Buoni maestri
di Mariapia Veladiano (la Repubblica, 28 febbraio 2014)
Sulla scuola oggi non si può essere troppo ecumenici, bisogna essere di parte, la parte di chi rischia che l’istruzione non sia più un suo diritto, per colpa della crisi economica, della sciatteria politica, del calcolo astuto di chi sfrutta a fini suoi l’ignoranza altrui. E dovrebbe essere la buona politica a preoccuparsi che questo accada ma non lo fa e allora ci sono i buoni maestri e le buone maestre. In qualche modo eredi di Alberto Manzi che ha reso possibile per molti italiani quel “non è mai troppo tardi”, che era il titolo della sua trasmissione più popolare.
Questi maestri oggi non parlano dalla televisione ma sono a scuola, fuori dalla scuola e, come dire, a scavalco: insegnanti al mattino, volontari al pomeriggio. Sono presenti a spaglio, in quartieri che conosciamo per la loro lunghissima storia di dolore e degrado, come Scampia a Napoli, e poi anche a Milano, Roma e Reggio Calabria. Il giovanissimo Rosario Esposito La Rossa ha 25 anni, “educatore con lo sport”, dice. Franca Caffa ha 85 anni, di cui 25 impegnati nel “Doposcuola di Calvairate”, a dare aiuto a ragazzini che se non finivano la scuola finivano a spacciare, dice.
A sentirli parlare si capisce cosa li muove. La fiducia nei ragazzi. La certezza che dare fiducia vuol dire mettere in moto un meccanismo di riparazione nelle loro vite deprivate. Credere che sono capaci, possono sottrarsi a un destino che sembra scritto. E questo riparare passa attraverso la relazione. Che può esistere anche se i ragazzi che si hanno davanti sono tanti, l’importante è che ci interessi davvero quel che sono.
Poi certo bisogna dare le parole, la cultura che li tenga lontanissimi dal 5 per cento di italiani inchiodati dall’analfabetismo strumentale, cioè che non sanno leggere, e anche dal 33 per cento di italiani afflitti da analfabetismo funzionale, ovvero che non sono in grado di comprendere istruzioni, articoli, discorsi. Questi maestri non si occupano certo solo di stranieri.
Fra le nuove povertà c’è la mancanza di tempo e colpisce ovunque. I genitori sono impegnati in lavori che rubano la relazione con i figli e questi sono soli e anche bocciati. Non è facile per la scuola, oggi è accusata di tutto. L’alleanza con la famiglia e la società è sfaldata.
C’è un rischio, che oggi è quasi un destino: quello di dover essere maestri speciali, diversamente maestri rispetto agli insegnanti fannulloni incapaci illicenziabili e quindi impuniti che viaggiano nel pregiudizio della piazza. Ma queste esperienze di maestri diversi sono anche esperienze di socializzazione del problema, come si dice.
Nessuna scuola è autosufficiente, neanche se ha tutto quel che le serve e di più. L’autosufficienza è un tarlo tremendo che sbriciola la nostra propensione a sentirci solidali, responsabili nel modo in cui possiamo e sappiamo. Per cui va bene questa disseminazione di esperienze d’aiuto, è l’espressione bella del nostro credere che insieme è meglio sempre, che la scuola, la convivenza sono cose di tutti.
E c’è anche la possibilità che da queste esperienze arrivino alla scuola, per via obliqua, delle idee precise, tipo che se non si libera la scuola dalla burocrazia a favore della relazione non si va da nessuna parte, che i programmi (non ci sono più in senso stretto, ma non è informazione così conosciuta ancora) passano sempre attraverso la curiosità dei ragazzi, che senza la passione, proprio la passione, per la propria disciplina e per i ragazzi, fare l’insegnante è nocivo.
Parlare di scuola vera è sempre una buona cosa perché ancora una volta si scopre che ciò che non appare è quel che più conta, e mentre la narrazione comune di scuola, anche nei libri, insegue perversioni e scandali per vendere forse una copia in più, c’è chi non si permette nessun cinismo passatista e dice che la società può continuare a essere civile attraverso questi ragazzi non più irrigiditi dalla delusione di sé.
La deprivazione culturale è immediatamente un ostacolo alla partecipazione sociale (non si capisce di essere ingannati, non si trovano strade condivise, per contrapporsi bastano poche parole) e politica (si crede ai truffapopoli di quartiere e di stato), allo sviluppo economico (si dipende dal resto del mondo) e alla realizzazione della propria libertà e felicità, perché non possiamo realizzare quel che siamo.
E così essere di parte, quando si parla di scuola, vuol dire essere dalla parte di tutti.
