L’incertezza si radicalizza: le conseguenze non possono che essere furiose ondate di ottimismo e pessimismo, immotivate o comunque esasperate, che generano bolle speculative destinate ad esplodere nei crolli repentini di fiducia.
Misure d’inquietudine: moneta e tasso d’interesse
Nella Teoria generale, il ruolo della moneta è cruciale per la decostruzione della legge di Say: l’ipotesi che risparmi e investimenti si equivalgano e che l’equilibrio di piena occupazione venga sempre raggiunto può ritenersi verificata solo in un’economia di baratto. In un sistema quale quello capitalistico ogni rapporto economico è fondato sulla moneta, non a caso definita da Keynes «il legame tra il presente e il futuro», ad indicare un ruolo attivo per l’avveramento delle aspettative.
La critica alla concezione ortodossa della moneta riguarda, con livelli di consapevolezza crescenti, le tre maggiori opere di Keynes, a dimostrazione della centralità nello sviluppo del suo pensiero: Il trattato sulla riforma monetaria del 1923, il Trattato sulla moneta del 1930 e, come detto, la Teoria generale. In sostanza, per sostenere la legge degli sbocchi, la teoria neoclassica deve ritenere la moneta un fenomeno neutrale, ossia un “velo” con la funzione di agevolare le transazioni: poiché è irrazionale lasciarla in forma liquida, gli operatori la impiegano sempre nella maniera più redditizia possibile, acquistando beni e servizi o titoli. In questo modo il tasso d’interesse diviene la ricompensa per l’astensione dal consumo corrente, quindi del risparmio, e assume un significato reale.
Secondo Keynes, essendo la moneta domandata anche per fini speculativi e quindi mantenuta in forma liquida nell’attesa di maggiori guadagni futuri o semplicemente per evitare perdite presenti, il tasso d’interesse non rappresenta affatto la retribuzione del risparmio, ma è un fenomeno essenzialmente monetario, per di più altamente vischioso. Misura, in sostanza, la riluttanza di coloro che detengono la moneta ad abbandonare il controllo su di essa, come spiega lo stesso Keynes in un articolo di rivisitazione e chiarimento della Teoria generale, pubblicato nel 1937:
Il tasso d’interesse, «fenomeno altamente convenzionale, piuttosto che altamente psicologico»[12], è però decisivo nel determinare il livello dell’investimento e definire quindi le possibilità del sistema economico di raggiungere la piena occupazione. Ogni progetto d’investimento, infatti, si realizzerà solo se il suo rendimento è superiore, o almeno uguale, al tasso d’interesse corrente.
Quello che Keynes delinea è un pericoloso paradosso: un elemento cruciale per la formazione del reddito aggregato «può fluttuare per decine di anni attorno a un livello che è cronicamente troppo alto per una occupazione piena, specialmente se l’opinione prevalente è che il tasso si aggiusti automaticamente»[13]. La combinazione che si determina sul mercato è perversa:
In definitiva, il modus operandi del sistema capitalistico rende l’equilibrio di piena occupazione prospettato dalla teoria ortodossa un caso o un accidente, dunque una situazione limite altamente improbabile. Ugualmente irrealistico è l’automatismo che agirebbe per ricomporre gli squilibri occasionali. Presumendo che in caso di domanda (investimenti) insufficiente l’offerta tende efficacemente ad adeguarsi, ad esempio riducendo i salari monetari per contenere i costi, incorre in un tipico errore da composizione: una decisione razionale dal punto di vista individuale, contribuisce al peggioramento della situazione generale. In tal caso, infatti, le aspettative di profitto verrebbero ulteriormente depresse da una riduzione della domanda effettiva, inviluppando il sistema in una spirale deflazionistica dagli esiti imprevedibilmente disastrosi.
La conclusione di Keynes segue dalle premesse: la complessità tipica del sistema economico, ma a dire il vero della società come organizzazione umana, richiede l’azione dello Stato in quanto promotore di una razionalità generale che al mercato, per la sua fondazione individualistica, evidentemente manca. Fissando il tasso d’interesse a un livello sufficientemente basso e l’investimento pubblico a un ammontare tale che eguagli la domanda mancante, l’intervento pubblico può realizzare le premesse per condurre il sistema verso la piena occupazione e generare processi moltiplicativi, attivando risorse (lavoratori e beni capitali) prima inutilizzate. La stessa funzione assolve la redistribuzione del reddito a favore dei salari, ad esempio attraverso la fiscalità progressiva. Essendo la spesa in consumi (che, insieme all’investimento, compone la domanda) proporzionalmente maggiore nei redditi più bassi, una concentrazione troppo iniqua della ricchezza, oltre che moralmente deprecabile, deprimerebbe il sistema economico:
Keynes, in un passaggio spesso omesso ma cruciale per valutare la portata della sua rivoluzione metodologica, sostiene infine che la «socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione»[16]. Aprendo alla pianificazione economica, suggerisce che i soli vincoli della politica economica sono determinati dai suoi obiettivi.
Prospettive keynesiane
Con l’analisi macroeconomica condotta nella Teoria generale, Keynes nega alla radice la validità epistemologica e pratica di un ordine spontaneo verso cui il sistema tende per realizzare il maggiore benessere possibile, dimostrando, al contrario, che «senza un’azione deliberata è incapace di portarci dalla nostra attuale povertà alla nostra potenziale abbondanza»[17].
Già nel 1926 scriveva in un luminoso saggio intitolato La fine del laissez faire, che in alcuni passaggi anticipa e paradossalmente chiarisce gli insegnamenti cruciali della stessa Teoria generale:
Se non esiste un equilibrio naturale che possa legittimare il laissez faire e l’interesse individuale non si tramuta da sé in interesse generale, anzi spesso l’ostacola, allora si apre un grande e indeterminato spazio democratico, che riguarda la scelta sul modello di società possibile e l’adeguamento degli strumenti economici per perseguirne i fini. Uscendo dal determinismo economico, è allora finalmente possibile analizzare i grandi mali economici del nostro tempo, che Keynes riteneva essere «l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione iniqua delle ricchezze e dei redditi»[19], come contingenti, non necessari, il risultato di «un terribile pasticcio»[20]. L’intera opera keynesiana, allora, va ben oltre le prescrizioni di politiche anticicliche a sostegno della domanda: insegna che gli ostacoli al miglioramento della condizione umana sono impedimenti artificiali e storicamente costruiti, riflessi nei difetti dell’organizzazione economica «ossessionata da false analogie tratte da un’astratta mentalità contabile»[21].
Non a caso, Keynes termina la Teoria generale sostenendo come il mondo sia in fondo governato da poche cose all’infuori delle idee, giuste o sbagliate, di economisti e filosofi. Gli interessi costituiti, se pure importanti come garanzia di conservazione dell’ordine dato, non possono avere l’ultima parola: prima o poi decadono di fronte all’evidenza dei fatti, al progresso della conoscenza, alle prese di coscienza collettive. Di tanto in tanto, tuttavia, l’ottimismo della volontà viene temperato da alcune note di pessimismo della ragione, come nel giudizio espresso in un saggio del 1933 intitolato Autosufficienza nazionale:
Eppure, nella misura in cui la battaglia delle idee di Keynes rimane attuale, gli strumenti validi e la posta in gioco chiara, la sfida odierna sta proprio nella capacità di pensare collettivamente a cosa mettere al posto di questo capitalismo decadente, del quale la svolta neoliberista non ha fatto che acuire i difetti, senza rimanere troppo perplessi e non cedendo nemmeno a illusioni palingenetiche. Solo in questo senso, rinnovato e ambizioso, potremmo dirci, adesso, tutti keynesiani.
[1] J. M. Keynes, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Torino, 2013, p. 572.
[2] Ibidem.
[3] Cit. in J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, a cura di G. Lunghini, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 7.
[4] J. M. Keynes, Teoria generale, Prefazione all’edizione originale, p. 173.
[5] Jean-Baptiste Say (1767-1832) era un economista classico francese, amico di Ricardo e Malthus, noto per le sue posizioni liberiste in ambito commerciale. La legge che porta il suo nome viene esposta nell’opera Traité d’économie politique (1803): «Un prodotto terminato offre da quell’istante uno sbocco ad altri prodotti per tutta la somma del suo valore [...]. Si vede dunque che il fatto solo della formazione di un prodotto apre all’istante stesso uno sbocco ad altri prodotti».
[6] J. M. Keynes, Teoria generale, Prefazione all’edizione francese, p. 183.
[7] J. M. Keynes, Teoria generale, p. 444.
[8] Ivi, p. 400.
[9] Ivi, p. 335.
[10] Ivi, p. 334.
[11] J.M. Keynes, La teoria generale dell’occupazione, in B. Ingrao, F. Ranchetti, Il mercato nel pensiero economico, Hoepli, Milano, 1996, p. 662-663
[12] J. M. Keynes, Teoria generale, p. 393.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 394.
[15] Ivi, p. 577.
[16] Ivi, p. 572.
[17] J. M. Keynes, Povertà nell’abbondanza, in J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, p. 107.
[18] J. M. Keynes, La fine del laissez faire, Utet, Torino, 2013, p. 126.
[19] J. M. Keynes, Teoria generale, p. 556.
[20] J. M. Keynes, Prospettiva economiche per i nostri nipoti, in J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano, 1983, p. 12.
[21] J. M. Keynes, Autosufficienza nazionale, in J. M. Keynes, Come uscire dalla crisi, a cura di P. Sabbatini, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 101.
[22] Ivi, p. 99.
Bibliografia
Keynes, John Maynard, Autosufficienza nazionale, in Keynes J. M., Come uscire dalla crisi, a cura di Sabbatini P., Laterza, Roma-Bari, 2009.
Keynes, John Maynard, La fine del laissez faire e altri scritti, a cura di Lunghini G., Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
Keynes, John Maynard, La fine del laissez faire, Utet, Torino, 2013.
Keynes, John Maynard, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Torino, 2013.
Keynes, John Maynard, La teoria generale dell’occupazione, in B. Ingrao, F. Ranchetti, Il mercato nel pensiero economico, Hoepli, Milano, 1996.
Keynes, John Maynard, Prospettive economiche per i nostri nipoti, Keynes J. M., Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano, 1983.
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
Il «dopo» sarà un mondo diverso: la nuova rotta si traccia insieme
Passata l’emergenza sanitaria, dovremo prepararci a una navigazione incerta. L’analisi di Sebastiano Barisoni nel nuovo libro «Terra incognita» (Solferino»)
di FERRUCCIO DE BORTOLI *
Sebastiano Barisoni è una voce nota e apprezzata. Dai microfoni di «Radio 24», di cui è vicedirettore esecutivo, dà corpo a un racconto dell’economia ricco più di testimonianze reali che di analisi accademiche. Barisoni privilegia le preoccupazioni e i sentimenti di chi soffre la crisi e rischia sé stesso e la propria attività sul mercato ogni giorno. E a volte ci lascia la pelle. La verve del cronista, cui non si dovrebbe mai abdicare, non gli fa trascurare il ruolo che hanno in economia le aspettative, le emozioni, gli umori e le ambizioni personali. Variabili non secondarie che nemmeno il più sofisticato degli algoritmi sa (per ora?) prevedere.
Nel suo ultimo libro Terra incognita. Una mappa per il nuovo orizzonte economico (Solferino), il vicedirettore di «Radio 24» si incarica di sfatare un luogo comune abbastanza diffuso. L’idea nostalgica - la retrotopia, nella definizione di Zygmunt Bauman - secondo la quale, passata l’emergenza pandemica, si riprenderà da dove la globalizzazione, nel bene e nel male, si era interrotta. Scordiamocelo. Sarà un mondo diverso. Inesplorato. Dovremo fare tesoro degli errori, tanti, commessi in questi anni. Ma non illuderci di riprendere vecchie abitudini come avviene dopo un evento atmosferico, per quanto devastante. Non si ricostruisce, si reinventa.
«Ci risvegliammo storditi in mezzo al mare come certi marinai inglesi
che venivano prima tramortiti mentre ballavano ubriachi nelle osterie del porto, e poi forzatamente imbarcati». Questa è la metafora che l’autore impiega per descrivere ciò che accadde nel mondo occidentale dopo la crisi finanziaria del 2008-9. Era già allora una rivoluzione, non una crisi passeggera. Lo è ancora di più oggi.
Abbiamo tratto un’utile lezione da quella «tempesta perfetta»? No perché il «patto faustiano», come lo chiama Barisoni, tra la finanza e la politica, che creò l’illusione del denaro facile e le perversioni della turbofinanza, non è stato oggetto di un ripensamento profondo e sincero. Quanti titoli tossici ci sono in giro oggi? Non li chiamiamo più così ma ci sono. Dalla crisi finanziaria dei cosiddetti subprime, nacquero negli Stati Uniti due movimenti, il Tea Party, a destra, e Occupy Wall Street, a sinistra, da cui eruttarono proteste che, tracimando nell’Europa flagellata dai debiti sovrani, diedero linfa ai vari populismi.
La rivolta dei ceti medi impoveriti, la paura dell’immigrazione disordinata. Oggi la sinistra progressista tenta di recuperare i consensi perduti sognando un asse ideale fra il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e il fresco leader del Labour, Keir Starmer. Rievocando così sintonie antiche (dell’altro secolo) fra Bill Clinton e Tony Blair, dei quali si dimenticano spesso - come spiega bene Barisoni - le responsabilità nella deregulation finanziaria. Nel prepararsi a una navigazione incerta, che non può essere a vista, dobbiamo temere più l’incertezza del rischio. La prima produce l’angoscia. Quando non si sa dove andare, come scrive Seneca, non vi è alcun vento che possa essere favorevole. Ma il secondo, il rischio, è indispensabile. Per coltivare nuove ambizioni senza adagiarsi nell’illusione (accresciuta dal rinnovato ruolo dello Stato e del ritorno all’indebitamento facile) di essere comunque protetti perché cittadini. Senza rischi non c’è innovazione, non c’è crescita. Bisogna provarci. E poi ci sono i sacrifici. Necessari anche per temprare gli animi degli esploratori inconsapevoli. «Vorrei non sentire più genitori - scrive Barisoni - che dicono del figlio che si è dovuto sacrificare per fare carriera. No, ha reso sacro il rapporto con il lavoro. È molto diverso». Sono tre le «i» della rivoluzione tecnologica e sociale in corso, secondo Barisoni. È indistinta, dunque colpisce tutti. Irreversibile, la nostalgia non è solo fuori luogo è persino pericolosa. Infine, è imprevedibile. Non si tratta di rassegnarsi ai guai, ma di adattarsi come l’Italia ha fatto, bene, nei suoi anni migliori.
Il singolo cittadino è colto però da una sorta di schizofrenia. «La rivoluzione è bellissima - scrive Barisoni - fin quando possiamo scegliere il meglio, ma diventa un problema quando siamo noi ad essere scelti». Apprezziamo le libertà di comprare online, ma ci rammarichiamo quando ciò è causa della chiusura di un’attività commerciale e della perdita del lavoro. Sfruttiamo le mille opportunità di una società low cost ma non vorremmo mai pagarne le conseguenze in termini di minori salari e occupazioni ancora più precarie. Il consumatore ha il coltello dalla parte del manico ma spesso non si accorge che lo sta rivolgendo contro sé stesso.
La neosobrietà dell’era dei social network è una continua, a volte affannosa, ricerca del valore aggiunto. Una vita sul margine, spesso esiguo, sottile. Barisoni definisce i giovani «rabdomanti del valore aggiunto» per i quali condividere è meglio che possedere, ma nei quali matura la convinzione (rafforzata dal virus) del valore di una comunità coesa di valori.
«Non è la nave più grande ad avere maggiori possibilità di successo di fronte ai grandi cambiamenti ma quella che è più capace di adattarsi». Meno attraente di vascelli individuali, ma più sicura. Lo smart working è un’opportunità preziosa offerta dalla digitalizzazione ma non il destino ineluttabile di una società polverizzata in tante solitudini. Profonde anche se connesse. E individua nell’empatia e nell’intelligenza emotiva le bussole di un nuova cittadinanza più attenta all’ambiente, all’economia circolare, alla sostenibilità delle produzioni. -L’empatia non disegna - sostiene in fondo Barisoni - una mappa completa per viaggiare in sicurezza in acque sconosciute ma rappresenta dopotutto qualche stella nel buio. Indispensabile per orientarsi. E non è poco.
L’incontro su corriere.it
Il libro di Sebastiano Barisoni, «Terra incognita. Una mappa per il nuovo orizzonte economico», è pubblicato da Solferino (pp. 190, euro 16). L’autore, intervistato da Paolo Mieli, racconterà il suo libro online su corriere.it giovedì 10 dicembre alle ore 14.
*Corriere della Sera, 04 dicembre 2020 (ripresa parziale).
Il discorso di inaugurazione
Meeting 2020, l’intervento integrale
di Mario Draghi (Corriere della Sera/Economia, 18 ago 2020)
Dodici anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò. Quando la fiducia tornava a consolidarsi e con essa la ripresa economica, siamo stati colpiti ancor più duramente dall’esplosione della pandemia: essa minaccia non solo l’economia, ma anche il tessuto della nostra società, così come l’abbiamo finora conosciuta; diffonde incertezza, penalizza l’occupazione, paralizza i consumi e gli investimenti. In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri. La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione.
Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario. Non sappiamo quando sarà scoperto un vaccino, né tantomeno come sarà la realtà allora. Le opinioni sono divise: alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno adattandosi alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è improbabile. Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada. Vengono in mente le parole della ‘preghiera per la serenità’ di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, / Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, / E la saggezza di capire la differenza.
Non voglio fare oggi una lezione di politica economica ma darvi un messaggio più di natura etica per affrontare insieme le sfide che ci pone la ricostruzione e insieme affermare i valori e gli obiettivi su cui vogliamo ricostruire le nostre società, le nostre economie in Italia e in Europa. Nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la seconda guerra mondiale. La nostra libertà di circolazione, la nostra stessa interazione umana fisica e psicologica sono state sacrificate, interi settori delle nostre economie sono stati chiusi o messi in condizione di non operare. L’aumento drammatico nel numero delle persone private del lavoro che, secondo le prime stime, sarà difficile riassorbire velocemente, la chiusura delle scuole e di altri luoghi di apprendimento hanno interrotto percorsi professionali ed educativi, hanno approfondito le diseguaglianze.
Alla distruzione del capitale fisico che caratterizzò l’evento bellico molti accostano oggi il timore di una distruzione del capitale umano di proporzioni senza precedenti dagli anni del conflitto mondiale. I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace. Aldilà delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta. Molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni. Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?’’ Tutte le risorse disponibili sono state mobilizzate per proteggere i lavoratori e le imprese che costituiscono il tessuto delle nostre economie. Si è evitato che la recessione si trasformasse in una prolungata depressione. Ma l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre.
Ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire. Il fatto che occorra flessibilità e pragmatismo nel governare oggi non può farci dimenticare l’importanza dei principii che ci hanno sin qui accompagnato. Il subitaneo abbandono di ogni schema di riferimento sia nazionale, sia internazionale è fonte di disorientamento. L’erosione di alcuni principii considerati fino ad allora fondamentali, era già iniziata con la grande crisi finanziaria; la giurisdizione del WTO, e con essa l’impianto del multilateralismo che aveva disciplinato le relazioni internazionali fin dalla fine della seconda guerra mondiale venivano messi in discussione dagli stessi Paesi che li avevano disegnati, gli Stati Uniti, o che ne avevano maggiormente beneficiato, la Cina; mai dall’Europa, che attraverso il proprio ordinamento di protezione sociale aveva attenuato alcune delle conseguenze più severe e più ingiuste della globalizzazione; l’impossibilità di giungere a un accordo mondiale sul clima, con le conseguenze che ciò ha sul riscaldamento globale; e in Europa, alle voci critiche della stessa costruzione europea, si accompagnava un crescente scetticismo, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano e dell’euro, nei confronti di alcune regole, ritenute essenziali per il suo funzionamento, concernenti: il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato; regole successivamente sospese o attenuate, a seguito dell’emergenza causata dall’esplosione della pandemia. L’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, timidezza e interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente. Questa incertezza, caratteristica dei percorsi verso nuovi ordinamenti, è stata poi amplificata dalla pandemia.
Il distanziamento sociale è una necessità e una responsabilità collettiva. Ma è fondamentalmente innaturale per le nostre società che vivono sullo scambio, sulla comunicazione interpersonale e sulla condivisione. È ancora incerto quando un vaccino sarà disponibile, quando potremo recuperare la normalità delle nostre relazioni. Tutto ciò è profondamente destabilizzante. Dobbiamo ora pensare a riformare l’esistente senza abbandonare i principi generali che ci hanno guidato in questi anni: l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà; il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale. Il futuro non è in una realtà senza più punti di riferimento, che porterebbe, come è successo in passato, si pensi agli anni 70 del secolo scorso, a politiche erratiche e certamente meno efficaci, a minor sicurezza interna ed esterna, a maggiore disoccupazione, ma il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente. Occorre pensarci subito.
Ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale, si pensi a De Gasperi, che nel 1943 scriveva la sua visione della futura democrazia italiana e a tanti altri che in Italia, in Europa, nel mondo immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse, e produsse nei suoi principi fondamentali l’ordinamento mondiale ed europeo che abbiamo conosciuto. È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito. Proprio perché oggi la politica economica è più pragmatica e i leader che la dirigono possono usare maggiore discrezionalità, occorre essere molto chiari sugli obiettivi che ci poniamo. La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè “debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato “debito cattivo”. I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi. Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri, per rafforzare una coesione sociale resa fragile dall’esperienza della pandemia e dalle difficoltà che l’uscita dalla recessione comporterà nei mesi a venire, per costruire un futuro di cui le nostre società oggi intravedono i contorni.
L’obiettivo è impegnativo ma non irraggiungibile se riusciremo a disperdere l’incertezza che oggi aleggia sui nostri Paesi. Stiamo ora assistendo a un rimbalzo nell’attività economica con la riapertura delle nostre economie. Vi sarà un recupero dal crollo del commercio internazionale e dei consumi interni, si pensi che il risparmio delle famiglie nell’area dell’euro è arrivato al 17% dal 13% dello scorso anno. Potrà esservi una ripresa degli investimenti privati e del prodotto interno lordo che nel secondo trimestre del 2020 in qualche Paese era tornato a livelli di metà anni 90. Ma una vera ripresa dei consumi e degli investimenti si avrà solo col dissolversi dell’incertezza che oggi osserviamo e con politiche economiche che siano allo stesso tempo efficaci nell’assicurare il sostegno delle famiglie e delle imprese e credibili, perché sostenibili nel tempo. Il ritorno alla crescita e la sostenibilità delle politiche economiche sono essenziali per rispondere al cambiamento nei desideri delle nostre società; a cominciare da un sistema sanitario dove l’efficienza si misuri anche nella preparazione alle catastrofi di massa. La protezione dell’ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che può essere considerato il più grande disastro sanitario dei nostri tempi. La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati.
Vi è però un settore, essenziale per la crescita e quindi per tutte le trasformazioni che ho appena elencato, dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l’azione immediata: l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani. Questo è stato sempre vero ma la situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore. La partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento. Se guardiamo alle culture e alle nazioni che meglio hanno gestito l’incertezza e la necessità del cambiamento, hanno tutte assegnato all’educazione il ruolo fondamentale nel preparare i giovani a gestire il cambiamento e l’incertezza nei loro percorsi di vita, con saggezza e indipendenza di giudizio. Ma c’è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza. Alcuni giorni prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea lo scorso anno, ho avuto il privilegio di rivolgermi agli studenti e ai professori dell’Università Cattolica a Milano.
Lo scopo della mia esposizione in quell’occasione era cercar di descrivere quelle che considero le tre qualità indispensabili a coloro che sono in posizioni di potere: la conoscenza per cui le decisioni sono basate sui fatti, non soltanto sulle convinzioni; il coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze, poiché l’inazione ha essa stessa conseguenze e non esonera dalla responsabilità; l’umiltà di capire che il potere che hanno è stato affidato loro non per un uso arbitrario, ma per raggiungere gli obiettivi che il legislatore ha loro assegnato nell’ambito di un preciso mandato. Riflettevo allora sulle lezioni apprese nel corso della mia carriera: non avrei certo potuto immaginare quanto velocemente e quanto tragicamente i nostri leader sarebbero stati chiamati a mostrare di possedere queste qualità. La situazione di oggi richiede però un impegno speciale: come già osservato, l’emergenza ha richiesto maggiore discrezionalità nella risposta dei governi, che non nei tempi ordinari: maggiore del solito dovrà allora essere la trasparenza delle loro azioni, la spiegazione della loro coerenza con il mandato che hanno ricevuto e con i principi che lo hanno ispirato. La costruzione del futuro, perché le sue fondazioni non poggino sulla sabbia, non può che vedere coinvolta tutta la società che deve riconoscersi nelle scelte fatte perché non siano in futuro facilmente reversibili. Trasparenza e condivisione sono sempre state essenziali per la credibilità dell’azione di governo; lo sono specialmente oggi quando la discrezionalità che spesso caratterizza l’emergenza si accompagna a scelte destinate a proiettare i loro effetti negli anni a venire. Questa affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme, questa visione comune del futuro che vogliamo costruire si deve ritrovare sia a livello nazionale, sia a livello europeo. La pandemia ha severamente provato la coesione sociale a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei.
Da questa crisi l’Europa può uscire rafforzata. L’azione dei governi poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria. Il fondo per la generazione futura (Next Generation EU) arricchisce gli strumenti della politica europea. Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo. Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione. In futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia. Ma non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà che sarebbe dovuta essere spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà. Perciò questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei. Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un’impresa condivisa da tutti gli europei, un’occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato. È nella natura del progetto europeo evolversi gradualmente e prevedibilmente, con la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni: l’introduzione dell’euro seguì logicamente la creazione del mercato unico; la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali, prima, l’unione bancaria, dopo, furono conseguenze necessarie della moneta unica. La creazione di un bilancio europeo, anch’essa prevedibile nell’evoluzione della nostra architettura istituzionale, un giorno correggerà questo difetto che ancora permane. Questo è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione, di azione comune. La strada si ritrova certamente e non siamo soli nella sua ricerca. Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione. Solo allora, con la buona coscienza di chi assolve al proprio compito, potremo ricordare ai più giovani che il miglior modo per ritrovare la direzione del presente è disegnare il tuo futuro.
Bretton Woods, quando il mondo non ascoltò Keynes. E sbagliò
A settant’anni dalla morte del celebre e spesso evocato economista britannico, raccontiamo il giorno in cui il suo sogno di creare una moneta globale fu sconfitta, nonostante con ogni probabilità avesse ragione
di Luca Fantacci (LINKiesta, 21 Aprile 2016)
Dopo tre anni di pianificazione e di negoziati bilaterali, Gran Bretagna e Stati Uniti giungono a formulare una proposta congiunta, il cosiddetto Joint Statement. Stilato ad Atlantic City nell’aprile del 1944, il documento fungerà da base di discussione per la conferenza dei paesi alleati che si apre a Bretton Woods il 10 luglio successivo, e dalla quale emergono, dopo tre settimane di colloqui, gli accordi che dettano le regole dell’ordine monetario postbellico.
Keynes vive la firma degli accordi come una dichiarazione di resa incondizionata. È costretto a firmare senza nemmeno poter leggere il testo definitivo dall’inizio alla fine. È pur vero che lui stesso, nel corso delle trattative, ha sostenuto l’importanza di raggiungere un’intesa anche a costo di qualche compromesso. È lecito dubitare, tuttavia, che al momento della stipula Keynes fosse nella condizione di apprezzare la reale portata delle concessioni che si apprestava a sottoscrivere.
Solo poco prima della chiusura della conferenza, infatti, gli statunitensi introducono arbitrariamente nel testo degli accordi quello che sarà l’elemento più importante dell’intero sistema economico internazionale del dopoguerra: l’utilizzo del dollaro come moneta internazionale.
I contorni precisi della vicenda sono emersi solo di recente, con la pubblicazione integrale degli atti della conferenza. Ne emerge con chiarezza che, ancora a pochi giorni dalla conclusione, la bozza prevedeva un sistema perfettamente simmetrico, in cui nessuna valuta di nessun paese godeva di uno status privilegiato. Sarebbe stato l’oro a conservare il ruolo di unità di conto internazionale. Si delineava, in sostanza, una riedizione del gold standard, in cui il Fondo monetario, attraverso i propri prestiti, avrebbe avuto la funzione di attenuare le rigidità e le tendenze deflative che avevano caratterizzato i precedenti sistemi a base aurea. Il riferimento al dollaro americano è inserito all’ultimo momento, senza alcuna discussione e senza che i delegati mostrino la minima consapevolezza delle implicazioni.
Che nel 1944 il dollaro possa essere accettato come equivalente dell’oro è piuttosto ovvio: la sua parità aurea è fissa da più di un secolo, i forzieri di Fort Knox custodiscono oltre l’80 per cento delle riserve auree mondiali, la convertibilità del dollaro in oro (35 dollari per ogni oncia) non può essere messa in dubbio. Eppure, sancire sul piano giuridico un’equivalenza di fatto non è privo di conseguenze. Adottare una moneta nazionale come moneta internazionale significa, come aveva ammesso lo stesso White qualche anno prima, sia pure in termini astratti e alquanto eufemistici, «accordare al paese titolare di quella valuta un qualche lieve vantaggio in termini di pubblicità o di commercio».
Di fatto, la possibilità di utilizzare la propria moneta come mezzo di pagamento internazionale fornisce agli Stati Uniti una fonte di liquidità potenzialmente illimitata, al servizio dell’egemonia mondiale e delle sue molteplici leve: aiuti internazionali, commercio, investimenti esteri, spese militari.
Keynes ha il sentore che il sistema di Bretton Woods non nasca sotto i migliori auspici, come lascia trasparire nel breve discorso che tiene a Savannah il 9 marzo 1946, in occasione della sua inaugurazione (Documento vii). Il tono è sarcastico dall’inizio alla fine, e tradisce la delusione di Keynes nel veder naufragare per la seconda volta le sue speranze di porre fine alla guerra con una vera pace.
La conferenza di Savannah è il «battesimo dei gemellini», esordisce Keynes, riferendosi al Fondo monetario internazionale e alla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (destinata a diventare, in seguito, la Banca mondiale). E subito ironizza sui nomi delle due creature, che sembrano essere stati invertiti: quella a cui si dà il nome di Banca funziona, di fatto, come un fondo d’investimento; quella battezzata come Fondo, in realtà, è, o avrebbe dovuto essere, una banca commerciale. Questa inversione non è un errore di poco conto agli occhi di Keynes, che aveva sempre insistito sull’opportunità di distinguere fra una finanza di breve termine, al servizio degli scambi commerciali, sostanzialmente garantita dai beni reali, e una finanza di lungo termine, strutturalmente esposta all’incertezza, a sostegno degli investimenti.
Keynes prosegue invocando la benedizione di tre fatine, affinché donino ai gemelli imparzialità, forza e saggezza. Ed esprime l’auspicio che il maestro di cerimonie non abbia dimenticato di invitare al battesimo una quarta fata, cattiva, che per ripicca avrebbe maledetto i neonati, facendoli diventare due politici. Pochi giorni dopo, Keynes s’imbarca da New York per rientrare in Inghilterra. Chi lo incontra a bordo della Queen Mary lo descrive deluso e amareggiato, intento a scrivere quello che sarà il suo ultimo articolo, sugli squilibri della bilancia dei pagamenti americana.
Non passa molto tempo, infatti, prima che i presentimenti di Keynes si mostrino fondati e la fata maligna consumi la sua vendetta. I moventi politici, in effetti, dominano le relazioni economiche internazionali del dopoguerra. Non tanto attraverso il Fondo monetario e la Banca mondiale che, essendo dotati di un capitale irrisorio e inadeguato ai loro compiti, sono relegati a un ruolo marginale. Sono gli Stati Uniti il vero centro di potere: nel nuovo regime monetario internazionale imperniato sul dollaro possono agire da fonte di liquidità per il mondo intero.
E lo fanno, in effetti, con una generosità senza precedenti. Il Piano Marshall costituisce notoriamente il programma di aiuti internazionali più ingente della storia. Altrettanto noto è che non risponde solo a una logica di potenziamento economico, ma anche alla necessità politica di consolidare il blocco occidentale di fronte alla minaccia sovietica. Ciò che invece rischia di passare inosservato è che le generose donazioni americane sono rese possibili proprio dal regime di eccezione di cui godono gli Stati Uniti, in virtù dello status privilegiato del dollaro come moneta internazionale.
Come la vedova di Sarepta, l’America può dare allo straniero ciò di cui ha bisogno, senza che nulla venga a mancare a lei. I miliardi di dollari che mette a disposizione degli alleati non riducono di un solo centesimo il denaro che le resta, poiché quei dollari sono creati dal nulla. Sono aiuti senza costo... ma non senza prezzo: ciò che si perde, tanto nel caso dei donatori quanto nel caso dei beneficiari, è il senso economico delle loro reciproche relazioni. Non c’è modo di distinguere fra dono, prestito e scambio, in un regime in cui tutti e tre possono essere praticati indifferentemente senza intaccare il potere d’acquisto di chi li effettua.
Keynes aveva messo in guardia da un simile rischio: «Sarebbe altresì un errore sollecitare, di nostra iniziativa, un aiuto finanziario degli Stati Uniti a nostro favore dopo la guerra, che sia a titolo di dono, di prestito senza interesse o di ridistribuzione gratuita di riserve auree». Perciò aveva respinto ogni idea di «piano filantropico crocerossino, grazie al quale i paesi ricchi vengono in soccorso di quelli poveri».Cinque anni prima che fosse concepito il Piano Marshall, Keynes contestava la logica che lo avrebbe ispirato: era una logica di potenza che avrebbe sbilanciato irreparabilmente le relazioni economiche e finanziarie, consegnando al paese più ricco la fonte stessa della ricchezza, consentendogli di acquistare senza spendere, di prestare senza rinunciare, di donare senza perdere.
Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia:
L’abbondanza e il capitale
di Piero Bevilacqua ( Eddyburg, 30 Settembre 2015) *
Il capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l’abbondanza. Oggi l’abbondanza che lo minaccia è, come sempre, quella delle merci, ma in una misura che non ha precedenti. Ad essa, negli ultimi decenni, se ne è aggiunta un’altra, assolutamente inedita, che coinvolge un vasto e crescente ambito di servizi. Per alcuni beni la saturazione del mercato capitalistico è visibile a occhio nudo ormai da tempo. I capi d’abbigliamento si comprano ancora nei negozi, a prezzi che generano un certo profitto a chi li produce e a chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato parallelo così esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può dire che nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero degli individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno possiamo osservare nell’ambito dei servizi più avanzati: l’accesso all’informazione, alla cultura, all’arte, alla musica.
Certo, occorre almeno possedere un cellulare, pagare un contratto a un gestore. Ma è evidente che siamo invasi anche qui - insieme, certo, al ciarpame - da un’abbondanza di offerta, a prezzi decrescenti che tendono a creare uno spazio di fruizione fuori mercato. Sappiamo che il capitale anche da tali beni riesce a trarre ancora profitti, ma oggi è sotto i nostri occhi uno scenario di abbondanza di servizi e beni culturali, di umana emancipazione, potenziale e di fatto, che non ha precedenti. Solo cinquant’anni fa tutto questo era lontano dalla nostra immaginazione. Occorre sempre gettare un occhio al passato, per evitare di scorgere nel presente solo un cumulo di sconfitte.
Com’è noto, il capitale combatte la caduta tendenziale del saggio di profitto inventando nuovi beni e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio sulla natura per trasformare il vivente in merci brevettabili, strappando al controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e dello stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche fortunatissime - la crisi e poi il crollo del blocco comunista, la burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei sindacati, la rivoluzione informatica - ha sventato la più grande minaccia da abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua storia: quella degli ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di beni stava per riversarsi nel mercato dei Paesi avanzati, un sovrappiù di merci che avrebbe costretto imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto a ridurre drasticamente l’orario di lavoro. Si sarebbe arrivati a quel passaggio epocale previsto da Keynes nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti (1928-30), che, con la crescita della produttività a «a un ritmo superiore all’1% annuo» avrebbe spinto le società industriali, nel giro di un secolo, a istituire una durata del lavoro a 15 ore settimanali.
In realtà, la crescita della produttività mondiale è stata superiore alle stesse previsioni di Keynes, con risultati però opposti rispetto alle sue aspettative. In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e nitore espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli, 2014) Nicola Costantino ha ricordato che il tasso di crescita annuo della produttività a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato tra il 2 e il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del 2,5%, in Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998, del 3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del singolo lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo, è aumentata di ben 7 volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate da Keynes e su cui egli fondava la previsione delle 15 ore settimanali.
Ma la giornata lavorativa non è stata accorciata, se non in Francia, in maniera contrastata e oggi rimessa in discussione. Ovunque, specie negli ultimi anni, la durata del lavoro quotidiano è cresciuta a dismisura. Negli USA, già prima della crisi era diventato generale il fenomeno del workaholic, l’alcolismo del lavoro, mentre oggi sempre di più gli americani lamentano la mancanza di tempo, il time squeeze, time pressure, time poverty (S.Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli 2010).
Lavorano tutto il giorno come dannati: ma almeno guadagnano bene? Niente affatto, essi sono in grandissimo numero poveri e indebitati. Come ha ricordato Maxime Robin su Le Monde diplomatique-Il Manifesto (Stati Uniti, l’arte di ricattare i poveri, settembre 2015) oggi in Usa i check casher, piccole banche per prestiti veloci, dilagano nei quartieri poveri più dei McDonald’s.
Ma in genere tutti gli americani della middle class sono indebitati. «Uno statunitense nella norma è un cittadino indebitato che paga le rate in tempo». E le cose non son certo migliorate con la ripresa santificata dai media. Il 95% dei redditi aggiuntivi che si sono creati dopo la crisi - ricordava The Economist nel settembre 2013 - è andato all’1% delle persone più ricche. Al restante 99% sono andate le briciole del 5%. Tutto come prima, peggio di prima.
Che cosa dunque è accaduto? Perché dal mondo dell’abbondanza a portata di mano siamo precipitati nel regno della scarsità? La risposta essenziale è molto semplice. Perché il capitalismo dei paesi dominanti (Usa e Europa in primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di profitto nei paesi poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese, non incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, ha generato un’arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la scarsità del lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job. I dati recenti sono impressionanti.Tra il 1991 e il 2011 - ricorda Costantino - mentre il Pil reale planetario è cresciuto del 66%, il tasso globale di occupazione è diminuito dell’1,1%. In 20 anni un quarto di beni in più con meno lavoro.
Ma una vasta e ben controllata disoccupazione è oggi un arma politica, non solo un effetto delle trasformazioni economiche. Tale scarsità, diventata permanente e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e lavoro, economia e politica, poteri finanziari e cittadini, drammaticamente asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come gli affamati un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L’intera struttura dello stato di diritto ne risente, gli istituti della democrazia vengono progressivamente svuotati. Sindacati e partiti, funzionari del presente, invocano la “ripresa” come se il futuro possa “riprendere” le fattezze del passato.
E tuttavia tale artificiale scarsità non può durare a lungo. Non solo perché le innovazioni produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza artificiale,ecc) stanno per rovesciarci interi continenti di merci e servizi, sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche perché l’abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro oggi genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C’è troppo danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie, rispetto alle necessità della produzione. Patrimoni concentrati in gruppi ristretti che non corrono il rischio dell’investimento produttivo in società ormai sature di beni e con una domanda debole, mentre la grande massa dei lavoratori è tenuta a basso salario perché i loro padroni devono poter competere a livello globale. Tutti i capitalismi nazionali comprimono i salari, allungano gli orari di lavoro, sperando nelle esportazioni e tutti, o quasi, languono nella generale stagnazione. Mentre i soldi si accumulano, generano altri soldi, muovono speculazioni nei mercati finanziari e preparano altre crisi.
Questo quadro che non teme smentite - poggia su una vasta e solida letteratura - ha una grande importanza per la sinistra. In esso è possibile scorgere che una vita di gran lunga migliore sarebbe possibile per tutti e che solo i rapporti di forza dominanti la ostacolano, facendo regredire la società nel suo insieme. Non c’è una crisi, intesa come un evento naturale. È stato il cedimento storico dei partiti della sinistra, dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della scarsità sull’abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si può riprendere. Da questa lezione si può comprendere come niente di naturale è rinvenibile nella situazione presente: è tutto dipendente da scelte politiche, da puri rapporti di forza.
Si può così smascherare l’idea di una scarsità a cui occorre piegarsi come all’antico Fato. Così come l’idea di una “ripresa” affidata alle riforme del mercato del lavoro, alla flessibilità dei lavoratori, senza toccare la piramide delle ricchezze accumulate. -Non ci sono i soldi, recita la litania dei politici, di gran parte degli economisti main stream, gli aguzzini intellettuali più attivi sulla scena pubblica, con il loro seguito di giornalisti orecchianti.
È la più grande menzogna della nostra epoca. I soldi non ci sono per pensioni dignitose, per il reddito di cittadinanza, non ci sono per le borse di studio agli studenti, che disertano gli studi universitari, non ci sono per i nostri ricercatori e per la gioventù intellettuale, costretta a migrare all’estero. Ma ci sono in misura crescente e cumulativa nei patrimoni privati: in un solo anno, tra il 2011 e 2012, mentre infuriava la crisi, il numero degli individui con un patrimonio superiore a un milione di dollari è cresciuto nel mondo del 6%, in Italia del 10% . I soldi ci sono in quantità senza precedenti per le banche. E le centinaia di miliardi di euro che la BCE sta profondendo a piene mani, semplicemente stampandoli?
Dunque, una grande abbondanza (auspichiamo, di beni e servizi avanzati, frutto di una generale riconversione ecologica, di riduzione del lavoro ) è alla nostra portata. E bisogna infondere non solo nel nostro popolo, ma nella società italiana tutta intera questa grande pretesa. La pretesa della prosperità e del ben vivere per tutti. È una prospettiva di nuovi bisogni, che non solo è possibile soddisfare, ma coincide con una tendenza storica inarrestabile e che capitale e ceto politico possono solo ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi e del lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel passato l’interesse generale, una necessità indifferibile e universale. Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia.
Jeremy Corbyn. Compagno economista
Canta Bandiera Rossa e legge Marx? Sì, ma non solo. Perché per rendere credibile la sua prossima candidatura a guidare la Gran Bretagna, il neo leader laburista Jeremy Corbyn ha reclutato una squadra di influenti professori e intellettuali Obiettivo: dimostrare che si può dare battaglia, da sinistra, all’austerity alle banche e al dominio del liberismo Redistribuendo la ricchezza. “Così faremo una politica per il 99% della gente e non per l’1% di privilegiati”
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 29.09.2015)
BRIGHTON FINORA i conservatori lo ridicolizzavano perché legge Marx, canta Bandiera Rossa e non mette mai la cravatta: “Affidereste l’economia della Gran Bretagna a uno così?”, tuona il Sun, organo ufficioso della destra anglosassone. Ma adesso Jeremy Corbyn ha colto l’occasione del congresso annuale del partito per annunciare l’arruolamento di un “all star team” di economisti di sinistra, anzi molto di sinistra, e di colpo l’establishment sembra prendere più seriamente il nuovo leader laburista. È una squadra che comprende un premio Nobel americano, Joseph Stiglitz, un intellettuale francese della rive (decisamente) gauche, Thomas Piketty, un’italiana che ha fatto gli studi negli Usa e insegna nel Regno Unito, Mariana Mazzucato, una russa trapiantata a Londra, un inglese docente a Oxford e un ex-analista della Banca d’Inghilterra. Si riuniranno quattro volte l’anno per dare consigli e vere e proprie “lezioni” a Corbyn, al ministro del Tesoro del suo governo ombra John McDonnell e a qualunque parlamentare laburista affetto da scetticismo sulla possibilità di adottare una formula anti-austerità, se non anti-capitalismo. «Aiuteranno il Labour a scrivere un programma di sinistra», afferma il Financial Times. E la bibbia della City, davanti a mezza dozzina di “compagni economisti” di questo peso, non ironizza.
La notizia piomba sul congresso laburista riunito a Brighton, allietato da un sole non necessariamente “dell’avvenire” ma insolito a fine settembre a queste latitudini, come la prima autentica sorpresa tirata fuori dal cappello dallo “Tsipras inglese”, come qualcuno ha ribattezzato Corbyn: eterna primula rossa, eletto leader contro tutti i pronostici nelle primarie di due settimane fa grazie al sostegno di giovani, donne e sindacati, determinato a spazzare via il riformismo blairista e a fare una politica «per il 99 per cento della gente, non per l’1 per cento di privilegiati». Ma mentre i vignettisti lo dipingono come un barbudo alla Fidel Castro, il 68enne neo-capo del Labour rivela di non essere una macchietta o uno sprovveduto, scegliendo come consiglieri alcuni degli accademici e pensatori più autorevoli sulla scena internazionale. «Come dare lustro alla sinistra», riassume rispettosamente il concetto il pur filo-conservatore Sunday Times.
La celebrità del gruppo è attualmente Piketty, docente alla Ecole de Economie di Parigi, autore del best-seller dell’anno, “Il capitale nel ventunesimo secolo”, un j’accuse della crescente diseguaglianza che ha fatto di lui una stella citata praticamente ovunque, perfino alla Casa Bianca e da chi non è d’accordo. «Oggi la ricchezza è così concentrata nelle mani di pochi che una larga parte della società è praticamente ignara della sua esistenza», scrive nel libro. La sua ricetta base: ridistribuirla attraverso una tassa progressiva globale sul reddito.
