Elémire Zolla
L’avventura di uno gnostico che collezionava segreti
Ritratto di un grande cultore del sapere, vorace divoratore di libri e di esperienze, capace di articolare e connettere in una «mappa dell’immaginale» imprevedibili costellazioni di senso. Parlava del suo metodo come di un processo di indagine nel quale si ritrovano congiunti il protagonista, l’oggetto e il mezzo della conoscenza, lungo un percorso di trasformazione interiore Una giornata di convegno alla Casa delle Letterature di Roma ricorderà oggi [29 nov., fls] Elémire Zolla
di Emanuele Trevi *
Un saggio dogon, detentore dell’antichissima sapienza medica e metafisica delle genti che abitano l’attuale Mali, ammette alla sua conversazione un giovane etnologo francese, Marcel Griaule, rivelandogli almeno parte del suo segreto fardello di conoscenze. Con gesto analogo, all’altro capo del mondo e all’interno di tutt’altra civiltà, ma forse in ossequio alle stesse leggi arcane che regolano le simpatie e gli incontri tra gli uomini, Alce Nero - il più celebre narratore-sciamano tra i Pellerossa d’America - accoglie nella sua capanna un altro uomo bianco, John Neihardt, investendolo dei frutti di una millenaria arte di spiegare il mondo, tessendo il racconto delle sue origini.
Altri esempi, ma non poi moltissimi in età moderna, potrebbero aggiungersi a questi due celebri, ma essi bastano e avanzano a Elémire Zolla per dare l’avvio all’avventura di una rivista, «Conoscenza religiosa», da lui diretta e pubblicata dalla Nuova Italia di Firenze tra il 1969 e il 1983, anno in cui chiuse, per insormontabili problemi finanziari, toccato il traguardo di sessantasette fascicoli. Ogni tanto se ne trovava qualcuno sulle bancarelle, di quei fascicoli, e di qualunque cosa trattassero si cacciavano volentieri i pochi spiccioli necessari a possederli - almeno fin quando le bancarelle custodivano tesori nascosti e sorprese capaci di aprire nuove strade, e non calendari e gadget per turisti.
Proposte per un itinerario
Oggi Grazia Marchianò, che pochi mesi fa ha dato alle stampe per Rizzoli una bella biografia di Zolla (Il conoscitore di segreti. Una biografia intellettuale), ha raccolto tutti gli scritti del grande studioso e, appunto, «conoscitore di segreti» torinese apparsi su «Conoscenza religiosa» (Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, Edizioni di Storia e Letteratura, pp.830, euro 65,00).
Suddivisi in grandi aree tematiche, i testi di Zolla che compongono questo grosso e prezioso volume possono essere letti uno dietro l’altro, progressivamente immergendosi in un metodo e in un sapere tanto inimitabili quanto privi di quelle etichette accademiche buone solo ad addormentare e avvilire qualunque forma di ricerca e di entusiasmo conoscitivo. Oppure, come suggerisce la stessa curatrice, si potranno costruire degli itinerari personali, dettati dai propri interessi o semplicemente dall’istinto, che in questi casi va sempre ascoltato.
Personalmente, suggerirei ai lettori (e soprattutto ai più giovani) di indirizzarsi alla sezione Esoterismo e attaccare con la lettura del breve e fulminante Pinocchio e gli archetipi, per poi passare agli Usi dell’immaginazione (nella sezione dedicata a Teoria dell’immaginazione e simbologia). Ma un’altra accogliente porta d’accesso potrà essere fornita dalla formidabile arte del ritratto di Zolla, qui rappresentata da saggi tra cui John Ruskin come Goethe vittoriano, Grigori Rasputin, John Ronald Reuel Tolkien e Beowulf.
Una scorsa agli indici
Alla stolta arroganza dello specialista, che maschera col rigore disciplinare i suoi vuoti di sapere, Zolla oppone la pratica continua di una gaia scienza che fa vibrare i suoi contenuti (apparentemente inesauribili) a un segreto diapason che tutto connette, articola, assimila a impensate costellazioni di senso. Lo muove una voracità di libri ed esperienze rimasta proverbiale tra chi l’ha conosciuto di persona. Ma nello stesso tempo, quest’uomo dalla personalità così marcata sa bene che, in un progetto di «conoscenza» com’è il suo, non è né la fatica né l’eventuale gloria del singolo a contare. Ed ecco che gli indici di «Conoscenza religiosa», che occupano una ventina di pagine in fondo al volume, ne sono un complemento indispensabile.
Non è tanto il calibro degli studiosi e degli scrittori convocati da Zolla sui numeri monografici e su quelli miscellanei della rivista, a colpire. Certo, fa impressione, scorrendo questi indici, trovare affiancati i nomi di Henry Corbin e Cristina Campo, di Jorge Luis Borges e Marius Schneider, di Paul Radin e Attilio Bertolucci. Ma se l’importanza e il peso specifico di una rivista dipendesse meccanicamente dal prestigio dei suoi collaboratori, sarebbe difficile distinguere un’impresa come quella di «Conoscenza religiosa» da tante inutili produzioni patinate in cui in «grandi nomi» si ottengono semplicemente investendo un po’ di soldi.
Non è questo il caso: infatti, se la rivista diretta da Zolla è uno dei rari «miracoli segreti» della cultura italiana ancora tutto da scoprire, ciò si deve al fatto che, di numero in numero, quegli studiosi e quegli scrittori hanno collaborato a un’opera collettiva, dalle ambizioni latamente enciclopediche. Il benemerito editore che ne azzardasse oggi una ristampa anastatica (onore riservato a ben più inutili e discutibili testate) si troverebbe di fronte, per usare il lessico di Corbin, a una vera e propria mappa dell’immaginale.
Per smontare un pregiudizio
Ovviamente, l’immagine della totalità che Zolla e i suoi sodali intendono offrire alle poche centinaia di abbonati alla rivista, è arbitraria, e non può essere che tale. Quel che deve valere è l’avvertimento implicito nel celebre apologo di Borges: una mappa dell’Impero grande come l’Impero è una chimera inservibile, destinata a diventare carta straccia. Ogni forma di sapere onesta deve ammettere questo limite, e contare sull’unico compimento possibile, che consiste nell’estrema cura e attenzione dedicabile al particolare. E non è casuale che per certi collaboratori le pagine di «Conoscenza religiosa» abbiano rappresentato un laboratorio fondamentale, e l’occasione più propizia alla loro volontà di andare fino in fondo agli argomenti trattati.
Il caso più splendente e insieme commovente è quello di Cristina Campo, che oltre a poesie e traduzioni di grande livello sulla rivista aveva pubblicato le pagine in prosa che fanno da vertice a un inimitabile itinerario mistico, come il vertiginoso saggio «liturgico» intitolato Sensi soprannaturali, che oggi si legge nel suo volume titolato Gli imperdonabili.
E un altro esempio potrebbe essere costituito dal grande Marius Schneider, il coltissimo e geniale studioso dei rapporti tra teorie musicali e cosmogonie primitive, che collocò su «Conoscenza religiosa» moltissime delle sue sorprendenti scoperte. È venuto il momento di chiedersi, con mente sgombra di pregiudizi, quale sia il tipo di conoscenza perseguito da Zolla ed evocato fin dal titolo della sua rivista.
Nella cultura italiana, l’accusa di gnosticismo, a quanto pare, è rimasta grave come ai tempi dei Padri della Chiesa. Solo che, mentre quei primi polemisti cattolici hanno avuto almeno l’indiscutibile merito di tramandare, mentre le contestavano, le idee degli gnostici, nel lessico critico-giornalistico contemporaneo l’accusa di gnosticismo è priva di contenuti oggettivi, come un qualunque insulto, e può rivolgersi a molti e disparati bersagli. Nemmeno troppo paradossalmente, del resto, se si pensa appunto che già il termine evoca un’antica ruggine, sono spesso i polemisti e giornalisti cattolici, in questi tempi di richiamo orgoglioso e intollerante all’ortodossia, a sfoderare volentieri l’accusa di gnosticismo, molto più di quanto facciano gli intellettuali laici e di sinistra. Per loro, almeno, le scoperte di documenti antichissimi del cristianesimo, come quelli rinvenuti nel 1945 a Nag Hammadi, non costituiscono alcuna minaccia e non costringono a ripensare radicalmente articoli di fede mai sottoposti ad esame.
Fatto sta che lo gnostico, come ai tempi di Valentino e del Vangelo di verità, è e rimane una figura impopolare, un collettore di rancori. Cosa può replicare il seguace, o presunto seguace, di una forma di gnosi nel mondo di oggi? Indubbiamente, l’unico vero vantaggio di un autentico gnostico (quale fu Zolla) sta nel fatto che sa di cosa si parla, a differenza della quasi totalità dei suoi avversari. E dunque, a meno che non decida di rinchiudersi nella più sterile accezione dell’esoterismo, potrà formulare qualche definizione.
Se disdegna un facile proselitismo, scegliendosi una cerchia eletta di interlocutori, non per questo lo gnostico si avvale del segreto a scopo di seduzione o di sopraffazione, visto che né sedurre né sopraffare sono i suoi scopi. A proposito della gnosi, Zolla è limpido: «si tratta di un sapere nel quale chi conosce, ciò che è conosciuto e il mezzo di conoscenza sono congiunti». Gnostico da questo punto di vista è per esempio il mistico tedesco Angelo Silesio (che certo avrebbe respinto inorridito la definizione) quando, alla fine del suo poema, esorta se stesso e i suoi lettori, una volta stanchi di leggere, a diventare a loro volta «la scrittura e l’essere».
Questa gnosi, indubbiamente, è uno spazio metafisico - ma anche a proposito del particolare peso sematico che la nozione di «metafisica» ha per Zolla e i suoi collaboratori - bisogna chiarire di cosa si tratti per evitare genericità facilmente equivocabile.
Se è vero che nella gnosi convergono e si identificano chi conosce, ciò che è conosciuto e il mezzo di conoscenza, è anche vero che questa è tutt’altro che un’identità statica acquisita una volta per tutte. Alla staticità di questa idea si oppone, infatti, una nozione di metafisica come scienza delle trasformazioni interiori - dove «trasformarsi» è un sinonimo perfetto di «liberarsi».
È questo il senso di uno dei più bei saggi mai scritti da Zolla, il brevissimo e fulminante Pinocchio e gli archetipi. Dal legno del burattino alla capigliatura azzurra della fata, dall’asino al serpente, tutto il capolavoro di Collodi è saturo di archetipi. Ma l’aspetto più affascinante delle Avventure di un burattino non è la sua semplice armatura simbolica, ma l’esperienza interiore che permette a un lettore attento. Il libro infatti è anche pieno di «suggerimenti sottili» su come «attuare in sé» gli archetipi che vi si svelano.