Memoria /memorie
Perché ancora oggi "non è mai troppo tardi"
Alberto Manzi
Roberto Farné, 26 febbraio 2014 *
Nel 1965, al Congresso mondiale degli organismi radio-televisivi che si tenne a Tokyo, la trasmissione della Rai Non è mai troppo tardi ricevette, su indicazione dell’Unesco, il premio dell’Onu come uno dei programmi più significativi nella lotta contro l’analfabetismo. Raro esempio di programma televisivo italiano conosciuto e citato a livello internazionale da studiosi di sociologia e pedagogia dei mass-media (Antony Bates, C.W. Bending, Henri Dieuzeide, tra gi altri), gli viene riconosciuto il merito di aver contribuito alla storia della televisione educativa. Non è mai troppo tardi era frutto di una convenzione tra ministero della Pubblica istruzione e Rai; un progetto complesso di educazione a distanza, articolato sulla messa in onda televisiva e su oltre 2.000 Pat (posti di ascolto televisivo) sparsi sul territorio nazionale, dove un insegnante seguiva insieme al gruppo di allievi la trasmissione e poi svolgeva con loro l’attività didattica di “tutoring”, che consentiva di consolidare gli apprendimenti. Chi di loro voleva e si sentiva preparato, poteva poi affrontare l’esame per la licenza elementare. Mettendo in campo l’arma più innovativa, cioè la televisione, si intendeva così combattere una battaglia decisiva contro l’analfabetismo adulto, che riguardava circa il 10% della popolazione italiana alla metà degli anni Cinquanta, senza considerare i semianalfabeti.
La trasmissione Non è mai troppo tardi, iniziata il 15 novembre 1960, andava in onda in diretta alle ore 18 di ogni martedì, giovedì e venerdì; terminò nel 1968. I programmi di “Telescuola”, di cui faceva parte, fino a quel momento erano basati su lezioni scolastiche tenute da insegnanti a una classe di studenti ospitata nello studio televisivo. Si trattava certamente di un uso del mezzo televisivo a livello molto basso rispetto alle sue effettive potenzialità, e dunque poco efficace rispetto agli obiettivi che si prefiggeva: rendere presente la scuola in quelle realtà dove la scuola non c’era o per quei soggetti che l’avevano precocemente abbandonata. Maria Grazia Puglisi, direttrice di Telescuola, era consapevole della necessità di operare un cambiamento tale per cui la televisione rappresentasse un autentico “valore aggiunto” sul piano del registro comunicativo e didattico. Il punto di partenza era trovare le figure di insegnanti in grado di impostare la didattica dal puto di vista del mezzo televisivo e non semplicemente di mettere la tv al servizio della didattica scolastica. Era necessaria, dunque, una nuova professionalità: quella di un “conduttore televisivo” che sapesse declinare la competenza didattica a partire dalla specificità del medium.
Fu così che si arrivò ad Alberto Manzi, che faceva il maestro elementare a Roma e collaborava dal 1956 a “La Radio per le scuole”. Egli venne mandato dal suo direttore didattico a fare un provino un mese prima dell’avvio della trasmissione. Manzi racconta di essersi inventato sul momento la modalità su cui impostare la comunicazione didattica: chiese se, anziché “recitare” il testo di una lezione che gli avevano assegnato, potesse fare di testa sua; dalla regia gli risposero di sì. Aveva bisogno di fogli di carta grandi, glieli portarono e li fece appendere al muro; prese un carboncino e cominciò a disegnare... Le figure appena schizzate, man mano che prendevano forma, diventavano il pre-testo su cui Manzi imbastiva il testo della sua lezione. I segni tracciati dalla sua mano che si muoveva agile sui fogli “animavano” il contenuto della lezione e si fondevano con la sua voce pacata e rassicurante in una “narrazione didattica”. «La televisione è fatta di immagini in movimento - nota Manzi - per cui, se io sto fermo 20 minuti a parlare, addormento tutti. La mia soluzione fu di disegnare: mi bastava schizzare qualcosa, meglio se incomprensibile all’inizio, per cui chi stava a guardare era incuriosito dal disegno che via via prendeva forma e nel frattempo seguiva il mio discorso».
Non ci è dato sapere quanti siano stati effettivamente gli adulti che hanno preso la licenza elementare attraverso i corsi di Non è mai troppo tardi: c’è chi ne minimizza la reale efficacia sotto questo aspetto e chi ne esalta i risultati (sarebbero più di un milione gli adulti che hanno certificato la loro alfabetizzazione...). La Rai non ha accompagnato il più importante esperimento pedagogico nella storia della televisione italiana con un lavoro rigoroso di monitoraggio e di ricerca tale da valutarne l’effettiva portata in termini quantitativi e qualitativi. È un fatto, però, che molti Pat, oltre quelli ufficialmente istituiti, nascevano spontaneamente, che molti adulti analfabeti o semianalfabeti seguivano individualmente il programma, che molti bambini trovavano suggestive le lezioni di quel maestro, così diverso dai maestri o dalle maestre che conoscevano a scuola, e lo seguivano affascinati dal quel modo di insegnare con i disegni e di parlare come se si rivolgesse solo a loro (oggi si direbbe che “bucava lo schermo”).