Non meno conosciuto è tuttavia Stiglitz, docente alla Columbia University di New York, vincitore del Nobel nel 2001, ex-capo economista della Banca Mondiale, dunque con un curriculum che non ne farebbe propriamente un rivoluzionario, ma diventato un accanito critico dell’ortodossia economica neoliberale e di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale dopo il collasso finanziario mondiale del 2008. La sua filosofia è centrata sul fatto che i mercati «non si auto-correggono da soli» e che serve una maggiore regulation del settore finanziario per mettere fine a speculazioni, rischi e corruzione.
Nata in Italia ma cresciuta e laureata negli Stati Uniti, dove ha preso anche la cittadinanza americana, ora docente alla University of Sussex, Mariana Mazzucato è uno dei maggior esperti mondiali sull’intervento dello Stato nell’economia: il suo libro “Lo stato innovatore” (pubblicato nel nostro paese da Laterza) demolisce il mito che solo l’impresa privata sia una forza innovativa per la società, mettendo in rilievo, dati alla mano, il ruolo dinamico dell’economia pubblica in molti settori, dall’ambiente alle telecomunicazioni, dalle nanotecnologie alla farmaceutica. Sta ai governi fare investimenti ad alto potenziale in nuove industrie come la green technology, afferma, difendendo il diritto-dovere dello stato ad avere non solo una missione ma anche «a sognare».
La professoressa Nesvetailova, direttore del centro ricerche della City University di Londra, viene dalla Russia ma nei suoi studi analizza proprio il contraddittorio rapporto con Mosca dell’Occidente, pronto a varare sanzioni contro il Cremlino e ad avere relazioni con paradisi fiscali usati dagli oligarchi dell’Est. Per questa economista “venuta dal freddo”, una più forte regulation finanziaria non sarà comunque sufficiente a evitare una nuova crisi bancaria.
E la squadra è completata da Simon Wren- Lewis, docente di politica economica alla Oxford University, che accusa il governo Cameron di avere «ritardato la ripresa di due anni» insistendo sui tagli alla spesa pubblica, e David Blanchflower, ex-membro del comitato che decide la politica monetaria per la banca centrale inglese, secondo il quale i piani dei conservatori per altra austerità sono «lunatici».
I primi sondaggi su Corbyn sono stati disastrosi: nessun leader laburista aveva mai ottenuto un tale livello di sfiducia, provocata in larga misura dall’impressione che sia solo un socialista vecchia maniera, ancorato a un’ideologia sorpassata.
L’“all star team” di economisti mira a smentire un simile giudizio, dimostrando che è stata una politica economica di destra a causare i problemi, le proteste, i disagi dell’ultimo decennio e che anche una politica di sinistra può avere una base teorica rispettabile. «Il partito laburista ha una fantastica opportunità di costruire una politica economica nuova e originale, che svelerà quanto l’austerità sia stata un fallimento in Gran Bretagna e in tutta Europa», proclama Piketty.
L’obiettivo non sarà rovesciare il capitalismo, rassicura McDonnell, il braccio destro di Corbyn e il suo “ministro del Tesoro” nel governo ombra: «Ma il modello economico che abbiamo usato in questi anni non ha funzionato, per cui bisogna trasformarlo». A Brighton il Labour ha cominciato a spiegare come: McDonnell parla di una “Robin Hood tax”, una tassa sulle operazioni finanziarie delle banche, Corbyn riconosce che è giusto pareggiare il bilancio ma ingiusto farne pagare il prezzo ai poveri e alla classe media. Magari il nuovo leader del Labour non riuscirà a fare la rivoluzione che ha in mente, scrive Martin Wolf, principe degli editorialisti del Financial Times, «ma è presto per scommettere che non può vincere le prossime elezioni». Come minimo, con l’aiuto dei “compagni economisti”, cercherà di dare dignità a un pensiero diverso dal modello unico liberista che sembra avere accomunato destra e sinistra.
Mariana Mazzucato
Tra gli economisti reclutati come consulenti da Corbyn: Mariana Mazzucato, Joseph Stiglitz e Thomas Piketty Daranno consigli al leader Labour per cambiare la politica economica
“Meno finanza e più industria per cancellare i privilegi”
intervista di Eugenio Occorsio (la Repubblica, 29.09.2015)
«La chiave del nostro messaggio economico è semplice: la Gran Bretagna cresce, è vero, ma noi vogliamo che questa crescita sia più omogenea, più inclusiva, con meno finanza e più industria, e soprattutto meno diseguaglianze». Mariana Mazzucato, docente di Economia dell’innovazione nell’università del Sussex, fa parte della squadra di consulenti economici d’elite, da Joseph Stiglitz a Thomas Piketty, chiamata da James Corbyn a delineare le proposte di politica economica del partito laburista nuova versione, quello che sfiderà i Tories per il governo britannico. «È stata una sorpresa. Con Corbyn c’eravamo visti solo in un paio di dibattiti, né ho mai fatto parte del Labour. Questo weekend mi hanno telefonato, precisandomi che il comitato sarà fatto da consulenti indipendenti che manterranno la loro libertà di critica».
Lei è stata citata dal cancelliere ombra John McDonnel alla Labour Conference per il suo lavoro sullo Stato “entrepeneurial”: qualcosa di più di imprenditore, uno Stato che ha la mentalità e la vocazione dell’industriale. A noi ricorda l’Iri: non è antica come ricetta?
«Assolutamente no. Al contrario, qui è la differenza con i conservatori: lo Stato non è un’entità molesta nel business, che lasciato a se stesso farebbe meglio. Va sfatato il mito dello Stato lento e polveroso contro l’impresa dinamica e moderna. Cameron si lasciò scappare l’espressione “il civil servant è nemico dell’impresa”, poi l’ha ritirata ma la mentalità resta quella. A certe condizioni, lo Stato deve essere un partner con pari se non maggior dignità dei soci privati, e assumere una funzione guida nella politica industriale. Purché sappia dove andare. Vanno fissati obiettivi precisi di politica economica, con una visione: la Silicon Valley è nata perché con interventi pubblici si è perseguita l’eccellenza nell’hi-tech, l’attuale mole di investimenti nelle nuove energie in Germania deriva dalla scelta “verde”. C’è una sostanziale presenza dello Stato negli investimenti importanti».
Qualcosa di simile a quello che fa in Italia la Cassa depositi e prestiti?
«Non esattamente. La Cdp investe i risparmi postali che possono essere richiamati in qualsiasi momento, non ha un fondo di dotazione stabile che garantisca investimenti di lungo termine. Di capitale in giro per il mondo ce n’è tanto, bisogna far sì che non sia utilizzato per speculazioni finanziarie ma divenga “paziente”. Qui lo Stato può ritrovare un ruolo: guidare gli investimenti privati, incanalarli, spingerli anche con qualcosa di più del nudging, l’arte di convincere, che si usa invece per i cittadini. Per capirsi, qualcosa di simile a quanto faceva il governo americano con i Bell Labs, “costretti” a investire nell’innovazione: erano dell’At&t alla quale in cambio lo Stato concedeva di tenere il monopolio, oltre a immobilizzarvi parte del capitale. In fondo è quello che ha detto Obama alla Fiat: prenditi la Chrysler (che era stata salvata dal governo Usa, ndr ) però investi nei motori ibridi. Quale lungimiranza, è il caso di dire. Per tutto questo servono ministeri, agenzie e dipartimenti, ben strutturati con personale qualificato, forti e coerenti».
E anche ben finanziati.
«Inutile negare che è un problema. Va affrontato con pragmatismo: si può tollerare qualche decimale di deficit in più se questo è ben canalizzato verso investimenti produttivi in grado di alzare il Pil. E quindi sul medio termine di rendere più favorevole il rapporto debito/Pil, che è quello che conta. È un tema delicato per il Labour, accusato di non prendere sul serio il problema del debito. Bisogna dimostrare che gli investimenti pubblici sono, se razionali, produttivi per il sistema. E che non basta perseguire il risanamento dei conti di breve termine se non si interviene sulla produttività: l’Italia ha i conti più in ordine della Germania eppure è ferma. Quanto alle tasse, si può lavorare sulla riduzione degli incentivi, sui sotterfugi dell’elusione a partire da quella delle multinazionali, sull’evasione che anche qui è un problema».
E di alzare le tasse su ricchi parlerete?
«Non so se sarà alzata l’aliquota massima (il 48% per i redditi sopra le 100mila sterline, ndr). Si agirà prima sulle tasse delle grandi proprietà, delle rendite finanziarie, delle banche stesse. Però, è un discorso tutto da elaborare».
In cosa credono e in cosa non credono i keynesiani
di Paul Krugman (Il Sole-24 Ore, 25 settembre 2015)
Gli attacchi contro gli economisti keynesiani, e contro di me in particolare, fanno leva solitamente su una sfilza di argomenti inventati, che prendono di mire cose che quelli come me avrebbero predetto o affermato, anche se non hanno nulla a che vedere con quello che abbiamo detto nella realtà. Ma forse abbiamo il demerito (quantomeno io) di aver trascurato di fornire una semplice spiegazione degli elementi di base della visione keynesiana. Non parlo dei modelli, parlo delle implicazioni di politica economica.
E allora eccovi un tentativo di riassumere brevemente in quattro punti la posizione keynesiana, seguito da un campione delle tesi infondate più diffuse.
1. Le economie a volte producono molto meno di quanto potrebbero (e danno lavoro a molte meno persone di quanto dovrebbero), semplicemente perché non si spende abbastanza. Può succedere per diversi motivi: il problema è come rispondere.
2. Di regola, ci sono forze che tendono a riportare l’economia verso la piena occupazione. Ma queste forze agiscono lentamente. Scegliere di non fare niente per un’economia depressa significa accettare senza alcuna necessità un lungo periodo di patimenti.
3. Spesso è possibile abbreviare drasticamente questo periodo di sofferenze e ridurre enormemente i costi umani e finanziari «stampando moneta», cioè usando il potere della Banca centrale di creare moneta per spingere in basso i tassi di interesse.
4. A volte, però, la politica monetaria perde efficacia, specie quando i tassi sono prossimi allo zero. In quel caso, una fase temporanea di spesa in disavanzo può dare una spinta utile all’economia. Inversamente, politiche di austerity in un’economia depressa possono produrre grossi danni.
Vi sembra una dottrina complicata e involuta? A me no, e le implicazioni di politica economica per il mondo in cui viviamo dal 2008 a oggi mi sembrano molto chiare: un’espansione aggressiva della massa monetaria unita a stimoli di bilancio finché l’efficacia della politica monetaria è limitata dallo zero lower bound. Ma nella mente dei nostri contestatori succedono cose strane, e continuiamo a vedere gente che sostiene cose come queste, a proposito delle teorie keynesiane:
A. Qualsiasi ripresa economica, anche se lenta e tardiva, dimostra che le teorie keynesiane sono sbagliate. Per smentire questa tesi rimando al punto 2.
B. I keynesiani sono convinti che stampare moneta risolva tutti i problemi. Tornate al punto 3: stampare moneta può risolvere il problema specifico di un’economia che opera nettamente al di sotto delle proprie capacità. Nessuno ha mai detto che stampare moneta possa evocare per magia un aumento di produttività o curare il raffreddore.
C. I keynesiani sono favorevoli alla spesa in disavanzo in qualsiasi condizione. Come ho detto nel punto 4, le condizioni per invocare stimoli di bilancio sono piuttosto restrittive: si dev’essere in presenza di un’economia depressa e di una politica monetaria pesantemente limitata nella sua efficacia; insomma, il mondo in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni. Non mi illudo che questa spiegazione possa dissuadere i soliti sospetti dal ripetere le solite falsità. Ma forse aiuterà gli altri a replicare più efficacemente.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Perché è necessario tornare a Keynes
di Guido Carandini (la Repubblica, 27.03.2014)
IN EUROPA siamo fra i Paesi che si trovano a fronteggiare una prolungata e ostinata recessione che rende estremi i fenomeni delle disuguaglianze, che accresce la disoccupazione di massa e quindi l’inevitabile immiserimento della classe media. Anche da noi cresce il numero degli studiosi che sostengono la scarsa validità della scienza economica definita main stream, nel senso di “tradizionale”, che ancora si insegna nelle Università, che viene professata dalla maggior parte degli economisti e di conseguenza finisce per essere accettata anche dal senso comune.
Scarsa validità perché quella scienza non soltanto non spiega i disastrosi fenomeni, ma neppure li concepisce non essendo disposta - incredibile a dirsi - a rinunciare ad alcuni principi di fondo e di lontana provenienza i quali sono ancora incapaci di dare una spiegazione semplicemente perché negano la possibilità stessa del loro verificarsi. Infatti, per assurdo e fantasioso che possa apparire, fra quei principi continua a esserci quello della presunta “efficienza e razionalità dei mercati”, nel senso che essi sarebbero capaci in via di principio di impedire in ogni caso che si verifichino le situazioni di squilibrio da cui crisi e recessioni hanno origine.
Se si immagina una situazione in cui i prezzi e i salari, al contrario di quel che accade in realtà, fossero completamente flessibili, cioè capaci all’occorrenza di aumentare o diminuire nella misura in cui sarebbe di volta in volta necessario per mantenere in equilibrio l’economia, allora regnerebbero la piena occupazione e la piena utilizzazione delle risorse. Perché ogni shock produrrebbe nel sistema un istantaneo aggiustamento di prezzi e salari capace di evitare ogni possibile trauma al sistema economico nel suo complesso. Tuttavia, se questo non accade non è colpa del mercato ma appunto secondo la scienza economica main stream lo si deve allo Stato e ai suoi interventi che violano il libero manifestarsi delle forze autonome degli agenti economici.
Peccato che la supposta efficienza e razionalità dei mercati siano puramente frutto di una ideologia e non di una visione critica principalmente per due ragioni.
La prima è che sono affermate da una teoria che riflette l’immagine del mondo caratteristica di quella determinata classe che in ogni tempo è dominante proprio in quanto quei mercati cerca di controllarli secondo le sue convenienze e il suo tornaconto. E questo avviene anche se è una classe che costituisce in ogni Paese una esigua minoranza dato che in quelli più avanzati, come sostiene il Premio Nobel Stiglitz, costituisce generalmente appena l’uno percento della popolazione.
La seconda ragione è che quel principio, per essere valido, esige a sua volta di essere basato su una ipotesi del tutto fantasiosa ma che ancora pare sia necessaria a molte teorie insegnate nelle Università, e cioè che tutti gli agenti economici hanno “una perfetta conoscenza del futuro”. Il guaio sarebbe che proprio questa ipotesi assai azzardata era stata respinta come del tutto inconcepibile da un teorico che apparteneva anche lui al mondo accademico e cioè da John Maynard Keynes.
Keynes sosteneva l’opposto principio delle “incerte aspettative” che immancabilmente dominano le decisioni di quegli agenti. Ed è stato lui che quasi ottant’anni fa scriveva una Teoria generale nella quale, al contrario dei suoi colleghi, mostrava che le possibilità di crisi sono endemiche del capitalismo proprio perché si tratta di un sistema caratterizzato da quella insuperabile incertezza. Tutto questo ce lo ricordano gli economisti di ispirazione keynesiana come Paolo Leon e il più importante biografo di Keynes, cioè l’economista e storico Robert Skidelsky nel suo più recente libro The Return of the Master ( Allen Lane 2009), nel quale sostiene che sessant’anni dopo la sua morte egli continua a essere il più grande pensatore economico fin qui apparso nel mondo.
Ed è proprio per questo che il suo ritorno oggi sarebbe indispensabile per restituire alla scienza economica la effettiva capacità di interpretare la realtà, invece di camuffarla per renderla compatibile con teorie assai spesso campate in aria ma sicuramente gradite a ben precisi interessi.
I lavoratori, i robot e i signori della rapina
di Paul Krugman (la Repubblica e The New York Times, 11.12.2012)
L’economia americana, sotto molti punti di vista, è ancora adesso gravemente depressa. Eppure gli utili societari stanno raggiungendo cifre da record. Come è possibile? Semplice: gli utili si sono impennati come frazione del reddito nazionale, mentre i salari e le altre retribuzioni della manodopera sono in flessione. La torta non sta crescendo come dovrebbe, ma il capitale se la passa bene arraffandone una fetta sempre più grossa, a discapito della manodopera.
Un momento: stiamo forse parlando ancora una volta di capitale in contrapposizione a lavoro? Non è un argomento obsoleto? Un soggetto quasi marxista di cui parlare, passato di moda nella nostra moderna economia dell’informazione? Beh, questo è quanto molti pensavano. Per la scorsa generazione i discorsi sull’ineguaglianza non si sono concentrati per lo più sul capitale in contrapposizione a lavoro, ma su questioni di distribuzione tra lavoratori, e quindi o sul divario esistente tra i lavoratori più istruiti e quelli meno istruiti o sui redditi in forte rialzo di un pugno di superstar nel campo della finanza e di altri settori. Questa sì, in effetti, potrebbe essere storia passata.
Più specificatamente, se è vero che i pezzi grossi della finanza stanno ancora agendo da banditi - in parte perché, come ormai sappiamo, alcuni di loro effettivamente lo sono -, il divario retributivo tra i lavoratori che hanno un’istruzione universitaria e quelli che non l’hanno (che si acuì molto in modo particolare tra gli anni Ottanta e i primi Novanta) da allora non è variato granché. In verità, i lavoratori neolaureati avevano redditi statici addirittura prima che la crisi finanziaria colpisse. Sempre più spesso, gli utili stanno aumentando a spese dei lavoratori in genere, compresi i salariati che hanno le qualifiche ritenute adatte a portare al successo nell’economia odierna.
Perché sta accadendo questo? Il meglio che posso dire è che vi sono due spiegazioni plausibili, ed entrambe potrebbero essere vere in parte. La prima è che la tecnologia ha preso una piega che colloca in posizione di netto svantaggio la manodopera. L’altra è che stiamo assistendo agli effetti di un palese aumento del potere dei monopoli. Provate a pensare a queste due ipotesi come a una maggiore importanza conferita ai robot da una parte e ai signori della rapina dall’altra.
Parliamo di robot: è fuor di dubbio che in alcuni settori industriali di alto profilo la tecnologia sta rimpiazzando sempre più lavoratori di tutti i generi o quasi. Per esempio, una delle ragioni per le quali da qualche tempo alcuni processi produttivi di articoli hi-tech stanno tornando negli Stati Uniti è che ormai il componente di maggior valore di un computer, la scheda madre, è fabbricato in pratica da robot, e di conseguenza la manodopera asiatica a prezzi stracciati non costituisce più un motivo valido per produrlo all’estero.
In un libro appena pubblicato e intitolato Race Against the Machine (La corsa contro le macchine), Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee dell’Mit sostengono che la stessa cosa sta avvenendo in molti campi disparati, compresi servizi quali la traduzione e la ricerca legale. Negli esempi da loro addotti in particolare colpisce il fatto che molti posti di lavoro soppressi richiedono alte competenze e sono ben retribuiti. Ne consegue che lo svantaggio della tecnologia non è limitato ai mestieri più umili.
E tuttavia: innovazione e progresso possono danneggiare davvero un gran numero di lavoratori o addirittura i lavoratori in genere? Spesso mi imbatto in affermazioni secondo le quali ciò non può accadere. In verità, invece, può accadere eccome, e illustri economisti sono consapevoli di tale probabilità da almeno due secoli. David Ricardo è un economista dell’inizio del XIX secolo famoso per lo più per la sua teoria del vantaggio comparato, che costituisce uno dei capisaldi del libero commercio. Ma nel medesimo libro del 1817 nel quale Ricardo illustrava quella teoria c’è anche un capitolo su come le nuove tecnologie della Rivoluzione industriale ad alto impiego di capitale di fatto avrebbero potuto peggiorare le condizioni dei lavoratori, quanto meno per un po’. Gli studiosi moderni puntualizzano che le cose in realtà sono andate avanti così per parecchi decenni.
Che dire dei signori della rapina? Di questi tempi non si parla molto del potere dei monopoli. L’applicazione delle leggi anti-trust durante gli anni della presidenza Reagan è stata per lo più abbandonata e da allora non è mai ripresa davvero. Eppure Barry Lynn e Phillip Longman della New America Foundation sostengono - in modo convincente, dal mio punto di vista - che la crescente concentrazione di aziende potrebbe costituire un fattore determinante ai fini della stagnante richiesta di manodopera, dato che le corporation usano il loro potere monopolistico in netta espansione per aumentare i prezzi senza passarne gli utili ai propri dipendenti.
Ignoro in che misura la tecnologia o il monopolio possano spiegare la svalutazione della manodopera, in parte perché si parla molto poco di quello che sta accadendo. Tuttavia, penso che sia corretto affermare che lo spostamento del reddito dalla forza lavoro al capitale non è ancora entrato nel nostro dibattito nazionale.
Quello spostamento, peraltro, è in corso, e ha implicazioni ragguardevoli. Per esempio, vi sono forti pressioni, lautamente finanziate, a favore della riduzione delle aliquote fiscali applicate alle grandi società. È davvero questo che intendiamo lasciare che accada nel momento in cui gli utili sono in forte aumento a detrimento dei lavoratori? E che dire delle pressioni volte a ridurre o abolire del tutto le imposte di successione? Se stiamo per tornare a un mondo nel quale è il capitale finanziario - e non le qualifiche professionali o il livello di istruzione - a determinare il reddito, vogliamo davvero rendere ancora più facile ricevere in eredità la ricchezza?
Come ho premesso, questo dibattito non è ancora iniziato sul serio. In ogni caso, è ora di iniziarlo, prima che i robot e i signori della rapina trasformino la nostra società in qualcosa di completamente irriconoscibile.
(Traduzione di Anna Bissanti)
© 2012, The New York Times
La deriva del capitalismo
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini (la Repubblica, 22.09.2012)
Le mille argomentazioni per spiegare la crisi in cui sono immersi i paesi occidentali da cinque anni a questa parte non ci appaiono molto convincenti e, come ha ricordato Vladimiro Giacché, riportano alla mente le giustificazioni di John Belushi nel film dei Blues Blothers.
Per convincere l’ex fidanzata abbandonata sull’altare a non ammazzarlo, Belushi dice: «Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!».
Alle mille spiegazioni della crisi, noi ne aggiungiamo un’altra: la liberazione del movimento dei capitali, che, all’inizio degli anni ’80, pose fine al grande compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali a cui faceva da contrappeso la libertà di circolazione delle merci.
Lo strappo effettuato dai due leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario.
A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della c
Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non
Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattor
Ma c’è anche un altro motivo, l’enorme concorrenza che si stabilisce dopo la liberazione dei movimenti di capitale tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale. Questa concorrenza acuisce e aumenta l’importanza del profitto nell’ambito della struttura economica. Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioniazionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo.
Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi “antispread” rappresentano un primo passo importante per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione Europea e per ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.
Europa, và a scuola da Keynes
di Amartya Sen (la Repubblica, 15.06.2012)
La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: se questa massima avesse bisogno di una conferma, potremmo trovarla nella crisi europea. Le intenzioni, indubbiamente apprezzabili ma non lungimiranti, dei politici dell’Ue appaiono inadeguate al compito di risanare l’economia europea.Provocando anzi condizioni di miseria, confusione e caos.
E ciò per due ragioni. Innanzitutto, a volte anche le intenzioni più rispettabili mancano di lucidità: di fatto, i fondamenti dell’attuale politica di austerità, in un contesto di rigidezza come quello dell’Unione monetaria europea (in assenza di un’unione fiscale) non costituiscono certo un modello di coerenza e sagacia. In secondo luogo, un’intenzione fine a se stessa può confliggere con una priorità più urgente, che in questo caso è quella di salvaguardare un’Europa democratica e impegnata per il benessere sociale. Sono questi i valori per i quali l’Europa si è battuta per molti decenni.
È indubbiamente vero che alcuni Paesi europei avrebbero dovuto adottare da tempo comportamenti economici e gestionali più responsabili. In questo campo si pone però il problema cruciale dei tempi di attuazione: occorre distinguere tra le riforme varate in base a un calendario accuratamente calibrato, e quelle decise in condizioni di estrema urgenza. Nel caso della Grecia, va detto che al di là dei suoi problemi di accountability, questo Paese non versava in una situazione di crisi economica prima della recessione globale del 2008. (Di fatto, il suo tasso di crescita è stato del 4,6% nel 2006 e del 3% nel 2007, per poi calare in maniera costante negli anni seguenti).
La causa delle riforme, per quanto urgenti, non si serve al meglio imponendo unilateralmente tagli repentini e brutali dei pubblici servizi. Questi interventi indiscriminati abbattono la domanda, e rappresentano quindi una strategia controproducente, anche a fronte degli elevati tassi di disoccupazione e della bassa produttività di un sistema imprenditoriale già decimato dal calo della domanda dei mercati. In Grecia, uno dei Paesi lasciati ai margini degli incrementi di produttività conseguiti altrove, gli interventi di stimolo economico attraverso strumenti di politica monetaria (o in altri termini, la svalutazione della moneta) sono oggi preclusi dall’esistenza dell’Unione monetaria europea; e al tempo stesso, il fiscal package richiesto dai leader dell’Ue frena severamente la crescita. In tutta l’Eurozona, i livelli di produzione sono calati in maniera costante nell’ultimo trimestre dello scorso anno. Le prospettive erano buie, a tal punto che molti hanno accolto come una buona notizia il dato di crescita zero riferito da uno studio recente sull’andamento del primo trimestre di quest’anno.
Di fatto, numerosi esempi storici dimostrano che la politica di risanamento più efficiente consiste nell’affiancare alle misure di riduzione del deficit gli stimoli per una rapida crescita economica, per generare un incremento dei redditi. Dopo la Seconda guerra mondiale fu proprio la crescita economica a consentire il rapido riassorbimento dei gigante- schi livelli di deficit; e qualcosa di analogo accadde durante la presidenza di Bill Clinton. Anche la riduzione del deficit di bilancio svedese tra il 1994 e il 1998, spesso decantata, ha potuto essere ottenuta in parallelo con un ritmo di crescita abbastanza rapido. Oggi avviene il contrario: ai Paesi europei si chiede di tagliare i propri deficit in un periodo di crescita stagnante, se non addirittura negativa.
Avremmo sicuramente molto da imparare da John Maynard Keynes, che aveva ben compreso il rapporto di interdipendenza tra Stato e mercato, anche se non prestava un’attenzione particolare ai temi della giustizia sociale o alpasso l’impegno politico che permise all’Europa di risollevarsi dopo la Seconda guerra mondiale. Fu quell’impegno a dar vita al moderno welfare e ai servizi sanitari nazionali, creati non a sostegno dell’economia di mercato, bensì per tutelare il benessere dei cittadini.
Ma al di là di Keynes, che non aveva approfondito il suo impegno sulle questioni sociali, esiste una tesi economica tradizionale secondo la quale l’efficienza dei mercati deve andare di pari con l’offerta di servizi pubblici che il mercato stesso potrebbe non essere in grado di assicurare. In “The Wealth of Nations” (“La ricchezza delle nazioni”) Adam Smith (presentato a volte in maniera un po’ troppo semplicistica come il primo guru dell’economia di mercato) sostiene che un’economia «ha due obiettivi distinti ». In primo luogo, «assicurare alla popolazione abbondanti redditi o sussistenza - o più specificamente, porre i cittadini in condizioni di procurarsi tali redditi o mezzi di sussistenza; e in secondo luogo, fornire allo Stato o alla comunità entrate sufficienti per i pubblici servizi». L’aspetto forse più inquietante dell’attuale malessere europeo è il fatto che l’impegno democratico è soppiantato dai diktat finanziari, imposti non solo dai leader dell’Ue e dalla Banca centrale Europea, ma indirettamente anche dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono stati notoriamente fallaci.
Un dibattito pubblico partecipato - un «government by discussion », secondo l’espressione di teorici della democrazia quali John Stuart Mill e Walter Bagehot - avrebbe potuto identificare riforme appropriate, realizzabili in un lasso di tempo ragionevole, senza mettere a repentaglio le fondamenta del sistema di giustizia sociale europeo. Per converso, i repentini e drastici tagli ai pubblici servizi, nella quasi totale assenza di un dibattito per verificarne la necessità, l’equità e l’efficacia, hanno suscitato un senso di rivolta in ampi settori della popolazione europea, facendo il gioco delle ali estreme dello spettro politico.
La ripresa europea sarà possibile solo a condizione di affrontare due questioni di legittimità politica. In primo luogo, l’Europa non può consegnarsi alle tesi unilaterali degli esperti - o alle loro buone intenzioni - in assenza di un pubblico dibattito ragionato, e senza il consenso informato dei suoi cittadini. Dato lo scontento evidente dell’opinione pubblica, non c’è da sorprendersi se di volta in volta varie consultazioni elettorali hanno dimostrato l’insoddisfazione dei votanti, che hanno negato la loro fiducia agli attuali responsabili.
In secondo luogo, la democrazia e la stessa possibilità di una buona politica sono a rischio quando i leader impongono scelte inefficaci e vistosamente ingiuste. L’evidente insuccesso delle misure di austerità finora imposte si riflette negativamente non solo sulla partecipazione pubblica - che rappresenta un valore in sé - ma anche sulla prospettiva di giungere, in tempi ragionevoli, a una soluzione sensata.
Siamo davvero molto lontani dall’idea di un’«Europa democratica e unita» cara ai pionieri dell’Unione europea.
L’autore è premio Nobel per l’economia (Copyright New York Times 2012 Traduzione di Elisabetta Horvat)
Se l’Europa ricordasse Keynes
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 23.05.2012)
Si dice spesso che l’Europa unita ha perso potere di attrazione, adesso che gli europei non si fanno più guerre. Ma è difficile chiamar pace, quello che stiamo vivendo.
Guerresco è il modo in cui da due anni Greci e Tedeschi si parlano. Guerresco il clima di depressione, di paura. Guerresco, soprattutto, il trattamento riservato ai paesi indebitati, non a caso chiamati con l’acronimo Pigs, maiali: considerati alla stregua di popoli vinti con le armi, da ostracizzare, punire. I piani di austerità, come la guerra di Clausewitz, stanno diventando la continuazione della politica con altri mezzi, e l’Europa, associata a tali piani, subisce lo stesso destino. Il che vuol dire: austerità e bellicosità soppiantano la politica, la sopprimono. C’è dominio tedesco, ma l’egemone non ha progetti di rifondazione della civiltà europea. È tragicamente assente un potere europeo che rappresenti tutti, democraticamente legittimato, che sia pronto a fronteggiare la buona sorte e la cattiva. Latitano istituzioni sovranazionali forti, che nella sciagura di uno Stato riconoscano la sciagura dell’intero sistema. Ci sono innocenti e colpevoli, vincitori e vinti: l’idea stessa di solidarietà, più morale che politica, oscura pericolosamente l’interesse, le responsabilità, gli obblighi condivisi.
Fu trattata così la Germania, nel trattato di Versailles del 1919, e sappiamo quel che seguì, il rancore nazionalista che il castigo suscitò. Hitler sfruttò tale risentimento, dando al popolo non solo una crescita trainata dalle spese militari ma dignità e senso di appartenenza perduti. Manca oggi il Keynes della situazione, che denunci le calamità ineluttabilmente provocate da penitenziali terapie deflazionistiche. Conseguenze economiche della pace s’intitolava il libro pubblicato nel ’19, e oggi potrebbe esser scritto tale e quale, con le periferie sud-europee al posto della Germania.
Keynes aveva partecipato alla conferenza di Versailles come rappresentante del Tesoro britannico, ma il 7 giugno 1919 si dimise, e scrisse il suo libro denuncia. Le sue idee, respinte dai vincitori, furono straordinariamente veggenti: non si può chiedere l’impossibile a un popolo vinto, demoralizzato, devastato, e dare al diktat il nobile nome di trattato. Non è pace, se la crisi non è vissuta come dramma comune a debitori e creditori. In queste condizioni era una beffa, il proclama del Presidente Usa Wilson: il ’14-18 avrebbe «messo fine a tutte le guerre». Altre conflagrazioni sarebbero venute, precipitando l’Europa in una guerra di trent’anni.
I ricordi giocano brutti scherzi, proprio alla Germania che dopo il ’45 ricostruì una democrazia modello, forgiata dalle introspezioni della politica della memoria. Ma col tempo la memoria si è fatta come emiplegica: come se solo una parte della storia venisse trattenuta. Resta l’assillo dell’iperinflazione fra il 1914 e il 1923, ma svapora la deflazione cominciata nel ’29 e finita con l’avvento di Hitler. Lo stesso vale per le riparazioni che frantumarono la democrazia di Weimar, e per la sconfitta di Keynes a Versailles: si dimentica la vittoria tardiva, ma pur sempre vittoria, che questi conobbe dopo la seconda guerra mondiale. Stavolta Europa e America cambiarono rotta: nacquero il Piano Marshall, il Fondo monetario internazionale, l’unità europea. Vinse il New Deal di Roosevelt, non l’ottimismo cieco di Wilson. Di nessuna guerra si poteva dire che sarebbe stata l’ultima, tantomeno in Europa, se tra ex belligeranti non si concordavano una comune crescita e comuni istituzioni, nella consapevolezza che sempre può arrivare qualcuno che alla politica preferisce altri mezzi.
Il Cancelliere sembra indifferente alle lezioni di ieri, se non ignaro. La stanchezza europea del suo popolo è anche opera sua. In parte, forse, pesa il suo apprendistato nella Germania comunista. Se si esclude l’attuale governo polacco, i governi dell’Est tendono a diffidare di un’Unione sovranazionale. Sono i più puntigliosi difensori delle decisioni unanimi, dei veti nazionali, dell’Europa impolitica. Coltivano sovranità illusorie, e non vedono che il presente crollo è crollo ormai palese degli Stati nazione.
Tanto più succube è la Merkel verso la Germania della Banca centrale tedesca e della vecchia dottrina che la pervade: prima viene la casa in ordine, poi la comunanza transnazionale. La Bundesbank sta prendendo la sua rivincita sull’internazionalismo di Brandt, Schmidt, poi di Kohl che volle la moneta unica contro l’istituto di emissione. La storia contava ancora, a quell’epoca: Kohl disse che bisognava «liberare l’Europa dal problema tedesco» e creare gli Stati Uniti d’Europa, di cui la moneta unica sarebbe stata la molla inaugurale. Il trattato di Maastricht doveva preparare ben più radicali trasformazioni istituzionali, e se il disegno naufragò fu perché - per colpa del nazionalismo francese - rimase a metà strada. Lo stesso Patto di stabilità e di governo della crisi (fiscal compact), approvato a marzo da 25 Stati, disciplina le singole economie con nuovi trasferimenti di sovranità ma non crea né le istituzioni comuni (Commissione che risponda ai deputati europei più che ai governi, Parlamento con partiti europei, vera Costituzione) né gli strumenti finanziari (eurobond, project bond) che permettano all’Unione di far politica e unire quel che è sfaldato. È così che la Grecia è divenuta capro espiatorio, che il male interno s’è fatto esterno, che sono state innalzate fallaci linee Maginot (il cosiddetto firewall) per impedire contaminazioni già in atto.
Naturalmente è molto rischioso prendersela solo con l’Europa, non fosse altro perché sono ancora gli Stati o i direttorii di Stati a determinarla. Anche l’Unione, come Atene, rischia di divenire capro espiatorio, nemico esterno. La crescita invocata da Hollande e dai socialdemocratici tedeschi, dai Democratici italiani e dal Syriza di Tsipras a Atene, dovrà scaturire da iniziative europee ma anche da mutazioni nazionali, necessarie in un’economia-mondo dove l’Occidente non è più centro. Fatto sta che le due cose - l’ordine in casa e l’iniziativa europea - dovranno andare insieme: non domani, ma subito. Che le riforme strutturali fatte in Germania nel 2002, presentate come esemplari, sono impraticabili in tempi di recessione (da ben 5 anni la Grecia è in recessione). Non c’è tempo. Dietro l’angolo c’è la bancarotta non solo ellenica ma europea, e cittadini impauriti già fuggono dalle banche greche e spagnole.
Quello di cui c’è bisogno sono istituzioni europee che rilancino in proprio l’economia: con eurobond, con comuni tasse sulle transazioni finanziarie e sulle emissioni di biossido di carbonio. O in assenza di eurobond, con un patto significativamente detto «di redenzione», suggerito dal Consiglio tedesco degli esperti economici: la parte dei debiti eccedente il 60 per cento del prodotto interno diverrebbe debito dell’Unione, gestito da un Fondo comune di 2.300 miliardi di euro, per la durata di almeno 25 anni. Comunitarizzazione di una parte del debito, rilancio dell’Unione: lo propongono oggi Hollande, Monti, i socialdemocratici e Verdi tedeschi. Lo chiede anche Obama, che da anni propugna un New Deal alla Roosevelt: per non naufragare nella crisi e perdere le elezioni, implora una rapida ripresa europea. La Merkel è isolata, in casa e fuori. Oggi al vertice informale di Bruxelles vedremo se qualcosa si muove.
Una nuova politica della memoria urge in Germania. Non per ultima, la memoria dei debiti bellici tedeschi, estinti a Londra nell’accordo del 1953, anche grazie alla Grecia che rinunciò alle riparazioni. Non per ultimo, il ricordo del monito di Keynes contro gli assolutisti del contratto, portati a trasformare i patti (il fiscal compact, oggi) in «usura ininterrotta».
Il problema è la finanza che diventa un fine
Ma il passato non torna
Già Marx criticava il capitalismo puro, privo di regole e controlli
Serve una gestione controllata delle economie. La sinistra non può stare in difesa
C’è bisogno di innovazione, le formule keynesiane oggi non funzionerebbero
di Vincenzo Visco (l’Unità, 13.02.2012)
È in corso da qualche tempo un dibattito sulla crisi del capitalismo cosa che non può certo sorprendere dopo tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni. Il 1 ̊ novembre scorso, proprio su questo giornale scrivevo: «... si affaccia un problema... di legittimità dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti l’accettabilità di un sistema economico-sociale richiede la sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità e di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità». Che una crisi dei nostri sistemi economici esiste è evidente, e da questo non pochi a sinistra stanno traendo motivi di compiacimento e soddisfazione: «noi lo sapevamo», «noi lo avevamo detto», «noi avevamo ragione». Un approccio di questo genere rischia tuttavia di produrre una regressione politico-culturale pericolosa.
Vediamo. Il fatto che il sistema capitalistico soprattutto quello nella sua forma pura, privo di regole, controlli, limiti e contrappesi sia pericolosamente instabile è ben noto almeno dai tempi in cui Marx descriveva i meccanismi dei collassi economici dell’800 (tragicamente identici a quelli che abbiamo sperimentato nel 2008).
Lo stesso problema fu al centro della riflessione e dell’analisi di Keynes, e non è un caso che nel periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni 80 del secolo scorso, quando fu in vigore il “compromesso keynesiano”, il sistema risultò molto più stabile, pur in presenza di fluttuazioni cicliche. In sostanza il capitalismo liberista è cosa ben diversa dal capitalismo regolato di matrice keynesiana (o socialdemocratica). Così come il capitalismo americano individualista e flessibile, è sempre stato diverso (in ambedue le versioni, liberista e keynesiana) da quello europeo molto più solidale, assistenziale, corporativo, oligopolista, ma anche esso oggi in difficoltà per ragioni demografiche e di sostenibilità del welfare. Il capitalismo fascista e nazista era a sua volta diverso da quello americano dirigista e programmato il primo, liberale il secondo.
Analogamente il nuovo capitalismo russo (che non a caso piaceva molto a Berlusconi) appare simile alla versione predatoria e monopolista dei robber barons americani nell’800 che non a caso fu transitoria, mentre il durissimo capitalismo cinese che coniuga il mercato nella sua forma più spinta con un dirigismo autoritario di ultima istanza che garantisce il sistema, la sua tenuta e la sua coesione, è esperienza diversa da tutte le altre, e a sua volta diversa da quella del Giappone, o di altri Paesi orientali. In sostanza è oggi in crisi quella forma di capitalismo in cui i mercati finanziari (banche, borse, intermediari vari) prendono il sopravvento e diventano autoreferenziali, un fine e non un mezzo, vale a dire quella variante del capitalismo che fu responsabile della crisi degli anni 30, e che si è riaffermata negli ultimi decenni fino al collasso attuale ma che è stata anche alla base di enormi fasi di crescita compresa l’ultima globalizzazione.
Sia lo sviluppo accelerato che i crolli improvvisi provocano traumi e sofferenze, ma la regressione economica collegata al collasso di una precedente fase di sviluppo può facilmente diventare socialmente insopportabile e rischia di precipitare in una crisi politica anche perché, di fronte ai problemi inediti che la crisi pone, le classi dirigenti appaiono inadeguate, impotenti, incapaci. È necessaria quindi una grande capacità di innovazione che negli anni 30 fu rappresentata da Roosvelt in America, ma ahimé da Hitler in Europa. Anche oggi il rischio di una svolta verso una forma di capitalismo autoritario (di tipo cinese) non è da escludere.
È anche bene ricordare che dopo la seconda guerra mondiale la classe dirigente dei Paesi occidentali erano ossessionate dalla minaccia sovietica il cui modello alternativo di società appariva credibile, e quindi erano ben disposte a venire a patti con i sindacati e i partiti socialisti e a introdurre limiti e vincoli agli «spiriti animali» del sistema. Oggi non vi sono minacce esterne (se non fosse quella, puramente distruttiva dell’integralismo islamico), e non vi sono modelli alternativi di società, mentre la riproposizione di formule keynesiane a livello nazionale si scontra da un lato con le dimensioni dei disavanzi e i debiti pubblici degli Stati, e dall’altra con il fatto che per essere veramente efficaci esse oggi andrebbero introdotte a livello sovranazionale, se non globale (non esiste la possibilità di un keynesismo in un solo Paese).
E ben vediamo la difficoltà dell’impresa: a livello europeo la signora Merkel sta riesumando un vecchio, pericolosissimo, approccio nazionalistico se non pangermanico, creando fratture, sofferenze e risentimenti negli altri Paesi europei. A livello G-20 dopo la felice collaborazione del 2009 prevalgono oggi le divisioni su tutti i problemi: dal coordinamento (e dal mix) delle politiche economiche da adottare, a quelle dei tassi di cambio, dagli squilibri macroeconomici globali, al sistema monetario internazionale, dal commercio internazionale, alla regolamentazione del sistema bancario e finanziario, dal riscaldamento globale alla sicurezza nella fornitura di energia e cibo a livello mondiale, ecc. La crisi del sistema economico si trasforma in crisi politica: il sistema potrebbe essere “aggiustato” ma gli interessi contrapposti e la visione corta creano la paralisi politica. Del resto ciò è inevitabile in un mondo privo di luoghi di riflessione ed elaborazione collettiva, e dominato da un sistema informatico ipertrofico e criminale nel senso che impedisce una riflessione sul passato e sul futuro e lascia la gente in balia di contraddittorie impressioni strettamente limitate al presente.
Inoltre non va dimenticato che il riaffermarsi negli anni 80 del ’900 del modello di capitalismo liberista dipese non solo dal crollo dell’Unione Sovietica, ma anche dal fatto che il precedente sistema regolato era entrato in crisi anche a causa dei propri abusi ed eccessi, e delle sistematica pretesa di utilizzare e depredare risorse future (ambiente, risparmi) per consumarle nel presente. Questo fenomeno spiega anche perché in Italia (ma non solo) all’interno della stessa sinistra vi siano gruppi minoritari, ma consistenti, favorevoli sia di fatto che per scelta culturale a un approccio liberista all’economia: essi infatti temono il ritorno a teorizzazioni e a pratiche intrise di ideologismo, forzature e talvolta prevaricazioni che in passato hanno prodotto l’accumulo del debito, l’inflazione, e un diffuso rancore nei confronti della sinistra da parte di consistenti strati della popolazione.
La crisi del modello di capitalismo che ha dominato degli ultimi 30 anni esiste, e va sottolineata, riaffermando la validità di una gestione controllata (programmata) delle economie. Ma è necessario trovare modalità e strumenti diversi dal passato e soprattutto convergenze e soluzioni da porre in essere a livello sovranazionale. Occorre ridare ruolo alla politica ma evitare gli abusi passati. Si tratta insomma di innovare, cambiare, riformare ribadendo le ragioni della sinistra, ma evitando il rischio di difesa e rivendicazione di un passato che non tornerà.
Investire sul lavoro
L’Europa torni a scoprire l’attualità di Keynes
di Laura Pennacchi (l’Unità, 29.12.2011)
È stupefacente che l’Italia e l’Europa stiano precipitando in una gravissima recessione senza fare niente per arrestarla e, anzi, aggravandola con politiche restrittive draconiane, irrimediabilmente destinate a comprimere i consumi e gli investimenti. Questo è accaduto al vertice europeo dell’8-9 dicembre, sotto l’imperio del duo Merkel-Sarkozy.
In quella sede l’ortodossia mirata a un’austerità fiscale generalizzata è risultata addirittura rafforzata, spingendo l’Europa nel «vicolo cieco» di cui parla Giuliano Amato. E ciò mentre indicatori tutti al negativo la disoccupazione esplosiva, la decrescita del commercio internazionale, lo sgonfiamento del boom dei paesi emergenti compresa la Cina, la moltiplicazione delle misure protezionistiche inducono il Fondo Monetario Internazionale ad evocare il rischio che si ripeta qualcosa di molto simile alla Grande Depressione degli anni 30, con il suo corredo di congiunzione tra recessione e tragedie totalitarie.