È questo il punto essenziale, direi, dell’intera ermeneutica di Zolla, che alla statica di un testo, per usare una metafora abbastanza semplice, sovrappone sempre la sua essenziale dinamica. Non solo dunque la favola di Collodi ha un significato che corrisponde a un’individuabile costellazione di archetipi, ma insegna, a chi sappia coglierne i sottili suggerimenti, a «liberarsi da se stessi», a «rompere i propri limiti». Così come fanno, immersi in tutt’altra simbologia, i racconti celtici di Yeats. «Di operazioni interiori precise si tratta» - testimonia Zolla - «non di frasi graziose».
Alla fine della sua storia, in cui troppi interpreti prevenuti hanno voluto vedere il semplice affermarsi di una morale rassicurante e piccolo-borghese, il burattino diventato un bambino è, dice Zolla, un «liberato in vita». Che per uno gnostico, antico o moderno che sia, è l’unica liberazione davvero possibile, nulla essendo attuabile dopo la morte da parte di chi, ancora vivo, non ha saputo imboccare la strada interiore della sua trasformazione.
Una serie di accuse senza senso
Oso credere che Zolla sarebbe d’accordo con me se osservo, a sostegno della sua lettura di Collodi, che lo gnosticismo involontario dello scrittore toscano coincide perfettamente, in questo caso, con la più pura delle fonti gnostiche, il Vangelo di Filippo, dove a proposito della necessità di liberarsi da se stessi si afferma: «Se da vivi non ottengono la resurrezione, quando moriranno non otterranno nulla».
Che poi i «liberati in vita» siano e siano sempre stati (come probabilmente saranno) molto pochi, non è certo una colpa che si possa addossare a Zolla. È invece una evidenza alla quale non ci si può sottrarre e che coinvolge anche l’osservatore onesto, contraddistinto dal fatto di non sentirsi mai migliore degli altri. E dunque, quelle accuse di aristocraticismo, di settarismo, di «cultura di destra» che spesso aleggiano attorno a Zolla semplicemente non hanno senso.
Non è un caso che Zolla, pur riconoscendo la grandezza di un libro come Sulle scogliere di marmo, abbia sempre guardato con malcelato sospetto a Ernst Jünger, lui sì all’eterna ricerca di elette conventicole iniziatiche. Colpisce in Zolla, al contrario, la generosità con la quale ha sempre messo a disposizione i frutti del suo sapere, riflessa in una bibliografia imponente e labirintica. Leggendolo, può capitare molte volte di dissentire da questo o quel giudizio, ma al di là dei singoli contenuti del suo pensiero, ovviamente criticabili, l’aspetto più importante del suo lascito mi sembra consista in un metodo, praticabile anche a distanza o con diverse finalità. Zolla è stato uno dei sempre più rari cultori di un sapere come esperienza che ha radici fenomenologiche e più lontane premesse romantiche; perciò non cesserà mai di trovare forme adatte per trasmettersi e persone convinte della sua necessità.
Quel che nasce da un incontro
Torniamo a quella doppia immagine che apre il primo editoriale di «Conoscenza religiosa»: da una parte il saggio dogon Ogotemmêli che svela le sue cosmogonie a Griaule, e dall’altra Alce Nero che racconta le sue storie a Neihardt. Da quell’incontro nasceranno due libri tra i più importanti, due classici delle scienze umane: Dio d’acqua e Alce Nero parla. Ma se sono libri così grandi, è perché sono stati all’altezza dell’evento che li presuppone, e dei quali rappresentano un pallido riflesso: l’incontro tra diversi come trasmissione e iniziazione, insieme alla possibilità di metamorfosi che direttamente ne scaturisce. E dunque possibilità di gnosi, di metafisica. L’attività del «liberarsi da se stessi» comporta sia una grande capacità di solitudine, sia un’altrettanto spiccata capacità di relazione: e questa è solo una tra le tante feconde contraddizioni che scandiscono il ritmo dell’opera di Zolla e la storia della sua rivista «Conoscenza religiosa».
SCHEDA:
scheda
Incontri
Fra J.R. Tolkien e il tantrismo
Nato a Torino nel 1926, Elémire Zolla fu docente di letteratura inglese a Genova e poi di letteratura angloamericana a Roma, esplorando percorsi poco consueti della narrativa anglofona (fu tra l’altro fra coloro che diffusero l’opera di J.R.R. Tolkien in Italia). Studioso delle religioni e delle culture orientali, Zolla - morto a Montepulciano nel 2002 - approfondì la conoscenza di tradizioni dimenticate, dall’alchimia al tantrismo, al pensiero magico. Di lui e della raccolta dei suoi scritti apparsi su «Conoscenza religiosa» (nonché della biografia «Il conoscitore di segreti» a lui dedicata da Grazia Marchianò) si parlerà questo pomeriggio alla Casa delle Letterature di Roma nell’ambito della rassegna «Classici di domani» coordinata da Maria Ida Gaeta. Interverranno, oltre a Grazia Marchianò, Paolo Ricca, Silvia Ronchey e Emanuele Trevi
* il manifesto, 29.11.2006
ANTROPOLOGIA CULTURALE, LETTERATURA, E PENSIERO CRITICO. Lo sciamano che c’interroga...
ANDARE " A SCUOLA DALLO STREGONE" (Carlos Castaneda, 1968) e non capire un’acca ("h"). Alla luce delle dichiarazioni di Arnold Schwarzenegger, attore ed ex governatore repubblicano della California : “Dobbiamo cercare di guarire insieme dal dramma che si è svolto qualche giorno fa”, conclude nel suo videomessaggio, “e dobbiamo mettere la democrazia al primo posto", forse, è meglio rileggere il lavoro di Elémire Zolla, su "I letterati e lo sciamano. Il pellerossa come cattiva coscienza del bianco" e riprendere non solo l’indicazione di Orazio-Kant-Foucault del "Sàpere aude!" , ma anche la lezione di Jim Morrison: "Ognuno di noi ha un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare"; e, infine, per evitare qualche "rimorso d’incoscienza", rimeditare anche la "profezia" di McLuhan.
Ritorni
Zolla e il conflitto con «l’altro»
Il destino dei nativi americani e le barriere tra gli uomini
di Emanuele Trevi [2012] *
Al metodo, alle intenzioni, alle altissime ambizioni spirituali dell’opera di Elémire Zolla, scomparso dieci anni fa, un libro come I letterati e lo sciamano fornisce la migliore delle introduzioni. Ma è importante dissipare fin dall’inizio un equivoco, che potrebbe essere imputato allo stesso sottotitolo dell’opera, ovvero L’indiano nella letteratura americana dalle origini al 1988. Il fatto è che questo libro, pubblicato la prima volta nel 1969 e subito tradotto in inglese e francese, tutto è tranne che un ennesimo contributo a quel fin troppo rigoglioso genere di prosa accademica che si definisce «critica tematica».
Non che ci sia nulla di male, in sé e per sé, nella critica tematica, che come ogni tipo di scrittura annovera pochi autentici capolavori e una selva di tediose esercitazioni firmate dagli epigoni. Per praticarla, bisogna chiudersi in biblioteca, e rintracciare quello che appunto si definisce un «tema» (l’adulterio, o l’epopea napoleonica, o, nel nostro caso, la vita e il destino dei pellerossa americani) in un certo numero di opere letterarie, somme o minori che siano. Se ne ricava, nel migliore dei casi, qualcosa come un frammento di tradizione, o la storia di un fantasma, di un’ossessione culturale. Tutt’altra è la posta in gioco, però, nelle ricerche di Zolla, nelle quali il sapere non è mai il fine, ma lo strumento di un’autentica gnosi.
A differenza di quanto pensano certi male informati rappresentanti del laicismo, ma anche del cattolicesimo contemporanei, la gnosi e lo gnosticismo non sono delle parolacce. Si può parlare di un processo di conoscenza gnostico quando il soggetto, l’oggetto, e il metodo impiegato coincidono, al termine di una lunga disciplina interiore, foriera di metamorfosi e illuminazioni imprevedibili. La storia delle scienze esatte, a ben vedere, contiene altrettanti esempi di gnosi di quella del misticismo o dell’alchimia.
Per chi muove alla ricerca della verità da tale ardua prospettiva, la distinzione dei saperi è del tutto irrilevante. Semmai, dovrà fare i conti con un’infinità di fallimenti, e una rarità dei materiali davvero preziosi, che un normale storico della cultura nemmeno sospetta.
Ecco perché quella che Zolla racconta in I letterati e lo sciamano è, in massima parte, la cronaca di una disfatta intellettuale, che si intona perfettamente al genocidio perpetrato dagli uomini bianchi ai danni dei nativi americani. Fin dai primi esploratori, l’incontro con i cosiddetti «selvaggi» produce un immenso processo di mistificazione e banalizzazione. «Ridicoli quando amici, detestabili quando ostili» sono gli indiani agli occhi dei conquistatori, secondo l’efficace, terribile sintesi di Zolla. E il bello è che, mentre questa lunghissima vicenda si svolge, la storia ideologica e culturale dell’Occidente registra una vertiginosa serie di mutamenti ideologici, metamorfosi della sensibilità, nascite di nuovi saperi e nuovi metodi di ricerca.
Ma la diagnosi rimane pessima, e mentre la civiltà indiana sparisce a colpi di massacri, epidemie e deportazioni, le generazioni che si susseguono continuano a mancare l’incontro con le inestimabili ricchezze religiose e filosofiche che i vinti non cessano, con orgoglio e disperazione, di tramandarsi. Fino a che - il caso è tutt’altro che infrequente - intere sapienze millenarie non ricadono sulle spalle di un solo testimone, un vecchio sdentato che, scampato casualmente alla distruzione della sua tribù, continua a mormorare le sue nenie incomprensibili senza più un allievo capace di intenderne il potere e farle proprie. Nemmeno la nascita dell’etnologia scientifica sarà veramente capace di rompere definitivamente questa specie di infausto sortilegio. Zolla non smette di ripeterlo a ogni snodo cruciale del suo libro: non solo il razzismo, ma anche la «benevolenza» e la «fraternità sentimentale» sono false strade per accostarsi all’assoluta alterità, al nobilissimo universo psichico dell’indiano. Serve ben altro: ciò che Dante definiva «un intelletto d’amore». Questa disposizione d’animo è un vero miracolo, capace di aprire porte che sembravano per sempre serrate.
Alla vana curiosità, all’accumulo inutile delle notizie, alla profonda ignoranza di ogni pregiudizio, l’intelletto d’amore sostituisce un comprendere basato sul rispetto, sulla capacità di identificazione, sul sentimento della profonda unicità della vita umana nel suo cammino verso la consapevolezza. Ed è così che la storia raccontata da Zolla, pur così cupa nella sua sostanza, può soffermarsi sulle eccezioni, dando il giusto rilievo a tutte quelle imprese di conoscenza in cui il singolo sembra capace di riscattare il peso dell’ottusità collettiva, di imprimere una nuova direzione all’inerzia del risaputo e del mal compreso. Di questi eroi solitari Zolla schizza dei penetranti, indimenticabili ritratti.