Lo straordinario successo di Non è mai troppo tardi fu dovuto al fatto di essere non solo un “corso di istruzione popolare per adulti analfabeti”, come recitava la sua didascalia, ma un vero e proprio programma televisivo capace di intrattenere un pubblico che andava oltre il proprio “target” di riferimento. Alberto Manzi capovolgeva il modello tradizionale e stantio di Telescuola, egli cioè non era semplicemente un buon insegnante di scuola prestato alla televisione, ma dimostrava di saper fare televisione attraverso le proprie qualità didattiche e comunicative. Nelle sue “lezioni” televisive, a seconda dell’argomento trattato, Manzi utilizzava fotografie e filmati, invitava di tanto in tanto un ospite famoso, usava espedienti in grado di animare la didattica, come la lavagna luminosa su cui scrivere e disegnare.
Terminata l’esperienza di Non è mai troppo tardi - nove anni in cui ricoprì il ruolo di insegnante distaccato presso la Rai - Alberto Manzi tornò a fare il maestro elementare presso la scuola Fratelli Bandiera di Roma. La sua immagine e la sua fama rimarranno per sempre legate a quel programma: una sorta di “icona televisiva” consegnata alla storia della nostra tv pubblica, senza un prima e un dopo... È questo, d’altronde, l’effetto collaterale che spesso la tv genera intorno a un “personaggio”; basta tuttavia scavare nel ricco materiale dell’archivio donato dalla famiglia di Manzi, dopo la sua morte, all’Università di Bologna e conservato nel Centro Alberto Manzi (www.centroalbertomanzi.it), presso la Regione Emilia-Romagna, per rendersi conto che ci troviamo di fronte a una delle figure più originali e significative della recente cultura pedagogica italiana. Fu esattamente questa l’impressione che io ne ebbi quando lo incontrai per una lunga intervista nel giugno del 1997: stavo studiando il ruolo della televisione educativa in Italia e Alberto Manzi era una delle mie fonti primarie.
La vita e l’opera di Alberto Manzi si possono definire attraverso tre profili: quello di autore e conduttore di programmi radio e televisivi, quello di scrittore per ragazzi e quello di insegnante ed educatore; come fossero tre vite parallele nella stessa persona, affiancate una all’altra senza soluzione di continuità. La sua figura è l’esito della sinergia fra questi tre percorsi, differenti tra loro ma tutti orientati verso lo stesso obiettivo: l’educazione.
Il lavoro di Manzi in televisione si conclude nel 1992 con Impariamo insieme: 60 puntate di 15 minuti l’una per insegnare l’italiano agli extracomunitari; una sorta di “ritorno al futuro” per il maestro di Non è mai troppo tardi, chiamato a dare il suo contributo per una nuova alfabetizzazione. Fra questi due programmi, il profilo televisivo di Manzi si dipana in una serie di collaborazioni per la tv per ragazzi, che lo vedono autore di testi (Giocagiò; Il trenino; C’era una volta... domani) o autore e conduttore (Snip-Snap; È vero che?), e per il Dipartimento Scuola Educazione della Rai, dove realizza alcune serie di programmi (Impariamo a imparare; Fare e disfare; Educare a pensare) che rimangono fra le testimonianze più significative prodotte dalla televisione italiana nel campo della pedagogia visiva. Qui Manzi propone azioni e riflessioni didattiche con gruppi di bambini, nelle quali si evidenziano i tratti specifici del suo stile e del suo metodo. Egli assume il ruolo di attore e regista che manipola l’oggetto della didattica come una trama aperta su cui sviluppare un “gioco delle parti” fra insegnante e allievi, dove la conoscenza diventa animazione e avventura linguistica e cognitiva. Che si tratti di capire “la differenza fra assorbimento e assimilazione” oppure “perché gli uccelli volano” o di assegnare ai bambini un tema del tipo “Come mi lavo i denti” per verificare con una pantomima se il testo scritto descrive effettivamente le azioni da compiere, l’abilità di Manzi sta proprio nel mostrarci che l’artificio didattico funziona alla stessa stregua del gioco, in quanto riesce a coinvolgere attivamente i bambini in una interazione dove essi pongono il massimo impegno in una “finzione” di cui sono, insieme all’insegnante che la conduce, consapevoli e partecipi.
Quando inizia Non è mai troppo tardi, Manzi è già un affermato scrittore per ragazzi: nel 1950 esce Grogh, storia di un castoro, e nel 1955 Orzowei, la sua opera letteraria più famosa, che divenne un film per la regia di Yves Allegret ed ebbe una versione televisiva a puntate nel 1977. Segnati da un finale tragico e salvifico insieme dove l’agnizione dell’eroe è l’atto estremo, Grogh e Orzowei danno la cifra stilistica di Alberto Manzi scrittore: la letteratura non deve proteggere l’infanzia dai turbamenti, ma piuttosto provocarli sulla base di una intenzionalità formativa che ha nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente e nel senso dell’avventura i suoi fondamentali dispositivi. Il mondo della natura e la vita che vi si svolge, sia essa animale o umana, per Alberto Manzi sono un ambiente duro, a tratti crudele, eppure un “mondo della vita” dove l’uomo può sia costruire la propria identità e la propria formazione autentica, sia esercitare il proprio potere distruttivo. Entrambi questi romanzi diventano dei successi internazionali e Orzowei, tradotto in oltre 30 lingue, è l’opera di letteratura per il’infanzia italiana più tradotta dopo Pinocchio.
