Noi scrittori assassinati da Foucault
di John Banville (la Repubblica, 23.06.2009)
Non sappiamo cosa diciamo perché "veniamo parlati"
Ecco come il romanziere irlandese risponde alla teoria filosofica che sostiene l’inesistenza dell’autore
Il me stesso che scrive non è lo stesso che vedete
"Che importa chi sta parlando?" è la domanda che, in modo irritante, pone uno dei moribondi narratori di Beckett e il fatto che io non riesca a ricordarmi chi sia costituisce forse parte della risposta. In chiusura di Le parole e le cose Michel Foucault, notoriamente, riformulò la domanda durante le esequie -certamente premature - per la "morte", in generale, dell’autore. Se Beckett avesse conosciuto, cosa che probabilmente avvenne, l’opera di Foucault, avrebbe di certo approvato con grande entusiasmo la campagna, in un certo qual modo sinistra, dell’intellettuale francese per l’annichilimento dell’autorità del romanziere, o del poeta - o in verità dovremmo presumere, del filosofo-autorità sul proprio lavoro.
Per Foucault, come per molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa, la risposta alla domanda di Beckett non è tanto un chi bensì un cosa. Secondo Foucault, non si tratta dell’autore che parla o scrive ciò che scrive, ma è il linguaggio stesso, con tutti i suoi echi e riverberi, i suoi sibili e ululati provenienti dall’oscura foresta del passato. Noi non sappiamo cosa diciamo quando parliamo, perché in realtà non parliamo, bensì veniamo parlati, e quello che noi pensiamo come un discorso razionale non è altro che un confuso barcollare nel sottobosco che i millenni di utilizzo hanno depositato sul suolo della foresta. La selva oscura di Dante è una boscaglia di parole logore nella quale non ci svegliamo mai totalmente.
La campagna del ventesimo secolo per declassare lo scrittore da creatore a strumento, da padrone del linguaggio, come Oscar Wilde lo intese, a suo schiavo, fu fortemente osteggiata da molti critici e accademici, specialmente in Inghilterra, dove la teoria è criticata e i neo Giacobini della cultura francese godono di una considerazione che è un miscuglio di disprezzo, paura e risentito divertimento. Fu il silenzio degli innocenti, comunque, a essere notevole. La maggior parte degli scrittori - ovvero gli scrittori creativi, come veniamo chiamati - si sottrassero al dibattito. Come mai, perché non protestammo mentre Foucault e i suoi compari cercavano di mandarci al macello? Credo si trattasse del fatto che sentivamo, con fastidio, ma con un certo sollievo, che il nostro segreto era stato scoperto, che la nostra essenziale non-esistenza, la nostra inesistente essenza, era venuta alla luce.
Qualche anno fa la Rte, la rete televisiva nazionale irlandese, commissionò un documentario su di me e sui miei lavori, dando enfasi, dietro mia insistenza, all’opera. Il direttore del programma, anch’egli un auteur, era acuto e perspicace e il programma che ne derivò eccellente, meritandosi, a giusto titolo, molti consensi. La prima domanda che mi pose, il primo giorno di riprese, fu, «Chi è?». Sullo schermo appaio esitante per un lungo istante prima di fornire quella che all’improvviso mi sembrò l’unica risposta possibile. «Beh, vede», risposi, «non c’è nessun John Banville». In quel momento non capii del tutto che cosa intendessi. Certamente, e voi potete vederlo, esiste un John Banville, ed è il povero forcuto essere umano che si alza al mattino, si veste, fa colazione, si avventura fuori nel mondo quotidiano, che ha opinioni e va a votare alle elezioni, che ama i suoi bambini e che un giorno morirà. Ma quel John Banville non è lo stesso il cui nome appare sul dorso dei suoi libri. Non si tratta del John Banville che sogna una storia e la popola di personaggi. Non è il John Banville che se ne sta tutto il giorno seduto alla scrivania a lavorare sulle parole. Quell’altro, misterioso, John Banville è, in un parola, invisibile.
Più avanti nel documentario Rte - il cui titolo, a ogni modo, e non in maniera insignificante, era Essere John Banville - c’è una divertente e illuminante sequenza di stregoneria tecnica che mi vede seduto alla scrivania, ipoteticamente immerso nel lavoro, mentre allo stesso tempo un altro me, identico a quello seduto, gira per lo studio intento a prendersi cura delle piante di casa con un innaffiatore. È una bella metafora e illustra in modo arguto una delle tematiche principali che io e il regista seguimmo per tutto il programma - lo stesso tema, ovviamente, che sto trattando qui oggi, cioè, il tema della duplicità dello scrittore.