Come quello di Mary Austin (1868-1934), vissuta a lungo vicina agli indigeni della California meridionale, che nel 1923 pubblicò un saggio sul Ritmo americano, pieno di intuizioni rivelatrici sul potere psichico e terapeutico della prosodia poetica. O quello di John Neihardt, mediocre scrittore in proprio, che però ebbe la fortuna di incontrare quel grande sciamano e sublime narratore chiamato Alce Nero, trascrivendone le memorie in un libro destinato a una fama imperitura.
E non manca un bilancio attento ed equanime dei libri di Carlos Castaneda, prima venerato santone della controcultura, e poi sottoposto a un’odiosa e ingiusta demolizione accademica. Verrebbe voglia, chiuso il libro, di sapere cosa avrebbe scritto Zolla di alcune opere americane più recenti nelle quali i rapporti tra l’uomo bianco e l’indiano vengono raccontati con nuove tecniche e punti di vista, da Mason & Dixon di Pynchon al ciclo dei Sette sogni di William Vollmann. Ma i grandi libri non hanno bisogno di aggiornamenti; per meglio dire, sono i loro lettori ad aggiornarli. E tutto da meditare, e da discutere con libertà e coraggio, è il più duro degli ammonimenti di Zolla, sulla scomoda e imbarazzante somiglianza tra il più turpe razzismo e i nobili e vaghi dogmi dell’ottimismo progressista e della correctness . È una sfida alla mediocrità, questa, che ancora aspetta menti capaci di raccoglierla e rilanciarla.
Per celebrare la ricorrenza
La biografia e l’opera omnia
Dieci anni esatti dopo la scomparsa del pensatore, l’editore Marsilio ha dato inizio alla ripubblicazione dell’opera omnia di Elémire Zolla, con la curatela di Grazia Marchianò. Tra i titoli in libreria, oltre a I letterati e lo sciamano. L’indiano nella letteratura americana dalle origini al 1988 (pp. 447, € 24), anche Uscite dal mondo (pp. 464, € 24) e inoltre Il conoscitore di segreti (pp. 544, € 24), una ampia «biografia intellettuale» che la stessa curatrice Marchianò ha dedicato a Zolla: in questo volume, in particolare, trovano posto sia una sezione biografica, sia una seconda parte, antologica, che raccoglie una selezione ad hoc di testi zolliani.
*
"LA MACCHINA DELL’ESPERIENZA" NELLE "STORIE NATURALI" DI PRIMO LEVI...
La tentazione del monito: etica e metaetica in Primo Levi
di Jacopo Berti *
"Trattamento di quiescenza è l’ultimo di sei racconti tecnologici che hanno per protagonista il signor Simpson, rappresentante della NATCA, multinazionale americana high-tech con filiale italiana a Olgiate Comasco. [...] è letterariamente più curato, presenta sperimentazioni tematiche e formali. Simpson, raggiunto ormai il pensionamento, riceve in usufrutto dalla NATCA un Torec, un Total Recorder.
L’apparecchio è una geniale anticipazione della realtà virtuale 30 e consiste in una serie di nastri e di un casco che permette di sperimentare
Nel corso del racconto, Simpson diviene completamente asservito alla macchina, e passa dalle due ore necessarie a gustare “Paestum e Metaponto visti da Quasimodo” alle dieci, diciotto, venti ore trascorse ad immedesimarsi in episodi di violenza, di malattia mentale, di morte. Anche in questo caso, nel momento del monito, il richiamo è al contesto biblico, all’Ecclesiaste e alla figura di Salomone:
Come Trattamento di quiescenza chiude Storie naturali [...]"
30 Cfr. a tal proposito Elémire Zolla, Un miracolo di Primo Levi: profeta della realtà virtuale, in “Corriere della sera”, 1 giugno 1993.
* Jacopo Berti, La tentazione del monito: etica e metaetica in Primo Levi, Etica & Politica / Ethics & Politics, XVI, 2015, 1, pp.62-75, PP. 72-73.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PRIMO LEVI. --- STORIE NATURALI: "LA MACCHINA DELL’ESPERIENZA" (E LA CRITICA AL PRINCIPIO DI "CARITÀ") DI ROBERT NOZICK.
Federico La Sala
IL LIBERARSI IN VITA e IL RI-NASCERE: LA "ZOLLA", LA "FOLLA", E IL "NATALE"...*
RICONSIDERANDO LA NOTA DI ADRIANO BARRA ("Le parole e le cose", 20.10.2015), E RICORDANDO un altro aforisma di FLAIANO (“L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”), SUL FILO DELLA "PAROLA" DI GIUSEPPE UNGARETTI,
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.
RICORDO per un ulteriore approfondimento sul percorso di Elémire Zolla, "LE POTENZE DELL’ANIMA. Anatomia dell’uomo spirituale" (introduzione e cura di Grazia Marchianò) e , mi sia consentito, alcuni appunti sul lavoro di Dante, per uscire dal mondo di un antropologico preistorico "letargo" e ri-nascere:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
*
CON DANTE, FUORI DAL LETARGO...
IL "SACCO DEL CLOWN" E UNA TERRA SENZA GRAZIA. In memoria di Elémire Zolla ...
PER CHIAREZZA, sul tema del "sacco del clown" o, diversamente, del "cerchio" del circo di "Moira [Orphei]" (Parmenide), sperando di fare cosa gradita, segnalo questo breve testo su "LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE" (cfr.: "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma, 1991, pp. 162-189). E insieme, e ancora, gli appunti su "RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE".
Federico La Sala
«La cattedrale sommersa» di Silvia Ronchey (Rizzoli)
Il sacro fa perdere le sue tracce e riappare nello sguardo che ti guarda
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 11.11.2017)
Qual è il libro che ti porteresti in un’isola deserta? A questa domanda, frequente nelle interviste, pare che Silvia Ronchey abbia risposto: «I 161 volumi di Jacques Paul Migne nei quali è raccolta tutta la patristica greca». Risposta provocatoria, se vogliamo, tuttavia assolutamente comprensibile per una bizantinista che sa come in quelle pagine scritte nella solitudine abbacinante dei deserti o nelle celle nascoste dei conventi, in Licia e in Siria, a Cesarea e Alessandria, non è testimoniata soltanto la gigantesca lotta condotta dai Padri della Chiesa, nei primi secoli dopo la morte del Salvatore, per interpretare e difendere il messaggio cristiano, ma sono riflessi il pensiero e la cultura greca, il mondo bizantino, il pensiero e le religioni del vicino Oriente. Del resto lei stessa - curiosa di tutto, ansiosa di confrontare le tradizioni con le tradizioni, la storia con la storia, il pensiero con il pensiero, e naturalmente il passato con il presente - è una studiosa irrequieta che non ama fermarsi nel suo orto.
Questo, da bizantinista quale è, le permette di spaziare nelle pagine del Cantico dei cantici come in quelle dei mistici islamici, di incrociare Gesù e Buddha, Dioniso e Agostino, Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena, Bisanzio e l’Occidente, le eresie e i vangeli gnostici, l’iconoclastia e Florenskij, le icone e Andy Warhol, senza dimenticare Elémire Zolla e Montale. E il suo nuovo libro, La cattedrale sommersa (Rizzoli) - che giustamente, avendo l’immagine proustiana della cattedrale nel titolo, ha per sottotitolo Alla ricerca del sacro perduto - ne è la manifestazione immediata e affascinante.
Trasportato dalla medesima irrequietezza e dalla medesima curiosità di chi lo ha scritto, il lettore attraversa «la bellezza quasi intollerabile del Sinai» fino al convento di Santa Caterina, scoprendo come questa bellezza nasca dalla sacralità dei luoghi e, dunque, come il creato sia una «soglia di comunicazione tra umano e divino»; penetra nei sotterranei del culto di Mithra, «il dio emerso dalla profonda Persia mazdèa, che a sua volta lo importava dall’India vedica» per scoprire, insieme alle coincidenze delle date col calendario cristiano, che la forza del mitraismo consisteva non solo nella sopravvivenza dell’anima, ma nella resurrezione della carne; dalle mura di Costantinopoli, la città sacra alla dea Artemide che recava sulla fronte il segno della falce, contempla la falce di luna che il 24 maggio 1453, 5 notti prima che la città fosse conquistata dai turchi, apparve nell’aria «senza nubi, limpida e pura come il cristallo», e la confronta con la falce di luna che Giovanni, nel dodicesimo capitolo della Apocalissi pone sotto i piedi della Madonna; partecipa al rapimento dionisiaco, a quell’infrangersi improvviso delle leggi e delle abitudini che regolano la nostra vita, in cui si mescolano, nel furore, conscio e inconscio, dualità e cosmo; a Siena, nella cosiddetta Cappella della Testa della basilica di San Domenico, osserva la testa mummificata di Santa Caterina e capisce come siano vere le parole di Michel de Certeau, quando descrive il mistico come la persona che vuole «offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità».
Il tema del «confine», della soglia sottile, invalicabile, non rappresentabile - eppure rappresentabile - fra l’umano e il divino, è il filo conduttore presente in quasi tutti i capitoli de La cattedrale sommersa . Più che altrove, Silvia Ronchey lo approfondisce nel breve saggio contenuto nel volume e intitolato A mia immagine , nel quale parla del volto, e nel capitolo dedicato alle icone. Ogni rappresentazione del volto che voglia essere figurativa - dice in sintesi, e con una bellissima intuizione, la Ronchey - è falsa: perché «l’immagine vera non è quella che si guarda ma quella da cui si è guardati, il cui sguardo ci attrae verso un’altra dimensione, ci avvicina all’enigma dell’essere», insomma ci trasporta oltre. Come fanno le icone, che ci guardano, e guardandoci in quella fissità irreale, lentamente ci fanno comprendere come la linea del confine è all’interno di noi, nella nostra psiche, dove il visibile si alterna all’invisibile, la chiarezza all’enigma. E come - vorremmo aggiungere - accade nei Vangeli. Nei quali Gesù parla per enigmi. E dove non esiste neppure una riga, neppure una parola spesa per descrivere il suo volto.
A partire da un saggio di Zolla riflessioni su un mito antichissimo che resiste ancora oggi
Dioniso il ritorno del dio che in realtà non è mai morto
La nostra società si è riappropriata della divinità dell’uguaglianza in termini non più esoterici ma espliciti
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 31.08.2016)
Quando il ragazzo esce all’alba dalla discoteca, stordito dalle droghe e dall’alcol, e con la luce del mattino lo assale lo stupore dell’infanzia; quando nella campagna greca il contadino, assaggiato il vino nuovo, si alza e accenna tra le viti la lenta danza in tondo; quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando fra lo squittìo delle scimmie il suono del tabla annuncia l’inizio di un rave sulla spiaggia di Goa; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità - allora, e molte altre volte, Dioniso si manifesta.