Alberto Manzi è scrittore dotato di una eccezionale versatilità, autore di oltre 120 titoli: cura edizioni di fiabe ed egli stesso è autore di fiabe e racconti per l’infanzia, pubblica libri di testo scolastici, opere a carattere didattico, di divulgazione culturale e scientifica per ragazzi. Domenico Volpi lo ha voluto fra i suoi collaboratori al Vittorioso, il settimanale per ragazzi che Volpi ha diretto dal 1948 al 1966, facendone uno dei laboratori più importanti in cui si è formata la scuola italiana del fumetto. Durante i suoi viaggi in Sudamerica, Manzi spediva gli articoli per la rubrica “Occhi sul mondo”: racconti di viaggio di un “inviato speciale” animato da una curiosità avventurosa, che lo spinge a conoscere mondi e umanità diverse, interrogandosi sulle loro condizioni e sulle contraddizioni della civiltà dell’uomo bianco di cui lui stesso si sentiva parte.
È il terzo profilo di Alberto Manzi, quello di insegnante elementare, a fare da “sfondo integratore” su cui gli altri due trovano identità e senso. Nato nel 1924, Alberto Manzi va collocato a pieno titolo tra le figure che hanno contribuito al rinnovamento della cultura pedagogica italiana dal secondo dopoguerra, insieme, tra gli altri, a Bruno Ciari, Danilo Dolci, Mario Lodi, Loris Malaguzzi, don Lorenzo Milani, Gianni Rodari - tutti nati fra il 1920 e il 1925. La “vocazione” al mestiere di insegnante Manzi l’aveva maturata fin da giovane: aveva frequentato l’istituto nautico, ma contemporaneamente aveva conseguito l’abilitazione magistrale. Soprattutto dopo l’esperienza della guerra divenne chiara in lui l’intenzione di dedicarsi alla scuola; il primo impatto è traumatico e decisivo: nel 1946 e ’47 viene mandato a insegnare in una classe di 94 alunni che andavano dai 9 ai 17 anni e mezzo nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma: «È stata l’esperienza che mi ha costretto a progettare un modo diverso di fare scuola, perché fra questi ragazzi c’erano sia gli analfabeti, sia alcuni che avevano frequentato il primo e il secondo anno di liceo». Con loro realizza un giornalino, La Tradotta, e, racconta Manzi, di tutti questi ragazzi, una volta usciti dal carcere, solo due successivamente vi sono rientrati.
Alberto Manzi si laurea in Biologia e poi in Pedagogia con Luigi Volpicelli, che lo vuole come assistente all’Università di Roma; Manzi è animato da una forte tensione alla ricerca didattica, ma capisce che per questo genere di ricerca il vero laboratorio non è l’università, ma la scuola: per oltre trent’anni, fino alla pensione, farà quindi l’insegnante, sempre nella scuola elementare Fratelli Bandiera di Roma. Conosce direttamente e approfondisce il metodo scout, cercando di applicarne alcuni aspetti metodologici al lavoro scolastico; studia Piaget e Vygotskij quando ancora erano pressoché sconosciuti nella cultura magistrale italiana. La sua classe, all’ultimo piano della scuola, con una porta che dà sul terrazzo, è una vera e propria officina/laboratorio della didattica. Problem solving e attivismo, educazione alla cooperazione e alla responsabilità, interdisciplinarità e centralità dell’esperienza concreta sono i cardini su cui Manzi costruisce la sua didattica, sollecitando nei ragazzi quella che definisce come “tensione cognitiva”, cioè il desiderio che spinge a conoscere la realtà, a porsi domande e a cercare risposte, e su cui l’insegnante co-costruisce con gli allievi il percorso di insegnamento e apprendimento.
Consapevole che l’educazione scientifica è il punto più critico della didattica scolastica, Manzi la assume come asse portante del suo metodo di insegnamento, non solo nell’ambito delle discipline scientifiche in senso stretto, ma declinando il “metodo scientifico” nei vari campi del sapere, come la forma più rigorosa dell’Educare a pensare. Nel corso dell’anno scolastico Manzi organizza una settimana di “campo scuola” in ambiente naturale, convinto che i luoghi della didattica siano molteplici, irriducibili all’interno delle mura scolastiche; è nell’Outdoor education che si collocano gi autentici campi d’esperienza e ambienti di apprendimento. Scrive Manzi:
"Oggi i ragazzi vivono in scatola (casa, macchina, scuola, macchina, casa, tv), non hanno la possibilità di pensare situazioni nuove, prepararsi all’imprevisto. Eppure hanno bisogno di libertà, di rischio, di cominciare a vivere le piccole cose, ad avere sensazioni nuove, forti, traumatizzanti. E solo andando fuori, vivendo fuori, poter vivere l’odore della pioggia, la musica del vento, riscoprire l’uso dei suoni, il buio di notte, la luna, la scoperta del silenzio, il gusto della pioggia sul viso, l’alba, la notte... ora tutte queste cose le debbono avere. Hanno il diritto di averle, per crescere armoniosamente."