Quando faccio letture in pubblico o partecipo a prestigiose manifestazioni come questa, e incontro faccia a faccia alcuni dei miei lettori, mi sembra di cogliere nei loro occhi il sorgere di uno sguardo di leggero disappunto, di insoddisfazione. È come se la persona per la quale erano venuti, nella speranza di incontrarla, non si fosse presentata. È come se il John Banville dinanzi a loro, quello che cerca di fare del suo meglio per essere non solo cortese, ma anche plausibile, non fosse, in qualche modo, il John Banville che pensavano di conoscere dalle pagine dei miei libri. E hanno ragione - non è la stessa persona. Quel John Banville, gli voglio dire, quello che scrive le storie che loro ammirano, esiste solo quando questo John Banville si siede alla mia scrivania ogni mattina e impugna la mia penna, e cessa di esistere quando, giunta la sera, poso la penna.
Che relazione esiste tra questi due, lo scrittore che è visibile davanti a voi adesso e l’altro che se ne sta invisibile accanto a me? Tutti sperimentiamo questo dualismo, o qualcosa di molto simile, quando alla sera ci sdraiamo a letto per dormire. Per un po’ l’occupante si gira e si rigira, mentre con la mente ripercorre gli avvenimenti della giornata, preoccupato per gli errori e i misfatti e celebrando i piccoli trionfi. In breve, comunque, si leva da lui l’ectoplasmico altro, quello sognante, che prende il controllo e parte per uno sfrenato giro di piacere notturno, fatto di sgommate lungo tornanti, immersioni a profondità impossibili, svolazzando anche per aria, a volte, mentre figure bizzarramente familiari lo salutano e si prendono gioco di lui, oppure si gettano sul suo cammino facendo capriole e piangendo. Poi arriva il mattino e il suono stridulo della sveglia; il dormiente si sveglia e la sua vampiresca versione notturna si rintana ancora una volta nella cripta, nell’attesa di un altro crepuscolo. Quello che sogna, quello che scrive: sono cugini di primo grado se non, in realtà, fratelli gemelli. E ora, sebbene io non sia sicuro chi di noi stia parlando, Banville e io vi porgiamo il nostro evanescente saluto di congedo e diventiamo... invisibili.
(traduzione di Rino Serù copyright 2008 by John Banville)
Il dialogo invisibile
di ALAIN ELKANN (La Stampa, 6/7/2009)
Nella mia vita ho conosciuto molte persone che hanno lavorato per la pace: una donna come suor Giuliana Galli del Cottolengo, a Roma il rabbino Toaff o il rabbino Disegni, oppure don Vincenzo Paglia della Comunità di Sant’Egidio, a Milano e a Gerusalemme il cardinale Martini, ad Amman il principe Hassan Bil Talal e a Gerusalemme gli scrittori Oz, Yehoshua, Grossman, Appelfeld, il presidente Shimon Peres. Io credo che tra persone di diverse religioni nascano amicizie solidissime e penso alla mia amicizia con lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun oppure ai moltissimi amici cattolici, ortodossi, atei o buddisti che ho nel mondo. La religione, l’appartenenza, la nazionalità, la famiglia sono cose veramente importanti e uno deve conoscere bene chi è e da dove viene e non rinnegarlo mai. Però bisogna saper guardare oltre il proprio recinto, oltre qualsiasi pregiudizio.
Bisogna capire che gli uomini sono tutti uguali nei diritti e nei doveri. \ Io credo che la profonda crisi economica e di valori spirituali che stiamo attraversando debba rinforzarci, farci trovare il gusto dell’amicizia e della solidarietà, ritrovare la forza d’animo, la volontà di fare, la volontà di ritrovare dei valori fondamentali. Non dobbiamo lasciare vincere il fanatismo, la voglia di dittatura, la voglia di vendetta oppure il disfattismo, l’abbandono, la malinconia. Il dialogo deve restare sempre aperto, non bisogna mai disperare e non bisogna neppure credere di prevedere ogni cosa e tantomeno di affidarsi al computer come àncora di salvezza motore di ogni cosa.
Bisogna conservare il gusto della sorpresa, del non previsto, la speranza che ci fa trovare o raggiungere cose che non pensavamo fossero possibili. Bisogna fare attenzione ma anche sapersi abbandonare alla vita. \ Ricordiamoci che la vita umana è imperfetta e imprevedibile e che l’uomo non può in alcun caso mai essere Dio. Però non bisogna lamentarsi, ma agire, vigilare e ascoltare e pensare che qualunque essere umano deve proteggere i suoi momenti di felicità.