In questa situazione non dovrebbe sfuggire a nessuno la rinnovata centralità della questione del lavoro, non come ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro (come vorrebbero i sostenitori dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), ma come riattivazione di «piena e buona occupazione» con un Piano straordinario di creazione di lavoro per giovani e donne. Puntare sulla «piena» occupazione, infatti, è oggi il solo modo per far ripartire la crescita, così come generare «buona» occupazione è il solo modo per avere non una crescita quale che sia ma un nuovo modello di sviluppo. Non a caso furono politiche occupazionali su larga scala e di taglio non tradizionale quelle con cui il New Deal di Roosevelt sconfisse la depressione degli anni 30.
Vi sono, dunque molte buone ragioni per compiere un salto culturale e riscoprire l’attualità di Keynes, il quale giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento» e di «socializzazione dell’occupazione». Oggi, mentre la crisi globale scoppiata nel 2007-2008 sposta la sua carica distruttiva sull’Europa aggredendo direttamente il debito sovrano dei Paesi europei e mettendo in forse la stessa sopravvivenza dell’euro, si riproducono condizioni impressionantemente analoghe a quelle studiate da Keynes: la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono tutti gli operatori, gli investimenti crollano e i profitti flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito.
Per evitare che le forze destabilizzanti prendano il sopravvento l’ipotesi keynesiana dell’intrinseca instabilità del capitalismo prevede, anziché solo nuove regolazioni e liberalizzazioni pur opportune, la necessità di uno stimolo fiscale pubblico di grandi dimensioni, del tipo di quello tentato da Obama negli Usa. Quell’intervento diretto dello Stato (che oggi dovrebbe configurarsi alla scala di una statualità europea) che, preteso anche e soprattutto dai neoliberisti quando si tratta di salvare le banche e gli operatori finanziari, per altre finalità si vorrebbe far «arretrare» con tagli di spesa e privatizzazioni. Keynes, invece, consiglierebbe piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti, finanziati in disavanzo con nuova moneta, distinguendo tra debito «buono» (quello, per l’appunto, per nuovi investimenti) e debito «cattivo» (quello per spesa pubblica corrente improduttiva) e tenendo congiunti il lato della domanda e quello dell’offerta, tanto più in una fase di squilibri nelle capacità produttiva tra eccessi in alcuni settori e deficit in altri. Per Keynes solo un regime di pieno impiego dei fattori della produzione giustifica il principio del pareggio di bilancio, che in ogni caso non può valere per gli investimenti pubblici, vero traino dello sviluppo economico in una fase in cui si tratta non solo di rilanciare la crescita ma di cambiarne la qualità e la natura.
La «socializzazione degli investimenti», destinata a riqualificare l’offerta e ad aumentarne la produttività, al tempo stesso sostiene la domanda contenendo l’inflazione e riducendo nel tempo il rapporto debito/pil. La «socializzazione dell’occupazione» fa sì che l’operatore pubblico si doti di un «piano del lavoro» per la miriade di obiettivi che attendono solo agenzie e strutture che se ne prendano cura: tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali.
Per tutto ciò a un ripensamento strategicamente innovativo delle problematiche del lavoro e dell’occupazione deve essere orientato un armamentario in grado di sottrarre il «riformismo» a un tardo blairismo e a un veteroliberismo e di interpretarlo alla luce delle altissime sfide del presente e del futuro: una Tobin tax che punti alla definanziarizzazione di economie eccessivamente finanziarizzate, la tassazione dei patrimoni, il ripristino di un controllo sui movimenti di capitale volto a rendere «intelligente» la globalizzazione sregolata e iniqua che abbiamo avuto fin qui, la mutualizzazione del debito europeo, la riaffermazione in Europa del ruolo degli organismi comunitari e la ripartenza dell’unificazione politica.
Il ritorno di Karl Marx nel cuore di Wall Street
Quei ricchi isterici che minacciano i valori americani
di Paul Krugman (la Repubblica, 11.10.2011)
NON sappiamo ancora se i manifestanti del movimento Occupy Wall Street imprimeranno una svolta all’America. Di certo, le proteste hanno provocato una reazione incredibilmente isterica da parte di Wall Street, dei super ricchi in generale. Edi quei politici ed esperti che servono fedelmente gli interessi di quell’un per cento più facoltoso. Questa reazione ci dice qualcosa di importante,e cioè che gli estremisti che minacciano i valori americani sono quelli che Franklin Delano Roosevelt definiva i monarchici economici ("economic royalists") non la gente che si accampaa Zuccotti Park. Si consideri, innanzi tutto, come i politici repubblicani abbiano raffigurato queste piccole, anche se crescenti dimostrazioni, che hanno comportato qualche scontro con la polizia - scontri dovuti, pare, a reazioni esagerate della polizia stessa - ma nulla che si possa definire una sommossa.
Non c’è stato nulla, finora, di paragonabile al comportamento delle folle raccolte dal Tea Party nell’estate del 2009. Ciò nonostante, Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato degli «assalti» e «la contrapposizione di americani contro americani». Sono intervenuti nel dibattito anche i candidati alla presidenza del partito repubblicano, il cosiddetto Grand Old Party, con Mitt Romney che accusa i manifestanti di dichiarare una «guerra di classe», mentre Herman Cain li definisce «antiamericani». Il mio preferito, comunque, è il senatore Rand Paul che, per qualche motivo, teme che i manifestanti cominceranno a impossessarsi degli iPads, perché credono che i ricchi non se li meritino.
Michael Bloomberg, sindaco di New York e gigante della finanza a pieno titolo, è stato un po’ più moderato. Pur accusando anche lui i manifestanti di voler «portar via il posto a chi lavora in questa città», una dichiarazione che non ha nulla a che vedere con i reali obiettivi del movimento. E se vi è capitato di sentire i mezzibusti della CNBC, gli avrete sentito dire che i manifestanti si sono «scatenati» e che sono «allineati con Lenin».
Per capire tutto questo, bisogna rendersi conto che fa parte di una sindrome più ampia, nella quale gli americani ricchi, che beneficiano ampiamente di un sistema truccato a loro favore, reagiscono in modo isterico contro chiunque metta in evidenza quanto sia truccato questo sistema.
L’anno scorso, probabilmente lo ricorderete, alcuni baroni della finanza si infuriarono per alcune critiche molto miti fatte dal presidente Obama. Accusarono Obama di essere quasi un socialista perché appoggiava la cosiddetta legge Volcker, che voleva semplicemente impedire alle banche sostenute da garanzie federali di intraprendere speculazioni rischiose. E riguardo alla proposta di metter fine a una scappatoia che permette a molti di loro di pagare delle tasse bassissime, Stephen Schwarzman, presidente del Gruppo Blackstone, ha reagito paragonandola all’invasione nazista della Polonia.
Poi c’è la campagna diffamatoria contro Elizabeth Warren, una riformatrice del sistema finanziario che si candida al senato per il Massachusetts. Recentemente, un suo video su YouTube, in cui spiegava in molto eloquente e comprensibile a tutti perché si debbano tassare i ricchi, ha fatto il giro del web. Non diceva nulla di radicale: era solo una moderna versione della famosa definizione di Oliver Wendell Holmes, secondo la quale «le tasse sono ciò che paghiamo per vivere in una società civile».
Ma se dessimo ascolto ai paladini della ricchezza, dovremmo pensare che la Warren sia la reincarnazione di Lev Trotsky. George Will ha dichiarato che ha un «programma collettivista» e che crede che «l’individualismo sia una chimera». Rush Limbaugh l’ha definita, invece, «un parassita che odia il proprio ospite e che vuole distruggerlo mentre gli succhia il sangue». Ma che sta succedendo? La risposta, di sicuro, è che i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. Non sono John Galt; non sono nemmeno Steve Jobs. Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite - fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media. Questo trattamento speciale non sopporta un’analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato, come dimostra il disperato tentativo di infangare Elizabeth Warren.
Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza.
© 2011 New York Times News Service. Traduzione di Luis E. Moriones)
E gli Usa rinnegano il mito del capitale
Il movimento anti-Wall Street che da giorni scende in piazza ha scelto il proprio "guru". E, a sorpresa, ha rispolverato Marx e le sue teorie. Nella nazione in cui parlare male dei miliardari era diventato un tabù, sembra l’inizio di una svolta rispetto agli ultimi 30 anni segnati dall’egemonia culturale dell’edonismo reaganiano
di Federico Rampini (la Repubblica, 11.10.2011)
NEW YORK C’è un nuovo guru i cui testi sono diventati un’ispirazione per Wall Street: è un tedesco barbuto, si chiama Karl Marx. A riscoprire l’autore del "Capitale" e del "Manifesto del partito comunista" non sono soloi giovani che da tre settimane protestano contro i soprusi dei banchieri. Il movimento "Occupy Wall Street" è arrivato secondo in questa riscoperta. Il revival di Marx era già iniziato altrove: ai piani alti di quegli stessi grattacieli di Downtown Manhattan, contro cui i manifestanti gridano i loro slogan. Michael Cembalest, capo della strategia d’investimento per la JP Morgan Chase, in una lettera riservata ai clienti Vip della sua banca scrive che «i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari».
Cembalest riecheggia ampiamente l’analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provocate da un capitalismo che comprime il potere d’acquisto dei lavoratori. Sottolinea che a fronte dei profitti-record c’è «un livello salariale sceso ai minimi da 50 anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al Pil americano». Tre suoi colleghi di Citigroup, altro colosso bancario di Wall Street, nei loro studi per i clienti descrivono gli Stati Uniti come una «plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro».
La rivista The New Republic parla di "bolscevismo alla Brooks Brothers": è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa le celebri camice che sono uno status-symbol della élite di Manhattan. La rivista economico-finanziaria Bloomberg Businessweek intitola un reportage "Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti". Cita un altro esperto di una grande banca, George Magnus della Ubs, secondo il quale l’attuale livello di disoccupazione può essere descritto come «l’esercito industriale di riserva» di Marx: un’arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoroe comprimerei livelli retributivi. Il capitalismo - sostiene Bloomberg Businessweek - ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè offrendo all’esercito dei nuovi poveri un credito a buon mercato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha interrotto quell’illusione.
Il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule universitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of Santa Cruz, California, un circolo interdisciplinare di lettura e commento dei testi del grande Karl, di Friedrich Engelse di Antonio Gramsci si è formato attorno al Dipartimento di Scienze Ambientali, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. Aumentano gli abbonamentia The Nation, l’unica rivista storica della sinistra americana che non ha mai ripudiato il marxismo; la sua direttrice Katrina Vanden Heuvel è un’opinionista corteggiata dai network televisivi Abc, Cnn, Msnbc, Pbs.
Per il pubblico di massa, la tv ha appena lanciato due serial praticamente sovversivi. Basta "Sex and the City"e altre storie eroticofrivole da borghesi spendaccioni, roba datata pre-recessione. Ora vanno in onda "2 Broke Girls" storia di due ragazze spiantate (vedi il titolo) che faticano per sopravvivere coni magri salari da cameriere. Sul network Abc il serial del momentoè "Revenge", dove la protagonista trama vendette contro i banchieri e altri privilegiati che hanno rovinato suo padre. Gli episodi si svolgono agli Hamptons, la località di villeggiatura marittima dei miliardari newyorchesi, luogo ideale per chi voglia punire i capitalisti. L’attrice Madeleine Stowe che recita da protagonista della "Vendetta", è convinta che «in questo particolare momento della nostra storia, l’americano medio vuol vederei ricchi messi al tappeto».
E’ un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent’anni, segnati dall’egemonia culturale dell’"edonismo reaganiano"? Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diventato un tabù, perché il dogma dell’American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti. Per anni in cima alla classifica dei best-seller si sono avvicendati libri come "Secrets of the Millionaire Mind", "The Millionaire Next Door", "Rich Dad Poor Dad": i lettori sembravano ossessionati dalla voglia di carpire i segreti del milionario della porta accanto, il suo modo di pensare, i metodi con cui educai suoi figli. Perfino le chiese evangeliste si erano adeguate, scordandosi della parabola sul "riccoe la cruna dell’ago" avevano abbandonato il Vangelo di Matteo a favore di un culto della prosperità: successoe ricchezza come segni della predestinazione divina. Ora tutto ciò sembra invecchiato di colpo, di fronte all’efficacia dello slogan di "Occupy Wall Street": «Siamo il 99%, riprendiamoci un’America cheè stata sequestrata dall’1% dei plutocrati».
I manifestanti sono ancora un minoranza, ma dietro di loro c’è una realtà terribile. La recessione del 2007-2009 ha lasciato 25 milioni di americani senza lavoro e ha tagliato del 3,2% i redditi di chi ancora ha un posto. Dopo quella botta le cose non sono affatto migliorate, anzi: dal giugno 2009 al giugno 2011 il reddito della famiglia media è sceso ancora di più, meno 6,7%. Nel frattempo per i ricchi nulla è cambiato. E non importa se siano incompetenti: Léo Apotheker, il disastroso chief executive di Hewlett-Packard defenestrato dal Consiglio d’amministrazione il mese scorso, è stato ringraziato con un "premio di licenziamento" di 13 milioni di dollari che si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio normale cioè 10 milioni in soli 11 mesi. Il suo collega chief executive di Amgen (biotecnologie) se n’è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell’azienda in Borsa era caduto del 7%e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti.
Barack Obama ha colto il cambiamento di clima e da un paio di settimane il suo tono è un po’ più radicale. Ha proposto la tassa sui milionari, sfidando la destra a bocciargliela al Congresso. Ha espresso «comprensione» per il movimento "Occupy Wall Street", noncurante del fatto che la polizia di New York ne abbia arrestato 700 aderenti per il blocco illegale del ponte di Brooklyn. Subito da destra è partita contro il presidente l’accusa di «fomentare l’odio di classe» (Rick Perry), di «incitare alla lotta di classe» (Mitt Romney). Sembrano riecheggiare Ronald Reagan, il padre storico dei neoconservatori, quando diede la sua versione della discriminante tra destra e sinistra: «Noi aumentiamo la ricchezza nazionale perché tutti abbiano di più, loro redistribuiscono quello che abbiamo già, cioè spartiscono la povertà».
Ma il Verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent’anni di regressione delle classi lavoratrici e del ceto medio. Sotto lo shock di questo declino della middle class, si cominciaa riscoprire che gli anni d’oro dell’American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all’epoca dei presidenti democratici Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt c’erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John Kennedy e Lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massimo potere contrattuale dei sindacati.
David Harvey, il 75enne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a Oxford poi a Johns Hopkins) è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, «in mano al capitalismo sregolatoe alla destra, l’economia di mercato va verso l’autodistruzione». Un segnale arriva perfino dalla superpotenza governata da un partito che si definisce comunista.
In Cina l’attenzione verso "Occupy Wall Street" è intensa, sul blog Utopia animato da accademici nostalgici del maoismo quella protesta viene definita come «l’inizio di una rivoluzione che spazzerà il mondo». E non si limiterà agli Stati Uniti: secondo quei blogger cinesi «i paesi emergenti hanno lo stesso destino, le stesse sofferenze, gli stessi problemie gli stessi conflitti; di fronte a una élite globale che è il comune nemico, i popoli hanno una sola opzione, unirsi per rovesciare lo strapotere delle oligarchie capitalistiche». Come diceva Lui: proletari del mondo intero...
Eric Hobsbawm 60 anni di studi in un volume che fa il punto su una teoria controversa e vitale
La profezia. Ci sono gli errori politici marxiani ma la visione di capitalismo e finanza è valida
Siamo seri, torniamo al dottor Karl Marx
Saggi di ieri e di oggi nell’ultimo volume dello storico britannico di origini ebraiche nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917. E una nuova tesi: il secolo breve finito nel 1989 torna ad allungarsi col ritorno di Marx dopo il 2008.
Ci sono anche delle pagine inedite sul pensiero di Antonio Gramsci nel libro che raccoglie alcuni saggi su Karl Marx e il marxismo dello storico, icona della sinistra anglosassone, convinto che «il superamento del capitalismo» resti tuttora una prospettiva «plausibile».
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, o8.06.2011)
Inattesa fortuna. Già prima del 2008 le «azioni» del pensatore di Treviri si erano alzate «Taking Marx seriusly», prendere Marx sul serio. Di nuovo. È ora di farlo. La tesi di Eric Hobsbawm, grande storico marxista, riassunta nell’ultima pagina del suo ultimo libro, è tutta qui: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo. Non è una tesi riduttiva e nemmeno scontata, benché Karl Marx un ruolo rilevante lo abbia sempre avuto nelle idee e nei conflitti del mondo. Anche nei periodi di peggior fortuna del suo pensiero, e prima che tornasse di moda... Non è riduttiva perché allude a un giudizio analitico di base che pervade tutto libro: mai come oggi la «chiave marxiana» apre le porte dell’economia globale e delle sue crisi deflagranti. Di là del fatto incontrovertibile che le soluzioni politiche prospettate da Marx si siano rilevate fallimentari. Abbiano generato effetti perversi, o diversi rispetto alle attese (neodispotismi asiatici, nazionalcomunismi, riformismi socialdemocratici).
E allora approfondiamo la tesi di base di Hobsbawm, il cui libro è fatto per metà di cose già pubblicate, come i saggi della Storia del Marxismo Einaudi, e per metà di cose più recenti, come nel caso dell’ultimo saggio, quello dedicato al ritorno clamoroso di Marx con lo tsunami finanziario del 2008 (Marx e il Movimento operaio, il secolo lungo). Il primo punto è il seguente: il lavoro dipendente è la stragrande maggioranza delle forze produttive, sia in Europa che su scala globale. Anche se nel vecchio continente la classe operaia è (ancora) pari a circa un terzo del totale. Il che liquida tante false retoriche sociologiche sul trionfo del lavoro autonomo. Non c’è impoverimento assoluto, ma crescita dentro una forbice, che vede le ineguaglianze crescere esponenzialmente (con redistribuzioni tra poveri). Secondo: il ceto medio si assottiglia e la ricchezza si concentra verso l’alto, in modo sempre più anonimo e incontrollato.
La crisi del 2008, rileva Hobsbawm, è frutto di un’economia a debito privato sul quale si è costruito un gigantesco castello finanziario, poi franato. Al contempo i salari si sono abbassati per via della tecnologia, della precarietà e della concorrenza mondiale tra salariati, usati come immenso esercito di riserva da comprimere flessibilmente. Tutto questo nel quadro dello smantellamento delle protezioni di welfare, che generavano inflazione, e dell’ascesa di economie emergenti capaci di produrre a costi tali da metere in ginocchio il primo mondo. Che a un certo punto ha cominciato a delocalizzare gli investimenti.
Conclusione: ce ne è abbastanza per rendere attuale Marx. Che scommetteva esattamente su crolli ciclici del mercato, determinati da incrementi del macchinario (capitale fisso) e decrementi di quello «variabile»: salari. Sempre più incapaci di assorbire o di stimolare la produzione (a meno di non drogare il tutto con il credito al consumo, che ha prodotto lo tsunami negli Usa). Infine, aggiunge Hobsbawm, il saccheggio mercatista della natura con l’esaurimento delle fonti non rinnovabili, incrementa costi e rischi, spiantando economie di autosussistenza e generando migrazioni incontrollate. E quindi: complessità della crisi globale all’apice. E vittoria delle merce come forma dominante. Nella spettralità del consumo-immagine, e delle attese finanziarie, che a loro volta destabilizzano le econome degli stati sovrani, sempre più indebitati (nel pubblico e nel privato).
Fin qui in Hobsbawm la pars destruens. Che include critiche all’incapacità in Marx di concepire istituzionalmente la democrazia, per lo più intesa da lui solo come «maschera giuridica borghese» e non anche come forza propulsiva ideale e materiale (con i risultati totalitari che ben conosciamo). E la pars construens? Qui cominciano le difficoltà. Perché lo storico britannico non riesce a indicarla con precisione. Due le sue ricette: una nuova idea di stato-nazione, che a suo (giusto) avviso non declina affatto e che resta l’unica entità in grado di associare i cittadini alle politiche. Uno stato-nazione collaborativo con altri stati, dentro entità sovranazionali più vaste, che concorra a regolare diritti, salari, fisco e meccanismi finanziari. Seconda idea: una generale idea di società cooperativa che ripristini l’alleanza tra democrazia e mercato e stia in guardia contro l’anarchia selvaggia del capitalismo.
Insomma, se ben capiamo, una proposta neokeynesiana bilanciata da regole transnazionali, per rilanciare l’accumulazione con politiche pubbliche volte ad accrescere i salari e redistribuire la ricchezza. Incluso il «valore d’uso» di una natura non depredata. Ma qui il discorso, con l’inversione del ciclo liberista post-2008, è solo agli inizi. E l’agenda sarebbe lunghissima: dall’invenzione di una finanza sociale e democratica, alla lotta contro gli sprechi del ceto politico. Fino a intravedere forme nuove di socialismo: economia civile, cooperativa e solidale. Con politiche industriali e di sdoganamento del ruolo dello stato (purché non sprechi e funzioni). Intanto però contentiamoci della proposta di uno dei massimi storici viventi: riprendiamo sul serio Marx.
Hobsbawm: la crisi finanziaria rilancia la lezione di Marx
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 17.01.2011)
Ci sono anche delle pagine inedite sul pensiero di Antonio Gramsci nel nuovo libro dello storico inglese Eric Hobsbawm, che sta per uscire in Gran Bretagna. Il volume, intitolato How to Change the World (Little, Brown &Company, pp. 480, £ 25) raccoglie alcuni saggi già pubblicati su Karl Marx e il marxismo, più altri scritti nuovi riguardanti l’attualità del filosofo tedesco rispetto alla crisi che ha investito l’economia mondiale. E il titolo, «Come cambiare il mondo» , rende subito l’idea della posizione di Hobsbawm, icona della sinistra anglosassone, convinto che «il superamento del capitalismo» resti tuttora una prospettiva «plausibile» .
In una lunga intervista apparsa ieri sull’ «Observer» , a cura di Tristram Hunt, lo studioso presenta il libro e celebra una sorta di rivincita intellettuale sui teorici del neoliberismo, egemoni per lungo tempo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, che predicano «la pura economia di mercato e il rifiuto dello Stato e dell’intervento pubblico» . Negli anni Novanta alcuni di loro erano giunti a sostenere che la globalizzazione avrebbe permesso al capitalismo uno sviluppo illimitato, senza più crisi economiche di rilievo, ma il crac del 2008 li ha smentiti rudemente. E la forte instabilità del sistema, osserva Hobsbawm, riabilita l’analisi di Marx, che «predisse il mondo moderno molto più di chiunque altro nel 1848» (data d’uscita del celeberrimo Manifesto del partito comunista, scritto da lui con l’inseparabile Friedrich Engels).
Al tempo stesso Hobsbawm, noto in Italia soprattutto per la sua opera sul Novecento Il secolo breve (Rizzoli), riconosce che all’importanza del pensiero teorico di Marx corrisponde la povertà delle sue proposte politiche. Il filosofo di Treviri «previde la globalizzazione» , ma il suo programma consisteva solo nel fatto «che i lavoratori avrebbero dovuto unirsi in un blocco sorretto dalla coscienza di classe e agire politicamente per prendere il potere» . Ben scarse invece le indicazioni di Marx su come governare, tanto che i suoi seguaci del XX secolo, i socialdemocratici come i comunisti, finirono per ispirarsi, in modo assai diverso, alle «economie di guerra pianificate dallo Stato durante la Prima guerra mondiale» .
Insomma, per come lo descrive Hobsbawm, Marx può tuttora servire per comprendere come funziona il mondo, ma non certo per trovare il modo di cambiarlo, tanto più che la sinistra occidentale, che aveva confidato nella globalizzazione, sembra decisamente disorientata. Così Hobsbawm confida al suo interlocutore di trovarsi a suo agio soprattutto guardando all’America Latina, dove gli ideali socialisti restano al centro del dibattito pubblico. Come esempio virtuoso cita il modo in cui la sinistra brasiliana dell’ex presidente Lula ha messo insieme il movimento sindacale e altre forze progressiste, fino a costruire una coalizione vincente. Mentre la Cina appare allo storico inglese «un grande mistero» .
Quanto allo sloveno Slavoj Žižek, guru del nuovo radicalismo, Hobsbawm lo liquida come un performer, che può colpire con le sue provocazioni, ma non aiuta molto «a ripensare i problemi della sinistra» . Alla fine l’impressione dell’anziano studioso, non lontano dai 94 anni, è che compito dei progressisti sia soprattutto difendere gli istituti dello Stato sociale e cercare una nuova combinazione tra pubblico e privato per riformare l’economia. Suggerimenti vaghi, certo insufficienti a decretare la sospirata fuoriuscita dal capitalismo: in questo Hobsbawm appare quanto mai fedele alla lezione di Marx.
A lezione dal vecchio Keynes
di Pierfranco Pellizzetti *
La recente riedizione degli scritti di John Maynard Keynes (Sono un liberale?, Adelphi Editore) non è di certo un’operazione-nostalgia; semmai un intervento profilattico delle idee, altamente meritorio. Soprattutto di questi tempi, in cui la fauna che si definisce “liberale” risulta ben diversa dal gentiluomo British che rivoluzionò il panorama intellettuale e politico del proprio tempo, dimostrando che la libertà non è tale se non come costruzione del futuro. Con malcelata insofferenza da parte di chi non era (è) capace di capire (o ammettere) che una libertà rivolta al passato è altra cosa: si chiama conservatorismo.
Questo vale in particolare per il nostro Paese, dove impera una spaventosa confusione terminologica (regolarmente creata ad arte), per cui a parlare di libertà sono per lo più “liberaloidi” o “anarco-liberisti”. Confusione che concorre a immiserire il dibattito pubblico. Infatti, non basta farsi crescere barbette risorgimentali e inforcare occhialini tondi per atteggiarsi a cavouriani, come magari piacerebbe a Piero Ostellino. Forse sarebbe più appropriato ricordare “il libera Chiesa in libero Stato” e la lotta contro il potere temporale del papa di Camillo Benso di Cavour; nella certezza che lo statista piemontese - a differenza del “liberaloide” Ostellino - mai avrebbe apprezzato un Silvio Berlusconi che abbatte l’Ici per il patrimonio ecclesiastico e finanzia la scuola confessionale, mentre manda a ramengo quella pubblica.
Lo stesso vale per gli “anarco-liberisti”, barricati nelle aule bocconiane e nelle stanze di via Solferino (sede milanese del Corriere), oppure emigrati carichi di risentimenti negli States. Perché non basta la prosopopea meneghina o il linguaggio insultante d’Oltreoceano per spalmare una patina di novità sulla battuta del mercante secentesco Legendre: laissez-nous faire.
Infatti Keynes dichiarava “la fine del laissez-faire” già nel 1926. Perché aveva capito in anticipo che la filosofia de “l’avido è bello” era una pericolosa scempiaggine, come recenti crisi finanziarie hanno confermato; senza che i propagandisti di Mani Invisibili, rivelatesi anchilosate, abbassassero la cresta. Perché a questi signori mancano sia la virtù della misura, sia la mentalità ironica/autoironica che scorrono ancora potenti nelle antiche pagine keynesiane. La misura di riconoscere che l’economia non è la padrona della nostra vita; semmai una scienza sui generis, magari limitrofa al genere letterario. L’ironia di mettersi costantemente in gioco, sostenendo che “dobbiamo inventare una saggezza nuova. Nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disobbedienti”. Ancora Keynes, annata 1926.
Difficile pensare che questo propugnatore di tesi “problematiche e pericolose” avrebbe sottoscritto l’affermazione “io sto con la Fiat di Marchionne”, si sarebbe schierato contro legalità e giudici. A differenza di tanti liberaloidi e liberisti, magari sedicenti di sinistra.
Reperto antiquario, il nostro Keynes? Certo un “grande inattuale”, in tempi dominati dall’arroganza; che si fa plutocrazia in politica (dal conflitto di interessi come norma della nuova costituzione materiale alla compravendita sistematica di parlamentari), economicismo dappertutto (col privilegio a scapito della stessa democrazia). Al contrario, un esempio prezioso. Se percepiamo nell’aria le prime note di una musica nuova sulle corde della saggezza ritrovata. La saggezza di due idee intrise di libertà alla maniera keynesiana: il vero problema è quello di “escogitare politiche e strumenti per controllare il funzionamento delle forze economiche, così che non interferiscano in maniera intollerabile con l’idea di che cosa sia appropriato e giusto nell’interesse della giustizia sociale”; lo Stato resta ancora l’unico spazio in cui si può esercitare plausibilmente la solidarietà. Alla faccia di Bossi e di altri spregiatori da operetta dialettale dell’unità nazionale. E di chi tiene loro bordone.
* Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2011
Alla scoperta DEL MORO
La crisi economica ha riportato al centro della scena Karl Marx. Tanto che in alcuni recenti volumi la sua analisi è usata per capire il perché la privatizzazione del sapere e il cambiamento delle università in agenzie di formazione dei lavoratori della conoscenza siano una necessità del capitalismo mondiale
di Enzo Modugno (il manifesto, 15.07.2010)
Uno stile di discussione «a un tempo spietato e di reciproca stima» caratterizza dal 1991 gli incontri annuali degli economisti e dei filosofi dell’International Symposium on Marxian Theory. Una decina dei loro interventi sono ora pubblicati dalla Città del Sole (Marx in questione, a cura di Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi).
Sono molti gli aspetti del capitalismo che l’opera di Marx, un secolo e mezzo dopo, riesce ad interpretare con insuperato rigore: perfino la grande stampa, a proposito della crisi, ha dovuto riconoscerlo. E questo volume ne è un’ulteriore conferma.
La logica capitalistica della «produzione snella» per esempio, era già analizzata nel secondo volume del Capitale, come ha mostrato nel suo intervento Tony Smith. E l’inseparabilità della teoria marxiana del valore dal suo versante monetario, esposta da Riccardo Bellofiore, può interpretare i più intimi meccanismi dell’attuale modo di produzione. Questo volume insomma mostra quanto la teoria marxiana sia rilevante anche per l’analisi delle più recenti trasformazioni del modo di produrre.
Il feticismo della scienza
Nel libro infatti si affronta anche la questione dei «lavoratori della conoscenza», decisiva per la comprensione di queste trasformazioni. Tony Smith ne espone due versioni. Da un lato l’interpretazione mainstream: molti teorici dell’impresa e molti scienziati sociali - si cita Womack e Tapscott-Caston - sostengono che il potenziamento delle capacità (empowerment) della forza-lavoro e la creazione di «lavoratori della conoscenza» pluriqualificati, trascendano le caratteristiche alienanti delle precedenti attività lavorative.
Dall’altro lato invece lo stesso Tony Smith sostiene che anche i «lavoratori della conoscenza» possano essere considerati nei termini del primo volume del Capitale: ritiene cioè che la coercizione strutturale, lo sfruttamento e la sussunzione reale del lavoro sotto la forza aliena del capitale continuino a caratterizzare le relazioni tra capitale e lavoro.
Qui di seguito si vorrebbe sostenere e argomentare questo secondo punto di vista, anche a proposito di due interventi di Franco Berardi Bifo e di Marcello Cini e Sergio Bellucci apparsi di recente su questo giornale (il manifesto 27 marzo e 18 aprile).
Per fondare materialisticamente un’analisi della produzione oggi è essenziale la critica del pensiero reificato e matematizzato condotta dalla filosofia del Novecento. La prima critica dell’economia della conoscenza infatti può essere considerata quella di György Lukács che nel 1923, in Storia e coscienza di classe, scrive che «la scienza è un istituto del mondo borghese»: sostiene cioè che la reificazione prodotta dalla scienza coincide con la reificazione prodotta dal capitalismo.
In quest’opera, per la prima volta, sono legate insieme due linee di pensiero assai diverse: da un lato la critica dell’intelletto e della scienza, fino ad allora considerata soltanto irrazionalismo spiritualistico; dall’altro l’analisi della reificazione o feticismo condotta da Marx nel Capitale, fino ad allora totalmente ignorata anche dagli interpreti marxisti.
Dunque questo libro che avrebbe poi dato l’avvio al «marxismo occidentale» e influenzato lo stesso Martin Heidegger, utilizza per la prima volta l’opera di Marx per l’analisi delle trasformazioni produttive che si stavano preparando. Anche secondo Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, che scrivono nel 1942 prima del primo calcolatore, il pensiero matematizzato si reifica in un processo automatico che si svolge per conto proprio, gareggiando con la macchina che esso stesso produce per farsi finalmente sostituire. Questo pensiero, che si è ora definitivamente cristallizzato in un apparato materiale, ha quindi una lunga storia.
Le tecnologie realizzate nella Silicon Valley infatti non vanno considerate come un inizio, à la Manuel Castells, ma come l’ultimo atto, l’entelechia della razionalità occidentale: la cui critica era dunque ben altro che una «reazione idealistica», come affermarono i custodi del sapere scientifico. Perché è diventato oggi praticamente vero che il pensiero messo a punto dalla critica kantiana come dispositivo contro il dogmatismo, invece di elevare alla maggiorità i suoi addetti (come aveva annunciato e come i kantiani del «popolo della rete» ancora si aspettano), si è reificato, matematizzato, «motorizzato» e con l’«organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» li ha condannati alla minorità, li ha costretti al dogmatismo. Perché il lavoratore mentale trova ora un sapere già formato, il suo contenuto è sottratto alla sua esperienza, non può più indagare il modo in cui si forma.
Gli algoritmi del dogmatismo
Il procedimento matematico, che trasforma la cosa in pensiero e il pensiero in cosa, gli si contrappone ormai irrimediabilmente come utensile universale per la fabbricazione di conoscenze, come condizione oggettiva materiale della produzione, come una macchina capitalistica che ha reso obsoleto e inaffidabile il cervello umano. La sua esperienza non può più in nessun modo né guidare né controllare questi algoritmi che trascendono il suo mondo sensibile, che vengono «non si sa da dove, e sul credito di principi di cui non conosce l’origine»: per questo il pensiero reificato condanna il lavoro mentale alla minorità, al dogmatismo che non è più come prima solo un’affezione dello spirito ma è diventato una condizione materiale alla quale non è possibile sottrarsi. (A questo proposito si veda l’intervento di Tonino Perna sulla «dittatura dell’ignoranza», Carta del 4 giugno).
Questa condizione materiale è stata variamente interpretata. C’è una definizione lapidaria del processo storico che ha portato alle trasformazioni del modo di produrre: secondo Heidegger «l’uomo che pensa ha perso il centro». In realtà ha perso valore d’uso, e quindi valore di scambio, perché il passaggio dal non sapere al sapere non è più un problema critico.
Con l’«organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» infatti il sapere è diventato un algoritmo, si è reificato, si è autonomizzato, si è separato dall’«uomo che pensa», gli si è contrapposto come «ratio estraniata», come mezzo di produzione e prodotto di un nuovo capitale che lo ha ridotto a lavoro mentale salariato (sarà questo l’argomento di Das Cyberkapital, una raccolta di saggi in preparazione).
Un cybercapitale dunque che ha fatto delle conoscenze i nuovi valori d’uso, depositari come prima dei valori di scambio, che ne ha fatto la merce più diffusa - dalle informazioni minute alla ratio calcolante - il settore con più investimenti (dal 1992 negli Usa). Un cybercapitale che è passato dalla «macchina per filare senza dita» alla macchina per pensare senza cervello, che dunque possiede la macchina dalla quale ha preso l’avvio la produzione capitalistica di conoscenze, che sono diventate la nuova ricchezza sociale, la nuova comunità che i knowledge workers cercano di far propria e dalla quale invece «vengono ingoiati». Per questo, come sostiene Tony Smith, i «lavoratori della conoscenza» possono essere considerati nei termini del primo volume del Capitale.
Il calcolo cibernetico
Chi vede solo le cose prodotte non si accorge che questo capitale, a parte qualche supercreativo addestrato dalle corporation per produrre «nuove» conoscenze, ha invece prodotto la gran massa dei lavoratori mentali addetti alle macchine informatiche che «ri-producono» infinite volte conoscenze di cui non sanno e non debbono sapere nulla, ne rovinerebbero l’operatività, sarebbero un «fattore di disturbo nel calcolo cibernetico». Per loro è più che sufficiente un diploma al quale il sistema d’istruzione si è già da tempo adeguato con la riduzione di ogni ordine e grado a un’enorme scuola di avviamento al lavoro.
La privatizzazione del sapere non è stato l’esito di un errore dei ministri ma un tentativo di razionalizzazione capitalistica. È infatti antieconomico produrre nelle università statali «nuove» conoscenze che le corporation vendono sul mercato mondiale. Un cybercapitale dunque che oggettiva nelle macchine ogni competenza dei lavoratori mentali, che ne assorbe ogni virtuosità con un processo ininterrotto e con una rapidità senza precedenti, riducendoli alla precarietà, alla delocalizzazione, alla concorrenza mondiale tra lavoratori.
Non sono però di questo avviso da un lato quei marxisti «ortodossi» che considerano la produzione di conoscenze un’attività parassitaria dei paesi imperialisti; d’altro lato quegli autori nei quali sembra riaffiorare l’interpretazione mainstream riferita da Tony Smith, perché pensano che i knowledge workers posseggano qualità e competenze non oggettivabili nelle macchine e non misurabili col tempo di lavoro. Come ad esempio (ma si invoca «reciproca stima») negli interventi di Berardi Bifo e di Cini-Bellucci, ma anche nelle tesi dei teorici della moltitudine e in quanti nel «popolo della rete» considerano il cervello umano, cioè la facoltà di pensare e di parlare, come la vera macchina che produce conoscenze, segni. Questo significa che considerano «l’organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» come uno strumento a disposizione di intellettuali ancora autonomi proprietari del proprio lavoro, cioè come un mezzo di libera condivisione di informazioni, come uno spazio di cooperazione produttiva extraeconomica, insomma come possibilità di liberazione.
Dunque non come una macchina che dequalifica i suoi addetti, ma come uno strumento che ne richiede la virtuosità. Quindi ritengono che il capitale, rimasto senza macchine, perciò senza più alcuna funzione nella produzione, senza più legge del valore per regolare il mercato del lavoro, sia ridotto a puro dominio, un parassita che sopravvive con la sopraffazione e la violenza.
La proprietà dell’intelletto
La situazione però potrebbe essere anche peggiore se «l’organizzazione cibernetico-tecnica della scienza» non fosse lo strumento di liberazione da contrapporre al capitale dimezzato descritto da Bifo e Cini, ma al contrario fosse, come qui si sostiene, un mezzo di produzione irrecuperabile, saldamente in mano a una nuova forma di capitale. Ha scritto Dan Schiller - Capitalismo digitale (Egea), How to Think About Information (University of Illinois Press) -, documentando la lunga alleanza tra governi e corporation, che Internet è stato fin dall’inizio il mezzo principale a disposizione del capitalismo per far penetrare dappertutto la legge del mercato. I mezzi di comunicazione, scriveva Marx nel 1848, se facilitano l’unione dei lavoratori, sono però creati dai capitalisti per i loro scopi, riducono le differenze del lavoro e deprimono il salario quasi ovunque a uno stesso basso livello.
Questo sapere estraneo, altro, reificato, è diventato proprietà altrui, la proprietà del capitalista, il suo mezzo di produzione. Non sarà facile espropriarlo: messo a punto per estorcere plusvalore, questo sapere non è più riappropriabile con la riforma Gentile, come invece ancora vorrebbe qualche marxista «ortodosso», e nemmeno con Internet, come ha sperato il «popolo della rete» (sulla «retorica» del Web 2.0, «un impasto di determinismo tecnologico e libertarismo velleitario», il rinvio è a Cybersoviet di Carlo Formenti, Raffaello Cortina Editore, e al testo di Jaron Lanier You are not a gadget, Random House).
Questo sapere insomma è «un istituto del mondo borghese» e riprodurrebbe, come è già successo, «coazione e gerarchia». Proprio questo però potrebbe essere un indizio per il superamento dell’attuale forma dei rapporti di produzione, un’indicazione per il «che fare».
Schegge marxiane
Gli ultimi tre libri dello studioso francese della complessità Edgar Morin rivalutano il pensiero di Karl Marx in nome di una critica della realtà mondiale dopo il crollo del socialismo reale.
Un ritorno alle origini del suo percorso intellettuale dettato inoltre dal degrado ambientale e dai conflitti sociali alimentati dalla crisi economica, ma anche dagli effetti totalitari di una ideologia del progresso che sta portando l’umanità all’autodistruzione
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 29.06.2010)
Una vita segnata da grandi passioni e da una profonda insofferenza verso qualsiasi prassi teorica che non accetti di aderire a quel principio di realtà da cui dovrebbe trarre linfa vitale. Un’attitudine che lo ha portato a uscire dal pratico comunista francese poco dopo la liberazione del suo paese e a fustigare per quasi un quarantennio la figura dell’intellettuale engagé incarnato da Jean Paul Sartre, colpevole di occultare il reale in nome di una teoria, quella comunista, che nell’Unione sovietica era diventata una religione di stato strenuamente difesa da istituzioni e personaggi che ricordavano più l’inquisizione che non esponenti di un partito che voleva cambiare il mondo.
Uno strano destino ha però portato Edgar Morin, acclamato teorico della complessità, a ritornare alle sue origini intellettuali, mandando alle stampe, a pochi mesi di distanza, tre libri che hanno come asse portante il pensiero di Karl Marx, ritenuto, dopo una vita passata a marcare la distanza intellettuale e politica dalle sue posizioni, uno dei massimi filosofi dell’Ottocento e massimo interprete del capitalismo mondiale.
Certo, il Marx che propone Morin si discosta moltissimo da tutte le varie e spesso conflittuali interpretazioni che si sono accumulate nel corso degli anni. Sotto molti aspetti è un Marx vincolato alle nozioni di «individuo sociale» e di «essere generico», chiavi di accesso ai misteri della natura umana all’interno della quale la trasformazione e il cambiamento delle proprie condizioni di vita e di scambio con la natura impediscono, secondo Morin, il consolidamento di realtà politiche autoritarie.
Il ritorno all’autore de «Il capitale» è inoltre fortemente raccomandato come antidoto all’ideologia di uno sviluppo economico che si fa beffe delle compatibilità ambientali e che vede il libero mercato come una «terra promessa»: ideologia che sta conducendo l’umanità sull’orlo dell’abisso. Marx, in quanto sofisticato interprete della «mondializzazione» capitalista, può dunque aiutare a fermare la folle marcia verso l’autodistruzione della civiltà.
L’antagonismo rimosso
Fin qui nulla di nuovo. Sono oramai alcuni anni che intellettuali e opinion makers sicuramente non marxisti rivalutano il barbone di Treviri come lo studioso che ha saputo cogliere il meccanismo profondo che porta il capitalismo a periodiche crisi. È questa, ad esempio, la tesi sviluppata da Jacques Attali in un pamphlet di successo incentrato sull’autore de Il capitale.
Oppure Marx è stato evocato come il filosofo, e qui il riferimento d’obbligo è agli Spettri di Marx di Jacques Derrida, che ha colto quel principio ordinatore della realtà moderna che sono i rapporti di produzione. E, infine, in ordine di tempo va ricordato l’omaggio fatto alla sua critica dell’economia politica fatto da quella specie di bignami del libero mercato che è la rivista Economist, che ha indicato in Marx il teorico meglio attrezzato per comprendere il perché il crollo del castello dei subprime stava minacciando di coinvolgere non solo qualche economia nazionale, ma tutto il capitalismo mondiale. In ogni caso, sono tutti Marx che erano depurati della fortunata tesi che invitava a trasformare il mondo dopo averlo interpretato.
Dunque un filosofo o un economista che val bene agitare solo per segnalare che il capitalismo, o la modernità, non gode di buona salute. Edgar Morin, invece, e qui sta l’interesse del primo dei libri qui presi in esame (Pro e contro Marx. Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi, Erickson edizioni, pp. 104, euro 10), vuole inserire Marx nel Pantheon dei teorici della complessità, in base alla quale, sostiene Morin, gli antagonismi della realtà contemporanea sono complementari l’uno all’altro e entrambi importanti per comprendere il mondo così come esso è. In questo caso, la teoria marxiana «scopre» che il conflitto tra capitale e lavoro nasce all’interno di rapporti di produzione che, a loro volte producono asimmetrie di potere e diseguaglianze sociali. È questo uno degli antagonismi presenti nella società capitalistica. Ma è lo stesso Marx che indica nella borghesia un fattore dinamico, progressivo della modernità. Da qui la necessità di una dialogica che metta in una relazione di complementarietà gli antagonismi del capitalismo.
Indubbiamente, un’interpretazione stravagante, quella di Edgar Morin. Che ritorna anche nel saggio Il gioco della verità e dell’errore (Erickson edizioni, pp. 174, euro 14), nel quale il richiamo a Marx è mitigato da una condanna senza appello del socialismo reale, che ha costituito la forma più brutale di autoritarismo politico perché ha costruito un sistema di potere fondato su un concetto di verità assoluto. Nel socialismo reale non era contemplata nessuna possibilità di errore da parte del partito al potere. E anche quando esso si manifestava, la superiorità del socialismo reale risiedeva nella pratica dell’autocritica, dispositivo attraverso il quale gli interpreti della verità correggevano le piccole deviazioni dalla strada maestra che gli «esecutori» dei piani del partito aveva intrapreso.