La sua didattica è lenta, segue il ritmo necessario alla formazione dei concetti nei bambini, non all’accumulo di saperi nella loro mente. Egli non insegna storia, perché ritiene che a quell’età i bambini non possono aver chiari i concetti di spazio e di tempo su cui si basa scientificamente la dimensione storica e il suo sapere, ma in V elementare porta i suoi alunni a visitare il campo di concentramento di Dachau, come “unica lezione di storia”. Quando, nel 1977, gli ordinamenti scolastici impongono le schede di valutazione, Alberto Manzi compie un atto di “obiezione di coscienza” rifiutandosi di compilarle per i suoi alunni, soprattutto per quei “casi difficili” che erano particolarmente numerosi nella sua classe. Dopo ripetuti richiami da parte del Consiglio di disciplina, a cui Manzi rispose puntualmente portando le proprie motivazioni di ordine psicopedagogico, egli reagì stampando le schede di ogni bambino con un timbro che riportava la dicitura “Fa quel che può, quel che non può non fa”. Nel 1981, il provveditore agli studi di Roma lo condannò alla sospensione dal servizio e dallo stipendio per due mesi.
L’ironia è uno dei tratti emblematici di Alberto Manzi, le cui azioni di “disobbedienza” diventano lezioni e testimonianze del suo “essere maestro”. Come quando racconta, durante l’esperienza di Non è mai troppo tardi, che il giorno in cui arrivò la notizia dell’uccisione di Kennedy, i dirigenti Rai gli dissero di non parlarne durante il programma, trattandosi di un argomento che poteva creare problemi... La reazione di Manzi fu: «...e io, obbediente, ne parlai subito la sera stessa».
Nel 1954 Manzi va per la prima volta in Sudamerica con una borsa di studio come biologo per studiare un tipo di formiche in Brasile. Ben presto si accorge della condizione di sfruttamento dei contadini che, analfabeti, sono privati dei diritti politici: non possono votare o iscriversi al sindacato, e chi insegna loro a leggere e scrivere viene spesso preso e picchiato. Manzi è colpito da questa realtà e comincia così, anno dopo anno, per circa vent’anni, a trascorrere parte delle sue vacanze in Sudamerica, avendo come punto di riferimento una comunità di Salesiani, tra Perù ed Ecuador, dove fa l’educatore, alfabetizzando gruppi di indios. Appartengono a queste esperienze i romanzi di ambientazione sudamericana: La luna nelle baracche (1974), El loco (1979), E venne il sabato (2005, postumo); una trilogia in cui i temi esistenziali e sociali di quella umanità trovano la loro forma espressiva e comunicativa. Sono gli anni in cui Paulo Freire costruisce la sua “pedagogia degli oppressi” e si sviluppa la “teologia della liberazione”. Racconta Alberto Manzi: «Poi cominciarono ad accusarci di essere guevaristi, oppure papisti o un qualunque accidente che finiva in “isti”, per cui iniziarono ad arrestare dei gruppetti e io non me la sentivo più di rischiare la vita di questi ragazzi. In Perù e Bolivia, dove la situazione politica si era fatta pesante, non era possibile tornare. Alcuni Stati non mi davano più il visto: non ero una persona gradita. Durante quei viaggi, per esempio, ho conosciuto i sacerdoti sudamericani che aderivano alla teologia della liberazione. Molte volte ne abbiamo discusso a Lima, a Quito: si voleva capire se la Chiesa doveva servire l’uomo o il potere».
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Questo profilo di Alberto Manzi è stato pubblicato sul numero 4/2012 della rivista “il Mulino”
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ITALIA. USCIRE DALLA CONFUSIONE: UNA MORATORIA CONTRO LA DEVASTAZIONE DELL’INTERA ITALIA.
L’attualità di Manzi, maestro di oggi
di Andrea Fagioli (Avvenire, mercoledì 18 settembre 2019)
Quando si parla di scuola e televisione, ai meno giovani viene automatico pensare al maestro Alberto Manzi e al suo Non è mai troppo tardi, il programma degli anni Sessanta che ha segnato la storia della tv. Il sottotitolo lo definiva "Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta". Ma era tutt’altro che un prodotto per vecchi. La capacità comunicativa del conduttore, l’uso dei disegni e persino della lavagna luminosa, oltre al fascino insito nel nuovo mezzo, rendevano Non è mai troppo tardi attraente e moderno.
E se in questi decenni le immagini sono invecchiate, non è invecchiato il messaggio del maestro e del programma, al punto che Rai Scuola (canale 146 del digitale terrestre, 806 di Sky, disponibile anche su Raiplay) ha pensato bene, in avvio di anno scolastico, di proporre da lunedì alle 19,30 un ciclo di sei puntate su Alberto Manzi. L’attualità di un maestro, realizzate nel Centro emiliano di documentazione e archivio intitolato a Manzi stesso, con la collaborazione del Ministero dell’istruzione, della Rai e del dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna.
A condurre il programma è la responsabile del Centro, Alessandra Falconi, con il contributo dell’illustratore Alessandro Sanna e di esperti come la biologa Maria Arcà, che ha lavorato una quindicina d’anni con Manzi per il quale alfabetizzare significava emancipare.