Dioniso, il dio che Ovidio chiamava Puer Aeternus, si appropria della nostra vita all’improvviso, schiacciando le leggi e le abitudini, infrangendo l’identità personale, spezzando le dualità - conscio-inconscio, persona-cosmo -, come spiega Elémire Zolla in uno dei suoi scritti più belli, Dioniso errante, ora integralmente leggibile nel sesto volume dell’opera omnia, curata con abnegazione e sapienza da Grazia Marchianò (Marsilio, pagg. 622, 24 euro).
Il dio dell’ebbrezza, del confondersi dell’anima, come scandisce il coro delle Baccanti di Euripide, il dio divorato, smembrato come i grappoli della vite, il dio plurale e “produttore di tutte le pluralità”, come lo definì Proclo nel commento al Timeo di Platone, il dio dai molti nomi (tra i più noti Bacco, ma anche Iacco, “ululante” nei misteri eleusini, Libero, “liberatore”, senza contare le ipòstasi stellari che lo innalzano al massimo fulgore nella giostra del cielo eternando le sue storie mitiche nel ritorno degli astri), il dio della maschera e del fallo, dai volti maschili e femminili oltreché umani e ferini (infante, uomo barbuto, dama velata, capro, asino, pantera), fu, come racconta Nonno di Panopoli, un mescolatore di popoli, un liberatore di oppressi ma soprattutto un affrancatore delle donne: dalle contadine che per accorrere al richiamo del ditirambo abbandonavano la segregazione domestica alle matrone degli affreschi dionisiaci della Villa dei Misteri a Pompei.
In questa emergenza matriarcale “più civile di quella delle Amazzoni”, come illustrò Bachofen, Dioniso fece della donna la guida del tìaso e la depositaria dei suoi più profondi stati estatici. Le mènadi, a imitazione del movimento vorticoso impresso al tirso, roteavano il capo come dervisci, tenendolo inclinato di fianco come avrebbero fatto nelle loro estasi le mistiche cristiane, da Caterina a Teresa.
Dai soldati della spedizione di Alessandro in India Dioniso fu assimilato, non a torto, a Shiva, «dio dell’hashish, dell’impeto del toro e del fallo, del fremito che scuote chi è solo nella foresta di notte ». E infatti Novalis lo invoca nell’Inno alla notte: «Dal fascio di papaveri / in dolce ebbrezza / fai crescere le pesanti ali del cuore ». Ma era insediato in Grecia fin dall’età minoica, e anche se verso l’India il suo carro trainato da tigri portò Arianna dall’isola di Nasso dov’era stata abbandonata da Teseo (o forse lo aveva abbandonato lei stessa, rapita in un sonno che già preludeva al ratto dionisiaco), a Creta, patria del labirinto, i riti, descritti in seguito da Filone di Alessandria, portavano gli adepti «a uscire da sé e scorgere l’oggetto del desiderio ».
Il grande dio Pan è morto, annunciava Plutarco quando il politeismo dovette cedere il passo al monoteismo dell’eresia giudaica che presto avrebbe dominato il mondo conosciuto. Ma non accadde lo stesso, non proprio, a Dioniso. Il nuovo dio dei cristiani aveva e via via avrebbe assunto tratti del “dio comune”, come lo aveva chiamato Hölderlin.
Al termine della polimorfa vicenda mitologica che lo avvince, Dioniso scese nell’Ade e ne tornò, «con la morte sconfiggendo la morte», come recita l’inno pasquale dell’ortodossia, «sfilando alla morte il suo pungiglione», come scrisse san Paolo: la resurrezione è “il contrassegno di Dioniso”, che non solo la compì (tre volte), ma salì in cielo e sedette alla destra del Padre (Zeus). Fiumi di scrittura sono stati dedicati al dionisismo cristiano, dagli antichi padri della chiesa ai moderni storici delle religioni, provocati da Schelling, che esplicitamente assimilerà Dioniso a Cristo.
Se Gesù è in Giovanni 15, 1-2 “la vera vite” e gli apostoli devono attaccarglisi come i grappoli al tralcio, se il miracolo di Cana è un tipico prodigio dionisiaco (il più noto precedente in Pausania), il sacrificio dell’uomo-vite nell’eucarestia (***) ricalca la tradizione della mitografia dionisiaca (dove il vino è già chiamato “il dolce sangue” e il potere di trasmutare in pane e in vino è già concesso da Dioniso, stando alle Metamorfosi di Ovidio, alle sue fedeli). Se il calendario cristiano si appropriò di date sacre anche a Dioniso, come il 6 gennaio, la Pentecoste ha, sottolinea Zolla, caratteri di festa dionisiaca.
Come scrisse Gregorio di Nazianzo, uno dei massimi teologi bizantini: «Ecco, Gesù nuovamente è qui e insieme a lui è qui un mistero. Ma non è più un mistero dell’ebbrezza, bensì un mistero che proviene dall’alto». Forse per questo fu attribuito a lui uno dei più plateali prodotti del sincretismo bizantino, il Christus patiens, di età più probabilmente posticonoclasta, dove l’uccisione di Gesù è accostata a quella di Penteo da parte delle baccanti. Seguendo le suggestioni di studiosi neogreci, Zolla congettura, forse giocosamente, la persistenza a Bisanzio, e ancora durante la turcocrazia, di tìasi o confraternite segrete dionisiache, contigue a eresie dualiste cristiane i cui adepti portavano tatuata in fronte l’antica foglia di edera.
Al di là delle sopravvivenze, la sostanza della percezione cristiana era antitetica a quella dionisiaca. Con la sua visione antropocentrica e la sua stretta ragion pratica, come avrebbe compreso Nietzsche, il cristianesimo negò il dionisismo, il suo «sprofondamento nella vita animale e vegetale per non dire nella sostanza minerale, la libertà con tutti i suoi rischi». L’escatologia cristiana soppresse il tempo ciclico, sospese l’«abrogazione dionisiaca della coscienza storica», per introdurre a una promessa di giudizio finale e progresso lineare, a una liberazione oltre la vita.
Il grande dio Pan era morto, ma Dioniso, clandestino e represso dalla morale cristiana, fu reimportato dai neoplatonici di Bisanzio e risorse nel Rinascimento anzitutto fiorentino, alla prima corte dei Medici, quando - come intuito da Pound - i bizantini dettavano e Ficino descriveva con precisione «l’estasi e l’abbandono di menti sgombre, che miracolosamente trasformate superano i limiti dell’intelligenza e si inebriano di un’incommensurabile gioia».
Inoculato nel Quattrocento platonico, Dioniso filtrò nella cultura visiva europea, abitò nel nuovo genere pittorico dei baccanali (Bellini e Correggio, Caravaggio e Tiziano), nel più esoterico mistero che pervase i quadri di Leonardo; riemerse nella letteratura dei romantici tedeschi e dei dionisiaci inglesi e francesi (Coleridge e De Quincey oltre a Baudelaire), da cui saranno influenzati, fra gli altri, gli studi di Bachofen, Rohde, Frazer, Otto, Kerenyi.
È Dioniso che nel Novecento ha ispirato la rivoluzione psichedelica, forse quella sessuale, certo la liberazione delle donne, Arianne rapite via dai vincoli borghesi sul suo carro guidato da tigri. La corona della razionalità, gettata in alto, si è impressa come il diadema di Arianna nel cielo notturno della psiche quando l’Es, con la psicoanalisi, ha riconquistato il suo dominio. Dioniso ci ha riconvocato in India, ci ha riproposto la consapevolezza dell’impermanenza, ci ha reinsegnato il mondo animale e la natura vegetale.
Non è solo il carattere orgiastico che nel dissolversi delle religioni esclusive e del folklore tradizionale hanno assunto la sessualità o i riti della vita associata. Non è solo il ritmo del reggae, lo spirito della musica come lo chiamava Nietzsche, che fa da colonna sonora alla tragedia del massacro globale, nel riacutizzarsi della ferocia delle guerre del mondo. È che la nostra società, nella ruota dell’eterno ritorno, si è riappropriata del dio dell’uguaglianza universale in termini non più esoterici ma espliciti e di massa. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal). Una nota di Pietro Citati sulle "Lettere da Torino"
L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche
Tutti pazzi per Delfi, il ritorno degli oracoli
Da Eleusi a Dioniso, da Orfeo alla Sfinge in libreria è boom di saggi che indagano religioni e culti iniziatici dell’antica Grecia. E che parlano soprattutto di noi
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 02.03.2016)
Quando san Paolo, nel tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, parla dell’iniziazione ai misteri cristiani, descrive così la condizione umana: «Ora vediamo attraverso lo specchio di un enigma», “per speculum in aenigmate”. «Poi, vedremo faccia a faccia». Lewis Carroll usò l’espressione «attraverso lo specchio» (Through the Looking Glass) come titolo del secondo volume di Alice nel paese delle meraviglie, che è un trattato sui misteri dell’antichità (quelli eleusini per esempio: pensiamo al neonato che si trasforma in maiale nella cucina della Duchessa), anche se viene considerato un libro “per piccoli”. Come del resto altri libri simili della seconda metà dell’Ottocento, tra cui il Pinocchio di Collodi, a sua volta ispirato da una precedente narrazione dall’apparenza fiabesca, in realtà iniziatica, le Metamorfosi di Apuleio.
Non è un caso. “Piccolo” era nel mondo ellenico il nome in codice del “non iniziato”, di chi attendeva l’iniziazione: «Quando ero piccolo (parvulus) parlavo da piccolo, conoscevo da piccolo, ragionavo da piccolo. Ma ora che sono adulto (vir), ciò che era da piccoli l’ho eliminato ». Anche la parola “enigma”, che compare subito dopo, è una parola spia. Era “per enigmi” che la parte più profonda e più mistica, “misterica” appunto, della religione greca veniva comunicata a chi attendeva l’iniziazione.
Per enigmi parlava la Pizia a Delfi. Il santuario di Apollo, attivo almeno fin dall’VIII secolo a.C., come spiega Michael Scott (Delfi. Il centro del mondo antico, Laterza, pagg. 368, euro 25), era l’omphalos, il cordone ombelicale attraverso cui il profondo viaggio mistico della religione ellenica teneva collegato il solare mondo greco all’oscuro grembo della tradizione misterica ancestrale.
Physis kryptesthai philei, «la natura ama nascondersi», ammoniva Eraclito; e aggiungeva: «L’oracolo non dice né nasconde: dà segni» (semainei), come riferisce nel De Pythiae oraculis Plutarco.
«Guarda, ritornano, uno per uno, / con passo incerto, solo a metà svegli», scriveva Ezra Pound in quella magnifica poesia intitolata Ritorno. Oggi gli dèi della Grecia ritornano in un corteo di libri sui culti e i misteri del loro antico regno. Oggi, nel revival della storia delle religioni, ritorna l’interesse per il paganesimo mistico e profondo, come nel vecchio Rinascimento, ora anche nel nuovo.