In questi due volumi ci sono molte pagine dedicate allo spirito gregario degli intellettuali, che hanno fatto di tutto per occultare il fatto che le società socialiste erano società fondate sulla sistematica menzogna da parte delle autorità su quanto accadeva nei singoli paesi. E di come abbiamo legittimato regimi politici che negavano i più elementari diritti civili e sociali di quella classe operaia che volevano «liberare» dalle catene dello sfruttamento. Allo stesso tempo Morin tesse elogi non segnati dal dubbio al pluralismo politico delle società democratiche, perché impedisce l’«errore ideologico» che ha contraddistinto tutti i marxismi.
Anche in questo caso l’aspetto interessante della riflessione di Morin non è la critica del socialismo reale, che spesso suona le corde della morale e poco dell’analisi su come un movimento che voleva la liberazione di uomini e donne si è trasformato nel suo opposto. Interessante è la proposizione di una figura dell’intellettuale in quanto «deviante minoritario», l’unico modo per essere davvero nel reale, visto che gli intellettuali organici diventano sempre complici del potere, impedendo così sia la comprensione che le possibilità di trasformare la realtà.
Per Morin, gli intellettuali organici hanno legittimato il «rifiuto del reale» e confermato una visione dogmatica, religiosa del socialismo reale. Il «deviante minoritario» è invece la coscienza critica che sa cogliere gli antagonismi della realtà, ma anche la loro complementarietà, perché salvaguardia il momento della negatività, della critica, dell’opposizione che le minoranze hanno sempre rappresentato nelle società. Da qui alla affermazione apodittica che non ci sono principi normativi della realtà il passo è breve. Per Morin, infatti, assistiamo, talvolta paralizzati, altre volte entusiasti, a un continuo divenire che assume il reale e lo supera non cancellando nessuna delle sue caratteristiche.
La metamorfosi della civiltà
Gli studiosi di Hegel non avranno difficoltà a riconoscere in questa enfasi del divenire la categoria dell’aufhebung, che è sì sintesi tra una tesi e la sua antitesi, ma anche conservazione degli elementi di verità presenti tanto nella tesi che nell’antitesi. E Marx è stato il teorico che meglio di altri ha messo al lavoro la sintesi hegeliana, anche se per Morin questo consente di cancellare la centralità del conflitto tra capitale e lavoro nella riflessione marxiana. Non è infatti la classe operaia il soggetto del cambiamento, bensì il lavoro sotterraneo dei «devianti minoritari» che colgono appieno il complesso rapporto tra l’ideale e il reale e viralmente diffondono elementi di verità sul reale per attivare quella «metamorfosi della società-mondo» che si contrappone a qualsiasi idea di rivoluzione.
Nel volume Oltre l’abisso (Armando editore, pp. 125, euro 15) Morin non ha infatti dubbi. Dopo la soffocante stagione del socialismo reale, l’umanità è entrata nella spirale distruttiva del libero mercato che mette in discussione la stessa esistenza della specie umana.
Anche in questo caso Marx corre in aiuto il «deviante minoritario» perché la sua concezione della natura umana prevede che il singolo può essere homo sapiens, ma anche homo ludens, homo oeconomicus, homo mythologicus e homo demens, perché l’essere generico di cui scrive Marx nei Manoscritti economico-filosofici è propedeutico a quella unitas mulpiplex di cui l’umanità ha necessità per sfuggire alla sua possibile distruzione.
Il linguaggio di Edgar Morin talvolta è irritante per la continua evocazione di un fondo indicibile, perché «misteriosofico» dell’agire umano, che lo porta a un procedere poetico che poco facilita la lettura dei suoi testi. Ma non è questo che non convince della sua riflessione contenuta in questi tre volumi.
Tutto quanto ruota, infatti, all’irruzione nel reale di un imprevisto, la crisi economica di questo plumbeo inizio di millennio. Come dal nulla irrompono di nuovo sulla scena conflitti di classe che la retorica del libero mercato aveva occultato. E questa volte non c’è solo una granitica classe operaia che afferma il suo desiderio di non essere ridotta merce. Nella «società-mondo» il conflitto di classe ha come posta in palio proprio quell’individuo sociale marxiano che vuole diventare unitas multiplex. Morin è consapevole di ciò e cerca di salvaguardare la sua difesa del pluralismo politico facendo leva proprio su Marx, cioè uno dei critici più radicale della finzione democratica.
Non si vuole qui negare l’avversione al socialismo reale, né i limiti dei tanti marxismi. I punti che proprio non tornano della riflessione di Morin sono teorici e dunque politici. Il primo è il rapporto tra teoria e prassi. Per lo studioso francese c’è sempre contraddizione tra il pensare il mondo e la prassi per trasformarlo. Vale però la pena sottolineare che si può pensare il mondo per trasformalo, mentre la prassi è la condizione necessaria per poter pensare la realtà. Dunque tra teoria e prassi non c’è contraddizione, semmai una tensione fondamentale per sviluppare un punto di vista politico forte sulla realtà.
Per una umanità sull’orlo dell’abisso non serve però evocare l’alternativa tra socialismo o barbarie, quanto portare alla luce le potenzialità di riscatto, di rivolta, di trasformazione che si danno già nel reale. E gli antagonismi riportare al centro della scena dalla crisi economica, non mettono in evidenza solo generose resistenze destinate alla sconfitta, ma anche possibilità di ricombinare soggettività produttive disperse e annichilite dalla precarietà. In una situazione dove la fine della sinistra è continuamente rimossa da chi pensa di collegarsi a quella tradizione la riflessione di Morin aiuta però a sfuggire alla sirene che vogliono considerare definitivamente chiusa non quella storia, ma la possibilità stessa di poter cambiare il mondo.
Tra una teoria della complessità che pensa di poter superare gli antagonismi della realtà in nome della loro complementarietà e chi rimpiange la tradizione politica del movimento operaio va costruita tenacemente un’altra opzione. Quella appunto che guarda con interesse a un individuo sociale che, come scriveva Marx, riconosce la sua natura di animale sociale e al tempo stesso che vuol sfuggire al triste destino del regno della necessità. Un regno della necessità dove è vigente la finzione democratica, che certo aiuta, come scrive Edgar Morin, a sfuggire alla malattia dell’«errore ideologico», ma non aiuta certo l’esercizio della libertà.
La semi scomparsa di Marx dalle librerie italiane è il risultato, tra le altre cose, della politica culturale della ex-sinistra che in questi ultimi vent’anni non ha fatto altro che annunciare la morte di Marx, salvo trovarsi oggi di fronte ad una crisi mondiale del capitale che, guarda caso, e come molti economisti e commentatori anche di area liberale e cattolica non mancano di rilevare, conferma le analisi dell’autore del Capitale.
Molti intellettuali ex (comunisti, socialisti, nuova sinistra) trattano Marx nello stesso modo in cui i contemporanei del Moro definivano Hegel: «un cane morto». Guido Liguori di recente ha lamentato la scarsezza dei testi e le difficoltà a reperirli ogniqualvolta si vuole organizzare un percorso di studio su Marx o, semplicemente, si vuole leggere qualche suo testo. La necessità di dedicarsi ad attività di commento, traduzione e pubblicazione di testi antichi e moderni di e su Marx (e su importanti autori marxisti) è una necessità quindi impellente. D’altronde, come ricordava Engels in una lettera del 21 settembre 1890 allo studente berlinese e redattore di riviste socialiste Joseph Bloch, è più utile «studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano».
Va tuttavia segnalato il fatto che da qualche anno sono riapparsi testi e commenti di e su Marx. Da qui la segnalazione, consapevole della parzialità e dell’incompletezza di questi essenziali suggerimenti bibliografici, i quali, comunque, possono rappresentare una prima «cassetta degli attrezzi» per comprendere il mondo contemporaneo.
Al di là della ristampa de «Il capitale» da parte della Newton Compton, l’annuncio della ristampa dei Grundrisse da parte della manifestolibri per il prossimo ottobre, vanno segnali i seguenti libri:
Karl Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di Vladimiro Giacché (Derive Approdi);
Karl Marx, Quaderni antropologici, a cura di Politta Foraboschi (Unicopli);
Karl Marx, Forme di produzione precapitalistiche, a cura di Diego Fusaro, (Bompiani);
Karl Marx, L’alienazione, a cura di Marcello Musto (Donzelli).
Per quanto riguarda i saggi sul Moro vanno invece ricordati :
Marx e Hegel. Contributi a una rilettura di Roberto Fineschi (Carocci);
Marx e l’etomismo greco. Alle radici del materialismo storico e Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno studio sula lato cattivo della storia di Diego Fusaro, (Il Prato).
Marx e l’educazione di Mario Alighiero Manacorda (Armando);
Lessico marxiano , Manifesto libri;
La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, a cura di Devi Sacchetto e Massimiliano Tomba (Ombre corte);
Pensare con Marx Ripensare Marx. Teorie per il nostro tempo, a cura di Cinzia Azzurra (Edizioni Alegre);
L’ultimo Marx di Enrique Dussel (Manifestolibri),
il volume collettivo Marx e la storia. Con un’antologia di testi (Unicopli);
Marx di Stefano Petrucciani (Carocci) e
Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario di Diego Fusaro (Bompiani).
Donatello Santarone
L’ultimo saggio del sociologo svizzero sui rapporti tra i paesi ricchi e il resto del mondo
Ziegler: "Ecco come nasce l’odio per l’occidente"
"Spero che le cose possano cambiare e migliorare: c’è più coscienza da parte di tutti"
di Giampaolo Cadalanu (la Repubblica, 01.02.2010)
Per capire l’odio non servono il linguaggio castigato, la prudenza, gli occhiali rosa. Danno un’idea del mondo che è una bugia, comoda solo a nascondere i privilegi. Jean Ziegler non ha bisogno di essere diplomatico. Non lo è stato in passato, come sociologo appassionato di Africa, come parlamentare critico verso la sua Svizzera, come docente e saggista. Non lo è stato fino al 2008, da relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo. Adesso è consigliere del Comitato Onu per i diritti umani e a 75 anni ha meno voglia che mai di moderare il suo sdegno. È un manifesto dell’indignazione il suo ultimo libro, "L’odio per l’Occidente", che in questi giorni va in libreria per l’editore Tropea. Toni forti in tempi di passioni avvizzite: «Bisogna tornare a Jean-Paul Sartre, quando diceva che per amare l’uomo bisogna odiare ciò che lo opprime. E non "chi", ma "ciò" che lo opprime». La ricetta di Ziegler è quella di voler capire a tutti i costi, per gridare la nudità non più dell’imperatore, ma dell’impero stesso.
Professor Ziegler, dove nasce l’odio per l’Occidente?
«Ci sono due tipi di odio, che vanno distinti. Il primo è l’odio patologico, quello di Al Qaeda, che porta al terrorismo. Si tratta, appunto, di una forma patologica da condannare senza scuse. E di quest’odio nel libro non mi occupo. C’è però un altro tipo di odio, che io chiamo ragionato, basato sulla rinascita di un’identità collettiva e sulla resistenza all’ordine capitalistico».
L’odio patologico si esprime con atti di terrorismo, con l’aggressione all’Occidente. Che cosa produce invece questo odio ragionato?
«Produce nazioni capaci di negoziare con l’Occidente. Da qui nasce per esempio l’elezione di un indio come Evo Morales alla presidenza della Bolivia. Quello che era il secondo paese più povero dell’America latina ora sta rinascendo, dopo che nei primi mesi di carica Morales aveva espropriato oltre duecento proprietà».
Ma quali sono le radici di questo sentimento?
«Tre sono le ragioni fondamentali. La prima è molto misteriosa: il recupero della memoria ferita, che affiora e diventa coscienza politica. È successo per esempio al primo vertice di Durban sul razzismo: all’improvviso i paesi del Sud e l’Africa hanno chiesto scuse e riparazioni. Prenda la vicenda di Haiti: quando gli schiavi si ribellarono, la Francia mandò l’esercito, che fu battuto. Allora Napoleone ordinò il blocco navale dell’isola e costrinse il paese a pagare 150 milioni di franchi d’oro, una somma enorme, agli ex proprietari degli schiavi. E Haiti pagò fino al 1883, fino all’ultimo centesimo. Nel settembre del 2001, a Durban, l’allora presidente di Haiti Aristide chiese la restituzione di quel denaro, che Parigi rifiutò. E poco tempo dopo Aristide fu rovesciato da un colpo di Stato con l’aiuto dei servizi segreti francesi».
Insomma, il passato diventa coscienza politica.
«Ha ragione Régis Debray a dire che oggi più che mai la memoria è rivoluzionaria».
Come reagisce l’Occidente a questa nuova coscienza?
«In maniera cieca e arrogante. Prendiamo Nicolas Sarkozy, che nel 2007 è andato a Dakar a dire che il colonialismo aveva parecchio di buono, ma l’Africa non ne ha approfittato. Ad Algeri ha causato una crisi dicendo "no" a Bouteflika che voleva le scuse per Setif, il massacro di manifestanti pacifici compiuto nel maggio 1945 dalla legione straniera».
La seconda ragione?
«È la doppiezza dell’Occidente in tema di diritti umani. Guardiamo al massacro iniziato il 28 dicembre 2008 da Israele a Gaza, con oltre 1200 persone uccise. Il 12 gennaio il consiglio dell’Onu per i diritti umani ha chiesto di fermare la strage e allo stesso tempo ha condannato il lancio di razzi da parte di Hamas. Ma gli occidentali non hanno voluto firmare. I diplomatici europei hanno esibito un’ipocrisia totale: due mesi dopo hanno chiesto una sessione speciale del consiglio per il Darfur, dove ci sono 2,2 milioni di sfollati. Gli africani si sono rifiutati».
Che effetto ha questo sugli organismi internazionali?
«Questa doppiezza paralizza l’Onu, allo stesso modo della memoria ferita. È una tragedia per la comunità internazionale».
Infine, qual è la terza ragione?
«È la dittatura mondiale del capitale finanziario, con cinquecento grandi società che controllano il 52 per cento del Prodotto interno lordo del pianeta. Nessuno mai - re, imperatori o papa - aveva accumulato un potere come quello dell’oligarchia bianca che fa profitti immensi, mentre ogni cinque secondi un bambino sotto i dieci anni muore di denutrizione nei paesi poveri. Secondo i dati Fao, muoiono 47 mila persone al giorno, e in totale gli affamati sono più di un miliardo. Eppure la stessa agenzia dell’Onu stima che l’agricoltura mondiale possa sfamare dodici miliardi di esseri umani, il doppio della popolazione globale».
Quindi la fame non è un problema di scarsità di risorse?
«No, assolutamente. Non c’è nessuna fatalità: ogni bambino che muore per fame è un bambino assassinato. Ucciso dall’assurdità dell’ordine mondiale cannibalistico di oggi».
Intendeva dire: capitalistico?
«No, cannibalistico. In fondo è la stessa cosa».
Lei non ha speranze per un mondo più giusto?
«La speranza c’è, perché mentre in Occidente cresce la coscienza della società civile, le nazioni del Sud stanno riscoprendo la loro identità, anche nei paesi islamici ci sono spinte per l’autocoscienza. I vecchi trucchi del colonialismo non funzionano più: i paesi poveri vogliono riparazioni. È la seconda indipendenza, la prima era superficiale».
Ricominciano proposte e giochi sui «derivati»
Se già torna malafinanza
di Giancarlo Galli *
«Il temporale è passato, la festa può ricominciare...». È questa l’aria che da qualche mese si respira nei santuari della finanza mondiale, e anche fra le boiseries delle Banche italiane. Traducendo, affinché tutti possano comprendere: allorché esplose la Grande Crisi (inverno 2008) che fece temere un crac dell’intero sistema capitalistico globalizzato, non vi fu bisogno di strologare, andare alla ricerca di «mali oscuri». Le responsabilità furono subito chiare, individuate nei comportamenti di banchieri e speculatori; nella talvolta interessata disattenzione dei controllori (Federal Reserve, Banca centrale europea in primis); nella debole autorevolezza dei politici, di quei ministri del Tesoro che pur riunendosi in continuità, non avevano né visto né previsto. Arrivato il ciclone, l’inconsueto spettacolo di una generale autocritica, seguita dalla solenne promessa, quasi un giuramento. «Abbiamo sbagliato, ci siamo lasciati prendere la mano dalla finanza creativa. Non lo faremo più...». Davvero pentimento da marinai impenitenti.
Infatti, non solo la stragrande maggioranza di coloro che si trovavano ai vertici hanno conservato le poltronissime, ma senza perdere tempo hanno preso a ribattere le vecchie strade. Sui circuiti finanziari sono ricomparsi quegli strani Ufo, che hanno per nome «derivati». In pratica, scommesse da casinò, sulle materie prime, le azioni, i debiti delle aziende e degli Stati; poi trasferite, con astuzie degne di quegli alchimisti che nel Medioevo pretendevano di trasformare il ferro in oro, alla moltitudine dei risparmiatori. Ingenui pesciolini alla mercé degli squali. Tecnicamente (sarebbe complesso entrare nei meccanismi), un bis di quanto è avvenuto coi «mutui facili», all’inizio del crac. Come prima, peggio di prima, allora? Pur evitando moralismi, non si può restare insensibili a un secondo fatto. I bonus milionari che, sotto ogni cielo, banchieri e finanzieri si autoattribuiscono. Precisando: quasi sempre prescindendo dai risultati conseguiti.
Mentre diluviava, si erano impegnati a rivedere i loro compensi; senonché l’appetito e la tentazione sono risultati troppo forti. Tant’è che nel mondo anglosassone è polemica, col premier inglese Gordon Brown e più timidamente col presidente Usa Obama, determinati ad arginare l’andazzo. Anche perché i beneficiari dovrebbero essere quegli stessi personaggi, spesso inamovibili, che sono stati salvati dalla bancarotta da interventi pubblici. Qualche raro economista, non al guinzaglio, sostiene che in questo modo, con imperdonabile dissennatezza, si rischia di andare incontro a occhi chiusi a un ennesimo disastro. L’augurio, ovvio, è che le Cassandre sbaglino. Tuttavia le perplessità vanno aumentando. Mentre troppi politici sembrano occuparsi di tutto, fuorché dell’economia reale, dei problemi delle famiglie, della stagnazione dei consumi che colpisce in particolare i redditi medio-bassi, molti banchieri tornano a comportarsi da entità separata, autonoma, autoreferenziale. La loro stella polare resta il «far profitto» comunque e con ogni mezzo. Quand’erano con l’acqua alla gola, gli Stati hanno loro offerto zattere di salvataggio; adesso si sono rimessi in linea di navigazione.
Come? In Italia lo sappiamo bene: ai depositanti, miseria; alle aziende minori lesinano crediti. In tanti preferiscono macinare utili, appunto, coi «derivati»; inseguendo nuovamente le farfalle della finanza creativa. E ancora una volta, l’etica, lo «spirito di servizio» paiono purtroppo un optional.
Giancarlo Galli
* Avvenire, 22 Gennaio 2010
Claudio Napoleoni e la “produzione di uomini”
Autore: Ravaioli, Carla
Una relazione svolta in un seminario sul pensiero di Claudio Napoleoni, a vent’anni dalla sua morte, organizzato dalla Fondazione della Camera dei Deputati, Roma 27 ottobre 2009 *
Engels ne “L’origine della famiglia” distingueva tra “la produzione delle merci e la produzione degli uomini”, che pure vedeva strettamente contigue. In più di un secolo e mezzo di vistosissima trasformazione del mondo, anche i parametri di lettura e di analisi della realtà sociale sono andati diversificandosi, specializzandosi, separandosi. Oggi è la produzione delle merci (nella complessità delle sue problematiche specifiche, e soprattutto nella sua funzione primaria all’interno del sistema capitalistico) l’oggetto centrale della scienza economica. Mentre “la produzione degli uomini” se n’è andata via via distaccando, dando luogo alla nascita di una vasta serie di nuove discipline, sociali, antropologiche, psicologiche, comportamentali, ecc., alcune impostesi come capitoli determinanti della cultura contemporanea.
Questo non ha però impedito all’economia (proprio in quanto produzione di merci) di collocarsi al centro non solo dell’interesse politico ma dell’esistere umano nella sua totalità: da un lato come indiscusso “valore” prioritario, costante termine di riferimento e misura di giudizio dell’agire collettivo, dall’altro come formidabile produttrice di modelli, comportamenti, scelte individuali e di gruppo, di progetti di vita. In sostanza non solo determinando il netto prevalere della “produzione delle merci” sulla “produzione degli uomini”, ma tendenzialmente inducendo l’assimilazione o il divoramento e la cancellazione di questa da parte dell’altra.
Claudio Napoleoni è stato un grande economista, come tale riconosciuto e largamente apprezzato, e però nei confronti della centralità dell’economico rispetto a ogni altro momento dell’umano ha sovente espresso dissenso, mentre nel suo riflettere mai perdeva di vista quella dimensione dell’esistere che Engels appunto indicava come “produzione degli uomini”, e che la moderna sociologia definisce “riproduzione”. Anzi in qualche misura mostrava di privilegiarla, come ambito cui non solo appartiene in tutte le sue forme la continuità vitale della specie, ma in cui trovano spazio i rapporti più ricchi, le passioni più profonde, le libertà totali; in cui si esprime insomma al suo massimo, in positivo e in negativo, la qualità umana.
In questo senso va letto questo titolo un po’ criptico del mio intervento, cui sono stata cortesemente invitata, e che intendeva richiamarsi a un momento di confronto attivo tra Claudio e me, cioè a un dialogo, apparso nell’88, in appendice alla seconda edizione di un mio libro di due anni prima: titolo “Tempo da vendere - Tempo da usare”, sottotitolo “Produzione e riproduzione nella società microelettronica”. Un lavoro che nasceva come critica della storica divisione del lavoro tra uomini e donne, ancora oggi in larga misura perdurante, benché sempre più le donne siano partecipi anche del lavoro di mercato; ma si impegnava poi nell’analisi della diversa qualità del tempo impiegato nelle due distinte funzioni: tempo di lavoro, il primo, cioè pezzi di vita “venduti” a un imprenditore contro un determinato compenso; il secondo, tempo “usato” in un vastissimo arco di impegni, attività, rapporti, che travalicano l’ambito familiare, fino a coincidere di fatto con la vita. Tutto il discorso era sostanzialmente improntato a un giudizio duramente critico di una razionalità sociale, che con la produzione e il mercato sempre più tende a coincidere e identificarsi.
Il libro in questione era piaciuto molto a Claudio, che me ne aveva scritto in una lettera assai più significativa di un formale ringraziamento per l’omaggio, e nella quale già andava abbozzando un possibile approfondimento di alcuni momenti della materia affrontata. Subito infatti, quando glie lo proposi, accettò di commentare e sviluppare i contenuti del mio lavoro, in appendice a una seconda edizione. E lo fece, senza riserve usando quella sua straordinaria capacità di muoversi tra l‘osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l’azzardo di ipotesi decisamente utopiche, individuando tra le due dimensioni una stretta reciprocità di senso, e perfino di utilità fattuale: usando la prima come difesa dal rischio della speculazione astratta e la seconda come spinta al superamento di una politica sempre più pigra e casuale, priva di obiettivi capaci di oltrepassare il contingente, come quella che ormai apparteneva alle sinistre.
In questa chiave non solo approvò con entusiasmo la proposta che avanzavo nel libro, di recupero dell’idea di una riduzione forte e generalizzata degli orari di lavoro; e non solo riconobbe la possibilità di giungere a questo modo a un’equa distribuzione del lavoro, sia produttivo che riproduttivo, tra uomo e donna (ciò che giudicava come una prospettiva di grande arricchimento per ambedue), ma a lungo si soffermò a considerare un altro aspetto del problema che io proponevo: lo scarsissimo utilizzo del progresso da parte delle sinistre.
In effetti, via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo. Il quale, in piena coerenza con la propria logica, lo ha usato soltanto per aumentare il prodotto: ignorando gran parte delle possibilità insite nella rivoluzione microelettronica, avviando quel processo di produttivismo perseguito ad ogni costo, di mitizzazione del Pil, di quasi “sacralizzazione” della crescita, cui anche i ceti popolari e operai furono via via conquistati, subornati dalla pubblicità e sedotti dal consumismo. Posizioni rimaste d’altronde immutate anche quando i vantaggi di questo processo non apparvero più così scontati; e mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, l’occupazione si faceva via via più problematica, e il precariato andava affermandosi in tutto il mondo come strumento privilegiato di prosperità aziendale.
La paura della disoccupazione tecnologica è stata certo la causa prima di questi comportamenti. E però, notava Claudio, c’è anche altro. C’è “il ruolo che le sinistre hanno storicamente attribuito al lavoro, in ciò conformando la propria cultura alla cultura classica borghese in modo decisamente subalterno: indicando nel lavoro - non importa quale - il fondamento non solo della vita individuale, ma della vita associata, e quindi della società intera, e quindi della politica “. Claudio insiste su questo aspetto: “Nella tradizione teorica del movimento operaio non c’è una rottura con l’ideologia borghese del lavoro”, dice; e parla di “una sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche”.
Dura e per lui dolorosa severità di giudizio, che però non gli impediva di credere alla possibilità di uno scatto capace di allargare gli orizzonti di una politica senza respiro, e intravedere i traguardi di una profonda trasformazione. Tra questi appunto un forte taglio del lavoro non automatizzabile (ad esempio una settimana di trenta ore) gli pareva non solo il primo da mettere in campo, ma quello più capace di conseguenze addirittura rivoluzionarie, su molti versanti.
Ne seguirebbe innanzitutto (conveniva con me) non solo la possibilità di un uso diverso, liberamente scelto, del proprio tempo, ma la definizione di una diversa qualità del tempo. Sottrarre cospicue porzioni del nostro tempo al mercato, all’obbligo dell’efficienza e della produttività, ai meccanismi della concorrenza, a rapporti per loro natura violenti, significherebbe la possibilità di costruire la giornata - e dunque la vita - secondo ritmi più distesi, pause cariche di senso, momenti di ricchezza psicologica e mentale altamente gratificanti, nella totale assenza di traguardi “utili” secondo la convenzione.
E in tutto ciò - insisteva - avrebbe certo un’influenza decisiva il superamento dell’attuale divisione del lavoro tra i sessi, che la riduzione degli orari grandemente aiuterebbe. Al di là della fine dell’intollerabile sfruttamento del lavoro familiare ancora interamente scaricato sulle donne, l’aumento e la maggior qualificazione della presenza femminile nel mercato del lavoro, e quindi di quella dimensione psicologica mentale temperamentale che storia e cultura hanno identificato con il “femminile”, potrebbero segnare un mutamento decisivo in un mondo nato e sviluppatosi secondo modelli della più rigida convenzione maschile. Quella cesura tra produzione e riproduzione, che certo ha radici antiche e storia assai più lunga di quella del capitale, ma che indubbiamente la società industriale capitalistica ha radicalizzato e in qualche modo istituzionalizzato, potrebbe trovare superamento in quell’approccio cui Claudio alludeva parlando della capacità di “appropriarci della realtà come di un tutto”, e che avrebbe voluto alla base della politica delle sinistre; desiderio, ahimé, dalle loro scelte sistematicamente deluso.
In perfetta coerenza con questo impianto del suo ragionamento, sempre rapportandosi all’ipotesi di riduzione del lavoro, e dunque di abbandono del produttivismo imperante, Claudio faceva riferimento anche alla crisi ecologica planetaria, di cui lucidamente già allora (cioè più di ventidue anni fa) valutava la minaccia. Merita riportare per intero le sue parole: “E’ dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse naturali, dall’altro comporterebbe crescenti costi ambientali: l’inquinamento dell’aria e delle acque, la distruzione dei suoli, il dissesto degli assetti urbani, i fenomeni di congestione e così via, già oggi pervenuti a livelli intollerabili. E’ qui infatti, nella drammaticità del problema ambientale, che i limiti sociali dello sviluppo si manifestano nel modo più evidente”. Una diagnosi dell’insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo, che dovrebbe far seriamente riflettere economisti, imprenditori e politici, che - quasi tutti - soltanto rilancio della produttività, ripresa della crescita, aumento del Pil, sanno pensare come cura del pianeta, proprio a causa dell’iperproduttivismo gravemente malato.
Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: “Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta”.
1909: UN INEDITO DELLO SCRITTORE DI FANTASCIENZA
L’autore de «La guerra dei mondi» e la visione di un crollo economico a livello globale, causato da una speculazione patologica, mercati interdipendenti fra loro e avidità di massa: «Sfido qualunque analista o esperto a dimostrare che non possa accadere»
La finanza ci rovinerà
«È stato costruito un sistema di convenzioni sul denaro e sul credito più azzardato e sperimentale che si possa immaginare Una vasta macchina di prestiti e di debiti, una rete mondiale di società per azioni che comportano rapporti assai bizzarri»
di Herbert George Wells (Avvenire, 1.11.2009) *
Nella vita moderna, ci sono soprattutto due cose che mi sembrano pericolose e imponderabili: da una parte, il nostro sistema monetario e finanziario e, dall’altra, il rischio che corriamo di una guerra devastante. Nel nostro sistema monetario e finanziario non c’è proprio niente di scientifico. È cresciuto, ed è diventato sempre più complesso nell’arco di circa un secolo, a partire da origini molto semplici. Trecento anni fa, l’edificio aveva a mala pena cominciato a levarsi dal suolo, la maggior parte della proprietà era di tipo immobiliare, la maggior parte delle persone viveva direttamente dei prodotti della terra, la maggior parte delle transazioni economiche avveniva in contanti, il commercio con l’estero era ancora relativamente poco sviluppato, la forza lavoro era legata al territorio. Quasi tutto il mondo si trovava al livello a cui la Cina è rimasta in gran parte ancora oggi: andava avanti praticamente senza batter moneta.
Dal punto di vista del finanziere e dell’industriale moderno, era un mondo primitivo. Ebbene, su quella base rozza e sicura è stato costruito il sistema di convenzioni e di supposizioni sul denaro e sul credito più azzardato, sperimentale e incerto che si possa immaginare. Vi è cresciuto un vasto sistema di prestiti e di debiti, una rete mondiale di società per azioni che comportano rapporti in realtà assai bizzarri. Io, per esempio, mi ritrovo a possedere (almeno in parte) una banca in Nuova Zelanda, una ferrovia a Cuba, un’altra in Canada e varie in Brasile, una centrale elettrica nel quartiere londinese di Westminster, e così via, e utilizzo titoli e azioni come se fossero denaro fruttifero. Se ho bisogno di soldi, vendo una quota di ferrovia, proprio come si cambierebbe una banconota da cento sterline; se invece ho più contanti di quanti non me ne servano nell’immediato, compro un po’ di azioni. So che il valore di queste azioni oscilla, a volte in modo considerevole, e che anche il potere d’acquisto dei biglietti di banca che prendo oscilla rispetto alle cose che voglio comprare; so, in effetti, che tutto il sistema (che esiste da appena un paio di secoli e che sta diventando sempre più euforico e vertiginoso) ondeggia, trema, si torce e si flette in continuazione. Tuttavia, è solo quando si verifica una grande crisi, come quella del 1907, che mi rendo conto che forse non c’è limite a queste oscillazioni, che forse tutto quell’edificio ampio e caotico presto crollerà fragorosamente. Perché non dovrebbe? Sfido qualunque economista o esperto di finanza a dimostrare che non possa farlo. Che nel breve arco della sua esistenza ciò non sia ancora accaduto non dimostra nulla. È come affermare che un uomo non può morire perché non lo ha mai fatto prima. Altri uomini sono morti prima di lui, così come altre civiltà sono crollate, se non di disordini finanziari acuti, di disordini finanziari cronici.
L’esperienza del 1907 ha mostrato molto chiaramente come può avvenire un crollo. Un panico finanziario, come una valanga, è una cosa molto più facile da iniziare che da fermare. Crisi precedenti sono state arginate soltanto grazie alla fortuna; quest’ultima crisi negli Stati Uniti, per esempio, ha trovato un’Europa forte, prospera e pronta a prestare soccorso. In ogni periodo di crisi si realizza un’imponente dislocazione di imprese, ampie moltitudini di uomini cadono nella disoccupazione, ci sono gravi disordini sociali e politici; ma alla fine, almeno fino ad ora, sembra che le cose si siano sempre riaggiustate. Ora immaginate però un’ondata di panico un po’ più universale - e le ondate di panico tendono ad essere più ampie di quanto non fossero in passato. Immaginate che quando a New York cadono tutti i titoli, l’oro si rivaluta e la gente spaventata comincia a vendere gli investimenti e a fare incetta d’oro, la stessa cosa accada in altre parti del mondo. Se la scala del problema aumentasse anche solo di due o tre volte, credete che il sistema potrebbe riprendersi? Immaginate grandi masse di uomini senza lavoro, arrabbiati e selvaggi, in tutte le nostre grandi città; immaginate le ferrovie che funzionano con personale ridotto a salari ridimensionati o bloccate dai lavoratori in sciopero; immaginate i fornitori che smettono di consegnare le merci ai commercianti al dettaglio, e i dettaglianti che esitano a fare credito. Si giungerebbe a una fase in cui anche la polizia e l’esercito, che dovrebbero mantenere l’ordine nelle strade, si ritroverebbero a corto di razioni e senza paga settimanale. Ciò che noi moderni, con i nostri miseri 300 anni di sicurezza alle spalle, non comprendiamo è che, data una particolare combinazione di elementi casuali, le cose che di solito attraversano alti e bassi potrebbero cominciare a precipitare velocemente - andando sempre più giù. Che cosa faresti, caro lettore (e che cosa farei io) se la recessione continuasse indefinitamente? E questo mi porta al secondo grande pericolo della civiltà moderna: la guerra. Abbiamo sviluppato eccessivamente la guerra. Mentre abbiamo lasciato l’organizzazione della pace ai metodi inefficaci, lenti ed egoistici dell’iniziativa privata; mentre abbiamo lasciato l’educazione delle nostre popolazioni al caso, le loro menti alla carta stampata più scadente e le loro ricchezze ai fabbricanti di droga, abbiamo portato avanti l’arte della guerra secondo linee rigorosamente scientifiche e socialiste.
Abbiamo destinato senza alcuna esitazione tutte le risorse della comunità, e una parte enorme della sua intelligenza e della creatività, al miglioramento e alla costruzione dell’apparato di distruzione.
Tutte le cose procedono strisciando, tranne l’arte della guerra: quella sfreccia in avanti veloce. Su ciò che accadrebbe se adesso le armi cominciassero a sparare non ho ombra di dubbio. Ogni anno c’è stato un aumento sconcertante. Ogni Stato moderno è più o meno come un battello a vapore malfermo e mal costruito in cui qualche idiota ha messo in posizione e caricato un cannone enorme, senza alcun dispositivo in grado di assorbirne il rinculo. Che quel cannone colpisca o manchi il bersaglio quando sarà esploso, di una cosa possiamo essere assolutamente certi: farà colare a picco il battello. (traduzione di Laura Talarico
* L’Europa futura su « Lettera internazionale »
Il britannico Herbert G. Wells ( 1866- 1946), autore di opere come L’isola del dottor Moreau, L’uomo invisibile , La macchina del tempo o La guerra dei mondi ( da cui fu tratto un dramma radiofonico omonimo interpretato da Orson Welles e talmente realistico da gettare nel panico milioni di ascoltatori americani) è considerato uno dei padri e maestri della fantascienza. Le maledizioni dell’Occidente è il titolo del brano di cui qui pubblichiamo una parte e che uscirà sul nuovo numero della rivista Lettera internazionale ( www.letterainternazional e. it), il trimestrale europeo di cultura diretto da Biancamaria Bruno che va in libreria nei prossimi giorni. Numero dedicato « all’Europa che vorremmo » .
Non solo un tecnico pragmatico È ancora lui il terapeuta
di Federico Rampini (la Repubblica, 03.03.2009)
E’ un Keynes insolito quello che l’Adelphi rivela pubblicando il discorso Possibilità economiche per i nostri nipoti con un commento di Guido Rossi. Non stupisce solo per l’attualità dei giudizi formulati ottant’anni fa. Siamo ormai costretti a rivisitare la Grande Depressione degli anni Trenta per capire il nostro presente, e il grande economista britannico ne rimane l’analista-terapeuta più autorevole. Sembrano scritti oggi quei passaggi datati 1928-1930: «Ci troviamo a soffrire di una forma virulenta di pessimismo economico. E’ opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento del tenore di vita abbia imboccato una parabola discendente; che per il prossimo decennio ci si debba aspettare un declino della prosperità».
E’ singolare la preveggenza con cui mette a fuoco la disoccupazione tecnologica («il lettore ne sentirà molto parlare negli anni a venire»). Sorprendente, e poco nota, è la sua dimestichezza con Freud e la psicanalisi, i cui strumenti interpretativi applica con disinvoltura all’economia: Guido Rossi ricorda le affermazioni dell’economista sulla pulsione «sadico-anale» insita nella bramosía capitalistica di profitto. La dimensione più inedita in assoluto è quella del Keynes visionario, sognatore, idealista, che qui viene alla luce. Staccandosi per un attimo dalle preoccupazioni del presente, il grande intellettuale élitario del circolo Bloomsbury e l’ispiratore del New Deal disegna un futuro in cui «l’amore per il denaro sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente». Immagina una società fondata su valori più solidi, dove cammineremo spediti sui sentieri della virtù e della saggezza. «Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ad anteporre il buono all’utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo».
Per arrivare a quello stadio Keynes pone la barra molto in alto, tra le condizioni dell’avvento di una società ideale elenca la pace universale e un perfetto controllo della crescita demografica. Non si fa illusioni sul breve termine ma spiega che sognare è un obbligo, perché «l’utopia appare oggi l’unica possibilità economica che i nostri nipoti possano, essendone capaci, sfruttare». Più dei singoli dettagli, allora, conta il nocciolo duro di questo pensiero che viene catturato e attualizzato da Rossi: ciò che nascerà dalle ceneri della grande crisi del XXI secolo, «dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto».
Sta proprio qui l’interesse di questo Keynes riesumato dall’oblìo. Di lui ricordavamo soprattutto il tecnico pragmatico, capace di rovesciare tutta l’ortodossìa economica pur di trovare ricette efficaci per rimettere in moto la macchina paralizzata dello sviluppo. Fu senza dubbio colui che teorizzando il ruolo benefico della spesa pubblica salvò il capitalismo da se stesso, nonché dalla sfida di movimenti rivoluzionari e modelli alternativi: il comunismo sovietico; i capitalismi autoritari e illiberali nel Giappone militarista, nella Germania nazista, nell’Italia fascista. E’ utile scoprire che dietro la prodigiosa fecondità intellettuale di Keynes c’era la capacità di guardare ben oltre la semplice crescita materiale. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: quella del XXI secolo è ancora in attesa del suo Keynes.
Le profezie di Keynes
in libreria una lezione dell’economista con un commento di guido rossi
Il mondo possibile dei nostri nipoti
Un fronte comune tra Occidente e Oriente contro le disuguaglianze in grado oggi di scongiurare le bolle speculative
Durante la Grande Crisi auspicò una regolamentazione finanziaria mondiale che appianasse gli squilibri
Anticipiamo parte del testo di pubblicato accanto a una lezione di John Maynard Keynes del 1928: ambedue intitolati "Possibilità economiche per i nostri nipoti" (Adelphi, pagg. 52, euro 5,50) in questi giorni in libreria
di Guido Rossi (la Repubblica, 03.03.2009)
A Keynes si deve sempre tornare - se non alle sue profezie, alle sue terapie. In particolare, la crisi dei subprime mortgages, che ha dato l’avvio a un crollo del sistema finanziario di cui è oggi impossibile definire le esatte dimensioni, o le probabili ripercussioni, fa tornare d’attualità una questione molto importante nel pensiero keynesiano, e cioè la domanda se sia giusto o legittimo pagare un interesse sul denaro preso a prestito. Già nelle ultime pagine della Teoria generale Keynes aveva previsto la possibilità che il venir meno della scarsità del capitale riducesse i tassi di interesse, provocando «l’eutanasia del rentier». E’ un dilemma antico (...) e generalmente ignorato, ma che oggi, improvvisamente, appare irrisolto: oggi, improvvisamente, spostare il centro dell’economia dal capitale al lavoro non sembra più utopico, e nemmeno impossibile. La ricchezza delle nazioni, appare evidente, non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o sull’ingegneria azionaria (...): si misura sulla capacità dell’uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai procedimenti di produzioni e di consumo. Di conseguenza il prodotto del denaro, cioè l’interesse, dovrebbe essere commisurato alla produttività del lavoro, anziché a un mercato retto dall’azzardo, e dall’azzardo oggi distrutto.
Fino a pochissimo tempo fa, il feticcio della liquidità come unica fonte di ricchezza avrebbe sbarrato la strada a qualsiasi discorso di questo genere, ma oggi si comincia a capire cosa succederà domani, quando qualcuno (o più di qualcuno) pretenderà di incassare strumenti finanziari come i credit default swaps - per chi non li conoscesse, si tratta di titoli che costituiscono vere e proprie «scommesse» senza regole né rete sull’inadempienza di enti pubblici e privati nel rimborso dei propri debiti - mettendo a rischio un giro di affari virtuale, ma che ammonta a più di 62 trilioni di dollari (...). «Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso - e non fornisce nessun bene».
Keynes lo scriveva nel 1933 su The New Statesman and The Nation dell’8-15 luglio. E stavolta aveva ragione. (...) Prima o poi, il fenomeno che ci siamo abituati, in mancanza di meglio, a chiamare globalizzazione richiederà una gestione, un controllo altrettanto globali. (...) Questo postula una sorta di Commonwealth che non sembra alle viste, ma che se venisse istituito in una forma qualsiasi non potrebbe (non potrà) non affrontare precisamente quei problemi (la disoccupazione, lo squilibrio fra Nord e Sud del mondo, l’ambiente) che oggi vengono con sconcertante regolarità accantonati in nome di una superiore ragione economica (...).
E un cambiamento di agenda di queste proporzioni porrebbe il problema (che in effetti comincia a porsi) di rivoluzioni solo in apparenza impensabili, a cominciare dall’avvento di una valuta globale. Non sarebbe in fondo nulla di così diverso dai certificati aurei internazionali che Keynes, durante la tempesta degli anni Trenta, proponeva di emettere e distribuire simultaneamente a tutti i Paesi, a condizioni diverse per ciascuno, con lo scopo di rivitalizzare il potere d’acquisto, consentendo il pagamento dei debiti e la ripresa del commercio internazionale. Se dovesse realizzarsi, questo fronte comune fra Occidente e Oriente contro diseguaglianze e conflitti creerebbe le condizioni per qualcosa di molto, molto simile alla fine dell’economia classica (e, oggi possiamo dirlo, anche moderna, e postmoderna) invocata da Keynes.
Da dove può cominciare, una rivoluzione di queste proporzioni? Senza andare troppo lontano, proprio dalle linee d’intervento proposte da Keynes a Bretton Woods (quella vera, del 1944), che gettavano le basi sia di un nuovo sistema di regolamentazione finanziaria mondiale sia di una politica monetaria internazionale tesa a scongiurare tanto i «credit booms», quanto gli «asset bubbles», cioè l’espansione incontrollata del credito, e più in generale le bolle speculative sui beni, immobiliari, energetici o alimentari che fossero.
La fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto (...). Che cosa sarà non è ancora chiaro, ma nel pensarlo possiamo in un certo senso permetterci più utopia di quanta se ne sia concessa Keynes. Dopotutto il suo mondo era più piccolo del nostro, e l’unico risultato che i suoi nipoti - cioè noi - hanno ottenuto è di renderlo più grande e più instabile. Ma anche meno limitato, più aperto. Questa apertura sembra oggi l’unica possibilità economica che i nostri nipoti, essendone capaci, avranno modo di sfruttare.
Regolamentazione della finanza o superamento del capitalismo?
Marx contrattacca
di Lucien Sève *
Le Monde Diplomatique, Paris - dicembre 2008, 55° anno, n° 657
(traduzione dal francese di José F. Padova)
* filosofo, ha appena pubblicato il secondo volume di Penser avec Marx aujourd’hui (Pensare con Marx, oggi) intitolato L’Homme? (L’Uomo?), La Dispute, Paris.
Trascurati dai partiti socialisti europei come “lunatico vecchiume semplicistico” con il quale sarebbe urgente troncare, screditati all’università dove per lungo tempo furono insegnati come una base dell’analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano nuovamente interesse. Il filosofo tedesco non ha forse analizzato minuziosamente la meccanica del capitalismo i cui sussulti fanno perdere la bussola agli esperti? Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx si è dedicato a mettere a nudo i rapporti sociali.
Si era quasi riusciti a persuadercene: la storia era terminata, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell’organizzazione sociale, la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, era ormai attuata, soltanto alcuni incurabili rimuginatori agitavano ancora il trastullo di non si sa quale futuro.
Il formidabile terremoto finanziario dell’ottobre 2008 ha spazzato via d’un colpo solo questa costruzione mentale. A Londra il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 rimarrà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalista britannico ha riconosciuto di aver fallito (1)». A New York i manifestanti brandiscono davanti a Wall Street cartelli con «Marx aveva ragione!». A Francoforte un editore annuncia che le vendite di Il Capitale sono triplicate. A Parigi una nota rivista esamina, in un fascicolo di trenta pagine, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «le ragioni di una rinascita (2)». La storia si riapre...