L’obiettivo della serie è di riproporre alle scuole italiane quel tipo di approccio pedagogico e didattico. C’è ancora la lavagna luminosa e ci sono i fogli mobili come quelli che usava Manzi, ma adesso c’è anche il tablet. Gli argomenti spaziano dalle nuvole (di cui è possibile misurare il perimetro) alla biodiversità. Ai docenti della scuola primaria vengono dati suggerimenti operativi e teorici, proposte di discussione in classe con i propri alunni e idee per la progettazione didattica.
Ad arricchire il programma, le immagini di Alberto Manzi al lavoro tratte dal repertorio delle Teche Rai. La qualità televisiva del programma è quella che è, ma in questo caso più che il modo conta il cosa viene raccontato. E parlare del maestro Manzi significa parlare di una delle figure più autorevoli del Novecento in ambito educativo.
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA... *
La riforma della scuola è avere buoni professori
di Nuccio Ordine (Corriere Sera, 03.09.2017
Ora che le scuole riaprono dopo la pausa estiva, per capire la vera essenza dell’insegnamento bisognerebbe rileggere con attenzione la commovente lettera che Albert Camus - poche settimane dopo la vittoria del Nobel (19 novembre 1957) - scrisse al suo maestro di Algeri, Louis Germain: «Caro signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato, né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo».
Adesso che i riflettori rimarranno accesi ancora per qualche giorno sull’inizio del nuovo anno scolastico, sarebbe importante concentrare il dibattito su due figure essenziali: gli studenti e i professori. Eppure - dopo i numerosi «terremoti» che hanno scosso le fondamenta del nostro sistema educativo - sembra che la relazione maestro-allievo non occupi più quella centralità che dovrebbe avere. Ai professori, infatti, non si chiede di studiare e di preparare lezioni. Si chiede, al contrario, di svolgere funzioni burocratiche che finiscono per assorbire gran parte del loro tempo e del loro entusiasmo. Le ore dedicate a riempire carte su carte potrebbero essere invece investite per leggere classici, per approfondire le proprie conoscenze e per cercare di insegnare con passione.
Dopo decenni di devastanti tagli all’istruzione, l’unico importante investimento economico (un miliardo di euro) degli ultimi anni è stato destinato alla cosiddetta «scuola digitale», con l’illusione che le nuove tecnologie possano garantire un salto di qualità. Ma ne siamo veramente sicuri, in un momento in cui mancano le risorse destinate a riqualificare la qualità dell’insegnamento? A cosa serve un computer senza un buon docente? Il caos di ogni inizio anno e le incertezze del reclutamento dei professori stanno sotto gli occhi di tutti.
La «buona scuola» non la fanno né le lavagne connesse, né i tablet su ogni banco, né un’organizzazione manageriale degli istituti e ancor meno leggi che rendano l’istruzione ancella del mercato: la «buona scuola» la fanno solo e soltanto i buoni professori. Basterebbe leggere le dichiarazioni del presidente Macron per capire l’orientamento della Francia: non più di 12 alunni per classe nelle aree considerate a rischio «economicamente» e «socialmente», proprio per dare, attraverso uno straordinario potenziamento dei docenti, più centralità al rapporto diretto con gli studenti.
Dai professori bisognerebbe partire. Che fare? Come formarli? Come selezionarli? La nostra scuola non ha bisogno di ulteriori riforme. Non ha bisogno dell’alternanza scuola-lavoro così come viene applicata (le ore non sarebbe meglio investirle in conoscenze di base?). Non ha bisogno di commissioni che studiano la riammissione degli smartphone in classe (perché, al contrario, non aiutare gli studenti, che li usano tutto il giorno, a «disintossicarsi» e a vincere la «dipendenza»?) o che propongono la riduzione di un anno della scuola secondaria (la fretta non aiuta a formare alunni migliori: la frutta maturata con ritmi veloci non ha lo stesso sapore di quella che cresce sull’albero). La peggiore delle riforme con buoni professori darà buoni risultati. E, al contrario, la migliore delle riforme con pessimi professori darà pessimi risultati. C’è bisogno di un sistema di reclutamento che possa garantire un percorso chiaro e sicuro: ogni anno, a prescindere dal colore dei governi, un concorso nazionale (come si fa in molti Paesi). E non l’alea dei concorsoni decennali e dei percorsi improvvisati che hanno prodotto infinite tipologie di precari: una matassa talmente ingarbugliata che nessun miracoloso algoritmo arriverà a sbrogliare.
Decine e decine di migliaia di precari (con ormai un’età media veramente preoccupante) potranno entrare in classe con entusiasmo? Potranno insegnare con passione? Selezionare i buoni professori (eliminando completamente il precariato) e ridare dignità al lavoro di insegnante (anche sul piano economico, visto che gli stipendi italiani sono molto bassi rispetto alla media europea) è ormai una necessità. Solo così potremo riportare la scuola alla sua vera essenza, alla centralità del rapporto docente-allievo.