Se il solare Apollo suggeriva la sua conoscenza attraverso un tenebroso intreccio di parole, da districare a costo della stessa vita, anche Gesù nel Vangelo - spiega Maurizio Bettini ( Il grande racconto dei miti classici, Il Mulino, pagg. 503, euro 48) - formula enigmi quando recita le sue parabole. Come quella del seminatore, che i discepoli non comprendono: «Se non capite il significato di questa parabola, come farete a capire tutte le altre?», li rimprovera Gesù. «Il seminatore semina la parola»: solo una piccola parte del seme non muore. Lo sapeva André Gide.
È la risoluzione dell’enigma per eccellenza, quello della Sfinge, creato da un uomo, rivolto a un altro uomo, che ha per soluzione l’uomo - Simone Beta, Il labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica (Einaudi, pagg. 347, euro 32) - a gettare Edipo nella condizione esistenziale ancora più fittamente misterica che lo rende il protagonista del mito greco più famoso al giorno d’oggi, l’alias di ciascuno di noi, la maschera primaria del gran teatro del mito su cui si proietta il mistero universale dell’inconscio.
«Conosci te stesso», recitava la scritta sul frontone del tempio di Delfi, e per quante interpretazioni ne siano state date, da Platone all’Oracolo di Matrix, quasi nessuno ha in seguito dubitato che il mistero del mondo giaccia nel profondo dell’io, in sotterranei della coscienza simili all’adyton dov’era conservata, sotto la pavimentazione marmorea del tempio, la sacra pietra che indicava il centro del mondo.
Plutarco, sacerdote delfico, forse il più grande conoscitore della religione ellenica, in un altro dei suoi dialoghi pitici fa discutere gli interlocutori sul significato dell’altrettanto famosa e di Delfi, «offerta sacra al dio» inscritta tra le colonne frontali del tempio. Le interpretazioni dei dialoganti sono ancora più misteriose, forse, della scritta. La più amabile è quella di Nicandro, secondo cui sta per ei, la particella interrogativa “se”.
Come testimoniato da Petronio e ricordato da Eliot in exergo alla Terra desolata, la Sibilla cumana, alla domanda «Cosa vuoi?», rispondeva: «Voglio morire ». La “morte al mondo”, stato di trance per la sacerdotessa, era anche condizione perché il fedele potesse fruire dell’insegnamento segreto dell’oracolo: «L’anima è nell’ignoranza tranne quando si trova nel processo di morte. Perciò anche il verbo “morire” e il verbo “essere iniziato” si somigliano», recita un frammento di Plutarco sui Grandi Misteri eleusini.
Morte e vita unite insieme in una sola esperienza iniziatica, l’epopteia, in cui l’immortalità coincide con l’espansione della coscienza che muore al principio d’individuazione: è il segreto, o almeno uno dei segreti, dell’iniziazione più impenetrabile del mondo antico, quella di Eleusi, dove la morte non è peraltro solo condizione metaforica di uscita dall’io, ma è anche attuata materialmente nel sacrificio umano che occhieggia dalla sterminata profusione di inquietanti quanto reticenti testimonianze pagane e cristiane (ora integralmente raccolte nell’antologia Eleusis e Orfismo. I Misteri e la tradizione iniziatica greca, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, pagg. 639, euro 14) su «quelle peripezie terribili, brividi, tremori, sudore e sbigottimento » che nell’immenso telesterion di Demetra, non lontano dalla Pietra Senzasorriso, il 20 del mese di Boedromione, al termine di un’interminabile processione orgiastica, metteva in scena la discesa agli inferi di Persefone e la sua rinascita nel ciclo primaverile della terra.
L’immagine della Madre e della Figlia, la spiga mietuta dallo ierofante, la melograna rosso sangue, il sacro accoppiamento, le altre “cose indicibili”, la Grande Luce che tutti descrivono lampeggiare “in alternanza” dal sottomondo di tenebra: il dramma sacro eleusino, residuo di riti dell’antica religione femminile - meno quella di Iside, di cui ci parlano Apuleio e Collodi, che quella dell’antica Dea Bianca di Graves - non dava al miste “un insegnamento”, ma, come spiega Aristotele, “un’impronta”, un marchio: «L’iniziato non deve apprendere qualcosa ma raggiungere una certa condizione psichica», disporsi a uno stato di coscienza alternativo, altrimenti irraggiungibile e da allora irreversibile, cui non necessariamente concorreva il kykeon, la bevanda sacra dei misteri, forse dotata di proprietà psicotrope, ma che certamente, come esplicitato anche nelle lamine orfiche, abbatteva la strutturazione dell’io in una promessa di immortalità “felice e beatissima” e tanto più dolce in quanto già attuata nella morte- in-vita.
«Nella religione degli antichi greci si manifesta la facoltà di vedere il mondo nella luce del divino. E le forme nelle quali questo mondo si è manifestato divinamente ai greci non dimostrano forse la loro verità nel fatto che vivono ancora oggi? », scriveva nel 1929 Walter Otto (Gli dèi della Grecia, ripubblicato da Adelphi, pagg. 343, euro 42).
Anche dopo la fine del paganesimo, anche se, come denunciò Plutarco, «il grande Dio Pan è morto», il mito greco è rimasto vivo. Se qualcosa è cambiata, non è stata certo la psiche umana, ma la la sua capacità di collegarsi a quel “tutto” con cui secondo san Clemente di Alessandria i Grandi Misteri di Eleusi avevano a che fare; a quella che i neoplatonici avrebbero chiamato l’anima del mondo: la sua “religione”, da “religo”, legare.
Gli dèi dell’antichità sono scomparsi solo in apparenza. Si sono inabissati nel profondo dell’inconscio collettivo, per riaffiorarne continuamente: come sintomi, ha intuito Jung, perché il mito e il sintomo sono la stessa cosa, perché «se vogliamo studiare la sofferenza umana», come ha detto James Hillman, «dobbiamo studiare il mito».
Mistico laico, antimoderno profetico eretico liberale, utopista razionale la ripubblicazione di un genio isolato
Il ritorno di Zolla l’intellettuale uscito dal mondo
Diceva: “Per il potente la conoscenza è oggetto di disprezzo o di curiosità o di ornamento: solo la vittima ne ha fame e bisogno”
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 18.12.2015)
Chissà se qualcuno ricorda cosa voleva dire per un adolescente degli anni 70 farsi vedere in giro con in mano un libro di Elémire Zolla o, peggio, con uno dei sottili fascicoli dalla copertina viola della rivista “Conoscenza religiosa”, che Zolla aveva fondato nel 1969 per riunire in un’ideale, composita assemblea intellettuali come Schneider e Corbin, Borges e Pessoa, Florenskij e Heschel, Scholem e Duncan Derrett, Djuna Barnes e Cristina Campo. Nomi che poi la cultura dominante ha accolto e celebrato ma che a quei tempi erano controversi quando non maledetti. E Zolla, antifascista da sempre al contrario di molti suoi detrattori, era considerato politicamente scorretto: uno scrittore proibito. «In Italia non incontrò se non fascisti», scrisse di sé Zolla nella lapidaria voce autobiografica pubblicata nell’Autodizionario degli scrittori italiani alle soglie del suo ultimo decennio di vita.
Fin da ragazzo, a Torino, aveva disprezzato quella peculiare mistura di intimidazione culturale e ipocrisia settaria, che allora si incarnava nel fascismo e che a lui, da sempre poliglotta, abituato ai frequenti espatri, più apolide che cosmopolita, sembrava tipicamente italiana. «Frequentavo la scuola fascista con l’animo di Alice fra le bestie e le carte da gioco», ribadisce in un altro autoritratto. È eloquente il passo di san Nilo, l’asceta bizantino, messo in exergo nel 1959 a L’eclissi dell’intellettuale (ora ristampato ne Il serpente di bronzo, il più recente volume dell’opera omnia di Zolla in corso di pubblicazione da Marsilio, mentre nel 2016 usciranno in volume unico Archetipi, Aure, Verità segrete esposte in evidenza): «Colui che si disperde nella moltitudine ne torna crivellato di ferite».
Quel libro fece di Zolla il saggista più detestato dall’establishment culturale italiano nel periodo precedente al ’68. Il timore del progresso in anni in cui mostrarsi pessimisti voleva dire essere appestati, il liberalismo in politica, l’insofferenza per ogni estremismo, l’amore per la tradizione antica vista come alimento di ogni presente, per la sapienza mistica interpretata da laico, per un oriente cui riconosceva l’immenso debito occidentale facevano di Zolla un precursore. Ma negli anni della sua massima produttività andava troppo controcorrente per non essere - scriverà - «isolato e aborrito in Italia dalla classe che aveva afferrato il potere».
Poco dopo il ’68, quando scrisse Che cos’è la tradizione, Zolla era «impensierito dalla depravazione circostante», annunciata peraltro dalla rivoluzione culturale in Cina e dal suo furore distruttivo delle tradizioni universitarie, artistiche, professionali, familiari non solo cinesi, ma del Tibet. Lo stesso rischio di annientamento della tradizione, della catena di trasmissione del sapere, che vedeva profilarsi in Europa, lo aveva spinto a «raccattare ciò che poteva apparire limpido e fermo» nella storia culturale dell’occidente, per farne «il centro di un mandala».
Erano I mistici dell’Occidente, l’antologia che dai misteri pagani e gnostici a quelli dei padri della chiesa, dalle orazioni monastiche ed esicastiche alle visioni di Ildegarda e Caterina, Maria Maddalena de’ Pazzi e Teresa, passando per Ignazio di Loyola e Juan de la Cruz, Böhme e Kircher, Donne e Silesio, già allineava i temi della sua riflessione: l’eredità neoplatonica del mondo antico; l’uomo cosmico nel Rinascimento; il rivivere del simbolismo pagano nel XVI e XVII secolo.
Fu così che Elémire Zolla uscì dal mondo. Da quello del potere, anzitutto, editoriale e culturale. Il suo fu un cammino a ritroso, un rinfilarsi definitivo nella tana del coniglio di Alice. Ma dal centro del suo mandala, Zolla rimase sempre un filosofo lucido dalla visione pessimistica. «Per trascendere il mondo», scriveva, «bisogna che il mondo ci sia»; preliminare alla conoscenza mistica è «prima la critica del bisogno falso, del consumo coatto, della repressione della natura; poi la configurazione della propria vita nell’ordine anteriore alla modernità».
Una collocazione storica corretta di Zolla è nella linea degli orientalisti romantici e postromantici, con tre punti di riferimento: Schopenhauer, che scoprì l’India; Nietzsche, che capì i guasti dell’occidente e celebrò il dionisismo precorrendo l’apertura su un mondo a molte dimensioni ripresa dalla filosofia della fine del XX secolo; la scuola di Francoforte.