Immergendosi in Marx più d’uno fa scoperte. Parole scritte un secolo e mezzo addietro vi sembrano parlare di noi con un’acutezza sorprendente. Esempio: «Dato che l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, dirigeva la gestione dello Stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l’opinione pubblica di fatto e mediante la stampa, si riproducevano a tutti i livelli, dalla Corte fino al bar malfamato, la medesima prostituzione, lo stesso imbroglio spudorato, la medesima sete di arricchirsi non già mediante la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui (3)». Marx con questo descriveva lo stato delle cose in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che fare sognare.
Tuttavia, al di là di rassomiglianze avvincenti, le differenze epocali rendono ingannevole ogni trasposizione diretta. L’attualità, nuovamente evidente, di questa magistrale Critica dell’economia politica, in cui consiste Il Capitale di Marx, si pone molto più in profondità.
Da dove viene in realtà l’ampiezza della crisi presente? Leggendo ciò che se ne scrive in prevalenza, si dovrebbe porre in discussione la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l’incapacità del mercato dei capitali di regolarsi da sé, il livello infimo della moralità di chi tratta denaro... In breve, lacune del solo sistema che regge ciò che, in contrasto con l’ «economia reale», si definisce «economia virtuale» - come se non si fosse appena misurato quanto essa pure reale lo sia.
Eppure la crisi iniziale dei subprime è proprio nata dalla crescente mancanza di denaro di milioni di nuclei famigliari americani a fronte del loro indebitamento di candidati alla proprietà. Cosa questa che obbliga ad ammettere che in fin dei conti il dramma del «virtuale» ha le sue radici proprio nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l’insieme su piano mondiale dei poteri d’acquisto popolari. Sotto l’esplosione della bolla speculativa formata dal rigonfiarsi della finanza vi è l’incetta universale da parte del capitale della ricchezza creata dal lavoro e, sotto questa distorsione in cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti percentuali, colossale diminuzione, in nome del dogma neoliberista vi è per i lavoratori un quarto di secolo di austerità.
I trombettieri della moralizzazione
Mancanza di regolamentazione finanziaria, di responsabilità nella gestione, di moralità della Borsa? Certamente. Ma la riflessione senza tabù spinge ad andare molto più lontano: a mettere in discussione il dogma gelosamente protetto di un sistema di per sé al disopra di ogni sospetto, a meditare su quella spiegazione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell’accumulazione capitalista». Egli dimostra che là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi che mirano a sviluppare la produzione si invertono in mezzi di dominio e di sfruttamento di chi produce», sacrificato all’accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di sé stessa e tende quindi a diventare folle. «L’accumulo di ricchezza a un polo» ha come necessario rovescio un’ «accumulazione proporzionale di miseria» all’altro polo, dal che rinascono inesorabilmente gli inizi di crisi commerciali e bancarie violente (4). È proprio di noi che si tratta.
La crisi è esplosa nel settore del credito, ma la sua potenza devastante si è formata in quello della produzione, con la ripartizione senza sosta sempre più disuguale dei valori aggiunti fra lavoro e capitale, sconvolgimento questo che un sindacalismo navigante in acque basse non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica nella quale si tratta Marx come un cane ormai crepato. Si concepiscono allora quelle che possono valere come soluzioni della crisi - «moralizzazione» del capitale, «meccanismo di regolazione» della finanza - strombazzate da politici, amministratori, ideologi che ancora ieri fustigavano il benché minimo dubbio sulla giustezza del «tutto liberista».
«Moralizzazione» del capitale? Parola d’ordine che merita il premio per l’umorismo macabro. Se effettivamente vi è un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza è proprio la considerazione morale: l’efficacia del suo cinismo vince ogni volta in modo tanto sicuro quanto è vero che la moneta cattiva scaccia quella buona. La preoccupazione «etica» è pubblicità.
Marx risolveva la questione in poche righe della prefazione al Capitale: «Non dipingo in alcun modo di rosa il personaggio del capitalista o del proprietario terriero», ma «meno di ogni altra la mia prospettiva, nella quale lo sviluppo della società in quanto formazione economica è inteso come un processo di storia naturale, potrebbe rendere l’individuo responsabile di rapporti dei quali egli rimane socialmente un prodotto (5)»... Ecco perché non basterà certamente distribuire qualche sberla per «rifondare» un sistema nel quale il profitto resta l’unico criterio.
Non si tratta di essere indifferenti all’aspetto morale delle cose. Anzi, al contrario. Ma, preso sul serio, il problema è di tutt’altro ordine che non la delinquenza di dirigenti farabutti, l’incoscienza di trader impazziti o perfino l’indecenza dei paracadute dorati. Ciò che il capitalismo ha d’indifendibile sotto questo aspetto, al di là di ogni comportamento individuale, è il suo stesso principio: l’attività umana che crea le ricchezze vi ha lo status di merce e vi è quindi trattata non come fine in sé stessa, ma come semplice mezzo. Non vi è bisogno di aver letto Kant per vedervi la sorgente permanente dell’amoralità del sistema.
Se si vuole moralizzare sul serio la vita economica occorre prendersela veramente con ciò che la rende immorale. Questo passa di certo - divertente riscoperta, questa, da parte di più di un liberista - attraverso la ricostruzione delle regolamentazioni statali. Tuttavia a questo scopo fare fondamento sul puntello sarkozysta dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione della Posta passa i confini dell’ingenuità. Dal momento che si pretende di affrontare la questione della regolamentazione è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un’analisi di imprescindibile attualità: quella dell’alienazione.
Nel suo senso primario, elaborato in testi celebri della [sua] giovinezza (6), il concetto definisce quella maledizione che costringe chi riceve salario dal capitale a non produrre la ricchezza per altri se non producendo la sua propria indigenza materiale e morale: deve perdere la sua vita per guadagnarsela. La multiforme disumanità, della quale sono vittime in massa i salariati d’oggi (7), dall’esplosione delle patologie dei lavori a quella dei licenziamenti borsistici passando per quella dei bassi salari, illustra molto crudelmente la precisione che una tale analisi conserva.
Ma nei suoi lavori della maturità Marx attribuisce all’alienazione un significato ancora più vasto: poiché il capitale riproduce senza sosta la radicale separazione fra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non appartengono a coloro che vi lavorano -, le loro attività produttive e cognitive, non controllate collettivamente alla base, sono abbandonate all’anarchia del sistema della concorrenza, nel quale si trasformano in processi tecnologici, economici, politici, ideologici incontrollabili, gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano.
Gli uomini non fanno la loro storia, è la loro storia che li fa. La crisi finanziaria dimostra in modo terrificante quell’alienazione, proprio come lo fanno la crisi ecologica e ciò che si deve definire la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto questa crisi, ma tutti la subiscono.
Da questo «spossessamento generale» portato alle estreme conseguenze dal capitalismo risorgono in modo irrefrenabile le rovinose assenze di regole concertate. Anche colui che si vanta di «regolare il capitalismo» è a colpo sicuro un ciarlatano politico. Regolare sul serio esigerà molto più dell’intervento statale, per quanto possa essere necessario, perché poi chi regolerà lo Stato? Occorre che riprendano possesso dei mezzi di produzione coloro che producono, materialmente e intellettualmente, riconosciuti infine per ciò che essi sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, che in quanto tali hanno un diritto irrecusabile di prendere parte alle decisioni della gestione, là dove si decide della loro stessa vita.
Di fronte a un sistema la cui flagrante incapacità di regolare sé stesso ci costa un prezzo esorbitante è necessario, seguendo Marx, avviare senza ritardi il superamento del capitalismo, lunga marcia verso un’altra organizzazione sociale nella quale gli umani, in nuove forme associative, controlleranno insieme le loro potenze sociali diventate folli. Tutto il resto è polvere negli occhi, quindi tragica disillusione promessa.
Si va ripetendo che Marx, forte nella critica, sarebbe privo di credibilità per quanto riguarda le soluzioni, perché il suo comunismo, «messo alla prova» all’Est, sarebbe radicalmente fallito. Questo come se il defunto socialismo di Stalin-Breznev avesse avuto qualcosa di veramente comune con l’intento comunista di Marx, del quale d’altra parte nessuno cerca di cogliere nuovamente il senso reale, agli antipodi di ciò che l’opinione corrente mette sotto il temine «comunismo». Di fatto, è in modo del tutto diverso che si abbozza sotto i nostri occhi ciò che potrà essere, in senso autenticamente marxista, il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo (8).
Ma qui ci fermano: volere un’altra società sarebbe un’utopia micidiale, perché non si cambia l’uomo. E l’ «uomo», il pensiero liberista sa chi è: un animale che ha essenzialmente quello che è non dal mondo umano ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse d’individuo _ Homo œconomicus (9) -, con il quale non è quindi possibile se non una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata».
Ora anche questo pensiero ha fatto bancarotta. Sotto la spettacolare disfatta del liberalismo pratico si consuma con minor rumore il fallimento del liberalismo teorico e del suo Homo œconomicus. Fallimento doppio. Scientifico innanzitutto. Nel tempo in cui la biologia si distacca da un «tutto genetico» semplicistico, le ingenuità dell’idea di «natura umana» saltano all’occhio. Dove sono i geni, annunciati a suon di trombe, dell’intelligenza, della fedeltà o dell’omosessualità? Quale spirito colto può credere che la pedofilia, per esempio, sarebbe congenita?
E fallimento etico. Perché ciò che da lustri l’ideologia dell’individuo concorrenziale sponsorizza è una pedagogia disumanizzante del «diventa un killer», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una decivilizzazione a 360° da parte della follia del denaro facile. Che dovrebbe fare arrossire chi osi annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Sotto il naufragio storico dove affonda e ci affonda la dittatura della finanza vi è quello del discorso liberista sull’ «uomo».
E qui vi è la più inaspettata attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell’economia è anche, allo stesso tempo, l’iniziatore di una vera rivoluzione nell’antropologia; dimensione incredibilmente misconosciuta del suo pensiero, che non è possibile esporre in venti righe.
Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ce ne dice lo spirito in due frasi: «L’essenza umana non è un’astrazione inerente all’individuo preso a sé. Nella sua realtà, è l’insieme dei rapporti sociali». All’opposto di quanto immagina l’individualismo liberista, l’ «uomo» storicamente sviluppato è il mondo dell’uomo. Per esempio, lì e non nel genoma esiste il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato quel marxista a lungo sconosciuto che fu uno dei più grandi psicologi del XX secolo: Lev Vygotski, che ha così aperto la strada a una visione completamente diversa dell’individualità umana.
Marx è attuale e perfino più di quanto si pensi? Sì, se si vuole attualizzare l’immagine tradizionale che di lui troppo spesso ci si fa. The Daily Telegraph, Londra, 14 ottobre 2008
(1) Le Magazine littéraire, n° 479, Paris, ottobre 2008.
(2) Karl Marx, Les Luttes de classes en France, Editions sociales, Paris, 1984, p. 84-85; citato in Manière de voir, n° 99, «L’Internationale des riches», juin-juillet 2008.
(3) Karl Marx, Le Capital, tomo I, Editions sociales, 1983, ou Presses universitaires de France, Paris, 1993, p. 724.
(4) Le Capital, tomo 1, p. 6.
(5) «Le travail aliéné», Manuscrits de 1844, Flammarion, Paris, 1999.
(6) Lire Christophe Dejours, Travail, usure mentale, Bayard Paris, 2000; «Aliénation et clinique du travail», Actuel Marx, n°39, «Nouvelles aliénations», Paris, 2006.
(7) Dans Un futur présent, l’après-capitalisme, La Dispute, Paris, 2006, Jean Sève abbozza un quadro impressionante di questi inizi di superamento che si possono osservare in settori molto differenti.
(8) Leggere fra gli altri Tony Andréani, Un étre de raison. Critique de l’Homo œconomicus, Syllepse, Paris, 2000.
Decrescita
Un’occasione che non si deve perdere
di Loretta Napoleoni (l’Unità, 07.12.08)
Il movimento della decrescita è entrato in rotta di collisione con il verbo economico tradizionale, che incita gli abitanti del villaggio globale a consumare per uscire dalla crisi. Eppure la decrescita sembra essere la risposta istintiva di un’economia al collasso, che si riassesta attraverso i meccanismi classici della domanda e dell’offerta. A conferma i dati della disoccupazione, in netto aumento dovunque. Il Financial Times ha addirittura iniziato una prassi nuova: ogni sabato elenca i posti di lavoro «svaniti» durante la settimana. Nella City di Londra siamo ormai a quota 100 mila. La decrescita non è però circoscritta al settore finanziario - che ha perso negli ultimi due mesi 1.300 miliardi di dollari - ma coinvolge tutti, anche i settori più disparati: questa settimana a New York l’editoria ha tagliato il 25% dei posti di lavoro e Honda ha annunciato il ritiro dalla Formula Uno. Queste notizie apocalittiche ci devono far riflettere sul fallimento delle politiche anti-congiunturali dei governi: non è servito a nulla pompare più di 2 mila miliardi di dollari nel settore bancario internazionale.
E se la contrazione dell’economia fosse semplicemente un processo di assestamento necessario, che riporta l’economia ai valori reali, quelli veri, non più inflazionati dalla zavorra dei derivati e dalla bolla finanziaria? Più che di decrescita bisognerebbe parlare di economia sostenibile, senza sprechi. Latouche, il suo inventore, ce lo accenna quando scrive che il capitalismo non può convivere con una contrazione permanente dell’economia. Ma questo è vero per qualsiasi sistema economico, incluso quello marxista. La crisi del credito è dunque un’occasione da non perdere per rilanciare attraverso la decrescita una visione dell’economia sostenibile, che sfrutti e consumi le risorse ad un ritmo inferiore al loro rinnovamento. Un principio applicabile anche alle banche, poiché l’eccessivo indebitamento distrugge più denaro di quanto viene creato. Ed ecco un esempio illuminante: la simbiosi tra credito cooperativo e settore agricolo sostenibile. Il primo raccoglie il denaro tra i consumatori e lo investe nel secondo, che produce per la comunità in base ai bisogni di questa. Niente sprechi quindi; banca, produttore e consumatore sono a tutti gli effetti soci in affari. Peccato che la cooperazione economica piaccia poco ai nostri politici.
Alla radice della crisi
Critica delle teorie economiche che hanno generato il grande crack, in una lezione di Marcello De Cecco di Roberta Carlini (il manifesto, 05.12.2008)
1941. Dal saluto di commiato di Donato Menichella ad Alberto Beneduce che si ritira dalla presidenza dell’Iri. «Voi siete colui che più che ogni altro ha convogliato al servizio dello Stato e al servizio dell’economia industriale del paese il risparmio nazionale in cifre che si misurano a decine di miliardi, ma nello stesso tempo siete colui che ha tutelato il risparmio e ha messo ordine in molti organismi che ne fanno raccolta, per cui può finalmente dirsi chiusa l’epoca delle frodi contro gli inermi paria della classe borghese e della classe lavoratrice. Voi avete spezzato le catene che legavano le banche all’industria, connubio innaturale, specialmente in una nazione e in un regime che pongono alla base dell’azione dello stato non le astruserie di teorie individualistiche liberali, bensì la tutela del patrimonio dei cittadini indifesi contro gli assalti agguerriti di privilegiati pronti a sfruttare le raffinatezze della tecnica capitalistica per convogliare a loro profitto il sudore e il risparmio della povera gente».
1936. Al Madison Square Garden Roosevelt diceva della stessa gente: «Avevano cominciato a considerare il governo degli Usa come una mera appendice dei loro affari. Ora sappiamo che il governo esercitato dalla finanza organizzata è altrettanto pericoloso del governo della malavita organizzata».
1971. Federico Caffè scrive sul Giornale degli economisti: «Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi. Esiste una evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere che vincolano l’attività produttiva reale dei vari settori agricoli industriali, di intermediazione commerciale e la concreta licenza di espropriare l’altrui risparmio che esiste per i mercati finanziari". 1976. Guido Carli scrive su Bancaria: «Mi propongo di esaminare le cause dell’atteggiamento di critica verso i banchieri e le banche in alcuni paesi. In altri tempi gli assetti bancari stimolarono interessi intorno al comportamento delle banche. Una delle cause del sospetto nei confronti dei banchieri credo debba attribuirsi all’estensione assunta dall’intermediazione finanziaria sia nei regolamenti tra paesi sia all’interno di ciascuno di essi. La diffidenza (nei confronti dei banchieri) trae origine dalla convinzione che le banche commerciali si sono appropriate di una porzione troppo ampia della sovranità monetaria».
Con queste quattro citazioni, a mo’ di cappello, Marcello De Cecco ha aperto a Roma un’affollata lezione su «La liberalizzazione finanziaria: teoria e storia». Un discorso in due puntate, a cui è stato chiamato nell’ambito delle Lezioni Caffè, che ogni anno il Dipartimento di Economia Pubblica della Sapienza organizza per ricordare il suo famoso docente scomparso. Lezioni particolarmente vive e attese quest’anno, dato il tema e dato lo stato delle cose. Sul quale le quattro citazioni iniziali a raffica hanno gettato subito una luce impietosa: adattandosi alla perfezione ai guai finanziari e reali dei giorni nostri, ma - come ha detto lo stesso De Cecco - non trovandosi al momento alcuna voce autorevole e potente come quelle appena citate disposta a dire cose dello stesso tenore e con la stessa verve. Mettendo sul banco degli imputati non questo o quel personaggio (e già sarebbe tanto), non questo o quell’eccesso, ma l’intero sistema che da 30-40 anni governa la finanza. Portando a quello che viene mostrato in un grafico impressionante: l’impennata del debito mondiale sul prodotto mondiale, dai ’70 a oggi. E precipitando nell’attuale crisi.
«Come facciamo sempre noi economisti», De Cecco ha presentato prima le teorie, poi i fatti della liberalizzazione finanziaria: raccontando il momento clou, che si colloca tra la svolta degli anni ’70 con l’abbandono della convertibilità del dollaro e le scelte di Reagan dell’80, con l’introduzione della concorrenza tra le banche sui tassi di deposito; e spiegandone gli antefatti, teorici e storici. I primi - l’apparato teorico di sostegno alla liberalizzazione della finanza, che detto in breve si basa sul caposaldo per cui la libertà dei capitali di muoversi alla ricerca del massimo rendimento, dentro e fuori i confini nazionali - vengono spolpati e smontati analiticamente, sulla base di diversi apporti teorici (da Schumpeter a Pasinetti, a Hellman-Murdock-Stiglitz). Più complicato capire come mai, quasi all’improvviso, quei paradigmi abbiamo preso il sopravvento fino a conquistarsi la palma del «pensiero unico»; perché quel «dirigismo finanziario» che aveva accompagnato gli anni d’oro della crescita negli Stati Uniti e in Europa sia stato così rapidamente gettato alle ortiche. Perché si sia scelto un modello che riduce la stabilità del sistema (riducendo quella delle sue banche). E qui soccorre la seconda parte della lezione di De Cecco, dedicata alla storia della liberalizzazione. Alle forze sociali ed economiche, agli intrecci e ai conflitti, e alle conseguenti leggi e istituzioni, che dalla formazione del capitalismo americano hanno modellato il suo sistema bancario e finanziario. E dunque quello del resto del mondo ricco.
Si parla dei pionieri e dei farmers americani dell’800, ma si pensa agli hedge fund e ai supermanager di oggi. E su questi si concentrano domande e sollecitazioni. Quali sono i nessi tra la liberalizzazione finanziaria e quelle «reali»? In che misura le banche hanno finanziato la speculazione su tutti i mercati? E soprattutto, quali sono gli interessi e le coalizioni che si muovono adesso, mentre il «bailout» di Bush ci consegna dagli Usa addirittura il ritorno della banca pubblica? «Attenzione alla coalizione gattopardesca, per far restare tutto come prima», avverte De Cecco. Che appunta il suo pessimismo su un personaggio chiave, quel Larry Summers che nel 2000, da segretario al Tesoro di Clinton, cambiò radicalmente idea rispetto alle sue teorie e sposò la liberalizzazione del conto capitale della bilancia dei pagamenti. E che ora è tornato con Obama, a capo del Consiglio nazionale economico.
L’attualità di Claudio Napoleoni
di Sandro Del Fattore (il manifesto, 04.12.2008)
Lo scorso 21 novembre il Centro per la riforma dello stato (Crs) ha promosso un incontro pubblico su Claudio Napoleoni a venti anni dalla sua scomparsa. Del suo straordinario contributo teorico e politico ne hanno discusso Mario Tronti, Raniero La Valle, Fausto Bertinotti, Luciana Castellina, Gian Luigi Vaccarino. Lavoro teorico e impegno politico: due campi difficilmente separabili per Claudio Napoleoni che, infatti, diceva «Io non avrei mai affrontato in vita mia una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico». La politica, quindi, vista come attività verso la quale finalizzare lo studio e la ricerca, ma anche come «lo strumento di una liberazione».
Perché è importante riprendere la linea di ricerca di Claudio Napoleoni e provare a scavare attorno alle sue ultime e drammatiche domande? Proprio su questo sono stati diversi gli spunti di riflessione emersi nel corso del convegno. Qui ci soffermiamo solo su una questione. È possibile individuare un filo conduttore nella ricerca teorica e nel lavoro politico di Claudio Napoleoni?
Rispondendo a tale quesito, infatti, è possibile capire meglio la sua attualità. Ci sono studiosi che individuano quale possibile filo conduttore della sua opera la polemica costante e ricorrente di Napoleoni contro la rendita e il parassitismo visti come tratti peculiari del capitalismo italiano. Lotta alla rendita, quindi, come terreno di iniziativa della stessa sinistra e del movimento operaio. Questo tema nel lavoro di Napoleoni indubbiamente c’è. Come però ci ricorda Lucio Magri nell’intervento al convegno di Biella (pubblicato poi su Critica Marxista), a 10 anni dalla scomparsa di Napoleoni, il suo contributo non può essere racchiuso in questo ambito. E infatti ciò è del tutto evidente se si riflette su alcune tappe importanti del suo lavoro teorico e del suo impegno politico.
Già nella «Rivista Trimestrale» fondata con Franco Rodano (fine anni ’50) prende corpo un’analisi critica del consumismo quale tratto saliente del nuovo capitalismo. A questa critica si coniuga una proposta di politica economica che, a partire dai bisogni sociali e collettivi, possa determinare nuove scelte e opportunità di investimento. Già allora, quindi, emergeva la critica alle nuove forme che il capitalismo veniva assumendo e l’esigenza di battersi per un diverso sviluppo e una diversa programmazione dell’economia. Questione, questa, che si riproporrà alla fine degli anni ’60, arricchita da un elemento decisivo: proprio i contenuti avanzati delle lotte operaie di quegli anni e le forme di democrazia diretta davano la possibilità di fondare la programmazione e l’intervento pubblico nel vivo della società e dei suoi conflitti.
Nel 1978 - con Luciana Castellina e Stefano Rodotà - dà vita alla rivista Pace e Guerra. E proprio sul primo numero della rivista, riflettendo sul tema dell’austerità, Napoleoni scrive che quanto si aspettano «i destinatari» di quella proposta (cioè i soggetti sociali protagonisti delle lotte in particolare degli anni ’60-’70) «non è soltanto una migliore amministrazione dell’esistente ma un inizio di superamento sia della condizione implicita del lavoro salariale sia dei modi di consumo impliciti nella produzione mercantile». Come si vede, anche da questo passo emerge una critica al modello capitalistico di sviluppo e l’esigenza del suo superamento.
Negli anni ’80 la riflessione di Claudio Napoleoni si trova di fronte due questioni assai delicate e gravide di conseguenze: cominciano a dispiegarsi le politiche neoconservatrici con i loro effetti sull’economia ma anche su quei soggetti protagonisti delle lotte degli anni ’60-’70; in secondo luogo, si apre una discussione nel Pci proprio su come affrontare e contrastare quelle politiche.
Nel 1986 in un seminario promosso dal Cespe e dal Crs Napoleoni si chiedeva perché mai la sinistra dovesse assumere come propri gli obiettivi del risanamento finanziario e della «stabilizzazione del ciclo economico intorno a un trend positivo». La leva del bilancio pubblico andava utilizzata, secondo Napoleoni, non per produrre una spesa inflazionistica ma per «dirigere risorse verso quei settori che sono più suscettibili di allentare la nostra dipendenza dall’estero». O verso una politica di investimenti «per grandi programmi di modificazione del territorio che hanno valore in se stessi e che possono essere giudicati dei beni finali e non dei beni strumentali a altro». Investimenti, quindi, per ridurre l’inquinamento, produrre servizi, risanare le città e le aree urbane.
Sappiamo come questa discussione si è conclusa. La domanda radicale che Napoleoni si pone negli ultimi anni della sua vita porta forse il segno di una riflessione che risente molto della sconfitta che la sinistra subisce proprio a partire degli anni ’80. Si chiede infatti Napoleoni «posto che la storia contemporanea culmina in una società dominata da uno sviluppo nuovo del capitalismo che per l’uomo ha un carattere distributivo, è possibile una uscita da essa per via puramente politica?». È il dubbio che lo assillava negli ultimi anni della sua vita. E proprio a fronte di questo dubbio sollecitava, nel suo ultimo libro, «cercate ancora».
Quel filo conduttore di cui abbiamo parlato all’inizio e che troviamo in tante parti della sua riflessione teorica e politica sta proprio nella critica radicale del moderno capitalismo a cui si associa una costante ricerca delle strategie che - pure in presenza di vincoli e condizionamenti che il sistema produce - portino a un suo superamento. L’attualità del suo lavoro e dei problemi che esso pone sta proprio qui. E infatti guardiamo a ciò che oggi sta avvenendo.
Quel capitalismo così «pervasivo» che distrugge l’ambiente e ingenti risorse è nel pieno di una crisi drammatica non solo della finanza. È una crisi che tocca e riguarda in primo luogo l’economia reale. Così il tema della redistribuzione del reddito verso il lavoro torna a essere centrale. Ma c’è di più. Paradossalmente la necessità dell’intervento pubblico in economia viene riconosciuta da tutti. Ma, ecco il punto, l’intervento pubblico non può limitarsi a tamponare gli effetti più devastanti della crisi per poi tornare alla condizione precedente. C’è l’esigenza, invece, che quell’intervento sia funzionale a un progetto capace di modificare la qualità della produzione e dell’occupazione. E ciò è possibile se si risponde alle tante domande inevase che ci sono nella società e su di esse si orienta uno sviluppo diverso: risanamento del territorio e delle aree urbane, nuove politiche energetiche e nuove politiche industriali, progetti per una mobilità sostenibile etc. Non sta anche in questo l’attualità del pensiero di Claudio Napoleoni? Forse una costituente per un nuovo soggetto della sinistra dovrebbe partire anche da lì.
L’economista Napoleoni: il G20 ascolti Ratzinger
Esce a giorni il numero di novembre della rivista «Mondo e missione», diretta da Gerolamo Fazzini, interamente dedicato all’enciclica del Papa. Uno speciale di 100 pagine intitolato «Good economy» da cui qui anticipiamo la riflessione dell’economista Loretta Napoleoni.
DI LORETTA NAPOLEONI (Avvenire, 28.10.2009)
Al G20 tutti avrebbero dovuto leggere l’enciclica del Papa Caritas in veritate per capire il ruolo dell’economia nella società civile. Lo stesso che aveva prima della globalizzazione, lo stesso che ha sempre avuto e cioè di essere al servizio della comunità e non del singolo individuo.
Il Papa ci ricorda la bellezza e l’importanza del dono, è questo un linguaggio religioso che potrebbe suonare stonato a Piazza Affari, ma dietro i principi etici del cattolicesimo e di tutte le religioni ritroviamo i cardini della vita in società. Il dono si riferisce alla redistribuzione del reddito, un valore che in finanza è scomparso con l’avvento delle politiche fiscali neo-liberiste, politiche che hanno ridotto l’imposizione fiscale alle fasce più ricche della popolazione. Lo scopo era naturalmente quello di incoraggiarle a spendere e così facendo di sostenere la crescita economica. Ma la crisi del credito e la recessione hanno dimostrato che nessuno, neppure la mano magica del mercato descritta da Adam Smith, si può sostituire allo Stato: solo lo Stato, quale espressione della comunità, può vigilare che la filosofia del dono guidi l’attività economica.
Il Papa ci ricorda che aiutarci a vicenda è benefico per tutti, per la società, per i poveri ed anche per i ricchi. Un mondo dove non ci sono povertà, ingiustizia e discriminazione economica è un mondo felice. Ce lo siamo dimenticato negli ultimi anni perché in preda alla deregulation finanziaria abbiamo perseguito soltanto i nostri interessi personali. Non è vero che l’egoismo è la molla che fa crescere il mercato. Non era vero neppure ai tempi di Adam Smith. Se osserviamo la società che il padre dell’economia moderna studiava, ci rendiamo conto che non era equa. La ricchezza delle nazioni non può essere misurata con un numero, il Pil, e basta: bisogna anche tener presente come questa ricchezza è distribuita, quali opportunità crea per i meno fortunati. Se gettiamo uno sguardo oltre i nostri confini, alla periferia del villaggio globalizzato, ci accorgiamo che i sistemi economici che hanno sofferto meno a causa della crisi del credito sono proprio quelli dove il fulcro dell’economia era rappresentato dalla comunità e non dall’individuo: la finanza islamica e l’economia cinese. La prima ha schivato la crisi grazie al codice etico incorporato nella sua struttura finanziaria, un codice che s’ispira alla legge coranica, alla sharìa; la seconda ha tenuto a debita distanza l’alta finanza grazie ai principi economici del socialismo.
L’esperienza islamica e quella cinese provano che è possibile produrre un modello diverso da quello celebrato a Wall Street, che il mercato deve essere funzionale alla crescita economica equa e non può essere lasciato a se stesso. Lo scopo dell’economia non deve essere il profitto e basta, bensì l’uso della ricchezza per migliorare la società. Eppure queste verità sembrano non essere state raccolte dai potenti della terra, i quali - dopo essersi congratulati tra di loro per aver evitato una seconda grande depressione - non hanno fatto nulla per riformare il sistema economico e finanziario globale.
Le parole del Papa vanno dritte al nocciolo del problema: il sistema così com’è strutturato ha perso di vista la ragione per la quale esiste, ossia la comunità. Ecco perché le crisi economiche saranno sempre più frequenti e più serie. Quando lo Stato non è in grado di reagire, è giusto ascoltare le parole di chi protegge la nostra spiritualità. Al prossimo G20 inviterei il Papa a esporre i problemi dell’economia mondiale, è l’unico che sembra averli capiti.
Scusi, ma quello non è il capitalismo?
di AlbertoBurgio, Vladimiro Giacché (Il manifesto, 12 novembre 2008)
In questi giorni è di gran moda tributare onori al vecchio Marx. La crisi del capitalismo incoraggia le palinodie. Ancora ieri era un reperto fossile, oggi è la mascotte di banchieri e economisti di radicata (e in realtà incrollabile) fede liberista. Lasciamo andare ogni considerazione sulla scarsa decenza di tanti improvvisi ripensamenti. Proviamo piuttosto a divertirci un po’ immaginando lo spasso che procurerebbero a Marx tutti questi discorsi e quanto sta accadendo in queste turbolente settimane. A Marx e non soltanto a lui. C’è un altro grande vecchio, di cui nessuno parla, che si sta godendo una tardiva ma non imprevista rivincita. Un vecchio molto caro all’autore del Capitale. Insomma, questa crisi è un momento di riscatto anche per Hegel, il grande maestro di Marx. Attenti a quei due. La rappresentazione prevalente descrive un movimento che va dalla crisi finanziaria («originata - recita la vulgata - dalla caduta dei mutui subprime») all’economia reale.
Le implicazioni di questa narrazione ideologica sono principalmente due. La prima è che l’«economia reale» (in sostanza, il capitalismo) sarebbe di per sé sana; la seconda, che ne consegue, è che si tratta in definitiva di un problema di «assenza di regole e controlli» in grado di prevenire (e adeguatamente reprimere) i comportamenti «devianti» degli speculatori troppo ingordi. Tale descrizione omette il dato essenziale. Prima del movimento descritto, ne opera uno opposto (dall’economia reale alla finanza) che si fa di tutto per occultare. Si capisce perché.
In realtà è il modo in cui funzionano la produzione e la riproduzione (cioè il rapporto capitale-lavoro) a decidere il ruolo della finanza e le forme concrete del suo funzionamento. Nella fattispecie, è l’ipersfruttamento del lavoro (a mezzo di precarizzazioni, delocalizzazioni, bassi salari e tagli del welfare) a far sì che all’indebitamento di massa sia affidato il ruolo di fondamentale volano della crescita. Non stupisce allora che su questo si cerchi di instaurare un tabù. Non si può dire chiaramente - pena l’esplicita delegittimazione del sistema - che all’origine della crisi è la crescente povertà imposta alle classi lavoratrici da trent’anni a questa parte.
Ma che c’entra Marx con questo e cosa c’entra soprattutto Hegel? Proviamo a vederla così. Se è vero che l’economia reale è sia il luogo originario del processo di crisi, sia il terreno del suo compiuto dispiegarsi, allora si può dire che la produzione si serve della finanza per sopravvivere. Nel concreto, la speculazione finanziaria fondata sull’indebitamento è il mezzo che il capitale usa per svilupparsi in costanza del vincolo-base del neoliberismo: la deflazione salariale a tutela del saggio di profitto.
Ora, questo schema è identico a quello su cui riposa la critica marxiana della valorizzazione capitalistica. In base a tale schema, com’è noto, la quantità di valore aumenta passando attraverso la produzione di merce. La quale - dal punto di vista del capitale - non è che lo strumento necessario per riprodursi e svilupparsi.
Non si tratta di un’analogia formale né, tanto meno, accidentale. La finanza oggi svolge, in rapporto alla produzione capitalistica, una funzione identica a quella che, nel processo di riproduzione del capitale, è assolta dalla merce. La finanziarizzazione dell’economia, cuore del neoliberismo, affianca alla sequenza D-M-D1 (beninteso, l’unica nel contesto della quale si realizza un effettivo aumento di valore) la sequenza produzione-speculazione-produzione, funzionale a drenare cospicue masse di ricchezza dal lavoro al capitale: una sequenza nella quale si rispecchiano a un tempo il ruolo-chiave svolto dal denaro e la funzione decisiva assolta dalla povertà del lavoro.
A sua volta, questo schema è identico a quello che struttura l’analisi dialettica del reale nelle pagine di Hegel, in particolare nella Scienza della logica. Non tanto per la sua struttura triadica (a-b-a1: tesi-antitesi-sintesi), che ne costituisce la veste esteriore. Quanto per il nòcciolo teoretico che contiene, cioè l’idea che il passaggio da un ente a un altro (il negarsi a vantaggio dell’«altro da sé») sia in realtà (al di là di ciò che appare sul piano fenomenologico) un transito necessario al primo ente per conservarsi. In questo senso il primo ente è il protagonista dell’intero movimento, nella misura in cui trasforma se stesso e, trasformandosi, sopravvive.
Ce n’è già abbastanza, forse, per dire che la filosofia ogni tanto si prende delle grandi soddisfazioni. Sembra a prima vista un catalogo di criptiche astrazioni, si rivela invece una potente chiave per penetrare la realtà e decifrarne le dinamiche. L’astrazione coincide così col massimo di semplicità e di concretezza. Ma c’è dell’altro. Anzi, il bello viene proprio adesso.
La dialettica mostra che l’ente da cui il movimento prende avvio (la produzione capitalistica) è il protagonista della storia (della crisi). Ma mostra anche che la trasformazione dell’ente (necessaria alla sua sopravvivenza) implica quel passaggio (la finanziarizzazione), quel suo negarsi nell’altro. Mostra cioè che non vi è persistenza senza conflitto, senza duro contrasto, senza negazione di sé. Solo venendo meno, passando attraverso la propria morte, la cosa persiste e si sviluppa.
Questo è il punto, evidentemente gravido di conseguenze. La produzione capitalistica si rivolge alla finanza speculativa per una sua inderogabile esigenza (per realizzare la riproduzione allargata del capitale). Alla base opera la necessità di impoverire il lavoro, pena l’estinguersi dei margini di profitto, cioè del capitale stesso. Dopodiché la speculazione finanziaria torna sulla produzione in forma distruttiva. È indispensabile al capitale, ma è altresì incompatibile con la sua sopravvivenza. In altre parole, la produzione capitalistica si serve della speculazione per conservarsi ma, nel far ciò, è costretta anche - paradossalmente - a negare se stessa, a autodistruggersi a mezzo dell’onda d’urto della crisi finanziaria, che agisce come formidabile moltiplicatore economico degli effetti socialmente distruttivi dell’ipersfruttamento del lavoro vivo.
In cauda venenum. La filosofia è come un fascio di raggi X puntato sui processi reali e sulle loro rappresentazioni ideologiche. La dialettica è una potenza dinamitarda. Hegel e Marx, quei due «cani morti» che già in passato turbarono i sonni delle borghesie europee, ancora se la ridono.
La crisi e il socialismo per ricchi
di MIKHAIL GORBACIOV (La Stampa, 3/11/2008)
Man mano che la crisi finanziaria globale diventa sempre più profonda, diventa chiaro che il collasso della Borsa ha colpito non solo i ricchi - il cui tenore di vita probabilmente non ne verrà affetto - ma anche milioni di persone comuni che hanno affidato i risparmi della loro vita ai mercati.
Questa crisi finanziaria appare solo la prima fase di una crisi più vasta dell’economia che potrebbe essere la peggiore dalla Grande Depressione degli Anni 30. Questa crisi non è nata dal nulla. Avvertimenti erano venuti da diverse parti, inclusi gli economisti, non soggetti normalmente alla tentazione di nutrire inutili ottimismi. Cautela è stata raccomandata anche dai veterani della politica mondiale della Commissione Trilaterale e del World Political Forum, preoccupati nell’osservare i mercati finanziari diventare una bolla pericolosa, con un legame scarso o addirittura nullo con i flussi reali di beni e servizi. Tutti questi avvertimenti sono rimasti inascoltati.
Nei prossimi mesi l’avidità e l’irresponsabilità dei pochi colpirà tutti noi. Nessun Paese e nessun settore riusciranno a sfuggire alla crisi. Il modello economico radicato nei primi Anni 80, basato sulla massimizzazione dei profitti grazie all’abolizione della regolazione necessaria a proteggere gli interessi della società nel suo insieme, sta tramontando.
Per decenni ci siamo sentiti ripetere che questo modello avrebbe portato benefici a tutti, e che «l’alta marea finisce col sollevare tutte le barche». Ma le statistiche dicono che non è stato così. La crescita economica degli ultimi decenni - assai modesta se paragonata a quella degli Anni 50-60 - ha beneficiato in modo sproporzionato i membri più ricchi della società. Il tenore di vita della classe media è invece fermo, e la voragine tra i ricchi e i poveri è aumentata perfino nei Paesi economicamente più sviluppati.
Il sistema è stato reso ancora più precario dai prestiti irresponsabili sostenuti da complessi strumenti derivati, che alla fine si sono rivelati complicate piramidi finanziarie. Perfino la maggior parte degli economisti e dei bancari non riesce a spiegare come funzionano. A beneficiare maggiormente di questi schemi sono stati i loro inventori.
Di tutti i fatti venuti alla luce nelle ultime settimane, uno mi ha colpito in particolare. L’anno scorso le maggiori banche d’investimento americane hanno pagato, secondo alcune stime, 38 miliardi di dollari di bonus. Suddividendo questa somma per i numeri della loro forza lavoro viene fuori la cifra di 200 mila dollari per persona: quattro volte più del reddito di una famiglia americana media! In più c’erano i «paracadute dorati», i pacchetti di buonuscita multimilionari pagati ai dirigenti delle banche che sono crollate o sono state salvate dal governo.
Questo è il risultato: capitalismo tagliagola per la maggioranza e «socialismo» degli aiuti governativi per coloro che sono già ricchi. Fra tre o quattro anni, quando ci saremo lasciati alle spalle la fase acuta della crisi, queste stesse persone ci diranno che il capitalismo più «crudo» funziona meglio e dovremmo lasciarli liberi da ogni costrizione. Fino alla prossima crisi ancora più devastante?
L’attuale modello di globalizzazione ha portato alla deindustrializzazione di intere regioni, deteriorando le infrastrutture, togliendo funzionalità ai sistemi sociali e provocando tensioni a causa di processi economici, sociali e di immigrazione incontrollati e non regolati. Il danno morale è stato enorme, rispecchiato perfino nel linguaggio: l’evasione fiscale è diventata «pianificazione fiscale», licenziamenti di massa sono diventati «ottimizzazione del personale» e via di questo passo.
Il concetto di uno sviluppo sostenibile per le generazioni future è stato soppiantato dall’idea del libero commercio come panacea per tutti i problemi. «Domani è un altro giorno», è il motto di questi tempi, mentre il 60% degli ecosistemi, secondo le ricerche promosse dall’Onu, sono già stati danneggiati. Il ruolo dello Stato e della società civile è stato ridotto, con gli uomini visti non più come cittadini ma, nel migliore dei casi, come «consumatori di servizi offerti dal governo». Il risultato è un mix esplosivo di darwinismo sociale - sopravvive il più forte, i deboli muoiano - e della filosofia del «dopo di noi il diluvio».
La crescente crisi dell’economia mondiale, oggi, finalmente attrae l’attenzione dei politici. Per motivi comprensibili, ci si concentra su misure di salvataggio immediate. Sono senz’altro necessarie, ma c’è anche bisogno di riconsiderare le basi del modello socio-economico della società moderna, direi addirittura la sua filosofia, che si è rivelata assai primitiva, basata interamente sul profitto, il consumismo e il guadagno personale. Perfino il guru della teoria monetarista moderna, il defunto Milton Friedman - che ho avuto modo di incontrare - sosteneva che non si poteva ridurre tutto all’Homo oeconomicus, che la vita sociale non è fatta solo di interessi economici.
Tempo fa ho invocato una combinazione di morale e politica. Durante la perestroika ho cercato di seguire sempre l’idea che la politica dovesse contenere una componente morale. Penso che per questa ragione, nonostante gli errori commessi, siamo stati in grado di tirare la Russia fuori dal totalitarismo: per la prima volta nella nostra storia, un cambiamento radicale è stato avviato e portato a un punto di non ritorno senza un bagno di sangue.
È arrivato anche il momento di combinare la morale e gli affari. È un argomento difficile. Ovvio che un business deve fare profitti, oppure morirà. Ma sostenere che l’unico dovere morale di un uomo d’affari è fare soldi significa portarsi a un passo dall’idea del «profitto a ogni costo». E mentre nell’economia reale che produce esiste ancora una qualche trasparenza - dovuta a tradizioni, e alla presenza dei sindacati e di altre istituzioni - che permette alla società di mantenere una certa influenza, la sfera dell’«ingegneria finanziaria» ne è priva. Non c’è nessuna glasnost, nessuna trasparenza, nessuna moralità. E le conseguenze sono state devastanti.
L’alleanza tra politici e uomini d’affari, che per decenni avevano spinto verso la deregulation diffondendo i principi del laissez-faire nelle economie di tutto il mondo, insieme con gli analisti che esaltavano i titoli delle società in cui avevano interessi, e i teorici dell’economia che offrivano come unica soluzione a ogni problema il «togliere il controllo a qualunque cosa», è stata distruttiva e spesso corrotta. L’abbiamo visto in Russia, dove queste ricette sono state promosse con frenesia quasi maniacale negli Anni 90. Ora che questa piramide perniciosa e immorale sta crollando, dobbiamo pensare a un modello che la rimpiazzerà. Non chiedo di abbatterla senza pensarci, e non ho soluzioni pronte a portata di mano. Il cambiamento deve essere evolutivo. Un nuovo modello dovrà emergere, basato non più soltanto sul profitto e sul consumismo.
Sono convinto che in un’economia nuova i bisogni della società e i beni della società devono svolgere un ruolo assai maggiore di quello attuale. I bisogni della società sono abbastanza chiari: un ambiente sano, un’infrastruttura moderna e funzionale, un sistema di istruzione e sanità, alloggi accessibili. Costruire un modello che abbia al centro queste necessità richiederà tempo e sforzo. Ci vorrà una svolta intellettuale. Ma i politici che portano la responsabilità per il superamento dell’attuale crisi devono ricordarsi una cosa: senza una componente morale ogni sistema è condannato a fallire.
Se la finanza è spazzatura
di PAUL KRUGMAN *
Gli scettici hanno ribattezzato il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari prospettato da Henry Paulson e destinato a sanare il sistema finanziario statunitense "cash for trash" (liquidi in cambio di spazzatura). Altri definiscono l’ intervento proposto "Autorizzazione all’ uso della forza finanziaria", sulla falsariga dell’ "Autorizzazione all’ uso della forza militare", il famigerato provvedimento che ha dato il via libera all’ Amministrazione Bush per l’ invasione dell’ Iraq. C’ è qualcosa di esatto in questa allusione.
Tutti concordano sul fatto che è necessario fare qualcosa di incisivo, ma Paulson pretende di ottenere poteri straordinari per sé - e per il suo successore - per utilizzare il denaro dei contribuenti per un progetto che, per come la vedo io, non ha senso. Cerchiamo perciò di riflettere sulla situazione per conto nostro.