In alcune scuole del Nord e del Sud, ogni giorno, questo miracolo già accade. Riposa sulle spalle di singoli insegnanti appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti. Che cercano di far capire ai ragazzi che a scuola ci si iscrive soprattutto per diventare migliori e che la letteratura e le scienze non si studiano per prendere un voto, o per esercitare solo una professione, ma perché ci aiutano a vivere. Per fortuna, nonostante leggi e circolari assurde, non mancano fino ad oggi allievi che hanno visto cambiare la loro vita grazie all’incontro con un professore. Proprio come il maestro Germain, in Algeria, era riuscito a cambiare il destino di uno scolaro, orfano di padre e molto povero, come Albert Camus. Ma, se non si frena il declino, per quanti anni ancora la scuola potrà contare su quei docenti (ormai sempre più rari) in grado di compiere miracoli?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Parlare di scuola vera è sempre una buona cosa. Perché ancora oggi "non è mai troppo tardi". SULLA SCUOLA, OGGI, BISOGNA ESSERE DI PARTE. "BUONI MAESTRI".
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Per l’edilizia scolastica
Cari architetti rifateci le scuole!
Il ruolo dei professionisti nel recupero e nel rilancio degli edifici scolastici perché siano luoghi sicuri, con fortevoli e stimolanti per gli allievi
di Franco Lorenzoni (Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2014)
Che si investa nell’edilizia scolastica è una buona notizia, perché troppo spesso le nostre scuole sono fatiscenti e insicure. Credo valga la pena, tuttavia, cogliere l’occasione per ripensare, con ra dicalità e serietà, a quali siano gli spazi più adatti allo sviluppo di relazioni educative aperte ed efficaci.
Nelle «Indicazioni nazionali per il curricolo» della scuola dai 3 ai 14 anni, divenute legge dello Stato nel novembre 2012, si legge: «L’acquisi zione dei saperi richiede un uso flessibile degli spazi, a partire dalla stessa aula scolastica, ma anche la disponibilità di luoghi attrezzati che facilitino approcci operativi alla conoscenza per le scienze, la tecnologia, le lingue comunitarie, la produ zione musicale, il teatro, le attività pittoriche, la motricità. Particolare importanza assume la biblioteca scolastica, anche in una prospettiva multimediale...» . Ecco, se si investono soldi nelle scuole, ci sono certamente tetti da riparare, strutture da consolidare, materiali per il risparmio energetico da applicare e percorsi e spazi da adattare per una fattiva inclusione dei ragazzi portatori di disabilità. Sono operazioni urgenti e necessarie, ma varrebbe la pena approfittarne per ragionare a fondo in torno ad altre modifiche, spesso realizzabili a costi più bassi, che rendano possibile un uso più intelligente e flessibile degli spazi.
Dal rendere praticabili le terrazze in città, per farne luogo di esperimenti e osservazioni del cielo come fece Alberto Manzi nei suoi primi anni di scuola negli anni Cinquanta, al sottrarre al cemento piccole porzioni di terreno dove realizzare un piccolo orto o piantare qualche albero da frutta; dall’apertura di un’ala dell’edificio per un uso pomeridiano di alcune aule, da condividere con associazioni di quartiere, al ricavare spazi (anche ridotti) per il teatro o attività di movimento non solo per i più piccoli, ma per bambini e ragazzi di ogni età, che spesso hanno bisogno non solo di palestre (spesso assenti), ma anch e di luoghi curati e adatti, impreziositi magari da un economico parquet, che permetta di stare seduti a terra a conversare, fare teatro, improvvisare musica o ascoltarne. Insomma dare la possibilità di risvegliare nella scuola il desiderio di ripensare se nza pregiudizi a tutti gli spazi, immaginando un uso molteplice e duttile delle aule, che tanto aiuterebbe l’ascolto reciproco e la concentrazione, superando l’assurda pretesa di inchiodare ore e ore corpi vitali e sanamente irrequieti dentro scomodi banchi.
E dunque ecco una piccola modesta proposta: si corra pure veloci a mettere in cantiere opere urgenti già questa estate per i lavori strutturali di messa in sicurezza, ma ci si prenda del tempo (ad esempio tutto il prossimo anno scolastico) per progettar e piccoli interventi mirati di architettura degli interni, che trasformino più scuole possibili in piccoli cantieri dell’innovazione spaziale e didattica.
Lo spazio è parte costitutiva della relazione educativa, e per esperienza diretta so quanto il mutare le posizioni reciproche contribuisca a cambiare consuetudini e atteggiamenti di bambini, di ragazzi e - seppure con maggior difficoltà - anche di noi insegnanti.
Una preside di Palermo, alla fine degli anni Novanta, appena arrivata a dirigere una scuola media di frontiera, prese come primo provvedimento lo smantellamento delle enormi inferriate che avevano dato a quella scuola l’aspetto di un bunker. «La possibilità di evitare furti e irruzioni sta unicamente nella nostra capacità di far percepire la scuo la come luogo aperto e amico del territorio - sosteneva - non nel trasformarla nell’immagine di un carcere decentrato». Aprì la scuola al pomeriggio, promosse numerose iniziative educative rivolte agli immigrati e alla popolazione adulta del quartiere e, c on l’aiuto di un appassionato docente di matematica, organizzò un gigantesco torneo di scacchi che coinvolse per mesi tutti gli studenti, riuscendo almeno parzialmente a spostare sul piano della simulazione simbolica la gran voglia di guerreggiare di tanti ragazzi.