Mentre la classe intellettuale si chiudeva nella scolastica tardomarxista, Zolla perorava la «liberazione dal sonnambulismo coatto della società di massa», voleva «definire l’anatomia spirituale dell’uomo nell’insieme delle civiltà religiose della terra», tentava una morfologia spirituale unitaria delle culture del mondo antico, avviava una riflessione sistematica sul lascito speculativo dell’oriente non cristiano al mondo moderno, recuperava una visione del mondo anteriore alla rivoluzione scientifica. Ma, così facendo, restava sempre e del tutto laico: «Non sono credente. Non credo a nulla. So alcune cose, altre le so meno, altre non le so, ma se dovessi dire che so qualcosa perché ci credo direi una menzogna. Non credo che esista un altro mondo oltre a questo. Esiste questo mondo, nei vari momenti in cui si rivela».
Era eminentemente fenomenologica la sua attrazione per le religioni, declinata nelle 7000 pagine di Conoscenza religiosa, che torna in libreria adesso, dopo il primo volume degli scritti zolliani raccolti da Grazia Marchianò nel 2006, con la seconda raccolta ( Civiltà indigene d’America, Edizioni di Storia e Letteratura) uscita pochi giorni fa. Anzi, il suo non risparmiare occasione per stigmatizzare la distanza tra l’adesione confessionale e un’apertura al sacro sincretistica e aliena alle barriere tra i singoli credo non fece che procurargli ulteriori nemici all’interno della cathédrale engloutie della cultura ecclesiastica.
Zolla non era, come molti insinuavano, un elitista o addirittura un reazionario. La questione dell’alto e del basso si era dissolta al momento del suo incontro col buddhismo, quando aveva scoperto la “via di mezzo” di Nagarjuna, il grande filosofo del II secolo, e quando l’immersione nel mondo dei villaggi indiani gli aveva mostrato l’indistinzione tra aristocratico e proletario nella prospettiva razionale della liberazione in vita indicata dalla filosofia buddhista. Dominato dall’amore per gli animali, dal rispetto per ciascun filo d’erba, in lui l’unica aggressività residua fu eventualmente l’intransigenza verso ogni forma di fondamentalismo.
Nel 1959 Eugenio Montale diede di lui quella che forse è la migliore definizione possibile fra le tante banali o variopinte che gli sono state date: “intellettuale eterodosso”, “cercatore di aure”, “glossatore di archetipi”. Per Montale Zolla è, semplicemente, «uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene. È un uomo che non si mette “al di sopra” della mischia, ma che vuole restare ad occhi aperti. E finché esisteranno uomini così fatti la partita non sarà del tutto perduta».
Anche se l’idea di progresso per Zolla era diabolica, negli ultimi anni lo avevano entusiasmato gli avanzamenti della fisica postrelativista e delle tecnologie informatiche, la rivoluzione digitale. Aveva superato l’idea evoluzionista, otto-novecentesca di progresso come bene assoluto, ma intravedeva nell’avanzamento tecnologico del nuovo secolo la possibilità di uscire dalla schiavitù della macchina e quindi dalla dialettica servo-padrone. Non era contraddizione, ma sincretismo assoluto.
Il suo pensiero mirava alla redenzione dell’essere umano; a fare di ogni schiavo il proprio padrone, il regista dei propri sogni, il protagonista del proprio destino; ad allenarlo alla conquista della totalità di se stesso. In un quadro di radicale vacuità l’ego si dissolve. Come Zolla ha scritto nell’introduzione ai Mistici dell’occidente, riferendosi al Vangelo: «Il figlio del padrone è colui che obbedisce al destino senza esserne trascinato».
I veri oppressi di oggi «sono coloro che soffrono lo strazio della volgarità e non si lasciano ingannare dalla fiera dei falsi problemi, dalle questioni riducibili a contrasti fra una destra e una sinistra, fra reazione e progresso». Ma hanno al loro fianco la ragione, che, superflua al forte, è l’unica forza dell’oppresso. Perché «per il potente la conoscenza è oggetto di disprezzo o di curiosità o di ornamento: solo la vittima ne ha fame e bisogno».
ANTROPOLOGIA E CONOSCENZA: FREUD, FACHINELLI, E LA MENTE ACCOGLIENTE. «Al momento di diventare sciamani, si dice, gli uomini cambiano sesso. È così posta in rilievo la profondità del mutamento necessario. Il femminile come atteggiamento recettivo non abolisce però il maschile, gli propone un mutamento parallelo» (E. Fachinelli, La mente estatica, 1989). *
“Sciamani: istruzioni per l’uso culturale”. Il libro
Abbiamo letto il nuovo saggio dell’artista e scrittore “psichedelico” Matteo Guarnaccia, in uscita per la Shake Edizioni. La recensione e le immagini
di Niccolò de Mojana *
Il nuovo saggio curato dal papà dell’arte lisergica italiana è un excursus storico e antropologico sulla storia dello sciamanesimo, una raccolta di ritratti sulle diverse tipologie di tradizioni sciamaniche, un racconto fumettistico sul “volo magico”, una collezione di canti sacri tradotti. La sintesi di un percorso che ha origine da un assunto: lo sciamano è un artista, la cui psiche “eccentrica” viene accolta dalla società in cui vive. Egli viene così lasciato libero di utilizzare poesia, musica e arti figurative per esprimere le proprie visioni e le proprie pulsioni.
Guarnaccia chiarisce subito che il suo approccio all’argomento non ha nulla a che spartire con quello new age, pacchiano e misticheggiante. Al contrario, il suo è il tentativo di comprendere che cosa si nasconde dietro il mistero che circonda la cultura sapienziale delle popolazioni tribali. “Lo sciamano”, scrive Guarnaccia, “è qualcuno che, con disciplina, coraggio, perseveranza, esercizio mentale, riesce a mantenere e controllare questo stato ‘infantile’, mettendolo al servizio della sua evoluzione mentale/spirituale e del benessere della sua comunità”.
“In ogni tradizione”, spiega, “lo sciamano compie un ‘volo magico’ attraverso i vari livelli del cosmo, superando ostacoli e difficoltà sempre crescenti, fino a raggiungere un certo grado di conoscenza. Dopodiché ritorna indietro, portando ciò che ha ottenuto a beneficio di tutti. Mantiene così un equilibrio sociale. Vuole compiere il viaggio non per sé, ma per gli altri”.
Ecco allora che il disegno tratteggiato da Guarnaccia comincia a intravedersi: l’archetipo della fiaba descritto da Campbell ci parla esattamente dell’eroe che in tutte le storie abbandona il suo mondo per avventurarsi in un regno soprannaturale, nel quale è costretto a fronteggiare forze favolose, vincere (uccidere il drago, salvare la principessa) e infine tornare indietro, dotato del potere di diffondere la felicità tra gli uomini.
Si tratta di un modello che può essere ritrovato oggi in un certo tipo di arte contemporanea. Marcel Duchamp che assemblava oggetti trovati per la strada, Joseph Beuys che dorme accanto a un coyote, vogliono entrambi dimostrare che è possibile viaggiare - più o meno coscientemente - al di fuori del proprio microcosmo per abitare una dimensione altra. Ecco perché lo sciamano è sempre un artista, e viceversa.
C’è poi anche un altro discorso da esplorare, parimenti importante, necessarip per parlare di sciamanesimo. “L’abito dello sciamano”, spiega Guarnaccia, “racconta sempre un’esperienza. Ha un utilizzo sistemico. Serve come protezione per il ‘volo magico’. Il guardaroba dello sciamano comprende un solo costume sgargiante, in cui forma e struttura sono direttamente dettate dalla sua esperienza visionaria. Ogni esemplare è, di conseguenza, un’opera d’arte unica e irripetibile che deve accompagnare, sottolineare, la postura agitata/scossa/elettrica del veggente, dell’essere estatico. Convoglia assimilazioni animistiche, sollecita e solletica panico, esultanza, turbolenza, traumi e perturbazioni psichiche e anatomiche”. L’abito fa il monaco, verrebbe da dire. E lo aiuta ad accedere a un’altra dimensione.
Si tratta, in ogni caso, di tentare di raggiungere i propri limiti. In questo, gioca un ruolo fondamentale la musica. Il tamburo è il mezzo di locomozione privilegiato, “da utilizzare come un cavallo, una renna, un cammello, una barca, una nuvola, una stella, un’oca, una slitta, un lago (dove immergersi). Nel caso lo sciamano fosse impossibilitato a spostarsi, il tamburo può servire come una pista di atterraggio, un salottino temporaneo, un altare tremolante e sobbalzante per intrattenere gli spiriti in visita”.
Oggi, potremmo pensare ai rave (dove non a caso si parla di musica “trance”) come a momenti nei quali si compie il tentativo di far viaggiare le proprie percezioni al di fuori di confini puramente fisici. Il battito del tamburo come della cassa - sebbene estremamente accelerato - come portali da attraversare per espandere le proprie percezioni.
Ma non bisogna per questo pensare che l’esperienza metafisica sia riservata a pochi. “Tutti noi - scrive Guarnaccia - abbiamo sperimentato nella nostra infanzia l’esperienza sciamanica, anche se tendiamo a dimenticarcene. Uno stato naturale che scaturisce dalla possibilità di muoversi su diversi piani di coscienza e di attingere a piacere - e, aggiungiamo, con piacere - a una molteplicità di sensazioni e stimoli (...) I bambini vedono passare gli angeli, parlano con cose (apparentemente) inanimate, hanno amici invisibili, si sdoppiano, si servono di oggetti magici. Amano le vertigini e sanno come procurasele: ruotano come folli, fanno capriole, urlano, trattengono il respiro, ripetono frasi senza senso, inanellano parole in loop, si fanno lanciare in aria da mamma e papà. E che dire di quanto apprezzano il suono dei sonagli e delle percussioni? Ognuno di noi, da bambino, è abilitato ad un uso emancipato dell’immaginazione, in fase non ancora formattata dal controllo e dalla riprovazione sociale”.
Non esiste, insomma, una sola forma di realtà. Questo sembra voler ricordare, una volta ancora, il libro-prisma di Matteo Guarnaccia. E lo sciamano è esattamente colui che è in grado di mostrarci diversi piani del reale. Ciò che bisogna imparare a fare è saper conoscerli entrambi, senza limitarsi a credere solo in quello metafisico o in quello materiale. Perché nel primo caso saremmo degli squilibrati e, nel secondo, persone dalla mentalità estremamente limitata.
In conclusione, come diceva Elèmire Zolla, l’ultimo vero sapiente occidentale: “Grazie all’allenamento sciamanico, la fantasia può diventare duttile e forte come il polso di uno spadaccino”. Sta solo a noi (re)imparare a utilizzarla. Anche a questo possono servire le “istruzioni per l’uso” di Matteo Guarnaccia.