Vi propongo una riflessione personale in quattro fasi sull’ attuale crisi finanziaria:
1. Lo scoppio della bolla immobiliare ha portato a un’ impennata di insolvenze e pignoramenti di beni ipotecati che a sua volta ha comportato un repentino crollo dei titoli garantiti da prestiti ipotecari, asset il cui valore in definitiva dipende interamente dai pagamenti dei mutui;
2. Queste perdite finanziarie hanno lasciato molti istituti finanziari a corto di capitale, inadeguato a far fronte ai loro debiti. Questa circostanza è particolarmente grave perché negli anni della bolla moltissime persone hanno contratto debiti;
3. Poiché gli istituti finanziari si sono ritrovati con capitali troppo esigui rispetto al loro indebitamento, non sono stati capaci o disposti a fornire il credito di cui l’ economia ha bisogno;
4. Gli istituti finanziari hanno cercato di onorare in contanti il loro debito vendendo asset vari, tra i quali i famosi titoli garantiti da prestiti ipotecari, ma ciò conduce al ribasso dei prezzi degli asset e peggiora la loro posizione finanziaria. Questo circolo vizioso è denominato da alcuni "il paradosso del deleveraging".
Il piano Paulson prospetta che il governo federale rilevi un corrispettivo di asset problematici pari a un valore di 700 miliardi di dollari, in buona maggioranza titoli garantiti da prestiti ipotecari. In che modo ciò può risolvere la crisi? Beh, potrebbe - e dico solo potrebbe - spezzare il circolo vizioso del deleveraging, il quarto punto del mio sintetico schema. Ma anche questo non è così scontato: i prezzi di molti asset, non soltanto quelli che il Tesoro si ripromette di acquisire, sono sotto pressione. Anche se il circolo vizioso è limitato, il sistema finanziario sarà in ogni caso impedito dalla ristrettezza di capitali. Per meglio dire, sarà ostacolato da capitali inadeguati se il governo federale non pagherà cifre esorbitanti per gli asset che è disposto a rilevare, distribuendo così agli istituti finanziari - e ai loro azionisti e dirigenti - un’ inattesa quanto provvida manna dal cielo a discapito dei contribuenti. Ho già fatto presente che questo piano non è affatto di mio gradimento? La logica della crisi parrebbe suggerire un intervento in coincidenza della seconda fase, non della quarta: il sistema finanziario necessita di più capitali.
Se il governo fornirà capitali agli istituti finanziari, dovrebbe assicurare ciò a cui hanno diritto coloro che forniranno i capitali - una partecipazione di proprietà, per esempio, così che tutti gli utili acquisiti se il piano di salvataggio dovesse funzionare in primo luogo non finiranno nelle tasche di coloro che hanno combinato questo grande pasticcio. Questo è quanto si è fatto con la crisi dei risparmi e dei prestiti: la Fed assunse il controllo delle banche che andavano male, non soltanto dei loro asset che andavano male. Lo si è fatto anche nel caso di Fannie e Freddie. (A proposito: questa operazione di salvataggio ha conseguito ciò che si riprometteva di conseguire. Da quando è subentrata la Fed i tassi di interesse sui mutui sono scesi parecchio).
Si aggiunga a ciò il fatto che Paulson pretende altresì di avere un’ autorità assoluta, oltre all’ immunità in caso di controlli effettuati "da qualsiasi tribunale o agenzia amministrativa", e tutto ciò mi pare contribuisca a farne una proposta inaccettabile. Sono consapevole che il Congresso è sottoposto a enormi pressioni per approvare nei prossimi giorni il piano di Paulson, aggiungendo di suo al massimo qualche modesto ritocco che lo renda nel complesso un po’ meno pregiudizievole. In sostanza, dopo aver trascorso un anno e mezzo a rassicurare tutti che tutto era sotto controllo, adesso l’ Amministrazione Bush sostiene che il cielo ci sta cascando addosso e che per salvare il mondo dobbiamo fare esattamente quello che ci dice adesso. In questo preciso, precisissimo, istante.
Vorrei invece esortare il Congresso a prendersi una piccola pausa. A fare un respiro profondo e a cimentarsi in una rielaborazione ponderata della struttura dell’ intera operazione, trasformandola in un progetto in grado di occuparsi seriamente del problema reale. Il Congresso non si lasci dunque indurre ad approvare questo progetto in tutta fretta: se il piano dovesse essere approvato nella sua forma attuale, come pure in una ad essa alquanto simile, in un futuro non troppo lontano potremmo ritrovarci tutti a rammaricarcene profondamente.
© New York Times 2008 (Traduzione di Anna Bissanti)
Joseph E. Stiglitz La globalizzazione e i suoi oppositori Einaudi 2006;
I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’ economia Einaudi 2005
Bernard Rosier Le teorie delle crisi economiche Bonanno 2003
Albert O. Hirschman Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato Bompiani 2002
Lorenzo Bini Smaghi Chi ci salva dalla prossima crisi finanziaria? Il Mulino 2000
Edward Chancellor Un mondo di bolle Carocci 2000
Karl Polanyi La grande trasformazione Einaudi 2000 Annie Goldmann Gli anni ruggenti (1919-1929) Giunti 1994
Charles P. Kindleberger Storia delle crisi finanziarie Laterza 1991
* la Repubblica - 23 settembre 2008 pagina 40 sezione: CULTURA
La fine del modello americano
di Francis Fukuyama (La Stampa, 8 ottobre 2008)
Le dimensioni del crac di Wall Street difficilmente potrebbero essere maggiori. Eppure, mentre gli americani si chiedono perché mai debbano pagare cifre così impegnative per impedire all’economia di implodere, pochi parlano di un costo meno tangibile ma potenzialmente assai più pesante per gli Stati Uniti: il danno al «brand» America.
Le idee sono una delle nostre merci da esportazione più importanti, e due in particolare hanno dominato il pensiero globale dai primi Anni 80, quando Ronald Reagan fu eletto Presidente. La prima era una certa visione del capitalismo, che sosteneva che tasse basse, regole leggere e un governo ridotto sarebbero state il motore della crescita economica. La seconda era l’idea dell’America come promotrice della democrazia liberale nel mondo, vista come la strada migliore a un ordine internazionale più prospero e aperto. Il potere e l’influenza dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la definizione del politologo Joseph Nye.
E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand» americano siano stati screditati. Tra il 2002 e il 2007, mentre il mondo godeva di un periodo di crescita senza precedenti, era facile ignorare quei socialisti europei e quei populisti latino americani che denunciavano il modello capitalistico americano come «capitalismo da cowboy».
Ma ora il motore di quella crescita, cioè l’economia americana, è deragliato e minaccia di trascinare con sé il resto del mondo. Peggio ancora, il colpevole è lo stesso modello americano: sotto il mantra di meno governo, Washington non ha adeguatamente regolato il settore finanziario.
Quanto alla democrazia, era stata macchiata ancor prima. Una volta assodato che Saddam Hussein non aveva le armi di distruzione di massa, l’Amministrazione Bush ha cercato di giustificare la guerra all’Iraq collegandola a una più ampia «agenda della libertà»; improvvisamente la promozione della democrazia era l’arma principale nella guerra al terrorismo. Ma per molti nel mondo la retorica americana sulla democrazia suona come una scusa per favorire l’egemonia degli Stati Uniti.
La scelta che dobbiamo fare ora va ben oltre il salvataggio finanziario o la campagna presidenziale per la Casa Bianca. Il «brand» America è stato dolorosamente messo alla prova nel momento in cui altri modelli - come la Cina o la Russia - sembrano sempre più allettanti. Ripristinare il nostro buon nome o far rivivere l’attrattiva del nostro «brand» è una sfida grande quanto stabilizzare il mondo finanziario. Prima però dobbiamo capire dove è l’errore, quali aspetti del modello americano sono solidi, quali mal realizzati, quali completamente da scartare.
Molti commentatori hanno sottolineato che il crac di Wall Street segna la fine dell’era Reagan. E’ vero. Le grandi idee nascono in una specifica epoca storica e poche sopravvivono quando cambia il contesto. Il reaganismo (e il thatcherismo) andavano bene per la loro epoca. Dal New Deal di Franklin Roosevelt negli Anni 30 i governi in tutto il mondo erano cresciuti a dismisura. Negli Anni 70 gli stati assistenziali e le economie, soffocate dalla burocrazia, si stavano rivelando altamente disfunzionali. La rivoluzione Reagan-Thatcher rese più facile assumere e licenziare, causando molti dolori quando le industrie tradizionali cominciarono a ridursi o a chiudere, ma gettò anche le basi per tre decenni di crescita e l’emergere di settori innovativi come l’informatica e le biotecnologie.
Sul piano internazionale la rivoluzione reaganiana si tradusse nel «Consenso di Washington», con il quale Washington - e le istituzioni sotto la sua influenza, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale - spingevano i Paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie. Respinto da populisti come il venezuelano Hugo Chavez, esso attenuava però le sofferenze della crisi per il debito latino americano degli Anni 80, quando l’iperinflazione afflisse Paesi come il Brasile e l’Argentina. Simili politiche favorevoli al mercato hanno trasformato la Cina e l’India nelle potenze economiche che sono oggi. Se fossero necessarie altre prove della loro bontà, basterebbe guardare alle economie centralmente pianificate dell’ex Unione Sovietica e di altri Stati comunisti, che negli Anni 70 erano ben dietro i loro rivali capitalisti sotto tutti gli aspetti. E la loro implosione dopo la caduta del Muro di Berlino confermò che erano finite in un vicolo cieco.
Come accade per tutti i movimenti trasformativi, anche la rivoluzione reaganiana si perse perché, per molti dei suoi seguaci, era diventata una ideologia incontestabile, non una risposta pragmatica agli eccessi dello stato assistenziale. Due concetti erano sacrosanti: i tagli delle tasse si autofinanziano e i mercati finanziari si autoregolano. Prima degli Anni 80 i conservatori erano conservatori sul piano fiscale: titubavano a spendere più di quanto incassavano. Il reaganismo introdusse l’idea che qualunque taglio di tasse avrebbe stimolato la crescita al punto che alla fine il governo avrebbe incassato di più. Ma avevano ragione i conservatori: se si tagliano le tasse senza tagliare le spese, si finisce nel disavanzo.
La globalizzazione però mascherò questa situazione, perché gli stranieri sembravano inesauribili nel loro desiderio di possedere dollari, il che consentì al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita, cosa che non sarebbe stata consentita a nessun Paese in via di sviluppo.
Il secondo articolo di fede reaganiano - la deregulation finanziaria - fu spinto dall’empia alleanza tra autentici credenti e aziende quotate a Wall Street. E negli Anni 90 fu accettata come Vangelo anche dai democratici, certi anche loro che le vecchie regole soffocavano l’innovazione e minavano la competitività. Avevano ragione, solo che la deregulation produsse un flusso di prodotti finanziari innovativi come i cdo, che sono all’origine della crisi attuale.
Lo scandalo della Enron, il deficit commerciale, le crescenti ineguaglianze all’interno della società americana, la pasticciata occupazione dell’Iraq, la risposta inadeguata al tornado Katrina erano tutti segnali che l’era Reagan sarebbe dovuta finire molto tempo fa. Non è successo, in parte perché i democratici non sono riusciti a trovare dei candidati convincenti, in parte perché le classi operaie - che in Europa votano i partiti di sinistra - in America ondeggiano tra repubblicani e democratici sulla base di temi culturali come la religione, il patriottismo, la famiglia, il possesso di armi. Quanto alla promozione della democrazia non è mai stata messa in discussione. Il problema ma avendola usata per giustificare la guerra in Iraq, «democrazia» è diventata una parola in codice per «intervento militare» e «cambio di regime». Tra Iraq e Medio Oriente - compreso l’appoggio a una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita - non siamo credibili quando sosteniamo una «agenda della libertà».
La crisi di Wall Street, e la poco edificante risposta che abbiamo dato, dimostrano che il più grande cambiamento di cui abbiamo bisogno è nella nostra politica. Il test finale per il modello americano sarà la sua capacità di reinventarsi ancora una volta.
Dieci consigli per uscire dalla crisi
di Johan Galtung (il manifesto, 03.10.2008)
Che cinismo parlare di «crisi» come di un fenomeno di un mese, o un anno o due, quando ogni giorno circa 125mila persone muoiono per fame indotta dal sistema o per malattie curabili/prevenibili! Gran parte della responsabilità risiede in un economismo che privilegia il sistema delle transazioni rispetto ai bisogni fondamentali delle persone. Il capitalismo è esattamente questo. E tuttavia, c’è una crisi sopra la crisi permanente. Con una compressione del credito in un’economia finanziaria malata le transazioni soffrono, e soffrono anche gli attori, ancor più di prima. Com’è possibile? Il capitalismo è un sistema che pompa ricchezza dai poveri su fino ai ricchi con una ricaduta minuscola, se non ci sono contromisure.
In termini economici: un deficit di potere d’acquisto - fatta eccezione per il prestito e le carte di credito in basso e un eccesso di liquidità in alto. Al punto che solo una frazione può essere usata per i consumi. Ma l’investimento a lungo termine in imprese produttive, in una economia reale stagnante, è limitato. Perciò l’«investimento» si trasforma in speculazione a breve termine nell’economia finanziaria e la bolla cresce. Qualunque economia reale produce prodotti per i consumi. Ma le serve anche una economia finanziaria che produca prodotti, come i prestiti, per poter acquistare e vendere. Le due devono sincronizzarsi; se ciò non accade è crisi.
Ma c’è una novità. Con una economia reale stagnante e un eccesso di liquidità, la differenziazione dei prodotti finanziari era prevedibile. Da qui «leva», «hedge funds», «futures», «options», «derivati» ecc., laddove prima avevamo azioni e obbligazioni, prestiti e interesse. E anche qualcosa in più. Così, prima di crollare, la Bear and Stearns ha informato i propri clienti che uno dei suoi prodotti finanziari non valeva (quasi) niente.
C’è una via d’uscita? Naturalmente, ma non è il piano di salvataggio con i 700 miliardi di dollari prelevati dai poveri contribuenti e dati alle banche e ai super-ricchi. Questo è il solito capitalismo, e non funzionerà. Data una massiccia stampa di valuta, si regalano soldi cattivi ai soldi cattivi; in secondo luogo, si premia una enorme incompetenza che sfiora la truffa; e terzo, si riduce ulteriormente il potere d’acquisto per la maggior parte degli americani, rendendo la crescita economica reale ancora più sfuggente.
Si considerino invece questi dieci punti, che funzionerebbero:
1. Un keynesismo massiccio: finanziamenti massicci per migliorare l’infrastruttura Usa in sfacelo, creando milioni di posti di lavoro, compresa la costruzione di scuole e policlinici. Più potere d’acquisto in basso.
2. Una redistribuzione massiccia: spingere in alto la tassazione; tassazione progressiva e sul lusso. E riduzione della pressione tributaria per il 70% che sta in basso, con sussidi per la casa e la salute.
3. Far intervenire il governo sui mutui abitativi contratti tra l’inizio della bolla e il suo scoppio, sollevando il debitore di questo fardello e aiutando contestualmente anche le banche.
4. Fermare tutti i pignoramenti, trovare una soluzione equa per tutti.
5. Finanziare questi interventi tagliando le spese eccessive del Pentagono per l’Impero Americano (Ron Paul), come le spese per le basi militari.
6. Lasciare che le peggiori banche/istituzioni finanziarie affondino, le più avide con la minore copertura per le loro transazioni e il rapporto più alto tra gli stipendi e i benefit dei manager, e quelli degli altri dipendenti.
7. Dichiarare illegale la maggior parte dei nuovi prodotti finanziari, a meno che non ci sia una garanzia verificata che l’aquirente e il venditore sono pienamente consapevoli del loro funzionamento e delle loro conseguenze.
8. Rendere merito alle banche che tengono rapporti diretti con i clienti, che annunciano chiaramente che i prestiti resteranno congrui rispetto a noi e alla nostra fideiussione.
9. Rendere pubblico l’M2 per rendere il sistema economico Usa più trasparente.
10. Un massiccio deprezzamento del dollaro per un nuovo dollaro che tagli il peso del servizio del debito, per fare in modo che i prodotti Usa rimanenti siano più competitivi, e per evitare una inflazione massiccia. (www.transcend.org)
(Traduzione Marina Impallomeni)
Ansa» 2008-10-04 09:48
CRISI DEI MUTUI: LA CAMERA USA DICE SI’ AL PIANO PAULSON
WASHINGTON - Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha firmato il piano per salvare l’economia americana. "Abbiamo mostrato al mondo che gli Stati Uniti stabilizzeranno i nostri mercati finanziari e manterranno un ruolo di leader nell’economia globale". Lo ha detto il presidente Usa, George W. Bush, in una dichiarazione alla Casa Bianca dopo l’approvazione da parte del Congresso del piano per salvare i mercati finanziari dalla crisi in corso.
La Camera dei rappresentanti Usa ha dato il via libera al superpiano da 700 miliardi di dollari (più sgravi per 150 miliardi), per arginare la crisi dei mutui. La presidente di turno della Camera ha annunciato che il piano è stato approvato con 263 voti a favore e 171 contrari. La maggioranza necessaria era di 218 voti. Una prima versione del piano era stata bocciata a sorpresa lunedì dalla stessa Camera. Mercoledì sera, ad ampia maggioranza, il Senato aveva dato il via libera ad una nuova versione del piano, al quale erano stati aggiunti sgravi fiscali per un valore di 150 miliardi di dollari, per conquistare l’appoggio dei deputati più riluttanti.
Il nuovo piano non suscita l’entusiasmo degli operatori, scettici sul fatto che la nuova versione sia sufficiente a far ripartire l’economia americana, che mostra segni evidenti di rallentamento anche a causa della sempre più scarsa disponibilità delle banche a prestare denaro. Con i rubinetti del credito chiusi, un crescente numero di famiglie fatica ad ottenere finanziamenti, così come le piccole imprese, rallentando di conseguenza i consumi, motore dell’economia statunitense rappresentando i due terzi del Pil. La crisi finanziaria ha contagiato l’economia reale, spingendo gli Usa sull’orlo della recessione.
E’ in questo contesto che gli operatori danno ormai per scontato un taglio dei tassi di interesse da parte della Fed già in ottobre. I futures sui tassi indicano che le probabilità di un ribasso di mezzo punto del costo del denaro nella riunione del Fomc di ottobre sono salite al 92%. Il restante 8% accredita un taglio di 75 punti base. Ad avvalorare la tesi di un calo del costo del denaro sono giunti oggi i dati sull’occupazione: a settembre i posti di lavoro persi sono stati 159.000. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,1%, ai massimi degli ultimi cinque anni.
CRISI MUTUI: NY NON FESTEGGIA OK PIANO, PAURA RECESSIONE
PROGETTO NON ENTUSIASMA; PAULSON, AGIRO’ RAPIDAMENTE; OK DA FED
NEW YORK - Wall Street incassa il via libera del Congresso al piano salva-finanza rivisitato e le rassicurazioni del Tesoro e della Fed. Ma non lo fa festeggiando: i guadagni accumulati nella prima meta’ di seduta vengono rapidamente limati, con indici altamente volatili che chiudono in negativo, con il Dow Jones che cede l’1,50%, il Nasdaq l’1,48% e lo S&P 500 l’1,35%. Ferma durante le operazioni di voto alla Camera, con gli occhi di tutti gli operatori puntati sugli schermi, la borsa americana non sembra entusiasta del progetto rivisto che potrebbe rivelarsi non sufficiente a risolvere i problemi, soprattutto per l’economia reale che appare sempre piu’ sull’orlo della recessione. Ed e’ proprio quest’ultima a preoccupare maggiormente e a pesare sugli indici. Plaudano all’approvazione il presidente della Fed, Ben Bernanke, e il segretario al Tesoro, Henry Paulson, che, dichiarandosi ’’grato’’ del via libera, assicura un’azione rapida. ’’Si e’ dimostrato l’impegno del Governo a sostegno dell’economia e del suo rafforzamento. Il progetto rappresenta - afferma invece Bernanke - un passo critico verso la stabilizzazione dei nostri mercati finanziari. La Fed continuera’ a lavorare a stretto contatto con il Tesoro nell’intraprendere le nuove iniziative: continueremo a utilizzare tutti i poteri a nostra disposizione per mitigare le distruzioni sul mercato e promuovere un’economia solida e vibrante’’. Ed e’ proprio sulle future mosse della Fed che il mercato scommette e trova conforto: gli investitori puntano a un taglio a breve del costo del denaro in seguito al susseguirsi di indicazioni congiunturali negative. L’ultima e’ giunta oggi: a settembre sono stati persi 159.000 posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione e’ salito al 6,1%, ai massimi degli ultimi cinque anni. I futures sui tassi indicano che le probabilita’ di un ribasso di mezzo punto del costo del denaro nella riunione del Fomc di ottobre sono salite al 92%. Il restante 8% accredita un taglio di 75 punti base. Il piano, gia’ firmato anche dal presidente George W. Bush, non suscita l’entusiasmo degli operatori, scettici sul fatto che la nuova versione sia sufficiente a far ripartire l’economia americana, che mostra segni evidenti di rallentamento anche a causa della sempre piu’ scarsa disponibilita’ delle banche a prestare denaro. Con i rubinetti del credito chiusi, un crescente numero di famiglie fatica ad ottenere finanziamenti, cosi’ come le piccole imprese, rallentando di conseguenza i consumi, motore dell’economia statunitense rappresentando i due terzi del Pil. La crisi finanziaria ha contagiato l’economia reale, spingendo gli Usa sull’orlo della recessione.
USA: PERSI 159.000 POSTI, PEGGIO DEL PREVISTO
Gli Stati Uniti a settembre hanno perso 159.000 posti di lavoro, contro previsioni per 105.000 occupati in meno. Il tasso di disoccupazione è rimasto stabile al 6,1% come nelle previsioni. L’emorragia di posti di lavoro - scrive la Bloomberg - è la peggiore degli ultimi cinque anni, e si accompagna ad un incremento dei salari medi (+0,3% su mese) inferiore al previsto che fa presagire un impatto negativo sui consumi. Ad agosto gli occupati erano diminuiti di 73.000 unità, sempre secondo il dipartimento del Lavoro. Dopo il dato di oggi gli Usa, dall’inizio dell’anno, hanno perso 760.000 occupati. Nel 2007 erano stati creati 1,1 milioni di posti di lavoro in più. Il calo degli occupati ha toccato le fabbriche, che hanno perso 51.000 posti dopo i 56.000 di agosto, e il settore delle costruzioni (-35.000 posti dopo i -13.000 di agosto), ma anche la finanza (-17.000) e i servizi (incluse banche, assicurazioni, ristoranti e vendite al dettaglio), con -82.000 posti.
700 miliardi per camuffare la storia
Durante la settimana finanziaria che va dal 15 al 19 settembre, la globalizzazione finanziaria aveva dimostrato di essere definitivamente morta. Ma prima che il crollo di Wall Street coinvolgesse Main Street (l’economia reale), il Governo americano ha preso una decisione senza precedenti: la costituzione di un ente federale con a disposizione 700 miliardi di dollari da destinare al riacquisto dei valori finanziari tossici che sono all’origine del perpetuarsi del crollo dei listini finanziari mondiali.
Secondo gli analisti il piano Paulson sarebbe quantitativamente dieci volte superiore al piano Marshall con cui si ricostruì l’Europa post-bellica e superiore al costo della guerra del Vietnam. Si consideri poi che la Cina, detenendo metà del debito estero Usa, detiene un importo di 500 miliardi di dollari in titoli statunitensi. L’immissione di 700 miliardi di dollari da parte del Tesoro, rappresenta di fatto una importante svalutazione del loro debito verso la Cina. Quanto potranno sopportare ancora la Cina, e gli altri detentori di titoli del debito Usa, un tal genere di furto? Il modello di fatto imperiale, spacciato col nome altisonante di globalizzazione, è in rianimazione ma con certezza di morte. Anzi, il piano Paulson non farà altro che prolungare l’agonia del malato. Questo perché quel credito di 700 miliardi non è strategicamente vincolato a risollevare l’ansimante economia reale, quanto piuttosto volto a riversare direttamente sui cittadini americani, ed indirettamente sulla popolazione mondiale, il disastro prodotto dall’immissione nel sistema della finanza di titoli puramente speculativi.
Ciò su cui non si può discutere, è invece il definitivo fallimento del modello liberista. Il blocco delle vendite allo scoperto ed il paracadute offerto ai mercati con i soldi dei cittadini, sono decisioni dirigistiche ed antimercatiste che dovrebbero segnare pure per gli irriducibili liberisti, il definitivo fallimento della deregulation , dell’idea per cui i mercati abbandonati a sé stessi raggiungerebbero l’equilibrio ottimale in favore della ricchezza. Se si fossero abbandonati i mercati ai loro destini, le famiglie più importanti del pianeta, dai Morgan ai Mellon ai Du Pont ai Rothschild, sarebbero probabilmente alle cronache come storico caso di "eccellente suicidio di massa", produzioni e commerci sarebbero fermi, intere nazioni sarebbero nel più completo caos.
In tutta questa storia c’è anche un altro dato interessante che emerge e che è bene che i politici tengano presente già nell’immediato futuro, visti i sacrifici che esso è costato alle popolazioni da loro amministrate. Gli illuminati osservatori economici del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, dell’Ocse, e delle agenzie di rating private (S & P, Moody’s, Fitch) che finora hanno giudicato sulla bontà delle scelte economiche fatte da stati sovrani ed aziende, da oggi, che genere di mestiere potranno fare? La risposta è che l’economia mondiale, nella sua facciata reale, necessita di braccia per la ricostruzione e l’arricchimento tecnologico delle sue infrastrutture e delle sue produzioni, di modo che i popoli del pianeta, dopo un quarantennio di politiche liberiste a cui sono stati via via sottoposti, possano tornare a vedere il sereno offerto da un’economia che migliori i loro tenori di vita piuttosto che distruggerli.
Ora, dovrebbe essere ovvio anche a Paulson - forse non a Bush - che quel credito di 700 miliardi, corrisponde ad una nuova immissione di liquidità nel sistema, che al pari dei circa 2-3 miliardi che ogni giorno dal luglio-agosto 2007 fino alla scorsa settimana, le banche centrali avevano cominciato ad iniettare nel mercato per sorreggere la maturanda crisi, rifluirà sui prodotti finanziari speculativi che abbiano come sottostante oro, petrolio, materie prime, generi alimentari. Ciò comporterà a breve una nuova ondata iperinflazionistica sui beni di prima necessità. In sostanza, quei 700 miliardi non serviranno altro che ad alimentare la fase d’iperinflazione globale, con un botto ancor più violento sui mercati finanziari e impensabili ripercussioni nell’economia reale. Chi cerca di dare una giustificazione "razionale" alla decisione del Tesoro, cerca di far passare come meritorio il salvataggio poiché "in fondo dietro ai titoli tossici detenuti dal sistema finanziario, vi sarebbero degli immobili" (come a dire che così tossici non sarebbero). Ma questa considerazione, oltre a non essere avvalorata dai mercati (tanta è la crisi di fiducia creatasi tra gli operatori) non è avvalorata neanche dalla ragione. La garanzia offerta ai valori finanziari da parte del relativo sottostante reale immobiliare, infatti, può garantire un equivalente valore finanziario, non una piramide di carta molte volte superiore al valore degli immobili stessi.
Ma perché Paulson, ha proceduto in un salvataggio che evidentemente non farà altro che procrastinare il crollo dei mercati piuttosto che evitarlo? In sostanza Paulson-Bush stanno solo prendendo tempo. Ma per quale motivo? Tempo per cosa? Riflettiamo sul primo crollo finanziario del nuovo millennio, quello che va dal marzo 2000 all’ottobre 2002. Nell’immaginario collettivo il primo crollo dei mercati del nuovo millennio avvenne in seguito alla distruzione delle Twin Towers nel settembre del 2001. Esso cominciò invece nel marzo del 2000 e fino al 10 settembre 2001 le borse mondiali avevano perso circa il 30% del loro valore. Dall’11 settembre fino ai minimi dell’ottobre 2002 gli indici persero un ulteriore 30%.
Dunque il primo crack dei mercati nel nuovo millennio avvenne ben prima dell’11 settembre e corrispose sostanzialmente allo scoppio della bolla dei titoli della new economy (telecom, media and tech), ma per la popolazione mondiale esso avvenne a causa di Osama Bin Laden. In seguito i mercati mondiali si ripresero sostituendo la mega bolla new economy con una nuova bolla speculativa, quella del settore immobiliare. Mentre scrivo le agenzie di stampa rendono conto dell’ultimo discorso di G. W. Bush alle Nazioni Unite, in cui afferma che "Siria ed Iran continuano a sponsorizzare il terrorismo" (mentre in Iraq ci dovevano essere armi di distruzione di massa!). Per l’opinione pubblica occidentale, che nella maggioranza dei casi non ha mai letto alcun discorso di Ahmadinejad, quell’iraniano è colui che vuole sterminare Israele, visto che così i media hanno riferito (sic).
Nel corso dell’ultima settimana si sono verificati vari attentati di presunta matrice terroristica da Islamabad a Gerusalemme allo Yemen ai Paesi Baschi (tralasciando quelli del casertano). In breve, mentre la globalizzazione, grazie al piano Paulson, rimanda la sua dichiarazione di decesso, varie "operazioni caos" si scatenano con ritmo accelerato a giro per il pianeta. Se scoppiasse una nuova importante guerra, la storia ufficiale di questi giorni diverrebbe: «La guerra contro il terrorismo fece crollare i mercati finanziari e l’economia mondiale.»
A cospetto di un sistema fallito, l’unico modo per salvare i creditori privilegiati, ossia la popolazione mondiale unitariamente intesa, è seguire il "piano LaRouche": organizzare il fallimento del sistema e non attendere che esso si verifichi per forza d’inerzia, distinguere tra quelli che sono crediti esigibili (stipendi, pensioni, liquidità per il funzionamento dello stato e del welfare) e quelli che non sono esigibili perché frutto di mere speculazioni. Ricreare un nuovo sistema monetario e finanziario internazionale sul modello rooseveltiano di Bretton Woods. Da qui lanciare linee di credito a livello globale con cui finanziare nuovi progetti infrastrutturali e le imprese private. Per fare ciò è necessario che alla disponibilità di Russia, Cina e India si aggiunga quella degli Stati Uniti. Gli altri si allineerebbero di conseguenza.
Claudio Giudici
Movimento Internazionale per i diritti civili - Solidarietà
Fonte: www.movisol.org
Sulla rotta del Titanic
di Marco Simoni *
Come ogni attività umana collettiva, il mercato è un fenomeno profondamente politico. Lo svolgimento della crisi finanziaria che, a partire dalla singola famiglia americana troppo indebitata, sta ormai contagiando le borse europee e asiatiche, ce lo mostra chiaramente. La crisi ha raggiunto l’apice nel momento peggiore: a un mese dalle elezioni americane, con i dibattiti presidenziali in corso, e la corrente amministrazione nella tipica situazione di «anatra zoppa».
A gennaio George W. Bush non sarà più presidente e dunque, come è noto, la sua capacità di leadership e la sua influenza politica sono già fortemente ridotte. Ieri Bush si è appellato al senso di responsabilità del Congresso, sostenendo che le conseguenze sull’economia americna saranno “dolorose e durature” se la camera dei rappresentanti continuasse a non approvare la manovra di emergenza proposta dalla amministrazione e sostanzialmente appoggiata anche dai due candidati presidenti.
La misura, dal valore complessivo di 700 miliardi di dollari (490 miliardi di euro, il doppio del prodotto interno lordo del Belgio) viene considerata da tutti gli analisti come necessaria, anche se non risolutiva, ed è congegnata per sgravare gli istituti finanziari dalla massa enorme di crediti dal dubbio valore in loro possesso. Il fine principale è quello di consentire un recupero di fiducia reciproca tra le banche che al momento sono paralizzate, appunto, da una reciproca sfiducia e tengono chiuse le linee di credito. Si tratta di una manovra dalle dimensioni stratosferiche, che richiede una forte leadership che se ne assuma la responsabilità. Infatti, non soltanto una retorica libertaria esasperata ha spinto lunedì metà dei Repubblicani a votare contro la manovra, ma anche ragioni elettorali. Infatti a novembre si vota anche per il Congresso e molti elettori conservatori potrebbero considerare il piano di Washington come un mero salvataggio con soldi pubblici (mentre è qualcosa di più complesso) di banche che farebbero bene a fallire. Con una logica speculare, se metà dei deputati Repubblicani non vota la manovra per ragioni elettorali, i Democratci a loro volta non vogliono prendere sulle loro spalle la responsabilità della gestione Bush che, dopo oltre un anno di crisi latente, ha certamente aspettato troppo per intervenire, vittima di un eccesso di fiducia nel sistema. In questi ultimi giorni stiamo dunque assistendo ad una situazione veramente particolare, caratterizzata dall’assenza di leadership politica nel momento in cui essa è maggiormente necessaria. I mercati temono soprattutto l’incertezza, causa principale del panico che si registrava ieri nelle borse asiatiche ed europee, con perdite da record, che si sono ridotte dopo il richiamo di Bush, nella speranza che il piano verrà alla fine approvato.
Anche da questa parte dell’Atlantico le decisioni poltiche stanno assumendo una importanza decisiva. Questa è la prima crisi finanziaria da quando è stato introdotto l’Euro, e in molti sono preoccupati dall’assenza di un organismo di supervisione bancaria che corrisponda ai Paesi della moneta unica. In altre parole, mentre il controllo della moneta, i tassi di sconto, la gestione della liquidità nel sistema interbancario sono prerogativa della Banca Centrale Europea (Bce), la supervisione degli istituti di credito è rimasta competenza delle banche centrali nazionali. Tuttavia, questa crisi ha dimensioni globali.
Fortunatamente, l’assenza di una struttura sovranazionale non ha impedito, lunedì, un evento che potrebbe entrare nei futuri libri di storia: uno stretto coordinamento politico-economico tra i governi di Belgio, Olanda e Lussemburgo, per evitare il fallimento della Fortis, una banca a forte connotazione multinazionale, con sedi legali sia in Belgio che in Olanda. I ministri delle finanze, le rispettive banche centrali, il coordinatore dei ministri delle finanze dell’area Euro, il presidente della Bce, hanno tutti cooperato a questo salvataggio, primo nel suo genere.
Tra i Paesi dell’area Euro sarà inevitabile un coordinamento sempre più stretto nella gestione economico-finanziaria della crisi tra governi, banche centrali, e Bce, inaugurando obtorto collo una stagione di maggiore coesione nelle scelte economiche continentali. Similmente inedito, per quantità e peso degli interventi, il coordinamento tra le banche centrali nelle misure a sostegno dei mercati, in particolare tra la Fed (americana) e la Bce. Val la pena ricordare che in maniera altrettanto episodica ed emergenziale era iniziato quello che poi diventò il massiccio intervento pubblico nell’economia che risollevò l’occidente dalla crisi del ‘29.
Questo per dire che prevedere o auspicare sic et simpliciter un pesante ritorno dello Stato nella gestione economica e finanziaria manca di gran lunga il bersaglio confondendo la sostanza dei problemi che vengono fronteggiati, con la forma e il luogo in cui questi problemi possono essere affrontati e risolti. Non c’è dubbio che la crisi dei mercati finanziari ha messo in luce alcuni problemi strutturali del capitalismo finanziario americano. Tuttavia, gli effetti sistemici, globali, della crisi, in un mondo caratterizzato dalla crescente interdipendenza economica, culturale, esistenziale, suggeriscono che non solo dallo Stato può arrivare la soluzione. Questa crisi mostra in maniera drammatica, e stavolta sotto gli occhi diretti dell’Occidente, come la globalizzazione non governata da poteri pubblici, sostanzialmente svincolata dal controllo democratico, lasci irrisolte questioni fondamentali per la vita delle persone. Ora siamo davanti ad una crisi di sfiducia che ci sta portando sull’orlo di una crisi economica epocale. Ma ragionamenti simili su problemi noti che non vengono risolti possono svolgersi sul tema del riscaldamento globale, della povertà, delle migrazioni.
Non si tratta dunque di chiedere un ritorno dell’antico Stato del dopoguerra, o di reintrodurre barriere protezionistiche (è utile ricordarsi che il protezionismo storicamente ha condotto alla guerra). Anche nell’epoca globale il ruolo dell’attore pubblico è indispensabile, le forme, i modi e anche gli obiettivi che questo attore assumerà saranno terreno di discussione e negoziazione. Un terreno che riapre alla sinistra un grande spazio di azione politica.
* l’Unità, Pubblicato il: 01.10.08, Modificato il: 01.10.08 alle ore 11.10
L’11 settembre dell’economia
di VITTORIO ZUCCONI *
C’È un buco nero nel cuore del disastro finanziario globale, una voragine sulla quale tutti ci affacciamo, scavata dal fallimento di una presidenza che non riesce neppure più a compattare il proprio partito per passare una legge disperata, diretta a una situazione disperata.
E assiste impotente all’ammutinamento dei suoi parlamentari. Quando due terzi dei repubblicani alla Camera dei deputati (e un terzo dei democratici) hanno votato contro il "piano Bush" da 700 miliardi, accusandolo di essere "socialistico" (sic), un’accusa che mai avremmo immaginato potesse essere lanciata contro di lui, un caos aggravato dalla inutile sceneggiata del senatore McCain paracadutato su Washington a complicare le cose per pura propaganda elettorale, ha prodotto un panico sbigottito di fronte alla leadership politica americana allo sbando e ha afferrato anche chi lo aveva voluto e provocato. E ora promette di ripensarci e di gettare il salvagente nei prossimi giorni, dopo che le Borse avranno consumato altre fortune e banche europee come americane si saranno arrese.
Ancora più di una Pearl Harbor, come disse il superfinanziere Warren Buffet, questi giorni sembrano un secondo 11 settembre, e non necessariamente incruento, pensando alle migliaia di piccole tragedie umane che provocheranno. Fanno rivivere ore di una catastrofe alla quale nessuno è preparato, che molti avevano previsto senza fare niente per prevenirla e per la quale non si vogliono adottare soluzione e risposte serie e dolorose, che vadano oltre lo scaricabarile partigiano.
Ma se, nel suo orrore, la strage delle Torri Gemelle fece scattare il senso della coesione e dell’unità nazionale, questo Ground Zero della finanza, della liquidità, della Borsa, ha scatenato la reazione opposta e micidiale dell’anarchia totale. Ha mosso il panico della ribellione e del "si salvi chi può" di parlamentari di provincia preoccupati non di salvare i risparmi, le pensioni, il lavoro, il credito di aziende e di invidui, ma di salvarsi il seggio dal castigo elettorale promesso da cittadini furiosi e sbandati al pensiero di dover salvare i "pescecani" di Wall Street con i soldi delle tasse.
Il panico che ha assalito la Borsa alla conta finale della bocciatura della legge e che si estenderà nel gorgo vizioso degli altri mercati nasce, come ormai è impossibile negare, non dal crollo di questa o quella banca d’affari, ma dal senso di vertigine che assale guardando il vuoto che sta al centro di una potenza come l’America. Se due terzi del partito ancora teoricamente di Bush, il repubblicano, respinge con pretesti puerili ("il discorso della presidente della Camera Pelosi ha irritato i nostri deputati" tentava di spiegare uno dei leader dell’ammutinameto, il repubblicano Kantor della Virigina) il grido del proprio presidente che alle sette e trenta del mattino, un’ora senza precedenti in guerra o in pace, era andato in diretta per un ultimo appello, soltanto il vento della follia politicante e dell’opportunismo più sfacciato possono spiegare che cosa sia accaduto. Ed è incredibile che la "speaker" della Camera e i suoi capi regime non abbiano saputo contare le teste, prima di chiedere il voto.
Il piano Paulson, ministro del Tesoro, sponsorizzato da un Presidente impopolare e detestato da un partito che non lo volle neppure al proprio Congresso come nessuno fu dagli ultimi giorni di Nixon nel Watergate, non sarebbe stato un toccasana magico, ma un salvagente gettato ai naufraghi delle banche che annaspano e che stanno trascinando a fondo innocenti in tutto il mondo. Averlo respinto soltanto perché i sondaggi dicono che gli elettori dei repubblicani duri e puri della destra antistatalista non lo volevano, e per il reciproco, classico giochetto parlamentare di far votare agli altri quello che tu non vuoi, per avere gli effetti positivi della legge senza pagarne il prezzo, è stato un segnale di spaventosa irresponsabilità politica.
"Per salvare il proprio seggio hanno preferito punire la nazione" ha detto il presidente della commissione finanze della Camera, Barney Frank rispondendo alla spiegazione infantile dei repubblicani che sostenevano di avere votato contro perché irritati dal discorso fazioso della presidente della Camera, come se salvare il sistema finanziario fosse questione di buone maniere. Purtroppo, manca ancora più di un mese, 35 giorni, alla liberazione di quel voto del 4 novembre che dovrebbe bonificare l’aria dai fumi tossici di una campagna elettorale micidiale e in 35 giorni la voragine nel Ground Zero di questa catastrofe potrebbe ancora allargarsi.
Ma la dimostrazione di mediocrità provinciale, di anarchia, di ammutinamento egoistico offerta ieri dalla Camera degli Stati Uniti, rimarrà. E solleva il dubbio che la democrazia americana, e la responsabilità di guidare il mondo, siano una cosa troppo seria per essere lasciata a questa America moralmente e politicamente distrutta da otto anni di menzogne bushiste su tutto, dalle guerre alle torture all’economia "sana". L’America e il resto del mondo, sono costretti a continuare a pagare il conto di una "failed presidency", di una presidenza in bancarotta.
* la Repubblica, 30 settembre 2008.
Usa, no al piano da 700 miliardi Crollano Borse e banche europee
Vano l’appello del presidente Bush
La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha bocciato il pacchetto da 700 miliardi di dollari per salvare il sistema finanziario americano. È mancato il quorum per un pugno di voti. I voti contrari sono stati 228, mentre quelli a favore sono stati 205. Per far passare la legge erano necessari 218 voti favorevoli.
Crolla Wall Street: subito dopo il voto il Dow Jones faceva segnare -5,4%, il Nasdaq a -6,2%. L’euro schizzava a 1,4570 dollari.
Il documento per qualche minuto è rimasto congelato: in molti hanno cercato di convincere, aggrappandosi a tecnicismi procedurali, chi aveva votato contro a cambiare idea. Ma non c’è stato nulla da fare. Vano anche l’ennesimo appello del presidente George Bush in mattinata: «Il Congresso potrà mandare un forte messaggio ai mercati approvando prontamente il piano di salvataggio».
La giornata è stata nera per le Borse europee che hanno chiuso con un tonfo una seduta tutta in calo: sono stati bruciati 320 miliardi. A influire sui listini è principalmente lo scetticismo sul piano di salvataggio Usa delle banche, oltre ai timori dovuti alla diffusione della crisi anche nel vecchio continente.
La nazionalizzazione di Bradford&Bingley in Inghilterra e di Fortis con l’aiuto di Belgio, Olanda e Lussemburgo, insieme alle difficoltà di Dexia a Parigi e di Hypo Real Estate a Francoforte deprimono le Borse e i titoli bancari in generale, peggiori dei listini in tutto il Continente: l’indice Eurostoxx di settore ha chiuso in calo del 7,2%. Peggio hanno fatto solo le materie prime, con un calo del 9,38%. Negli Stati Uniti il colosso finanziario Citigroup ha annunciato che acquisterà le attività legate alle operazioni bancarie di Wachovia, evitandone il fallimento. La Bce è intervenuta con l’immissione di 120 miliardi di euro sui mercati, per fronteggiare la crisi.
Il piano Paulson prevede la creazione di un board incaricato della supervisione del programma di salvataggio finanziario, di cui faranno parte i vertici di Fed e Sec, il direttore della Federal Home Finance Agency ed esponenti del governo. L’accordo prevede inoltre un divieto per i manager delle società che beneficiano del piano di accedere a buonuscite d’oro e permette al Tesoro, in alcuni i casi, di prendere il controllo delle società che attingono ai fondi del piano di salvataggio. I conservatori, facendosi portavoce del malumore in una larga fetta dell’opinione pubblica americana per l’entità dell’enorme intervento con soldi pubblici, hanno continuato a sollevare dubbi sull’efficacia e l’opportunità del piano. L’alternativa però, secondo quanto ha detto ai negoziatori sabato notte il miliardario Warren Buffett, è semplicemente quella di andare incontro alla «più grande catastrofe finanziaria nella storia americana». E ora l’approvazione definitiva potrebbe slittare a mercoledì e forse persino più in là.
Nel frattempo le Borse europee sono penalizzate anche da un altro genere di incertezze, quelle sui nuovi terremoti economici europei, effetto del vasto tzunami finanziario americano. Nel fine settimana c’è stata una doppia nazionalizzazione: della banca britannica Bradford & Bingley da parte del governo di Londra e della banca belga Fortis da parte dei governi di Belgio, Olanda e Lussemburgo e dopo l’annuncio del piano di salvataggio targato Benelux il titolo si è risvegliato in rimonta ad Amsterdam.
Ma i salvataggi resi necessari dal propagarsi della crisi subprime Usa non sono finiti. Lunedì il ministro delle Finanze belga Didier Reynders si è detto pronto a sostenere anche la banca franco-belga Dexia, su cui si concentrano forti ribassi borsistici. Già dieci giorni fa il titolo Dexia, in virtù della sua esposizione dichiarata nei confronti della fallita Lehman Brothers - anche se l’istituto smentisce di avere problemi di liquidità -, aveva subito gravi perdite in borsa. Lunedì ha iniziato la settimana perdendo il 32 percento, poi approndondendo le perdite nel corso della seduta.
Non è migliore la situazione in Germania dove per salvare Hypo Real Estate, istituto tedesco specializzato in mutui in difficoltà, è stata aperta una linea di credito da parte di un consorzio di banche pubbliche. Il titolo della banca stava crollando in borsa lasciando sul terreno il 75,5% del valore.