* Estratto dall’intervento tenuto ieri sera alla Milanesiana sul tema «Dialogo invisibile tra le religioni»
l’Unità, 30.06.2009
Anita Desai
La scrittura viene dal silenzio come la forma dalla pietra e la luce dal buio della notte
La scrittrice indiana riflette sul metodo letterario a partire dagli antichi Veda, ognuno dei quali era, assieme, incipit e frammento di un racconto generale.
Il narrare è come la musica e la solitudine dello scrittore è l’indispensabile nulla che precede l’emissione del suono
L’intervento pubblicato verrà letto da Anita Desai oggi alle ore 21 alla Milanesiana, il festival di letteratura, musica e cinema, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e promosso dalla Provincia di Milano, con il Comune di Milano e la Regione Lombardia.
In La terra desolata, T.S.Eliot scriveva: Chi è il terzo che ci cammina sempre accanto? Quando conto, ci siamo soltanto tu e io insieme, Ma quando guardo avanti alla strada bianca C’è sempre un altro che ti cammina accanto Scivolando ravvolto in un mantello bruno, incappucciato Non so se uomo o donna Ma chi è che ti sta all’altro fianco?
E in una nota a piè pagina, Eliot aggiungeva che quei versi gli erano stati suggeriti dal resoconto di una spedizione in Antartide: «Vi si riferiva che il gruppo degli esploratori, allo stremo delle forze, aveva continuamente l’illusione che ci fosse una persona in più di quante non se ne potessero effettivamente contare». Per chi viene dall’India è una sensazione familiare. In India i bambini crescono in compagnia di antichi miti e leggende prima di saper leggere o scrivere, e perfino prima di essere consapevoli di conoscerli. Sono lì, nelle voci di genitori e nonni, sono la materia stessa delle feste che celebriamo, le immagini sono sparse ovunque, ubique come i corvi e le mosche. Oggi schizzano fuori dai fumetti e dai cartoni animati, e si riversano fuori dagli schermi televisivi. Tutti sappiamo che l’albero sul ciglio della strada che ci dà ombra nelle giornate calde è anche l’albero sotto il quale pregava il Buddha e in cui si nascondeva Krishna. La scimmia che si dondola dai rami non è soltanto un primate giocherellone ma anche il dio Hanuman. Il fiume melmoso che pigramente si dirige fuori dalla città non è soltanto la fogna urbana che sembra ma anche il fiume che dopo la nostra morte porterà le nostre ceneri al mare e nell’eternità. Così, per uno scrittore indiano, i personaggi che crea sono meri simboli di concetti più vasti che sono sempre esistiti. Un albero rappresenta tutti gli alberi, un fiume tutti i fiumi, un amante tutti gli amanti. Allo stesso modo gli eroi e le eroine del cinema non sono soltanto le formose tentatrici che vedete, o i baffuti criminali o la vedova in lacrime vestita di bianco; essi rappresentano ciò che già sappiamo dalla nostra mitologia. A loro non chiediamo di essere unici e originali, ma semplicemente di interpretare il proprio ruolo, e poi sparire per ricomparire altrove.
Nel pionieristico romanzo di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, il protagonista Saleem non si considera un individuo. Dice: «E ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza d’improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto». Il metodo narrativo usato è lo stesso usato millenni or sono quando i Veda vennero messi per iscritto per la prima volta, su strisce di foglie di palma, dopo secoli di recitazione orale. Su ogni striscia era iscritta una porzione del tutto. Se ne poteva scegliere una qualunque come incipit al resto. Un intero pubblico, o un singolo ascoltatore, poteva entrare e ascoltare un episodio, e poi andarsene e tornare per sentirne un altro. Il tempo era tutto sincronico, simultaneo.
Per un indiano il tempo è un ciclo, una ruota, che passa dalle tenebre alla luce e ritorna alle tenebre, dal silenzio al suono e di nuovo al silenzio. Per l’induismo, vedere le cose come separate, differenziate, è avidya, ignoranza, mentre la vera conoscenza, vidya, è conoscenza unitaria. Io ritrovo lo stesso credo nella festa messicana del Dia de los Muertos, quando ogni famiglia erige altari per i propri morti, e vi posa gli oggetti più cari ai defunti, una chitarra, per esempio, o una bottiglia di pulque, o una sella; in modo che i defunti, qualora tornassero, ne possano godere di nuovo. Nei cimiteri, le famiglie trascorrono la notte raggruppati intorno alle tombe, portando i cibi che un tempo piacevano ai loro morti, suonando e cantando le canzoni che essi amavano. E nel buio spesso della notte, pieno di guizzi e fumo di candele, i morti sono di nuovo presenti anche se invisibili.