* (XL Repubblica - 03 marzo 2014 - ripresa parziale, senza immagini)
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
***ARTE E ANTROPOLOGIA. «K» E LO SPIRITUALE NELL’ARTE ...
KANDINSKY, A SCUOLA DALLO SCIAMANO.
LA PSICOANALISI, IL LETTINO DI MISS FREUD, E LA LEZIONE DI FACHINELLI NEGATA E IGNORATA.
Sibille e profeti oggi. L’onda lunga del Rinascimentodi Nicola Fanizza ("L’Acropoli, 3/2014)
Iniziati alle porte dell’Ade
L’esperienza sciamanica alle origini della spiritualità d’Occidente
di Elémire Zolla (Il Sole-24 Ore, 19.08.2001) *
Peter Kingsley nacque nel 1953 a Londra, dove studiò al Warburg la Grecia arcaica. La sua mente fu attratta da Elea, la nemica di Atene, affine ai Persiani. Per lui Atene è il punto di degradazione della Grecia sciamanica primordiale, scoperta da Meuli. Nel 1996 usciva dalla Oxford University Press il suo Ancient Philosophy, Mistery and Magic; prima si era dedicato, fin dal 1993 sul "Journal of the Warburg and Courtal Institutes", a ricerche sul Pimandro e l’ermetismo, perseguiti fino alla Turba philosophorum. Aveva raccolto e rimediato gli studi di S. Dalley (The Legacy of Mesopotamia, Oxford 1998) di Burckert, Pugliese Carratelli, Colli e Torelli. Il "Museum Helveticum" fu la rivista più considerata, a partire da Meuli.
Kingsley è adesso emigrato in Canada, dove insegna, nella Columbia Britannica, alla Simon Fraser University. Memorabile tra le sue opere è In the Dark Places of Wisdom, tradotto per Marco Tropea da Silvia Laria come Nei luoghi oscuri della saggezza, redatto in uno stile brevissimo, profetale. Incomincia cosi: "Questo libro non parla di fatti reali o di storie inventate, ma di qualcosa d’ancor più inconsueto, al cui paragone ciò che consideriamo realtà altro non è che finzione. Il libro non è quello che sembra, allo stesso modo in cui non lo sono le cose che ci circondano. Dalla sua lettura comprenderete che parla d’inganno: l’inganno del mondo in cui viviamo e l’inganno che esso nasconde".
Che cosa intendiamo di ciò che ci circonda? E’ come se fossimo stati amputati e preservassimo un lancinante ricordo delle membra avulse. "Qual è l’oggetto ultimo dei nostri desideri?". Tale il quesito essenziale dell’opera, conclude l’autore. E di colpo passa al primo capitolo, "Antenati". Se si ha fortuna subito ci si accorge che si è tirati e deformati dall’incalzare dei desideri: riempiamo a forza il loro spettacolo di finzioni, trovate, pseudoraffinatezze, che dovrebbero variare all’infinito questa distesa tediosa di desiderio, ma di fatto la rendono ancor più tediosa.
Alla radice dell’occidente c’è una tradizione spirituale celata, concepita dai fondatori originari delle nostre scienze, ma poi travisata e cancellata con cura, sicché ben pochi ne conoscono oramai, i nomi stessi, salvo i rarissimi che sappiano di avere in tasca la storia delle stelle e di poter andare in direzione del futuro soltanto guardando al passato. Partiamo perciò dagli uomini che furono gli antenati degli antenati. "Il passato siamo noi" e perfino il nostro domani è un passato che si ripete. Tale punto di partenza è lo stesso che sorprese il giovane Nietzsche, la percezione di un tempo tripartito come finzione: il vero tempo è un flusso che ci solleva al di là dei momenti risaputi, dove presente, passato e futuro si amalgamano e innalzano. Focea, o città delle foche, era un borgo situato sopra Smirne. Nel VII e nel VI secolo a.C. i Focesi esplorarono oltre Gibilterra; già stavano al termine della via della seta che si spingeva fino in Cina attraversando la Persia e l’India, sicché furono amici dei Persiani, i nemici di Atene. Davanti a Focea s’innalzava l’isola immensa di Samo, patria di Pitagora, che intorno al 530 a.C. andò in Egitto e a Babilonia a imparare la matematica e la metafisica astronomica.
Ha sorpreso rinvenire nelle rovine del tempio a Era in Focea oggetti liturgici bronzei legati al culto della dea Gula, la Guaritrice babilonese, oltre ad altri oggetti liturgici indù. Alla fine del secolo V a.C. Babilonia entrò a far parte dell’Impero persiano e vi immigrarono personaggi dall’India e dall’Anatolia. I Greci in contatto con la Persia differivano radicalmente dagli Ateniesi. Tuttavia avvenne che i Persiani diventassero avidi dei loro territori, sicché i Focesi migrarono in parte e domandarono consiglio all’oracolo di Delfi, leggendolo male come invito a sbarcare in Corsica. Fondarono Elea o Velia e la difesero con valentia dagli assalitori, però poi incontrarono un suddito di Posidonia che illustrò una diversa lettura dell’oracolo: ubbidirono alla sua differente lettura. A Elea nacque Parmenide, del quale Platone forni un ritratto menzognero all’inizio del IV secolo a.C., quando il concetto di tempo incomincia ad alterarsi e incomincia a diffondersi l’invenzione babilonese d’un tempo suddiviso in giorni di 24 ore. Platone dirà di Parmenide: "Noi non riusciamo a comprendere le sue parole e ancor meno il suo intendimento nel pronunciarle". In un altro dialogo parla di dover uccidere il padre Parmenide. Il parricidio è il più atroce e repellente dei delitti, fa rabbrividire. Di fatto è una confessione: Platone vorrebbe uccidere Parmenide.
Parmenide era l’autore d’un solenne poema in esametri. Narra che lo scortano donne lucenti, figlie del Sole, provenienti dal regno dove tutti gli opposti si versano l’uno nell’altro, confondendosi: il regno dell’abisso e della notte tutelato da Giustizia, dove si arriva appena morti. Ma con un carro guidato da giumente come loro provenienti dalla notte, le dee figlie del Sole lo conducono nella notte, prima che muoia. Lo portano a contatto con l’aldilà, con il territorio della morte. In direzione delle immani porte che sbarrano la strada: basta schiuderle e si è nel luogo dove dalla luce nasce la tenebra, e questo vige per tutti gli opposti immaginabili. Ma il trasferimento avviene con un fischio che ne forma l’essenza, come aria che attraverso una canna vuota vibri al modo d’un serpente che si ridesta. Lo produce, e qui Parmenide sosta per esprimersi con cura, il fischio sinistro che esce dalla pressione di due rotanti cerchi posti sui due lati delle ruote, fino a dove s’innalzano le porte immani che fischiano del pari con lo stridere dei loro cardini. Al di là delle porte giunge ad accoglierlo la Dea offrendogli la destra, con un gesto di amabile accoglienza. Inoltre lo rassicura: non è stato attratto dalla sorte maligna, ovvero dalla morte. Chi giunge a questo luogo mortuario senza essere morto prima dà prova di essere iniziato. Lo chiama kouros o ragazzo, figlio, eroe, iniziato. E anche phõIarchos, custode di rifugio, di luogo deputato alla letargia, dove il cuore quasi non batte più. Strabone descrisse la Caria, dove s’innalzava Focea, come sparsa di luoghi del genere, all’apertura dell’Ade, del regno di Plutone e di Proserpina, dove si conducevano animali malati che avessero bisogno di una tranquillità radicale, semivivente, quasi non più vitale, Lì si sognava e si poteva guarire mercé un sogno guaritore. Era la catàbasi, l’immersione nel regno prossimo alla morte, dal quale era possibile ritornare in vita riabilitati alla salute.
Ma sorprende lo stile del racconto. In quattro versi quattro volte ritorna il verbo "condurre", ora al presente ora al preterito, così come vi compare la parola oímos e oimé, "via" e "racconto", come se fossero legati e alternativi. Tecnica rettorica iterativa e ambigua e prettamente sciamanica. Sul suono soverchiante della "canna vuota" - che è denotato con syrigmós, il sibilo del serpente che si ridesta (lo stesso della kundalini indù) - i papiri magici egizi informano che questo è il suono dell’armonia astrale. Apollo e dopo di lui Asclepio sono collegati al serpente. E un’esperienza capitale, la vita antica ne garantiva la costanza e il pieno significato. Nel folto dell’erba all’improvviso freme il serpente verde e ci si ritrova allarmati, paralizzati, immobili. Difesa e strategia non sono concepibili in questa immobilità: si è bloccati, già mezzi morti, il fischio del serpente ci avvince, siamo virtualmente sacrificati, trafitti. San Sebastiano inerme già siamo noi, ci inarchiamo sotto le fitte tracciate fatali e fischianti, assopenti, siamo nell’Ade. Se ne può tornare sciamani possenti.
SCIAMANI, SIBILLE, E PROFETI: IL ’CASO’ PARMENIDE. L’esperienza sciamanica, la tradizione occidentale, (e il lavoro di Vico - a partire dalla "De antiquissima italorum sapientia"). Lettera a Elémire Zolla: *
Stimat.mo Prof.
E. Zolla
Domenica u.s. (Il Sole-24 Ore del 19.08.2001] ho letto la Sua recensione del bel lavoro di Kingsley (Nei luoghi oscuri della saggezza), ma sono rimasto deluso. L’ho trovata alquanto arida, senza acqua.
Tempo fa Le inviai un lavoro pieno di Sibille e altro, “Della Terra, il brillante colore. Note sul “poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989), Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1996.
Probabilmente non l’avrà neppure sfogliato. Là, Parmenide è inserito nella trama carmelitana, tra Elia (il primo profeta e l’uomo salito al cielo sul carro del Sole) e Gesù, oltre che (implicitamente) con la “notte oscura” di Giovanni della Croce, e tutto il resto.
Kingsley ha avuto il merito di aver evidenziato la natura elianica dell’iniziazione di Parmenide, ma di non averla riconosciuta nella sua specificità e di non averla riportata alla sua fonte, quella di Elia...
Lo schermo della V davanti al nome della città di Parmenide non impedisca anche a Lei di dimenticare il solare Elia.
Con m.ma stima,
Federico La Sala
* Lettera inviata a Montepulciano, il 25.08.2001.
Le streghe e i maghi della Nigeria
hanno dichiarato guerra ai terroristi e hanno decretato
l’inizio di grandi cambiamenti sociali e politici nel loro stato.
Vedi la notizia a questo link:
http://sunnewsonline.com/new/?p=72891
INTERVISTA
"Il burattino framassone"
Zolla: la storia di un’iniziazione ispirata a Apuleio
a c. di Silvia Ronchey (La Stampa/Cultura, 27.02.2002)
"IL Pinocchio di Collodi è un miracolo letterario dalla profondità esoterica quasi intollerabile". Elémire Zolla, l’intellettuale italiano più introdotto nei segreti di Pinocchio (si veda il suo Uscite dal mondo pubblicato da Adelphi), risponde da iniziato, scegliendo le parole con cautela quasi sacrale e lasciando al fondo un che di enigmatico, un’eco di mistero. "Un bambino che legga con tutto il cuore questo libro ne esce trasformato. Diventa un’altra persona di cui non è lecito parlare".