Anche a Piazza Affari a Milano le contrattazioni sono iniziate con vendite a mani basse sui bancari. Il titolo più bersagliato dagli investitori è stato Unicredit che ha iniziato cedendo subitoil 5,70%. Sotto pressione anche la Popolare di Milano, il Banco Popolare, Intesa Sanpaolo, Mps e Mediobanca tutti titoli con ribassi iniziali superiori ai due punti percentuali.
A cercare di risollevare le economie del Vecchio Continente la Bce annuncia un’asta a un giorno da 30 miliardi di dollari, nell’ambito dell’azione coordinata con la Fed. Praticamente si tratta di iniettare sul mercato monetario questi altri 30 miliardi di dollari.
Il presidente della Bce, Jean Claude Trichet a Bruxelles a colloqui con il premier belga Ives Leterme, mentre è in corso un consiglio dei ministri straordinario sulla crisi della banca Fortis. Secondo il quotidiano Figaro banca francese Bnp Paribas potrebbe acquisire tutte le attività del gruppo belga-olandese Fortis, il quale però ricorrerebbe intanto a una operazione di aumento di capitale.
Intanto è stato diffuso un rapporto della Commissione europea secondo il quale il Business Climate Indicator, indice sulle aspettative imprenditoriali nei paesi dell’Eurozona, è calato a settembre ai minimi degli ultimi cinque anni: arretra a -0,79 punti dai -0,28 punti di agosto e contro gli attesi -0,93 punti. Bulgaria, Slovenia e Slovacchia sono gli unici tre Paesi della nuova Europa a 27 dove a settembre la fiducia economica non è risultata in crisi. Nell’Unione europea, l’Esi - il più generale indicatore di fiducia economica - ha raggiunto il suo livello più basso dal dicembre 1993, mentre per la zona euro si avvicina al dato del 2001.
Il petrolio e l’euro non stanno bene. A New York il greggio arriva a un minimo a 102,56 dollari. Mentre a Londra il future novembre sul brent cede il 3,19% a 100,24. Ma anche l’euro ha una battuta d’arresto e lunedì cala a ridosso dei 1,43 dollari.
Quanto al destino della nazionalizzata Bradford & Bingley, nell’immediato il Banco Santander pagherà 612 milioni di sterline (1,1 miliardi di dollari Usa) per rilevare la rete di 197 agenzieed i circa 20 miliardi di sterline di depositi di circa 2,7 milioni di clienti.
Bradford&Bingley è il secondo colosso bancario britannico a cadere vittima della crisi dei mercati finanziari, dopo che già Northern Rock era stato salvato dal Governo poco dopo l’ esplosione della crisi legata al credito immobiliare statunitense ad alto rischio. Il Governo britannico a sua volta pagherà circa 14 miliardi di sterline per rendere possibile il trasferimento dei depositi della clientela a Santander; la banca spagnola già opera nel Regno Unito attraverso Abbey National. Oltre a questo sempre il Governo di Londra si farà carico di quattro miliardi di sterline per proteggere i depositi superiori alle 35mila sterline.
* l’Unità, Pubblicato il: 29.09.08. Modificato il: 29.09.08 alle ore 20.46
La Stampa, 29/9/2008 (20:2)
Crisi mercati: Camera Usa boccia piano salvataggio, Wall Street affonda
La Camera dei Rappresentanti americana ha bocciato il pacchetto di maxisalvataggio al sistema finanziario americano. È mancato il quorum per un pugno di voti. I voti contrari sono stati 228, mentre quelli a favore sono stati 205. Per far passare la legge erano necessari 218 voti favorevoli.
La bocciatura della Camera al piano Usa fa subito sentire i suoi effetti sui mercati: a Wall Street, il Dow Jones perde il 3,70%, il Nasdaq il 5,65%.
Il fenomeno dei salvataggi bancari approda anche in Europa e sui mercati finanziari del Vecchio Continente si scatena una pioggia di vendite sul timore di un contagio della crisi Usa. Tanto che al termine della seduta i mercati finanziari di Eurolandia hanno mandato in fumo quasi 320 miliardi di capitalizzazione (Dj Stoxx 600 -5,1%), mentre Wall Street sprofonda (Dow Jones -6%) sui dubbi degli investitori legati al piano di salvataggio del sistema finanziario da 700 miliardi di dollari, su cui il Congresso ha appena dato un parere negativo.
La peggiore piazza finanziaria è stata così Amsterdam (-8,75%), epicentro della bufera scatenata nella notte dal colosso del Benelux, Fortis (-23,5%), che in un lampo ha avviato un piano di nazionalizzazione parziale. E come un effetto domino sono precipitate anche le altre Borse in scia agli annunci relativi agli altri salvataggi di istituti bancari: Londra ha perso il 5,3% in seguito alla nazionalizzazione dell’inglese Bradford & Bingley (sospesa dalle negoziazioni), e Francoforte il 4,2% per effetto del salvataggio di Hypo Real Estate, precipitata del 74%. A picco anche la più piccola Borsa islandese (-4,8%) in seguito all’accordo per aiutare Glitnir Bank. Non sono state immuni dall’ondata ribassista neanche gli indici di Wall Street (Dow Jones -5,4%, ancora in corso) e Mosca (-5,5%), mentre bisognerà attendere per vedere come reagiranno i mercati asiatici, visto che nella seduta odierna Tokyo ha arginato le perdite intorno al punto percentuale (-1,26%).
«La crisi del sistema bancario non è finita», ha detto preoccupato un operatore della City, puntando il dito contro Fortis: «Oggi è toccato a questo colosso, chissà domani. Non possiamo escludere che nei prossimi giorni accadrà qualcosa ad altri gruppi bancari e magari di nuovo in Europa».
Il colpo più duro, come ovvio che sia, è stato incassato proprio dai titoli del settore bancario, che nella seduta odierna hanno registrato una perdita generalizzata di quasi otto punti percentuali (sottoindice Dj Stoxx bank -7,75%). A capitolare sono state banche come Dexia e Deutsche Bank, che hanno perso oltre 20 punti percentuali. Meno pesante invece il Banco Santander (-3,7%) che pagherà 612 milioni di sterline (1,1 miliardi di dollari Usa) per rilevare la rete di 197 agenzie di B&B e i circa 20 miliardi di sterline di depositi di circa 2,7 milioni di clienti. Decisamente più pesante è stata invece la tedesca Commerzbank (-22%), nonostante abbia rassicurato il mercato annunciando che il suoi fondamentali sono sicuri.
Guardando poi gli altri settori, non è andata meglio ai titoli del comparto delle materie prime, penalizzate dall’improvvisa frenata del petrolio sotto la soglia psicologica dei 100 dollari al barile. Il gigante Bhp Billiton ha perso nella City il 9,9% e la concorrente Rio Tinto il 9,8%. Non hanno approfittato della debolezza del greggio i titoli automobilistici con Renault che ha perso il 6,1% e Fiat il 4,9%.
Ribassi in Asia, Tokyo -1,26%. Europa: apertura in calo e accelerazione in negativo
Piazza Affari in picchiata, raffica di sospensioni, da Unicredit a Saipem e Tenaris
Borse a precipizio
Negli Usa appello di Bush
Ma il piano salva-economia non convince: Wall Street apre in ribasso
MILANO - Borse a precipizio nonostante l’approvazione del piano Usa per fronteggiare la crisi finanziaria. Oggi il presidente George W.Bush ha lanciato l’ennesimo appello perché il piano venga approvato in tempi stretti dal Congresso, ma i mercati non sono evidentemente convinti che le soluzioni su cui si è raggiunto il compromesso nella trattativa tra il Congresso americano e il governo Bush siano adeguate a risolvere i gravissimi problemi innescati dalla vicenda dei mutui subprime. E infatti Wall Street ha aperto in terreno negativo, facendo precipitare ancora più in basso le Borse europee che già andavano male. Anche in Asia ha prevalso l’Orso, con Tokyo che ha perso un altro 1,26%.
In apertura il Dow Jones segnava -0,58% a 11.078,38 punti; il Nasdaq composite -1,40% a 2.152,69 punti e lo S&P 500 -0,59% a 1.206,11 punti.
A pochi minuti dall’avvio delle contrattazioni a Wall Street le Borse europee, già depresse dalla raffica lampo di nazionalizzazioni che ha interessato gruppi come Fortis, Bradford & Bingley, Hypo Real Estate e Glitnir Bank, andavano ancora di più in ribasso.
L’indice che sintetizza l’andamento dei mercati del Vecchio Continente, il Dj Stoxx 600, registrava una flessione del 3,1 per cento, mentre il settore bancario europeo perdeva il 6 per cento. Londra si è comunque portata sopra ai minimi di seduta (-2,8%), così come Parigi (-2,9%) e Francoforte (-2,6%). Particolarmente colpite le quotazioni delle banche. Tra le singole banche il peggior tonfo lo sta segnando proprio la neo-nazionalizzata Fortis (-11,9%).
Ma va malissimo anche a Piazza Affari: intorno alle 16 il Mibtel perdeva il 4,05% a 19.764 punti e lo S&P/Mib del 4,1% a 26.039 punti. Il listino è stato inoltre colpito da una raffica di sospensioni al ribasso, a partire da UniCredit (-12%), già congelata in mattinata. Sospese anche Saipem (-7%), Tenaris (-9,1%) e Impregilo (-8,4%).
* la Repubblica, 29 settembre 2008.
La Pearl Harbor della politica
di VITTORIO ZUCCONI *
IL CAOS politico americano, quello che si trascina fra il fallimento del bushismo e una stagione elettorale troppo lunga, e che ha permesso la tragedia finanziaria, ci ha proposto l’inedito "numero" del candidato che scappa.
Un candidato che si chiama fuori dalla partita per due giorni e non vuole più dibattere l’avversario. Come se la democrazia fosse un incontro di basket, John McCain ha chiesto un timeout, per salvare la propria squadra da una sconfitta che il tabellone dei sondaggi cominciava a lampeggiare.
Il dibattito probabilmente si farà, e questa sera assisteremo finalmente al confronto, perché Barack Obama ha risposto che lui si presenterà sul palco in quanto "mai come adesso la nazione deve vedere e conoscere chi vuole guidarla in questi tempi difficili". Ma il fatto stesso che un candidato annunci di avere "sospeso la campagna elettorale", come fosse un puzzle da riporre per qualche ora, a 40 giorni dal voto, è uno di quei colpi di testa (e di nervi) che i colleghi senatori conoscono bene e che molti elettori temono.
John McCain, famosa testa calda dal pessimo carattere che gli ha meritato in Parlamento il soprannome di "McNasty", Mac la peste, ha semplicemente cercato di buttare all’aria il tavolo di gioco, come fanno i bambini molto immaturi o i vecchi molto stizzosi quando perdono.
Nel mezzo di quella che il finanziere più autorevole degli Stati Uniti, quel Warren Buffett che viene guardato come l’ultimo oracolo, ha definito una "nuova Pearl Harbor", la flotta di coloro che dovrebbero proteggerci naviga alla deriva, sballottata dal vento dei sondaggi e delle manovre elettorali, senza ordini né piani chiari. Se il padre di John McCain, il magnifico ammiraglio che consumò tutto sé stesso nella risposta all’aggressione giapponese nel Pacifico e pagò la fatica disumana morendo d’infarto il giorno dopo la vittoria, potesse vedere il figlio annaspare in queste ore, lo spedirebbe in cambusa, lontano dal ponte di comando.
La mossa di McCain, quello che dovrebbe essere l’anziano sicuro, il buon nonno prudente e responsabile di fronte al troppo giovane e irresponsabile avversario Obama, serve a sottolineare la radice profonda della crisi, che non è finanziaria né economica, ma politica. Da quasi otto anni, dal gennaio del 2001, l’America è senza un governo competente e attendibile, che ha creduto di poter surrogare con la superbia la propria cadente autorità morale. Ha perduto ogni credibilità e ogni autorità, presa nella tela di menzogne, propaganda, ideologia, messianesimo, politicizzazione elettoralistica e incompetenza che, una volta tessuta, non può più essere dipanata. Oggi la nazione è governata dal presidente della Fed Bernanke e dall’ex Goldman Sachs, il ministro del Tesoro Paulson. Bush è soltanto un passeggero, al quale gli adulti alla guida chiedono di non toccare niente.
Il piano di salvataggio con danaro pubblico che dovrebbe essere varato oggi, e che è stato imposto ai due candidati, al Congresso e a una nazione che lo osteggia apertamente con un ricatto in stile Alitalia, o così o tutti giù dalla finestra, metterà un tampone sull’emorragia. Ma né i colpi di testa di McCain, né il fiacco discorso del presidente alla nazione, mercoledì sera, possono restituire prestigio morale a una politica che lo ha perduto tra le rovine di Bagdad, nel pasticcio afgano, nella devastazione di New Orleans, nello scandalo costituzionale di Guantanamo, nelle torture in appalto e nella totale indifferenza a quella cultura del profitto facile e sregolato che soltanto ora finge di scoprire con orrore e con ripensamenti statalisti e assistenzialisti.
La catastrofe in atto è la sentenza finale di un processo a Bush che dura da sette anni e otto mesi, e che vede come complice un Parlamento che il suo partito, il repubblicano, aveva controllato per sei anni e i democratici non hanno saputo raddrizzare. È stata un’esperienza surreale ascoltare il presidente accusare tutti di avere prodotto questa "Pearl Harbor", gli speculatori, i brokers, i banchieri, gli immobiliaristi, i consumatori, gli acquirenti di case che hanno assunto mutui eccessivi, tutti colpevoli meno che lui e la sua amministrazione, quella che fino a due settimane or sono ci garantiva che "l’economia americana resta robusta e solida".
Il futuro presidente erediterà due guerre in corso e lontane da una conclusione decisiva, in Iraq e in Afghanistan, un conto mostruoso di debito pubblico da saldare, un bilancio federale devastato, un mercato immobiliare alla canna del gas, una Pearl Harbor finanziaria, un Iran avviato sulla strada del nucleare, una Russia burbanzosa e neo imperiale, ora addirittura una Corea de Nord che torna a scricchiolare. Si capisce perché la parola chiave di questa stagione elettorale adottata persino dai repubblicani e da McCain, che temono Bush come un appestato e lo hanno tenuto lontano dal loro congresso, sia "cambiare". Persino una fanciulla del West scesa a valle col disgelo del bushismo, o un settuagenario, sembrano un progresso.
* la Repubblica, 26 settembre 2008
La Stampa, 24/9/2008
Usa, crisi dei mercati: McCain sospende campagna elettorale
Il candidato repubblicano ha chiesto a Obama di fare lo stesso, ma il rivale per ora non sembra intenzionato a seguirlo
NEW YORK Il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain ha annunciato la sospensione della sua campagna elettorale alla luce della gravissima situazione finanziaria e all’imminente intervento scaccia crisi al Congresso. McCain ha chiesto all’avversario democratico Barack Obama di fare lo stesso, interrompendo la campagna elettorale per lavorare alla soluzione della crisi.
Il candidato democratico alla Casa Bianca Barack Obama non vedrebbe alcuna ragione per rinviare il dibattito in prime time con l’avversario repubblicano John McCain, in programma venerdì. Lo ha detto un esponente della squadra di Obama all’emittente americana Cnn suggerendo inoltre che il senatore di Chicago non avrebbe intenzione di seguire l’esempio di McCain interrompendo la campagna elettorale per tornare a Washington ad occuparti della crisi di Wall Street.
Entrambi senatori, McCain e Obama, hanno pieno titolo per partecipare al dibattito in corso al Congresso su un piano miliardario di soccorso alle società finanziarie in difficoltà. Obama non ha tuttavia ancora commentato in via ufficiale l’annuncio di McCain sulla sospensione della campagna elettorale. La fonte citata da Gloria Borger di Cnn era anonima.
La crisi morale del capitalismo
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 24.09.2008)
Credo che l’uragano passerà senza travolgere l’economia mondiale. Il segretario di Stato Paulson, quello cui, come dice l’Economist, si rizzano in testa i capelli che non ha, aveva fatto, finalmente, la cosa giusta. Aveva lasciato fallire una grande banca, evitando che gli rovinasse addosso con un altro salvataggio. Subito dopo però ha dovuto cedere alla pressione del mondo finanziario, intervenendo nel ben più costoso salvataggio del colosso assicurativo Aig. Così, una volta ancora, le voragini aperte nel libero mercato saranno colmate dai contribuenti. Quali saranno le conseguenze nessuno, neppure lui, lo sa.
C’è chi teme che questo nuovo tremendo colpo possa coinvolgere l’intero sistema. Ma l’economia capitalistica è più forte della devastatrice finanza che ha generato. E tuttavia, questa crisi può essere fatale al capitalismo sotto un aspetto più generale e più profondo.Dal punto di vista strettamente economico, dietro l’inestricabile groviglio delle tecnicalità, c’è una realtà inoppugnabile: la sproporzione dell’indebitamento americano (di tutti, privati, banche, Stato) rispetto al reddito, e della finanza rispetto all’economia reale. Sul perché e sul come abbiamo ragionato tante volte. Non ci torno. È diventato presente ciò che era evidente. Tranne che per gli estatici ammiratori delle tecnicalità finanziarie.
Vorrei parlare invece del colpo mortale che questa crisi di inizio secolo sta portando al «turbocapitalismo», minandone la credibilità morale. Ogni sistema storico di organizzazione della società ha bisogno di una base di legittimazione morale. Gli schiaccianti dominatori degli antichi imperi avevano bisogno di un dio che li sovrastasse, loro e le loro piccole regine. Quando i mercanti del Medioevo entrarono nella polis ebbero bisogno di un faticoso compromesso con la Chiesa, da loro abbondantemente finanziata, per superare tortuosamente lo scandalo dell’interesse.
L’ideologia economica del nascente capitalismo ebbe origine nelle scuole di filosofia morale. La migliore legittimazione non gli fu offerta però dai dubbi princìpi delle virtù weberiane ma da quelli più pratici dell’utilitarismo che insegnavano a trarre dall’egoismo, e non dalla virtù, l’energia necessaria per promuovere la ricchezza, a vantaggio, si diceva, di tutti. Insomma, il capitalismo si giustifica non con le sue premesse, ma con i suoi risultati. E non c’è dubbio che, fino a tutta la metà del secolo ventesimo, i suoi risultati in termini non solo di crescita economica, ma di progresso sociale, siano stati tali, non dico da compensare ma da sopportare gli enormi costi impliciti nella crescita.
Ciò che sta succedendo nel mondo ci dice che la promessa di una estensione universale del benessere è incrinata dall’esperienza di un mondo sempre più instabile e ingiusto. Il «miracolo» della finanza internazionale, che ha realizzato enormi spostamenti di ricchezza dai paesi più ricchi ai paesi più poveri si traduce, all’interno di quei paesi, in un gigantesco divario tra i gruppi sociali emergenti e quelli lasciati ai margini. In India l’estrema ricchezza e l’estrema povertà sono aumentate. La stessa cosa sta avvenendo in Cina. Dall’ultimo rapporto della Banca Mondiale risulta che il livello di povertà è aumentato nel mondo a 1,4 miliardi di uomini e di donne, che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. L’indice Gini della disuguaglianza relativo alla popolazione mondiale è aumentato negli ultimi quindici anni di sette punti, poco meno del 20 per cento.
Ma è soprattutto negli Stati Uniti che la disuguaglianza tra classi medie impoverite ed élites arricchite si è imposta. Lo stesso indice Gini che era caduto al 41 per cento nel 1970, è aumentato negli ultimi trent’anni a 47. Ciò che sta succedendo, dice Robert Reich, dice David Rothkorpf, non è solo un aumento delle disuguaglianze, ma una vera e propria secessione sociale: un 1 per cento della popolazione che dispone del 40 per cento del prodotto nazionale.
Ma che c’entra tutto questo con i disastri finanziari di oggi? Moltissimo. Negli ultimi venti anni è proprio l’allocazione delle risorse della economia guidata dai mercati finanziari che si è tradotta in termini reali in un aumento delle disuguaglianze e in una devastante pressione sulle risorse naturali: in direzione opposta ai bisogni reali dell’umanità. Nel più ricco e indebitato paese del mondo, gli Stati Uniti, la sproporzione tra i guadagni dei condottieri delle grandi imprese, anche quelli che le hanno portate al disastro, e la gente comune sono diventati sbalorditivi. Le risorse mondiali sono state indirizzate da un sistema finanziario poderoso verso un gigantesco indebitamento, sostenuto da un credito sfrenato. Il nome turbocapitalismo si adatta bene a questo sistema sventato. La spesa mondiale annuale della pubblicità che alimenta i consumi e l’inquinamento, ammonta a 500 miliardi di dollari, quella della ricerca sanitaria a 70 miliardi. A 62 miliardi quella destinata dai paesi ricchi ai paesi poveri. Ripeto: non credo che siamo alla vigilia di un nuovo collasso capitalistico. L’economia mondiale dispone di immense risorse mobilitabili nell’emergenza.
Siamo di fronte però al fallimento morale di una promessa. Quando un sistema perde la sua legittimazione etica, perde anche la sua vitalità storica. Un sistema fondato sulla dissipazione e sulla ingiustizia ha il futuro contato.Poco meno di trent’anni fa un brillante economista inglese immaturamente scomparso, Fred Hirsch, scrisse un libro profetico: i limiti sociali allo sviluppo. Ciò di cui soprattutto il capitalismo soffre, egli affermava, era uno sbriciolamento della sua base morale. Ciò di cui soprattutto aveva bisogno, era «un rientro morale». Non se ne vedono le tracce.
Moneta di Carta e Tirannia
Scritto da Ron Paul
Thursday 07 June 2007
Riproponiamo uno dei migliori pezzi sulla moneta scritti da Ron Paul, candidatosi nel 1988 alla presidenza come libertario; corre per le prossime elezioni nelle liste repubblicane. Nonostante cio’, rimane un vero libertario, non ha niente a che vedere con la politica di bush, del quale e’ uno dei maggiori oppositori, e ha sempre criticato aspramente al congresso la politica monetaria di Greenspan e ora quella di Bernanke. Potrebbe essere l’uomo sorpresa per un cambiamento radicale degli stati uniti. *
HON. RON PAUL OF TEXAS
IN THE HOUSE OF REPRESENTATIVES
September 5, 2003
http://www.house.gov/paul/congrec/congrec2003/cr090503.htm
Traduzione di Roberta Panizzoli *
Nel corso della storia tutte le grandi repubbliche hanno avuto cura di una moneta sana, una unità monetaria, cioè, costituita da una merce-materia prima con caratteristiche di purezza e giusto peso. Laddove ciò si è realizzato, le civiltà hanno raggiunto livelli di maggiore benessere e le libertà si sono affermate con maggior vigore. Più una società tende verso condizioni di minore libertà, più è probabile che la moneta stia venendo svalutata e che il benessere economico dei suoi cittadini stia diminuendo.
Diversi anni prima di diventare responsabile della scandalosa diluizione del dollaro americano, in qualità di Presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan scrisse del legame tra moneta sana, prosperità e libertà. Nel suo saggio “Gold and Economic Freedom” (The Objectivist, luglio 1966), Greenspan comincia con le seguenti parole: “L’avversione quasi isterica nei confronti del gold standard è un atteggiamento che unisce tutti gli uomini di governo. Essi sembrano percepire... che l’oro e le libertà economiche siano inseparabili.” E più avanti dichiara che: “sotto il regime del gold standard, un sistema bancario si impone come il protettore della stabilità economica e di una crescita equilibrata.” In modo sbalorditivo, l’analisi di Greenspan sul crash del 1929, e sul modo con cui la Fed accelerò la crisi, ripercorre parallelamente la situazione attuale che stiamo vivendo sotto la sua direzione.
Sempre in quel saggio, Greenspan spiega: “L’eccessivo credito pompato dalla Fed si riversò sul mercato azionario dando avvio a un incredibile boom speculativo.” E ancora: “nel 1929 gli squilibri dovuti alla speculazione erano diventati dirompenti e ingovernabili dalla FED”. Infine conclude scrivendo: “ In assenza del gold standard è impossibile proteggere i risparmi dalla confisca realizzata attraverso l’inflazione”. Egli spiega il “segreto meschino” che accomuna i fautori dei governi forti e della carta moneta non convertibile, identificando nel disavanzo della spesa pubblica uno “schema per attuare una invisibile confisca della ricchezza.” Tuttavia oggi ci ritroviamo con un sistema monetario puramente cartaceo, gestito quasi esclusivamente dallo stesso Alan Greenspan che così correttamente era riuscito sia a denunciare il ruolo della Fed durante la Depressione che a riconoscere la necessità di una moneta sana.
I Padri fondatori di questa Nazione, e fino agli anni trenta anche la gran parte dei cittadini americani, disdegnavano la carta moneta, rispettavano la moneta merce-materia prima e disapprovavano il controllo monopolistico di una banca centrale sulla produzione di moneta e sui tassi di interesse. Ironia della sorte, l’abuso del gold standard, le abitudini della FED di generare credito negli anni venti e i danni che provocò negli anni trenta, non solo ci portarono alla Grande Depressione ma ebbero come effetto quello di prolungarla. Tuttavia, la colpa di quelle sofferenze fini con l’essere scaricata sulla moneta sana che avevamo allora. Questa é la ragione per cui la gente non sollevò obiezioni quando Roosevelt e i suoi amici statalisti confiscarono l’oro e svalutarono il dollaro, facendoci entrare nell’età delle valute cartacee non convertibili con le quali oggi si dibatte l’economia internazionale.
Se come afferma Greenspan una moneta sana e le libertà sono inseparabili, e la carta moneta porta alla tirannia, ci si dovrebbe chiedere per quale motivo essa sia così ben gradita dagli economisti, dalla comunità economica, dai banchieri e dagli uomini di governo. La spiegazione più semplice é che l’uomo tende sempre a cercare il conforto della ricchezza con il minor sforzo possibile. Questo desiderio é alquanto positivo quando in una società capitalista esso induce al duro lavoro e all’innovazione. La produttività aumenta e il livello di vita migliora per tutti. Questo processo ha permesso oggi, alle classi meno abbienti dei paesi capitalisti, di usufruire di lussi neanche disponibili alle famiglie reali del passato.
Tuttavia questa tendenza a ricercare il benessere e le comodità con il minor sforzo possibile viene spesso abusata. Essa spinge qualcuno a credere che attraverso certe manipolazioni della moneta, il benessere possa diventare più facilmente accessibile per tutti. Coloro che credono nella moneta cartacea non convertibile ritengono spesso che il benessere possa essere aumentato facendo a meno del dovuto lavoro e dell’innovazione. Essi arrivano anche a credere che i risparmi e il controllo dei tassi di interesse da parte del mercato non solo siano inutili, ma che rappresentino anche un ostacolo alla crescita economica. L’interesse per la libertà è rimpiazzato dall’illusione che i benefici materiali possano essere raggiunti attraverso la moneta cartacea non convertibile, piuttosto che con il duro lavoro e l’ingegnosità. I benefici percepiti diventano sempre più motivo di preoccupazione rispetto al mantenimento delle libertà. Ciò non significa che i sostenitori della moneta cartacea si siano imbarcati in una crociata per promuovere la tirannia. Sebbene il risultato tenda ad essere proprio questo, il fatto è che essi credono di aver trovato la pietra filosofale e un’alternativa moderna alla sfida per trasformare il piombo in oro.
I nostri Padri Fondatori avevano capito a fondo la questione e ci misero in guardia contro la tentazione di ricercare il benessere e la fortuna senza il lavoro e i risparmi su cui invece si fonda una reale prosperità. James Madison, ad esempio, ci mise in guarda dagli “effetti pestilenziali della carta moneta”. I Fondatori, infatti, ben si ricordavano dei danni causati dal Dollaro Continentale. George Mason della Virginia affermò di provare un “odio mortale nei confronti della carta moneta.” Il delegato della Convenzione Costituzionale Oliver Ellsworth del Connecticut pensò che la convenzione potesse rappresentare “una occasione favorevole per chiudere e sprangare la porta davanti alla carta moneta”. Pressoché tutti i delegati della Convenzione consideravano pericolosa la carta moneta, e questa fu la ragione per cui la Costituzione limitò l’autorità del Congresso in materia dichiarando come unici mezzi legali di pagamento l’oro e l’argento. La carta moneta fu vietata e non venne autorizzata alcuna banca centrale. Oltre alle ragioni economiche in favore dell’utilizzo di una moneta onesta, Madison argomentò anche ragioni morali. Spiegò che la carta moneta distruggeva “la necessaria fiducia tra gli esseri umani, la necessaria fiducia nei consigli pubblici, nell’industria, nei costumi della gente e nel buon nome del governo repubblicano”.
I Padri Fondatori erano ben consapevoli delle ammonizioni della Bibbia verso pesi e misure disonesti, verso l’argento alterato e il vino annacquato. Nel corso della storia la questione della moneta é stata una questione tanto morale quanto economica o politica.
Persino con questa storia alle spalle e con la seria perplessità espressa dai Padri Fondatori, le barriere alla carta moneta sono state fatte a pezzi. La Costituzione é rimasta la stessa, ma non viene più applicata alla questione della moneta. Una volta, durante il dibattito sull’entrata in guerra in Iraq, mi spiegarono che non c’era bisogno di una dichiarazione di guerra poiché essa sarebbe stata “futile” e che la parte della Costituzione che trattava delle facoltà decisionali del Congresso sulla guerra era “anacronistica”. In maniera simile, pare che sia “anacronistico” anche il potere costituzionale del Congresso sulla moneta limitato dalla stessa Costituzione alla coniatura e ai giusti pesi.
Se davvero la nostra generazione è in grado di sostenere le ragioni a favore della carta moneta, emessa da una banca centrale non autorizzata, sarebbe d’uopo perlomeno rispettare la Costituzione ed emendarla in modo corretto. Ignorare la Costituzione per compiere un atto pernicioso é nocivo sotto due punti di vista. In primo luogo, svalutare la moneta comporta danni smisurati a livello economico. In secondo luogo, attuare tale svalutazione senza rispettare la legge mina l’intero edificio della nostra repubblica costituzionale.
Sebbene al momento la necessità di una moneta sana non sia una questione urgente per il Congresso, essa è qualcosa che non può essere ignorata poiché il nostro sistema basato sulla carta moneta sta causando dei seri problemi economici. In realtà, pur scontrandoci quotidianamente con le conseguenze arrecate da questo sistema, non riusciamo a vedere la connessione tra i nostri problemi economici e i danni orchestrati dalla Federal Reserve.
Tutte le grandi religioni insegnano l’onestà in materia di moneta, e i difetti economici della carta moneta erano ben conosciuti quando venne scritta la Costituzione, dobbiamo quindi cercare di capire per quale motivo un’intera generazione di americani ha accettato la carta moneta senza esitare, senza porsi delle domande. La maggior parte degli americani é ignara della natura e dell’importanza della moneta. Per quanto riguarda coloro che detengono il potere, invece, o essi sono stati tratti in inganno da false nozioni oppure si rendono ben conto che il potere di creare moneta è un potere di cui in effetti godono mentre mettono all’ordine del giorno il welfare nel proprio paese e l’impero all’estero.
La moneta é una questione morale, economica e politica. Poiché l’unita monetaria stabilisce qualsiasi transazione economica, dai salari ai prezzi, dalle tasse ai tassi di interesse, é estremamente importante che il suo valore venga stabilito in modo onesto dal mercato senza che banchieri, governi, politici o la Federal Reserve manipolino il suo valore al fine di servire interessi particolari.
* Fonte: Associazione Usemlab
Moneta di Carta e Tirannia
Scritto da Ron Paul
Friday 05 September 2003
Riproponiamo uno dei migliori pezzi sulla moneta scritti da Ron Paul, candidatosi nel 1988 alla presidenza come libertario; corre per le prossime elezioni nelle liste repubblicane. Nonostante cio’, rimane un vero libertario, non ha niente a che vedere con la politica di bush, del quale e’ uno dei maggiori oppositori, e ha sempre criticato aspramente al congresso la politica monetaria di Greenspan e ora quella di Bernanke. Potrebbe essere l’uomo sorpresa per un cambiamento radicale degli stati uniti.
HON. RON PAUL OF TEXAS
IN THE HOUSE OF REPRESENTATIVES
September 5, 2003
http://www.house.gov/paul/congrec/congrec2003/cr090503.htm
Traduzione di Roberta Panizzoli
per leggere l’art., clicca qui, sul rosso
1. Introduzione
2. La moneta come questione morale
3. La moneta come questione politica
4. La moneta come questione economica
5. La situazione attuale (I parte)
6. La situazione attuale (II parte)
7. Conclusioni
Fonte: Usemlab
Requiem al mercato azionario *
Con questo rialzo artificiale, il più grande di tutti i tempi (a nostra memoria), è stato messo l’ultimo chiodo alla bara di un mercato zoppicante che ancora, in qualche maniera, nonostante gli interventi istituzionali sempre più massicci e pesanti, riusciva a preservare una sua qualche minima funzione vitale.
Oggi, 19 settembre, hanno ucciso il mercato lì dove si pensava che fosse il più efficiente. Nella patria di un capitalismo oramai agonizzante da tempo. Non poteva essere altrimenti dopo che il nuovo socialismo americano aveva trionfato in quella funesta data del 7 settembre con il salvataggio delle due F.
E’ senza dubbio l’inizio di una nuova era. Il primo giorno di un qualcosa che nessuno aveva mai visto prima d’ora. Si è ufficialmente deciso, senza mezzi termini, nell’ultimo disperatissimo tentativo di risanare un meccanismo oramai rotto, che il mercato non può e non deve riaggiustare i propri parametri secondo l’azione spontanea dei suoi partecipanti.
E’ stata negata con questa azione disperata delle autorità quella funzione del mercato che premia le aziende di successo e punisce le aziende che sbagliano. E’ stato impedito che banche, assicurazioni, finanziarie, un sistema quasi criminale che stava pagando i propri errori con il fallimento, ricevesse la sua giusta punizione dal mercato. In questo mondo, possono fallire gli imprenditori di qualunque industria, non i banchieri. Da oggi è finalmente chiaro.
Un privilegio speciale concesso dallo stato. Non bastava quello di stampare moneta dal nulla grazie al moltiplicatore monetario. Adesso viene concesso un privilegio ancora più speciale. Godere della protezione dallo stato per gli errori commessi. Protezione che paghiamo noi taxpayers. I tartassati. Con il nostro lavoro e i nostri sudati risparmi.
Non bastava farci pagare una burocrazia sempre più inefficiente e dilagante, e praticamente del tutto inutile. Adesso dobbiamo anche pagare i banchieri e le loro bische di affari. Vengono assolti dai loro errori con un premio speciale e rimangono tutti al loro posto. Onesti e farabutti. Senza distinzione. La distinzione la stava facendo il mercato. Non andava bene.
Prima si vendeva spazzatura alla gente direttamente dagli sportelli. Adesso che la gente quella spazzatura non la compra più, non la vuole più, ha scoperto che non valeva quasi nulla, si consente a chi ha prodotto e accumulato troppa spazzatura di smaltire i rifiuti tossici direttamente in un gran bel superbidone finanziato guarda un po’ sempre dai soldi del popolo che indirettamente torna a comprali contro la propria volontà, dietro la vacua promessa che tutto viene fatto per il loro bene!!
Non solo, grazie all’aiuto di oggi, i banchieri potranno anche vendere nuove azioni delle loro società a un prezzo più alto di quello che ieri aveva stabilito il mercato. Le banche avevano bisogno di ricapitalizzarsi. Ma il prezzo del mercato era troppo basso e sarebbe stato penalizzante. Grazie all’aiuto di stato, potranno farlo a un prezzo per loro più remunerativo. Pagano ancora i risparmiatori, direttamente o indirettamente.
E’ defunta poi del tutto la funzione di price discovery. La più importante. Il mercato cerca di continuo il prezzo più equo possibile di un asset. Che remuneri ragionevolmente nel tempo l’investitore tramite il reddito che quell’asset che produce. Costituisce la sua funzione principale. Il prezzo di mercato è pertanto la guida fondamentale per le decisioni di allocazione dei capitali, perchè esse avvengano nella maniera più efficiente possibile (non perfetta, la perfezione non è di questo pianeta).
Non bastava controllare e determinare artificialmente i tassi di interesse tramite le decisioni arbitrarie delle banche centrali. Oggi è stato impedito anche al mercato azionario di cercare in maniera autonoma quel prezzo più ragionevole possibile che dia un senso e orienti le decisioni degli agenti economici nella maniera più razionale possibile. Salta per aria pertanto ogni sistema di riferimento per un calcolo economico razionale. Siamo in pura economia di piano. Come nella russia di 20 anni fa.
Da oggi le autorità hanno deciso definitivamente di impedire al mercato di scendere. Le azioni possono e devono solo salire. Finchè salgono infatti va tutto bene. Anzi quando il trend è al rialzo si cerca di pompare le borse il più possibile perchè un mercato azionario che sale da illusione di prosperità alle masse. Sono felici e possono essere rimbecillite più facilmente. Le bolle azionarie quindi non si impediscono mai.
Si impedisce sempre e solo il ritorno dei prezzi a valori razionali. Una volta c’era la greenspan put che impediva al mercato di scendere. La sicurezza che prima o poi sarebbe intervenuto il banchiere centrale a salvare i mercati dal crollo. Oggi non ci sono più put di un banchiere centrale.
Ci sono Bernanke - Paulson - SEC - FSA che cambiano le carte del gioco dalla mattina alla sera e stabiliscono che i numeri sul tabellone decisi dagli attori economici non vanno bene. Bisogna cambiarli dalla mattina alla sera. 1000 punti di dow jones, 140 di S&P, 350 di eurostoxx nel giro di 24 ore. Nell’illusione vana che domani possa cambiare d’improvviso anche l’economia reale.
Puro delirio e pura follia. Ma per loro l’importante è sostituire dei numeri che mantengano la confidenza del popolo nel loro sempre più gigantesco truffone. E comprare ancora tempo per tenere le loro poltrone sotto il culo. Tu avevi un poker d’assi in mano, avevi fatto la tua puntata. Arrivano loro a dire che l’asso vale meno del sette e la doppia coppia più del poker. Calano la loro doppia coppia di 7 e di 8 e raccolgono tutto quanto messo in gioco. E se lo spartiscono con i loro compagni di merende.
Da oggi quindi è vietato vendere allo scoperto. Forse fino al 3 ottobre, forse a data indeterminata. Qualora il mercato tornasse giù ancora una volta a causa di vendite naturali, di gente stufa e sfiduciata che vuole liquidare quello che ha, ringraziando anche per il prezzo speciale, non resterà che impedire del tutto le vendite e magari obbligare la gente per legge a comprare azioni. Il 20% dello stipendio tutti i mesi, altrimenti vi arrestiamo.
La mossa di vietare le vendite allo scoperto ha inoltre due conseguenze da non sottostimare. Toglie liquidità al mercato, e toglie una futura domanda di sostegno al mercato.
Toglie liquidità perchè innazitutto si tolgono di mezzo coloro che vendevano azioni prese a prestito. E in secondo luogo perchè così facendo si interrompe anche il naturale funzionamento del mercato delle opzioni dove il market maker ha la necessità, per poter operare, di andare "corto". La liquidità è importante per un mercato più efficiente. Con la mossa di oggi si sono eliminati dal casinò (oramai non è altro) quei partecipanti "cattivi" che tra l’altro agivano per punire le aziende che hanno sbagliato. Rimangono quelli buoni che possono solo comprare.
Praticamente adesso che è diventata scomoda si getta sulla strada quella finanza che invece espletava a suo modo una funzione importante del mercato. Finchè quella industria dell’hedge funding serviva a tirare su le borse nell’onda speculativa rialzista tutto bene, la si faceva lavorare in pace. Anzi, diciamolo chiaramente, è solo grazie a tutta quella liquidità iniettata in questi anni che quella industria ha potuto svilupparsi in maniera abnorme. Prima li si è fatti proliferare. Poi li si è uccisi dalla mattina alla sera. Cosa faranno domani non si sa. Scatolone anche per loro come per quelli della lehman. E non sono pochi. Attenzione ai prossimi numeri della disoccupazione!
Impedendo le vendite allo scoperto si toglie anche futura domanda di sostegno al mercato, perchè un domani quei venditori allo scoperto, che presto o tardi devono riacquistare i titoli "sani", ma anche quelli più marci, non saranno più presenti ad assorbire le vendite naturali. A questo punto se il piano di salvataggio fallisse (come dovrebbe ragionevolmente fallire se solo la gente riuscisse a ragionare cinque minuti con la propria testa) e arrivasse quella valanga di vendite che sarebbe naturale lecito aspettarsi di fronte all’assassinio del mercato azionario perpetrato oggi, sarebbe per le autorità un gran bel problema. Come già detto non rimarrà che obbligare i cittadini a comprare titoli, pena l’arresto.
Il capitalismo agonizzante quindi è morto. E con se si porta la più grande scommessa fatta da uno stato oramai complice di quei colpevoli che hanno creato questa situazione. Se vincono, il prezzo sarà pagato dai tartassati, e da un mercato dei capitali che non sarà mai più quello di prima. Con conseguenze gravissime per l’economia reale. Se perdono la grande depressione del XXI secolo sarà cosa inevitabile. Una lose-lose situation. Il mondo ha da rimetterci in ogni caso. Perlomeno, questa volta e a differenza del 1929, il responsabile sarà ben chiaro. Impossibile sbagliarsi.
* Scritto da Francesco
Friday 19 September 2008 - Associazione Usemlab.
La rivincita di Keynes
di VITTORIO ZUCCONI *
All’inferno le ideologie e il culto irrazionale del sacro mercato, l’America ritrova la virtù che l’ha resa l’America: il pragmatismo. "Misure senza precedenti per affrontare una sfida senza precedenti" annuncia Bush l’ex neocon trasformato in neokeyn, per spiegare che anni di anatemi antistatalisti sono stati buttati nel vento della crisi in favore dell’interventismo pubblico di sapore keynesiano.
Per salvare, se ancora si può, il salvabile. Sarà proprio la esecrata "mano pubblica", con soldi pubblici, a intervenire per stabilizzare i mercati isterici, facendo piovere senza limiti prefissati dollari stampati dalla zecca sui buoni e sui cattivi, su chi lo merita e su chi non lo merita.
George W. Bush è diventato Franklyn Delano Roosevelt, pronto a inondare Wall Street con almeno un trilione di dollari, mille miliardi di dollari, secondo i calcoli degli economisti, per evitare che la grande siccità del credito uccida i giusti e gli ingiusti nel deserto del credito. È una gigantesca "operazione Alitalia" fondata sullo stesso balordo, ma ormai inevitabile principio del "privatizzare i profitti" e "statalizzare i debiti". Con, alle spalle, lo stesso ricatto del fallimento epocale.
Non è finito, in queste ore sconvolgenti, il capitalismo americano. È finito un modo di concepire il capitalismo che aveva dominato il discorso nazionale americano dagli anni ’80 di Reagan. Bush, che per mesi aveva ripetuto il mantra sempre più grottesco della "economia fondamentalmente sana", come aveva fatto McCain, ha fatto l’inversione a "U" che sarebbe stata necessaria nel 2007 e che la sua zavorra ideologica, e la fissazione sciagurata con la sempre sfuggente e costosissima "vittoria in Iraq", (700 miliardi finora) gli avevano impedito di fare.
Questa vacanza del potere politico centrale, che nessun tecnico per quanto competente, come sono i vecchi ragazzi della Goldman Sachs che oggi governano a fianco del Presidente, può surrogare in una democrazia, era il cuore infartato di questa crisi. Aggravata dalla confusione di una campagna elettorale che da 14 mesi rimbomba nella testa di una popolazione con messaggi contraddittori, confusi, propagandistici.
Dunque accentua quello stato di incertezza e di irrazionalità che è, sempre, la benzina sul fuoco di ogni incendio finanziario.
Quello che Bush ha annunciato ieri, affiancato dalla trimurti della governance economica americana per dargli autorevolezza, è keynesismo puro. È "deficit spending" classico, senza preoccuparsi di bilanci federali che sprofonderanno nell’inchiostro rosso e sono destinati a raggiungere il 7% del Pil. Ma lo schiaffo della realtà, che arriva sempre a svegliare i presidenti americani dall’ipnosi delle loro ideologie, nel mondo come in casa, ha svegliato anche un Bush che se avesse, quattro anni or sono, annunciato in campagna elettorale l’intenzione di gettare mille miliardi di dollari per salvare i mercati mobiliari e immobiliari sarebbe stato, più che sconfitto, arso vivo.
Ma qui siamo di fronte "a sfide senza precedenti", ha ammesso tardivamente e rischi senza precedenti richiedono "azioni senza precedenti", un eufemismo per dire: si cambia rotta. Lasciare che la nave di Wall Street s’inabissasse trascinando con sé le borse del mondo che rimangono tutte "wallstreet dipendenti", da Shanghai a Mosca, avrebbe devastato l’economia americana dove fa male e garantito la vittoria di Barack Obama, i cui sondaggi avevano ripreso a salire in relazione inversa ai listini di Borsa.