Ma per immaginare questi mutamenti spaziali e simbolici ci vuole uno sguardo capace di andare oltre le abitudini quotidiane. Ci vuole un po’ di spirito visionario, che forse potrebbe essere alimentato da un incontro sul campo di ottiche e profess ionalità diverse.
Scambiarsi idee tra educatori e architetti potrebbe produrre proposte interessanti e si potrebbero coinvolgere anche i bambini e i ragazzi, a patto che siano chiamati a partecipare non solo in modo formale o retorico nel ripensare in modo radicale spazi che, con il crescere dell’età, i giovani abitano con sempre maggiore estraneità. Si, perché è proprio l’abitare gli spazi educativi il tema che andrebbe messo all’ordine del giorno.
Ci sono precedenti storici, minoritari ma significativi, che vale la pena ricordare. Quando Adriano Olivetti immaginò di migliorare la condizione operaia e umanizzare la produzione, la visione di cui era animato non si fermò alle fabbriche, che volle dotat e di grandi finestre e biblioteche, ma spaziò alla scuola e alla città. Per contribuire a quello spirito di comunità che aspirava costruire, chiamò a Ivrea i migliori urbanisti e sociologhi e costruì scuole e sostenne il diritto dei bambini ad avere esperi enze educative diverse nella natura e in spazi adatti a loro. Sappiamo bene che quell’idea di sviluppo non si diffuse per i tanti ostacoli che incontrò nel mondo dell’impresa e per la diffidenza con cui fu guardata dalla sinistra.
Danilo Dolci, pedagogo n onviolento e instancabile organizzatore sociale, volle il segno dell’architetto Bruno Zevi per costruire una scuola per l’infanzia nel borgo di Trappeto, nella Sicilia occidentale, dove aveva condotto il famoso sciopero a rovescio per collegare con una str ada paesi isolati, dove ancora si moriva di fame.
In anni recenti mi è capitato di vedere un progetto di scuola davvero interessante e innovativo, disegnato per la periferia di Roma ma fermo da dieci anni, a causa dell’assurdo ginepraio di leggi che regola no gli appalti pubblici nel nostro Paese.
Riprendendo i tratti di un tessuto urbano composto di piccole casupole nate dalle antiche baracche della Muratella, l’architetto Giacomo Borella, in stretta collaborazione con la grande pedagoga montessoriana Grazi a Honneger Fresco, ha disegnato una scuola dell’infanzia costruita interamente in legno, con aule sparse nella natura e collegate tra loro da piccoli sentieri, che prevedeva un luogo intimo centrale per l’incontro mattutino, piccolo e a misura di bambino, ma con grandi aperture verso l’esterno. Vinse uno dei concorsi voluti dal sindaco Veltroni, che si era proposto di contribuire alla riqualificazione di alcune periferie della capitale partendo dalla costruzione di nuove scuole, la cui estetica era cercata con concorsi internazionali aperti agli studi dei migliori architetti e stanziando finanziamenti adeguati alla qualità che si cercava. Quei concorsi hanno portato alla realizzazione di due scuole, ma poi l’intero progetto si è arenato tra secche burocratic he e cambiamenti amministrativi.
La lacerazione urbanistica e la cementificazione dissennata hanno portato a un tale degrado i territori che circondano le città che quando Renzo Piano - in un recente intervento ospitato in queste pagine - ha parlato di «op era di rammendo delle periferie», non ha potuto non raccogliere larghi consensi e questa sua frase viene continuamente citata anche dal nuovo capo di governo . Gli interessi in gioco sono tali che non sarà certo facile dare avvio a tali rammendi. Ma riguard o alla cura dei luoghi educativi forse qualcosa si può fare, rendendo più flessibili, versatili e magari anche un po’ meno anonimi gli spazi destinati a bambini e ragazzi.
L’architettura delle scuole è passata, nel corso di un secolo, dalle riconoscibili strutture monumentali edificate dopo l’Unità d’Italia e nei primi del ’900, con grandi edifici simili a caserme dotate di cortili al centro, alle troppe orribili e anonime scuole prefabbricate che costellano le periferie di tutta Italia, disegnate a somigl ianza dei magazzini industriali e costruite spesso con materiali di scarsa qualità, roventi d’estate e dispendiose da scaldare in inverno.
Ci vuole un grande sforzo per ripensare i luoghi educativi e dare loro nuova fisionomia. Ma sarebbe di grande valore che a quest’opera concorressero le migliori e più diverse professionalità e si attivassero momenti di partecipazione sociale. Un impegno di tale portata potrebbe contribuire e dare concretezza al più generale problema di ripensare l’educazione. In fin dei conti si tratta dei luoghi deputati al più significativo e prolungato incontro collettivo tra le generazioni e non possiamo tollerare che questo appuntamento quotidiano, così delicato e importante, avvenga in scuole caratterizzate dal degrado e dal brutto.