Che genere di altra persona?
"Una persona con una mentalità da martire. In quale altro libro si insegna al bambino a diffidare di tutte le autorità terrene? E chi altro può vivere disdegnando quasi completamente la giustizia umana?".
Forse lei dice "bambino" nell’accezione sacra per cui è "puer" il non iniziato.
"Ovviamente Pinocchio è la storia di un’iniziazione. Come le Metamorfosi di Apuleio. Ha presente le pagine finali? Il latino del grande retore diventa una lingua infantile quando narra l’epifania di Iside, la madre universale, colei che compare nei sogni se si sogna rettamente... Che poi in Collodi è la fata dai capelli turchini".
Un momento. Chi è la fata dai capelli turchini?
"È la prefigurazione della capra sullo scoglio nel mare in tempesta, che compare nel libro molto più tardi, e che pure ha il pelo azzurro".
Perché Collodi rappresenterebbe Iside come capra, oltre che come fata?
"Iside, nel mondo pagano, è la grande mediatrice, rappresentante di tutto il mondo animale, o meglio dell’indistinzione tra animale e umano".
In effetti in Apuleio il protagonista è trasformato in asino. Non vorrà dire che anche le orecchie d’asino di Pinocchio vengono di lì?
"Certo. Il che significa semplicemente che provengono dalla cultura di base della cerchia massonica cui Collodi apparteneva. Vede, una loggia di Firenze, al tempo di Collodi, non era luogo di modesta cultura. Certe letture erano comuni, elementari addirittura. La massoneria ferveva di una rinascita del pitagorismo antico, culminata poi in Arturo Reghini, grande scrittore e matematico in lite con Mussolini e con Evola".
Vuol dire che la letteratura antica era un codice?
"Era linguaggio elettivo per comunicare all’interno dell’ambiente massonico. E lì le cose su cui si posavano gli occhi si trasmutavano. C’è un passo di Marco Aurelio: "Ricordati che colui che tira i fili è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita nostra, è Lui l’Uomo... Cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a marionette e nient’altro". Si attaglia alla storia del burattino, ne è la chiave".
Ma allora "Pinocchio" è un libro per bambini o una parabola massonica?
"Entrambe le cose, è questo il miracolo. La semplicità della lingua toscana in Pinocchio nasce dal fatto che Collodi sta trasmettendo una verità esoterica è non può che esprimerla così, come la narrerebbe a un bambino. È il ritegno di chi sta parlando di cose indicibili che produce questo particolare linguaggio, in Collodi come in Apuleio".
In questa chiave esoterica, che significa il nome Pinocchio? e Lucignolo? e il Gatto e la Volpe?
"In latino pinocolus significa pezzetto di pino. Per un pagano è l’albero sempreverde che sfida la morte invernale. Lucignolo è un Lucifero miserello, a misura di puer, cioè di pre-iniziato, e il Gatto e la Volpe sono Legbà e Shù, grandi personaggi della mitologia africana che si ritrovano anche nel Vudù. Allora si leggeva, e di libri sul Vudù l’America di fine Ottocento era piena. Qualche massone d’oltreoceano poteva avere informato Collodi. La vita di loggia è molto strana, è segreta e piena di incontri".
Vuol dire che "Pinocchio" non può comprendersi del tutto senza conoscere la massoneria?
"No, voglio dire che Pinocchio continua un’antichissima tradizione sotterranea della letteratura italiana. In rapporto ai rituali massonici si chiarisce il significato della poesia medievale - Federico II, Dante e Cavalcanti - così come l’esoterismo della Rinascenza in tutti quei grandi che vissero l’integrazione di Bisanzio nella cultura occidentale ai tempi del concilio di Ferrara e Firenze e intorno a Enea Silvio Piccolomini, un grande gnostico: pensi alla lettera veramente esoterica che scrisse al sultano ottomano, al neopaganesimo di Pienza... Tutti, anche gli alti prelati sanno che dal culto di Iside deriva la Madonna, che la leggenda dei magi testimonia come l’atto fondante della cristianità sia l’innesto dello zoroastrismo, come può vedersi, proprio vicino a Pienza, nei rilievi della pieve di Corsignano!".
La prego, torni a "Pinocchio".
"Pinocchio, come dicevo, continua la lignée esoterica, gnostica, isiaca e neopagana, nel senso più spirituale, che è al centro della nostra letteratura".
Il che varrebbe a dire che la grande letteratura italiana è essenzialmente massonica?
"Varrebbe a dire che spesso noi italiani ci lamentiamo di non avere una letteratura all’altezza, ad esempio, di quella inglese o tedesca. Ma il fatto è che la nostra migliore letteratura, quella laica, è sotterranea e segreta, perché a differenza degli inglesi e dei tedeschi ha dovuto sottrarsi alla censura dell’ala meno illuminata e elitaria della cultura cattolica".
Silvia Ronchey
LA LEZIONE DI COLLODI: LA FIABA, LA FAVOLA, E ... LA "CONFUSIONE" DI GRAMELLINI.
Non sappiamo più raccontare le favole
Un saggio americano: solo gli inglesi riescono a inventarle. Non hanno paura del lato oscuro
di Massimo Gramellini (La Stampa, 08/01/2016)
La rivista letteraria The Atlantic, americana, ha condotto un’inchiesta dettagliata ed è giunta alla conclusione che in quest’epoca di ansie assortite e lettori bisognosi di cure affabulatorie, soltanto gli inglesi siano ancora capaci di popolare l’immaginario dei bambini di ogni nazione ed età. Alla notizia che l’Inghilterra, magari con l’aggiunta dell’Irlanda, detenga l’esclusiva delle favole qualcuno storcerà il naso e opporrà le sue eccezioni, però è un fatto che il più formidabile parto fantastico degli ultimi decenni è stato il maghetto Harry Potter, britannico, la cui saga si inserisce in un filone avviato dai personaggi di Tolkien e C.S Lewis, britannici anch’essi. Sarà il rapporto più stretto con la natura e con i miti fondativi pagani, l’assenza di una religione troppo moralista e inibente, la passione diffusa per i saperi esoterici, ma gli inglesi (e gli irlandesi) sembrano avere conservato un seme di conoscenze antichissime e la capacità di diffonderle attraverso un codice di immagini e archetipi che non parla all’emisfero razionale del cervello, ma si rivolge direttamente al subconscio di tutti gli esseri umani.
Uno dei momenti più emozionanti della mia vita è stata la scoperta che, accanto al significato letterale, le favole ne celavano un altro simbolico. Uno dei momenti più tristi è stato accorgermi che di questa scoperta non importava niente quasi a nessuno. Eppure mi vengono ancora i brividi quando penso agli artisti illuminati che dalla notte dei tempi hanno rivestito i segreti dell’esistenza e persino le future rivelazioni della fisica quantistica con le metafore dei racconti per l’infanzia. Quando penso che la Bella e la Bestia è la storia dello spirito che si riconcilia con la materia. Che la spada nella roccia è un simbolo fallico e la sua estrazione da parte del giovane Artù un rito di iniziazione sessuale. Che il bacio del principe azzurro alla bella addormentata è la metafora di quel risveglio consapevole che sta alla base di ogni antica tradizione spirituale. Che la rinuncia al simbolo del potere - sia esso l’anello elfico che Frodo va a gettare nel vulcano di Mordor o la bacchetta di sambuco che Harry Potter decide di spezzare dopo averla vinta a lord Voldemort nel duello finale - è l’atto supremo di distacco che completa l’evoluzione interiore dell’eroe.
Non è importante comprenderli con la mente, certi significati reconditi. L’emozione della favola li porta egualmente là dove devono andare: al di sotto della corteccia dell’Ego, nel regno della coscienza che Jung chiamava il Sé. La lettura delle favole procede su due livelli. Il subconscio infatti non comprende le parole. Il suo alfabeto è fatto di immagini e suoni. Mentre il piccolo lettore ascolta le avventure di principi e principesse, da qualche parte dentro di lui si forma l’immagine simbolica su cui potrà fare affidamento per il resto della vita. Quando, smarrita la sbornia di “realtà” tipica dell’età dello sviluppo, sentirà il bisogno di attingere a una conoscenza eterna per lenire le proprie paure e sviluppare i propri talenti.
Tutto questo gli inglesi non lo hanno dimenticato. E hanno avuto la forza di ricordarlo al mondo. Non è solo questione di lingua. Anche gli americani scrivono in inglese, ma le loro trame per l’infanzia esprimono un intento educativo, e dunque pragmatico, che smorza sul nascere lo sbrigliarsi della fantasia. Huck Finn è un capolavoro e Mark Twain un genio, ma si tratta di un capolavoro e di un genio intrisi di realtà. Persino la metafisica Moby Dick di Melville è appesantita da decine di pagine francamente noiose sulle varie tipologie di balene, quasi che lo scrittore avesse voluto rimarcare la base scientifica della sua straordinaria creazione. La cultura nordamericana ha compresso l’irrazionale fin dalle origini, assieme ai nativi indiani che ne sarebbero stati i naturali cantori. La concretezza etica della società fondata dai Padri Pellegrini ha spinto i compositori di favole a interpretarle non come una vacanza del pensiero, ma come il rivestimento zuccheroso di una medicina fatta di regole morali da impartire sotto forma di apologo con morale incorporata.
E gli italiani? Avendo copiato gli americani praticamente in tutto, non potevamo che seguirli anche in questa strage della fantasia immolata sull’altare della cosiddetta realtà. Pinocchio è un gigante della narrativa universale, eppure fu ignorato per un certo periodo persino dai suoi contemporanei. Le biografie di Collodi pubblicate dai giornali dopo la sua morte liquidano il burattino in poche righe. L’autore stesso non ebbe piena consapevolezza della sua opera, che toccò a Benedetto Croce sdoganare almeno dal punto di vista letterario. Collodi era un massone e non c’è pagina di Pinocchio che non contenga un riferimento alchemico (a cominciare dal nome del protagonista che si rifà alla ghiandola pineale, il “terzo occhio” di cui ogni tradizione esoterica si ripropone l’attivazione). Ma non ha lasciato eredi. Oggi si scrivono favole anche molto poetiche, intasate soprattutto di animali che parlano e ragionano come gli umani, ma manca la magia della spiritualità che in un Paese cattolico come il nostro viene ancora associata esclusivamente alla religione. Mentre il misticismo pagano che è alla base delle fantasie immortali degli inglesi si nutre di boschi, di orfani e di lettori che abbiano voglia di lasciarsi lambire dalla loro ombra a costo di perdervisi.