Avrebbe colto non soltanto nei "bonus" delle migliaia di brokers lasciati con lo scatolone dei loro ricordi in braccio, in fondo poche persone in un oceano di 150 milioni di famiglie, ma anche nell’esistenza quotidiana della gente di "Main Street", della via principale dei paesi, dove polizze vita, fondi comuni, gruzzoli di obbligazioni a reddito fisso, crediti al consumo e mutui sono il presente e il futuro dell’esistenza reale. Sulla latitanza della guida politica del Paese e sulla confusione generata da candidati che dicono alla mattina il contrario di quello che dicono alla sera (McCain era fino a ieri il campione della "deregulation" e oggi invoca un controllore sotto ogni letto a Wall Street, mentre l’inesperienza di Barack Obama non rassicura) la famigerata speculazione aveva puntato.
Era sicura che questa amministrazione non avrebbe mai potuto rinnegare il proprio fondamentalismo liberista e la cultura delle cose che si aggiustano da sole. I ribassisti, coloro che puntano sulla caduta dei titoli e che sparecchiano quei miliardi che impropriamente i media definiscono "bruciati" ma invece arricchiscono tanto quanto i rialzi, avevano avuto il controllo del campo, alimentando una difficoltà di credito reale, ingigantita dalle loro azioni piratesche. L’ideologo del Texas è stato persuaso a fare ciò che è necessario, non ciò che è ideologicamente corretto. Il Bush che sembrava il tragico Herbert Hoover ottimista del 1929 ("La prosperità è dietro l’angolo") è diventato il Roosevelt del 1932, che inventò quegli strumenti di protezione che da allora, come ha detto giustamente, "non hanno mai fatto perdere un centesimo a chi ha conti correnti", ma non certo per merito della destra.
Estenderà la protezione federale esistente sui CC, sui risparmi e sui certificati di deposito, anche ai fondi di "money market", quelli che fino a ieri non erano assicurati da Washington e flottavano pericolosamente sul mercato seguendo l’andamento degli interessi, costituendo una grossa parte, almeno il 30%, dei fondi pensione.
Prosciugherà, sempre con danaro pubblico, la palude dei mutui immobiliari inesigibili, i "subprime" definiti "tossici" perché avvelenano i bilanci delle banche. Dunque lo stato federale, cioè noi contribuenti, diventerà proprietario involontario di milioni di abitazioni in protesto e di passività che saranno smaltite in anni. Il gioco al ribasso contro le 799 finanziarie ancora in piedi sarà bloccato per dieci giorni e rinnovabile ancora, violando il loro sacro diritto alla speculazione, per salvare il salvabile.
E il Tesoro potrà stampare tutti i miliardi di dollari che desidera senza temere di accendere il falò dell’inflazione, come accadrebbe in tempi normali perché il nemico del giorno è la "deflazione", la paralisi del credito. Naturalmente pagheremo in futuro questo tsunami di dollari, in termini di inflazione, quando la bufera sarà passata, ma questo è un commento per la crisi di domani.
Bush, il cowboy neocon divenuto neokeyn, ha creato un’euforia irrazionale nei mercati eguale e contraria al panico di ieri nella solita altalena di ingordigia e paura. In attesa di un nuovo governo stabile, si può sperare che questa non sia la fine del mondo, ma soltanto la fine di un mondo, dal quale un altro nascerà. La ciclicità di "boom" e "bust", di fortune e di rovesci, di regole e di sregolatezza, è la sola certezza del capitalismo americano che sa, contrariamente a quello che sognava Karl Marx, sopravvivere anche al proprio peggior nemico, cioè se stesso.
* la Repubblica, 20 settembre 2008
La chiesa IN ARMI - IL VATICANO SUL SENTIERO DELLA GUERRA GIUSTA
Tra encicliche e discorsi, l’operato dei pontefici che non hanno mai del tutto rinunciato alla legittimazione religiosa dei conflitti bellici. Un percorso di lettura a partire da un saggio dello storico Davide Menozzi
di Alfonso Botti (il manifesto, 18.09.2008)
L’errore più grave in cui si cade a proposito della Chiesa cattolica è di non coglierne la dimensione storica, il suo divenire e trasformarsi nel tempo. Si finisce così, quasi inavvertitamente, anche in materia di diritti umani, di pace e guerra, per scivolare nell’anacronismo di pensare che la Chiesa sempre abbia difeso i diritti umani, sostenuto sempre gli organismi di mediazione internazionale e sempre lavorato a favore della pace. Tali posizioni, tra l’altro non ancora completamente assestate (come rivela il Catechismo del 1992, dove si ribadisce la validità della dottrina della «guerra giusta» e la possibilità di ricorrere alla violenza militare per la tutela del bene comune), sono invece il risultato di un tortuoso cammino nel quale mai (o quasi) la gerarchia ecclesiastica è stata alla guida del cambiamento, andando a rimorchio della lungimirante ricerca e attività di singoli credenti, gruppi e minoranze spesso invise ai guardiani dell’ortodossia e spesso anche a rimorchio di quella cultura laica e di quegli istituti secolari condannati e poi costantemente avversati.
Questo il principale merito dell’ottimo saggio di Daniele Menozzi ( Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti , Il Mulino), docente di storia contemporanea alla Scuola Normale di Pisa e, assieme a Giovanni Miccoli e Guido Verucci, principale rappresentante di quella corrente che ha fatto dell’approccio critico, scientifico e non apologetico alla storia della Chiesa la principale cifra della propria ricerca storiografica.
Rifiuto della modernità
Il volume prende le mosse dal passaggio sulla nonviolenza contenuto nel discorso pronunciato da Benedetto XVI il 18 febbraio 2007 all’ Angelus . Un passo nel quale la nonviolenza è definita come comportamento non meramente tattico, ma come modo di essere vincolante per i credenti. Lo spunto è anche il punto d’arrivo di una stringente analisi, che si dipana dall’ascesa al soglio pontificio di Benedetto XV alla vigilia della «Grande guerra», mossa da un duplice scopo: da una parte ricostruire il contraddittorio cammino che ha portato la Chiesa a prendere le distanze dalla legittimazione religiosa dei conflitti; mostrare, dall’altra, motivi e retaggi che ne hanno appesantito il cammino.
Ragioni e retaggi individuati nell’ancoraggio al pensiero intransigente e a quel progetto di cristianità in base al quale la Chiesa si è rapportata al mondo dalla Rivoluzione francese in poi. Uno schema in base al quale la Chiesa ha tradizionalmente interpretato la guerra come una punizione per l’apostasia della società moderna, attribuendole una funzione catartica (da cui la lettura provvidenzialistica dei conflitti), stabilito un nesso tra ristabilimento della pace e «ritorno del pontefice a un ruolo direttivo nella vita internazionale» e fissato l’obbligo di obbedire alle decisioni in materia bellica assunte dai governi, in quanto presumibilmente dotati delle informazioni necessarie a operare per il bene comune («principio di presunzione»).
Si tratta di uno schema al quale non si sottrae il pontificato di Benedetto XV, la cui Nota dell’agosto 1917 sull’«inutile strage» Menozzi riporta nel suo giusto contesto, rendendone comprensibile il vero significato. Come potevano i cattolici combattersi nel nome dell’unico Dio e del comune riferimento all’autorità pontificia? E come poteva il pontefice schierarsi a sostegno dell’uno o dell’altro? I cattolici di entrambi i fronti, infatti, legavano l’affermazione della propria parte al trionfo degli ideali di restaurazione cristiana propugnati dal papa. Il quale vi rimase imbrigliato, non potendo far altro che deprecare gli eccessi, auspicare azioni umanitarie e proporre la propria mediazione.
Uno schema ribadito da Pio XI, il cui pontificato costituisce la cornice per significative conferme e importanti dibattiti sullo sfondo di avvenimenti decisivi per la storia del XX secolo: dalla nascita della Società delle Nazioni alle guerre d’Africa e di Spagna, passando per l’avvento al potere del fascismo e del nazismo. Note le diffidenze della Santa Sede di fronte alla Società delle Nazioni, Menozzi ne chiarisce cause, risvolti e conseguenze, fino alla sfiducia manifestata da Pio XI sulla possibilità di regolamentare le controversie tra gli stati per via politico-diplomatica prescindendo dal ruolo che poteva svolgere la depositaria della rivelazione divina; ruolo che aveva svolto nel Medioevo in «quella vera società delle nazioni che fu la cristianità» (enciclica Ubi arcano del dicembre 1922).
Di contro, negli stessi anni qualche smagliatura veniva a mostrarsi tra gli intellettuali e sulle riviste cattoliche, oggetto della ricerca assieme all’insegnamento del magistero. In Svizzera, Francia, Belgio e Olanda, tra le due guerre fiorivano iniziative tese ad avviare la collaborazione con la Società di Ginevra, a una qualche apertura verso l’obiezione di coscienza e, più in generale, al rinnovamento della tradizionale posizione cattolica in materia di «guerra giusta», mentre vari episcopati e lo stesso pontefice mettevano in guardia contro i pericoli insiti nel pacifismo, nell’antimilitarismo e nell’internazionalismo. Una sconfessione che rallentava il dibattito, consigliava il ripiegamento su posizioni più caute, frenando in definitiva la presa di coscienza di ampi settori cattolici, rendendoli meno vigili e quindi più disponibili a essere coinvolti nelle tragedie che sarebbero venute di lì a poco.
Nella seconda metà degli anni Trenta, osserva Menozzi, «l’avvento del bellicismo nazista, il fallimento della Società delle Nazioni, la ripresa dell’iniziativa internazionalistica del comunismo» avrebbero indotto a guardare con preoccupazione alle esenzioni dal servizio militare. «Tuttavia tale esito - conclude su questo punto - era anche il risultato di un percorso interno alla cultura cattolica che aveva cercato di giungere, dopo i disastri del primo conflitto mondiale, alla delegittimazione religiosa della guerra». Un percorso che la gerarchia aveva sbarrato costringendo quanti volevano scindere guerra e cattolicesimo a percorrere altre strade.
Il documento di Friburgo
La principale fu quella imboccata da otto autorevoli teologi svizzeri, francesi e tedeschi, che nel febbraio 1932 pubblicarono Le problème de la moralité de la guerre , noto come documento di Friburgo. Assecondando la corrente «internazionalista» emersa frattanto nel cattolicesimo e avvallata dallo stesso Pio XI nel discorso per il Natale del 1930, il documento appoggiava la Società delle Nazioni, dichiarava illecita la guerra che si fosse sottratta all’arbitrato degli organismi internazionali e si soffermava sulle caratteristiche delle armi contemporanee che, per portare non all’annientamento di un esercito, ma di nazioni intere, era considerata estranea «all’ambito della ragione». Non solo. Il ricorso alla guerra per legittima difesa era circoscritto alla necessità di rispondere a un’ingiusta aggressione ed era da considerarsi lecita solo dopo aver espletato le possibilità di ricorso a un arbitrato internazionale.
Del documento di Friburgo l’autore ricostruisce la fortuna attraverso un’ampia ricognizione che gli consente di metterne in luce la modesta capacità d’incidenza, per il parallelo accresciuto timore per la minaccia comunista e per lo slittamento di molti vescovi francesi e tedeschi soprattutto verso posizioni patriottiche e di «giusto nazionalismo». Sicché alla metà degli anni Trenta la tradizionale dottrina della «guerra giusta», scalfita dalla riflessione teologica della prima metà del decennio e apparentemente recepita nel discorso del Natale 1934, nel quale il papa aveva parlato della «impossibilità morale» di una nuova guerra, poteva essere riproposta per le esigenze politiche della Santa Sede, dal magistero nella sua interezza, in occasione della guerra d’Etiopia.
Menozzi si sofferma sull’esaltazione bellicista che ne seguì e sulla dilatazione della nozione di «guerra giusta» che gli obbiettivi dell’abolizione della schiavitù e dello sbocco alla presunta esorbitante pressione demografica, resero possibile. Un arretramento che sarebbe poi stato confermato dall’atteggiamento della Santa Sede di fronte al conflitto spagnolo del 36-39, dal Code de morale internationale (1937) preoccupato della moralizzazione dei conflitti anziché della loro incompatibilità con il cristianesimo, dal rilancio della dottrina della «guerra giusta» operato da La Brière ( Le droit de juste guerre , 1938) e da altri.
Né si registrava un cambiamento con l’ascesa al soglio pontificio, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, di Pio XII, che fin dall’enciclica programmatica Summi pontificatus si attestava sulla tradizionale interpretazione della guerra come conseguenza degli errori moderni e della «laicizzazione della società». Un’interpretazione impotente di fronte al riarmo delle nazioni e dei cattolici, appesantita per giunta dal discorso ai dirigenti dell’Azione cattolica del settembre 1940 con cui il papa esortava gli iscritti, per amore di patria, «a dare per essa anche la vita, ogni qual volta il legittimo bene del paese riecheggia questo sacrificio».
Da Hiroshima al Vietnam
Il volume tratta poi del ritardo con cui gli ambienti ecclesiastici romani reagirono alle bombe atomiche su Hiroshima, Nagasaki e dei silenzi del pontefice al riguardo, condizionati dalla preoccupazione per la minaccia sovietica. Esamina il riemergere del dibattito sull’obiezione di coscienza e la breccia che presso alcuni cattolici europei aprì l’ Appello di Stoccolma per il disarmo e la rinuncia delle armi atomiche, lanciato nel marzo 1950 dal Consiglio mondiale dei partigiani della pace.
Affronta, con particolare attenzione alla lotta di liberazione algerina, le guerre coloniali e il diritto di rivolta delle popolazioni indigene che, pur fondato sulle categorie tomiste dell’insurrezione contro il tiranno, stentò a essere riconosciuto a causa del pregiudizio eurocentrico, che se da una parte continuava a fornire legittimazione religiosa alla guerra, dall’altra la negava alla guerra di liberazione.
Affronta lo snodo decisivo rappresentato dalla Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII mostrando come, pur fortemente ridimensionata, l’idea che esistesse una «guerra giusta», sopravvisse al pontificato giovanneo per essere ribadita nel documento conciliare Gaudium et Spes di Paolo VI, di cui esamina la posizione di fronte alla guerra del Vietnam.
Minori le pagine dedicate al lunghissimo regno di Wojtyla per il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la sua fine e il presente nel quale lo storico si colloca per interpretarne il significato. Una mancanza di prospettiva che si aggiunge alla mancanza di fonti archivistiche e alla scarsità di studi preliminari.
Pur con queste cautele, la lettura attenta delle encicliche e dei discorsi di Giovanni Paolo II, consente a Menozzi di considerare il suo magistero come ripresa, con alcune variazioni, della tradizione intransigente. Ripresa, per la reiterata convinzione che solo il perseguimento dell’ordine voluto da Dio potrebbe salvare il mondo contemporaneo dalla distruzione per la minaccia nucleare e portare a una pace autentica. Da cui anche la richiesta che la legislazione civile recepisca le regole della morale cattolica e la sua specifica concezioni dei diritti dell’uomo.
Le variazioni individuate consistono nella rinuncia all’interpretazione provvidenzialistica dei conflitti e nell’estensione alle altre chiese cristiane e altre religioni non cristiane della capacità di interpretare quei valori spirituali dal cui riconoscimento dipende la pace. Non solo.
L’autore scorge un’importante evoluzione nell’ulteriore restrizione delle condizioni di applicabilità del principio della «guerra giusta» operata da Wojtyla (grazie all’aggiunta di una fattispecie, quella di guerra preventiva) e soprattutto nel rifiuto della guerra santa, espresso in occasione del giubileo del 2000, in cui invitò al pentimento anche per la giustificazione religiosa della guerra. In conclusione un apporto storiografico imprescindibile e un modello per il lavoro di ogni storico che contrasta i semplicismi e le semplificazioni oggi in voga.
Una crisi ad alto rischio
di Marco Simoni *
Il dispiegarsi della crisi finanziaria sta avvenendo in un momento politico molto delicato, con le elezioni presidenziali alle porte. Senza una leadership dagli obiettivi strategici definiti, la fiducia del mercato difficilmente potrà rialzarsi. Il comportamento delle autorità americane è stato altalenante, e non è sembrato esser mosso da una visione chiara del futuro. Una banca d’affari è stata salvata, la Lehman Brothers è fallita.
I due colossi dei mutui sono stati semi-nazionalizzati e lo stato di New York ha concesso una linea di credito di 20 miliardi al gigante delle assicurazioni, AIG. Ancora non si conosce la sorte di questo vero e proprio pilastro del sistema finanziario americano, la cui supervisione non è materia federale ma statale (da cui l’intervento del governatore), non si può prevedere quale sarà l’intervento che le autorità pubbliche intraprenderanno oltre al tentativo in corso di coordinare le banche private per creare un "fondo cuscinetto" per garantirne la liquidità e, di conseguenza, tutelare tutto il sistema, connesso a doppio filo alla compagnia assicurativa.
L’incertezza del momento è dunque motivata dal fatto che, riguardando tutti gli operatori del settore, siamo davanti ad una crisi del modo in cui i risparmi individuali e, soprattutto, i rischi individuali vengono gestiti collettivamente da istituzioni creditizie. E’ una crisi del coordinamento sociale del rischio, del rapporto tra i prestiti a lungo termine degli individui (per l’acquisto di case o l’inizio di attività commerciali) e il sistema globale di movimento di capitali, basato sulla fiducia che gli analisti ripongono nelle istituzioni intermediarie.
Una crisi di sistema andrebbe affrontata non solo pensando all’oggi e agli eventi che interessano i singoli istituti coinvolti, ma soprattutto a quale tipo di sistema finanziario edificare dopo. Gli interventi pubblici al momento sono estemporanei e non sistematici, mossi in gran parte dalle onde dei mercati. Come tali sono pericolosi perché potrebbero incitare a comportamenti ancora peggiori: se penso che lo Stato mi salverà comunque, vengo incentivato a rischiare di più. La riflessione sul ruolo della politica nel governo dell’economia globalizzata è ad uno stadio ancora troppo embrionale per poter dare i suoi frutti in una condizione di emergenza come questa.
La campagna presidenziale è stata inevitabilmente investita dalla questione. Sia Obama che McCain sono intervenuti, entrambi - con diversa credibilità - per smarcarsi dal passato e promettere un diverso approccio alla regolamentazione dei mercati finanziari.
Gli stessi interventi del Tesoro e della Fed (la banca centrale americana) di questi giorni sono monitorati dai due candidati: chi dovesse vincere si troverà non solo con l’economia in grande affanno, ma anche nella necessità di ristrutturare l’impalcatura del sistema finanziario. McCain ha una fama di "de-regolatore" e si è limitato ad un generico attacco alla "avidità" degli attori di Wall Street. Obama ha posto l’accento sulla necessità di regole più stringenti. In realtà entrambi i candidati sono legati profondamente al mondo finanziario di New York.
Da noi purtroppo questo dibattito non può nemmeno cominciare. L’emergenza, che sta contagiando anche i mercati europei (ieri le borse europee sono andate peggio di Wall Street), viene gestita dalla Banca Centrale Europea (BCE). La BCE deve prendere decisioni importanti, e lo fa senza alcun interlocutore politico paragonabile al ministro del Tesoro degli Stati Uniti.
Ieri mattina, la BCE ha immesso 70 miliardi di liquidità straordinaria nel sistema bancario, per rassicurare i mercati e dare fiato al sistema del credito. Comunque, non sembra intenzionata ad abbassare il tasso di sconto, a differenza di quello che tutti pensano farà la Fed a breve.
Evidentemente i timori di una spinta inflazionistica rimangono prevalenti, per il Consiglio direttivo della BCE, rispetto alla possibilità di dare ossigeno alle economie europee in affanno. La BCE non pubblica i verbali delle discussioni del suo Consiglio direttivo, si limita a scarne conferenze stampa sulle sue decisioni, quindi non conosciamo le diverse opinioni che, su temi così centrali, certamente esistono. Non solo dunque la BCE non ha un interlocutore politico chiaro con cui confrontare le sue scelte, ma non risponde nemmeno al pubblico Europeo delle decisioni che prende in completa indipendenza.
La liquidità fornita al sistema, il costo del denaro, i tempi con cui vengono prese queste decisioni, sono scelte che incidono sulle potenzialità di ripresa economica, sull’occupazione, sui prezzi.
Davanti alla evidente necessità di metter mano ai meccanismi di funzionamento della finanza internazionale, sarebbe forse importante aprire una discussione sul controllo pubblico sulle decisioni di politica monetaria e del credito in Europa, per non continuare a rimanere semplici spettatori passivi di ciò che accade oltreoceano, e che tanto impatto ha sulla nostra vita quotidiana.
* l’Unità, Pubblicato il: 17.09.08, Modificato il: 17.09.08 alle ore 8.10
Il racconto di un trader: ormai il sistema è al collasso "Sta accadendo qualcosa di inimmaginabile, mai visto prima"
"Serve una terapia d’urto
o le Borse rischiano la chiusura"
di MASSIMO GIANNINI *
"FORSE non avete capito cosa sta succedendo. Qui il problema non è Wall Street che perde il 4%. Qui siamo a un passo dal collasso totale dei mercati, dalla crisi del sistema finanziario globale". Il noto trader milanese consulta le carte, snocciola le cifre, riordina i fatti, e in cima alla giornata più drammatica e indecifrabile di questo Settembre Nero dei mercati avanza l’ipotesi più funesta: "Non si può escludere nulla. Nemmeno che da un momento all’altro si decida la chiusura delle principali Borse mondiali...".
Benvenuti nel Nuovo ?29. Evocata, temuta, ma in fondo mai presa sul serio, la "crisi di sistema" del capitalismo finanziario globale si materializza nelle parole dell’operatore che la sta vivendo in presa diretta, minuto per minuto. È anonimo, e non può essere diversamente, perché quello che dice è talmente preoccupante da non poter essere "firmato" da chi, ogni giorno, compra e vende titoli per milioni di euro. "In questo momento - spiega - ogni parola può creare altro panico, ed è meglio evitare...".
Ma se quello che racconta è vero - e a giudicare dall’andamento degli scambi sui mercati e dalle mosse delle autorità politiche e monetarie non possiamo dubitarne - il panico è già abbondantemente giustificato. "Sta accadendo qualcosa di inedito, che non abbiamo mai visto prima. Dall’America si sta diffondendo una crisi di fiducia senza precedenti, tra banche e banche e tra banche e clienti. Una crisi che colpisce in prima battuta quelle che un tempo avremmo chiamato le "Big Five", cioè le grandi "investment banks" : Bear Stearns, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Le prime due ce le siamo già giocate, la terza prova a salvarla Bank of America, ma ora il punto è che stanno finendo nel mirino anche le altre due".
Non a caso, i titoli Morgan e Goldman, a New York, sono letteralmente crollati, lasciando sul campo oltre il 40% del proprio valore. "Ma quello è solo il sintomo, la febbre - spiega l’operatore - perché la malattia è molto più grave. E la malattia è questa: dopo il crac della Lehman gli investitori istituzionali, e soprattutto gli hedge funds, stanno chiudendo le proprie posizioni presso le grandi banche d’investimento americane, perché non si fidano più della loro solvibilità. Questo sa cosa significa? Significa il collasso dei mercati azionari e obbligazionari mondiali, il "meltdown" totale di tutti gli scambi finanziari del pianeta".
Non è un’esagerazione. È la pura realtà, che deriva da un dato di fatto che ci porta a riflettere sulle distorsioni del modello capitalistico "drogato" da Greenspan e cavalcato da Bush: "Queste grandi "investment banks" muovono ogni giorno trilioni di miliardi di dollari. Hanno in custodia, in regime di sostanziale monopolio, la quasi totalità dei titoli posseduti dagli investitori istituzionali e dagli hedge funds di tutto il mondo.
Ora, se questi ultimi cominciano a ritirarli, perché temono il default delle stesse banche d’affari, non si rischia solo qualche altro "fallimento eccellente", ma si blocca tutto il meccanismo che regge i mercati finanziari. Glielo spiego con un esempio: le banche d’affari sono il "motore" del sistema finanziario globale. I loro clienti, investitori istituzionali ed hedge funds, sono l’olio che fa girare quel motore. Nel momento in cui l’olio viene a mancare, perché i clienti smettono di versarlo, il motore fonde, e la macchina è da buttare".
Questa è la posta in gioco. "Con un’aggravante. Investitori ed hedge funds chiudono le loro posizioni, e per esempio sulla piazza di Londra stanno cercando di dirottare i propri investimenti sulle grandi banche "retail", che al momento sembrano più sicure: Deutsche Bank, Santander, Bnp. Ma ormai non funziona più neanche questo, perché i mercati, terrorizzati dal fantasma del crac globale, sono totalmente illiquidi. Non si riesce né a comprare né a vendere, perché mancano le controparti.
Per questo la crisi è di sistema, e rischia di travolgere tutto. Non c’è più fiducia. Le mosse di Paulson non convincono nessuno, la gente non crede al salvataggio di Aig, che infatti continua a perdere a rotta di collo, e i "Treasury bond" americani hanno raggiunto un rendimento dello 0,23%, una cosa che non si vedeva da mezzo secolo. Le stesse banche centrali, la Fed e la Bce, non sanno che pesci prendere, perché hanno capito che questo non è un "trend" classico dei cicli borsistici: rialzi e crolli non sono mai stati un problema, figuriamoci, ci siamo abituati, fanno parte del gioco. Il guaio, stavolta, è che è proprio il gioco in sé che si sta rompendo".
Il trader italiano, di stanza a Piazza Affari, vive ai margini del ciclone finanziario americano. Ma cita altri due indizi, che danno la misura del livello di allarme scattato anche nelle "province" dell’impero del capitale globale: "Primo: stamattina la Banca d’Italia ci ha chiesto di fornirgli entro mezz’ora, e dico entro mezz’ora, le posizioni aperte con Lehman da tutti noi operatori nazionali: una roba mai successa. Secondo: nel pomeriggio abbiamo vissuto momenti di forte tensione, perché neanche la Cassa di compensazione aveva più liquidità sufficiente. Cioè: la Cassa non paga, noi non paghiamo, e così tutto l’ingranaggio va in tilt da un momento all’altro". Il tema vero è: ci si può ancora salvare da questo Nuovo ’29 che incombe?
L’operatore spera, ma non si avventura: "Parliamoci chiaro: qui, se siamo ancora in tempo, ci sono solo due possibilità per non far fondere tutta la macchina. La prima possibilità è che almeno un paio di grandissime banche commerciali di dimensione mondiale, che so, Hsbc tanto per fare un nome, si comprino le banche d’affari americane a un passo dal tracollo: operazione possibile, anche se molto complicata, che richiederebbe comunque una fortissima "moral suasion" da parte del potere politico. La seconda possibilità è che invece sia proprio la politica americana a fare il passo più estremo, nazionalizzando Morgan e Goldman prima che sia troppo tardi. Operazione complicata e forse impossibile, se non al prezzo di addossare ai contribuenti i costi enormi del doppio salvataggio e snaturare per sempre il modello liberale del capitalismo Usa".
Altre soluzioni, per il trader milanese, non ne esistono. E oltre tutto bisogna fare presto, perché la velocità con cui questa crisi si sta avvitando su se stessa è impressionante. Per questo, in attesa che qualcuno decida qualcosa, l’operatore ipotizza addirittura il ricorso all’arma fine di mondo: "Se questo è il clima, ci può stare anche che le autorità decidano, da un giorno all’altro di chiudere le Borse. È un’ipotesi estrema, è chiaro, che in Italia è successa solo nel luglio ’81 dopo lo scandalo P2, e in America dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre. Ma ora come ora non mi sento di escludere niente. Qualcosa bisogna pur fare. Bisogna prendere il toro per le corna. Anzi, stavolta bisogna prendere l’orso per la coda, visto che sul mercato, di tori, non ce ne sono più".
* la Repubblica, 18 settembre 2008.
La vera chiesa
di Giovanni Sarubbi *
[...]
Il cristianesimo imperiale
Dopo il primo secolo, quando i testimoni della predicazione di Gesù erano tutti morti, il movimento delle prime comunità cristiane ha cominciato un lento processo di trasformazione. Da movimento antireligioso il cristianesimo è diventato a poco a poco una religione essa stessa, fino a giungere nel quarto secolo a diventare religione dell’impero romano. Nel 325 d.c. al Concilio di Nicea, voluto dall’imperatore Costantino che aveva bisogno di avere dalla sua una religione che lo aiutasse a mantenere il suo potere, nasce il “cristianesimo imperiale”, con la definizione dei primi “dogmi” che stravolgono tutto lo spirito dei Vangeli. Anche i cristiani cominciano a dividersi sulle definizioni teologiche, sulla “natura di Dio”, sulla definizione di un “proprio Dio” da contrapporre agli altri dei e imporre a tutto il mondo. Si ricade nella idolatria, nelle caste sacerdotali, in un Dio iracondo che ha bisogno del più terribile dei sacrifici, quello del proprio figlio, per placare la sua collera. Dal Concilio di Nicea in poi e dopo ogni nuovo Concilio e ogni nuovo dogma, cristiani hanno ammazzato altri cristiani, ma anche appartenenti ad altre religioni, a milioni e lo hanno fatto “nel nome di Dio”. Si giungerà, dopo alcuni secoli con Tommaso D’Aquino, a trasformare la teologia da esperienza personale in una vera e propria scienza, con le sue regole, con i suoi esperti e dottori, il tutto al servizio della nuova classe sacerdotale che man mano aveva imposto il suo potere nella società.
Il “cristianesimo imperiale” ha costruito la sua forza sulla affermazione dogmatica dell’”extra ecclesia nulla salus” (“fuori dalla chiesa non c’è salvezza”), che è la tipica affermazione di ogni religione e di ogni casta sacerdotale che si pone come mediatrice fra l’uomo ed il sacro e che da questa mediazione trae la propria immensa ricchezza ed il proprio potere economico politico e persino militare. Si tratta di una affermazione che non appartiene alla sola Chiesa Cattolica ma che è fatta propria nella sostanza dalla stragrande maggioranza delle congregazioni cristiane. E da questa affermazione non si è arricchita la sola Chiesa Cattolica. Altrettanto ricche sono ad esempio le cosiddette “Mega Curch” degli USA che hanno trasformato il cristianesimo in un business lucrosissimo.
Ma oggi l’affermazione ”extra ecclesia nulla salus” è in profonda crisi perché proprio lo studio molto più approfondito del Nuovo Testamento, iniziata dalla teologia liberale nel 1800, ha messo in luce come il movimento originario di Gesù e dei suoi discepoli fosse un movimento che negava decisamente qualsiasi spazio sacro, qualsiasi ruolo di mediazione fra l’uomo ed il sacro, quindi qualsiasi casta sacerdotale comunque chiamata. La chiesa di cui parlano i Vangeli non ha nulla a che vedere con quanto si è venuto concretizzando nel mondo a partire dal 325 d.c.
L’immagine di Gesù che gli studi biblici e la ricerca storica degli ultimi due secoli ci hanno restituito è molto lontana da quella che si è incarnata nella “chiesa imperiale” nelle sue varie diramazioni cattolica, protestante, ortodossa che sono divise fra di loro da un punto di vista organizzativo ma in realtà tutte unite da una pratica e da una teologia che nasce dai Concili realizzati nel primo millennio sulle ceneri dell’Impero Romano di cui hanno mutuato i metodi e gli interessi.
Ed il Gesù che ci restituisce la ricerca storica è schierato dalla parte dei poveri, contro l’uso del sacro come supporto agli imperi economici e politici, è un Gesù liberatore dell’umanità dall’idea di un Dio iracondo, che vuole sacrifici violenti, che impone regole impossibili da vivere, mentre propone invece un “Dio Padre”, amorevole, che cerca la pecora perduta, che accoglie il figliol prodigo, che non condanna i peccatori, che parla con tutti nessun escluso, bambini e donne comprese, pagani e samaritani.
Ma gli studi biblici ci hanno restituito anche un Gesù che non voleva realizzare nessuna nuova congregazione religiosa oppressiva separata dal resto della popolazione, perché lui non aveva dove porre il capo e seguire lui equivaleva a mettersi al servizio della causa della liberazione dell’umanità dall’oppressione del sacro, dei lestofanti, dei falsi profeti che promettono cose che non possono mantenere e che usano il nome di Dio per arricchirsi e costruire imperi terreni.
La crisi del cristianesimo imperiale
Il cristianesimo imperiale è oggi irrimediabilmente in crisi, questo è un dato certo. Lo dicono i numeri, con gli aderenti al cristianesimo in costante calo sul piano mondiale, ma anche la nascita di congregazioni religiose che hanno trasformato il cristianesimo in un fatto emozionale, in uno spettacolo per dare risposte a disagi psichici o a malattie fisiche con l’esplosione di riti di guarigione, tutti molto remunerativi, con la trasformazione di Gesù nell’ennesimo idolo risolutore di tutti i propri mali. E’ in crisi il cristianesimo imperiale cattolico come quello di marca protestante o ortodosso, anche essi legati ai rispettivi imperi politici ed economici e nessuno riuscirà a ricostruirlo, anche se qualcuno ci sta disperatamente provando, perché i frutti che esso ha prodotto sono marci, malati e non possono in alcun modo essere riferiti al Gesù dei Vangeli. Il “cristianesimo imperiale” ha praticato la conversione forzata, trasformando la croce in spada; ha praticato le crociate, cioè l’odio contro altre religioni, la distruzione delle popolazioni del Sud e del Nord America, conquistate dagli europei cattolici e protestanti; ha praticato e giustificato lo schiavismo e l’antisemitismo; ha dato credito nel secolo scorso al fascismo e al nazismo; si è legato ai poteri imperiali dei rispettivi paesi o è stato esso stesso un potere economico e politico, benedicendo o promuovendo guerre, stermini, inquisizioni, cacce alle streghe e roghi. Il “cristianesimo imperiale” è quello che ha benedetto la bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki vedendo in esse l’avvento della fine del mondo, il ritorno di Gesù e l’avverarsi di profezie che trovano riscontro solo nella mente malata di chi le ha formulate, come facevano i qumraniti dei tempi di Gesù e che Gesù rifiutò.
Questo cristianesimo per sopravvivere ho dovuto basare la sua dottrina sui dogmi, su “verità imposte con la forza”, da accettare senza discutere, in nome di un potere divino dimostratosi fallace, pieno zeppo di frutti marci. “Guardatevi dai falsi profeti. Dai loro frutti li riconoscerete”, diceva Gesù. E il “cristianesimo imperiale” ha seminato la sua strada di cadaveri e di rovine fumanti.
La “chiesa imperiale” pesa come un macigno sul cristianesimo. Per restituire dignità al cristianesimo c’è bisogno di ripartire dalle ceneri di questa chiesa, di cui non è possibile conservare nulla.
Bisogno unità dei credenti
Ma la domanda sulla “vera chiesa” può essere anche letta dall’angolo visuale della “unità dei credenti”, quella unità di cui parla il Vangelo di Giovanni al capitolo 17 quando Gesù prega affinché “siano tutti uno” (17,21). A quella frase del Vangelo di Giovanni si fa riferimento in molti documenti ecumenici. Il Concilio Vaticano II ha dedicato alla questione della ricostruzione dell’unità dei cristiani un intero documento, denominato «Unitatis redintegratio». Giovanni Paolo II ha dedicato all’argomento una sua enciclica che prende il nome proprio dalla frase del Vangelo di Giovanni «Ut unum sint». Altro documento importante di quel Concilio è quello sul dialogo interreligioso «Nostra Aetate».
Il Vangelo di Giovanni è l’ultimo ad essere stato scritto attorno all’anno 100 d.c.. Nel suo testo si riflette la situazione di una comunità già in preda a profonde divisioni e che stava perdendo il senso originario del proprio stare insieme. Il “manifesto programmatico” delle comunità cristiane rappresentate dalle “beatitudini” era ormai alle spalle e la nuova generazione dei cristiani si avviava lungo la strada che porterà il cristianesimo a trasformarsi nell’arco di due secoli in religione di Stato, cioè a negare se stessa. Dello stesso periodo è il libro dell’Apocalisse che è un continuo appello ai cristiani a non lasciarsi avvinghiare dai tentacoli asfissianti dell’impero romano a cui si riferiscono tutte le immagini di potere, di sfruttamento, di oppressione di odio e violenza di cui è pieno quel testo largamente sconosciuto dalla maggioranza dei cristiani e altrettanto largamente bistrattato e usato nel peggior modo possibile.
Ma di quale unità abbiamo bisogno e quale unità hanno praticato finora le varie confessioni cristiane esistenti?
Unità nella diversità
Come è testimoniato dal contenuto stesso del Nuovo Testamento, il movimento di Gesù era un movimento plurale, non c’era un pensiero unico. Il termine ecclesia, come abbiamo visto, significava democrazia, pluralismo di vedute e possibilità che queste si confrontino e non si scomunichino a vicenda. Nel testo degli Atti è fra l’altro riportato il racconto di quello che viene chiamato come “Primo concilio di Gerusalemme”, dove si sono confrontate le diverse posizioni presenti nelle varie comunità e che si è concluso senza alcuna divisione fra le comunità, suggellate dalla stretta di mano fra Pietro e Paolo. Ben diversa sarà la realtà dei Concili realizzati dal 325 in poi, tutti finiti con scissioni e morti. Le comunità che hanno fatto propria la visione di Gesù hanno praticato il pluralismo, il “cristianesimo imperiale” ha praticato il “pensiero unico”, il dogmatismo più ferreo, fino a giungere alla definizione della “infallibilità del Papa” da parte del cattolicesimo o alla trasformazione della Bibbia da libro sapienziale a “Papa di carta” anche essa infallibile e da adorare. Entrambi questi eventi sono avvenuti nello stesso periodo, alla fine del 1800. Entrambi questi eventi negano il racconto delle tentazioni di Gesù riportato dai Vangeli.
Quale ecumenismo
Ma oltre alla crisi del “cristianesimo imperiale” oggi viviamo anche una profonda crisi dell’Ecumenismo che per molti è stato e continua ad essere una speranza per il cristianesimo. Il motivo è molto semplice. Mentre il Concilio Vaticano II aveva indicato un percorso che facesse vivere a tutti i cristiani e a tutte le chiese la questione dell’unità come «confessione di peccato» rispetto alla parola di Gesù e al suo Vangelo, c’è chi ha inteso il processo ecumenico come ricostruzione di una unica “chiesa imperiale”, tutta unita come ai tempi del primo millennio e dell’impero romano.
In realtà le chiese imperiali sono state separate organizzativamente ma unite nel perpetrare il male. Cattolici e protestanti hanno gareggiato nell’antisemitismo, nella difesa del razzismo, nella pratica della schiavitù, nella distruzione dei popoli conquistati dagli europei, nell’appoggio al nazismo e al fascismo. Anche oggi, per esempio, negli USA c’è una forte unità fra la maggioranza dei cattolici e dei protestanti nell’appoggio alla guerra infinita voluta dal presidente Bush, alla produzione di armamenti e al sostegno di un modo di vita, quello nord-americano, che da solo consuma tutte le risorse economiche e ambientali della terra, lasciando nella miserie il resto del mondo.
Non può essere questo l’ecumenismo che ridarà credibilità al cristianesimo. L’ecumenismo non può che essere un processo di liberazione dalla chiesa imperiale, il superamento di tutto il male che le chiese hanno fatto e che continuano a fare accettando pienamente il Vangelo di liberazione di Gesù.
Conclusione
Concludendo questa nostra riflessione ci sentiamo di dire che non c’è nessuna “vera chiesa”, comunque la si voglia denominare, da nessuna parte. Ci sono, in tutte le organizzazioni cristiane oggi esistenti, persone o movimenti che si rendono conto della insufficienza e del peccato nel quale vivono le proprie organizzazioni rispetto al Vangelo predicato da Gesù. Alcuni escono dalle organizzazioni nelle quali sono nati e spesso preferiscono rimanere senza alcuna appartenenza. Altri scelgono di rimanere nella propria chiesa e sviluppare in essa la propria iniziativa per il ripristino del Vangelo. Non ci sono ne ci sentiamo di dare indicazioni generali valide per tutti: ognuno si regoli come meglio sente in coscienza. L’importante è non rimanere passivi di fronte alla degenerazione della chiesa di cui si fa parte.
Ci sono elementi di “cristianesimo evangelico” sparsi un po’ dappertutto ma che ancora non riescono a diventare maggioranza attiva all’interno delle varie chiese. Ci sono fermenti importanti come la “Teologia della liberazione” che ha rappresentato e continua a rappresentare il frutto più positivo del cristianesimo degli ultimi 50 anni e che da un ventennio sta subendo l’ostracismo da parte di tutte le chiese imperiali esistenti.
Soprattutto bisogna abbandonare l’idea che esistano “vere chiese” in cui entrare e risolvere definitivamente tutti i propri problemi o quelli del cristianesimo che prima abbiamo accennato. C’è invece una sequela di Gesù da riprendere nelle proprie mani, per realizzare il suo sogno, “il regno di Dio”, uno spazio ed un tempo nel quale ogni lacrima sarà asciugata, ogni sofferenza sarà sanata e tutti potranno godere della giustizia, della pace, dell’amore della misericordia. E’ un sogno che aspetta anche il nostro impegno per diventare concreto.
Giovanni Sarubbi
[1] Paolo di Tarso e le origini cristiane, Giuseppe Barbaglio, Cittadella editrice pag. 41
* Il Dialogo, Giovedì, 18 settembre 2008 - Editoriale (ripresa parziale - per leggere tutto l’articolo, clicca sul rosso).
Il segretario al Tesoro Paulson chiede di contribuire al piano anti-crisi. Un comunicato dei Sette risponde positivamente
Intanto le due banche d’investimento superstiti, Morgan Stanley e Goldman Sachs, si trasformano in banche commerciali
Crisi finanziaria, gli Usa chiedono aiuto al G7
Bush: "Tutto il mondo ci guarda". Dalla Commissione Ue apprezzamento per il piano
WASHINGTON - Hank Paulson, il segretario al Tesoro americano, chiede ai paesi del G7 di contribuire al piano di aiuti messo a punto dall’amministrazione Usa per contrastare gli effetti della crisi finanziaria globale innescata dai mutui subprime. In effetti il piano di Washington prevede al momento un finanziamento di 700 milioni di dollari che, pur essendo gigantesco, secondo le stime degli esperti non è una cifra sufficiente a fronteggiare il problema. Così ora gli Usa, dopo aver provocato il disastro che sta sconvolgendo i mercati con la loro mancanza di regole e di controlli, chiamano anche gli altri paesi a pagare il conto.
La risposta non si è fatta attendere. Il G7 annuncia di aver mantenuto "una rafforzata e ravvicinata cooperazione" e si impegna a prendere iniziative per salvaguardare la stabilità dei mercati finanziari internazionali. E’ quanto si legge in un comunicato diffuso nel primo pomeriggio dal Tesoro Usa, al termine di una conference call tra i ministri delle Finanze e i governatori dei sette paesi, nel corso della quale è stata discussa la situazione dei mercati finanziari globali ed è stato espresso apprezzamento per le misure "straordinarie" prese dal governo Usa.
Il piano intanto sta seguendo il suo iter legislativo. Il presidente George W. Bush ha detto oggi che i negoziatori hanno fatto "buoni progressi" nella discussione con il Congresso e ha ammonito quest’ultimo a non usare la legge di emergenza per introdurvi "provvedimenti estranei" alla misura.
"Tutto il mondo ci sta osservando", ha detto il presidente americano, per vedere se l’America è in grado di stabilizzare i suoi mercati finanziari e prevenire ulteriori danni. Se il piano non passasse, ha poi sottolineato Bush, ci sarebbero "ampie conseguenze per Wall Street".
"Gli americani - ha sottolineato Bush in una nota - sono attenti a vedere se Democratici e Repubblicani, il Congresso e la Casa Bianca, possano riuscire a risolvere insieme questo problema con l’urgenza che richiede. Il mondo intero è in attesa di vedere se siamo in grado di agire velocemente per rafforzare i nostri mercati e prevenire danni ai nostri mercati del capitale, alle imprese, al nostro settore immobiliare e ai nostri sistemi pensionistici". Ovviamente, ha aggiunto, "ci saranno differenze sui dettagli e dovremo lavorare insieme su quelli. Quella è una parte comprensibile del processo, ma quello che non sarebbe comprensibile è se i membri del Congresso cercassero di usare questa emergenza legislativa per far passare provvedimenti non correlati o insistere su provvedimenti che minassero l’efficacia del piano stesso".
Sulla vicenda si è espressa anche la Commissione europea, che "accoglie favorevolmente l’azione intrapresa dal governo statunitense per stabilizzare i mercati finanziari", anche se per il momento non commenta i dettagli del piano varato dall’amministrazione Bush. "Stiamo ancora approfondendo i particolari e discutendone", ha spiegato il portavoce del presidente dell’esecutivo europeo Josè Manuel Barroso, rispondendo a chi gli chiedeva quale impatto potrebbe avere il piano Usa sulle banche europee.
Nel frattempo la Sec, l’Authority di controllo dei mercati, ha approvato la trasformazione in banche commerciali delle due banche d’investimento superstiti, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Ciò sancisce di fatto la fine del modello di banca di investimenti che domina Wall Street da oltre un ventennio. I due istituti erano le ultime banche di investimenti americane ancora in piedi, dopo il tracollo di Lehman Brothers e l’acquisizione da parte del tesoro Usa della Merrill Lynch. Le due banche potranno accogliere depositi, ottenendo maggiore accesso ai finanziamenti. In cambio saranno sottoposte a un più stretto controllo da parte della riserva federale.
Nel pomeriggio è stato anche diffuso l’annuncio che la Mitsubishi Ufj Financial, la prima banca giapponese, si appresta a rilevare fino al 20% della Morgan Stanley. Il mercato ha accolto la notizia dell’iniezione di capitali facendo volare le quotazioni del titolo in Borsa.
* la Repubblica, 22 settembre 2008