Forse la musica esemplifica meglio questo credo. Non la musica in sé, ma il silenzio che la precede. Prima del suono c’è il silenzio, il vasto e incoato magma fuso - il nulla - ed è quel silenzio, quel nulla, che dà origine al suono. Per il credo indù, quel suono primigenio è la sacra sillaba Om. Ma una volta pronunciato, quel suono ritorna al silenzio. Così formando un cerchio, o un ciclo, la ruota che rappresenta anche la vita; la vita non è lineare, né sequenziale, bensì ciclica, circolare, finisce dov’era cominciata, e ricomincia là dove finisce. Dal silenzio nasce il suono. Dalla notte, il giorno. Dalla pietra, la forma. Ancor oggi un cantante classico in India lascia che il silenzio sia riempito dal ronzio indifferenziato del tanpura, e da tale ronzio lui o lei estrae la nota primaria del raga, dalla quale verranno le altre. Queste note - e sono suoni, non parole - nelle loro diverse combinazioni, sequenze e intonazioni andranno a comporre il raga.
Si ritiene che, pronunciate correttamente, abbiano poteri magici. E lo scrittore che maneggia le parole, il linguaggio, questo lo sa istintivamente. È dal buio, dall’invisibilità, che emerge ciò che si vede e ciò che si sente. Molti scrittori l’hanno testimoniato. Proust diceva che i libri veri non sono figli della luce del giorno e delle chiacchiere, bensì del buio e del silenzio. Rilke scrisse: «Questo solo è ciò che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in sé stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere». E Walter de la Mare: «Lo scrittore deve ritrarsi dalle pressioni e dai vezzi della convenzione, ancora e ancora. Deve costantemente ricatturare il silenzio». E il profeta americano Henry David Thoreau: «Amo avere ampi margini alla mia vita. (...) Come grano di notte crebbi in quelle stagioni. Esse non furono un tempo sottratto alla vita, ma molto sopra e al di là della consueta razione».
E Virginia Woolf così descrisse la scrittrice: «La immagino in un atteggiamento di contemplazione, come una donna che pesca, seduta sulla riva di un lago con la lenza protesa sull’acqua. Non stava pensando, né riflettendo, né costruendo un intreccio; lasciava che la sua immaginazione s’immergesse nelle profondità della coscienza mentre lei restava seduta lì aggrappandosi a un sottile ma indispensabile filo di ragione. Lasciava scorrere incontrollata l’immaginazione dietro ogni roccia, dentro ogni fessura del mondo che giace sommerso nelle profondità del nostro essere inconscio».
(traduzione di Anna Nadotti) Copyright: © 2009 by Anita Desai. Published by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria
Dai romanzi ai racconti per bimbi la scrittrice e la sua India Anita Desai, nata nel 1937 da madre tedesca e padre bengalese, ha compiuto gli studi a Delhi. I suoi libri pubblicati includono tra gli altri «Fuoco sulla montagna» (2006), che si aggiudicò il Royal Society of Literature’s Winifred Holtby Memorial Prize e il National Academy of Letters Award. Ha scritto anche due libri per bambini, «The Peacock Garden» (1979) e «Il villaggio sul mare» (2002), che vinse il Guardian Award for Children’s Fiction e da cui è stato tratto un film. Il suo ultimo romanzo, «Digiunare, divorare», tradotto in Italia nel 2005, è stato selezionato per il Booker Prize.
L’invisibile dentro la materia
Il testo che pubblichiamo verrà letto stasera da Nicola Cabibbo al Festival della Milanesiana.
I passi della fisica dalla lezione di Colombo, alle esplorazioni di Galileo sulla ricerca del "troppo piccolo per essere visto", fino alla meccanica dei quanti
Le tecniche sperimentate nei laboratori di Frascati e quelle future di Ginevra
Le nuove infinite possibilità offerte nello studio delle particelle elementari
di Nicola Cabibbo (la Repubblica, 25.06.2009)
«Ci sono più cose nei cieli e nella terra, Horatio, di quanto sogni la tua filosofia». Con Amleto, rappresentato tra il 1599 e il 1600, siamo alla soglia della transizione dal mondo della filosofia a quello della scienza. I segnali sono nell’aria, dalla nuova astronomia di Copernico e di Tycho Brahe alla filosofia di Giordano Bruno. Per guardare in faccia l’invisibile bisognava però seguire la lezione di Cristoforo Colombo: muoversi, andare a cercare, sporcarsi le mani, passare dal pensiero all’azione.
Spetta a Galileo fare il primo passo. Galileo aveva seguito la lezione di Colombo, si era sporcato le mani per perfezionare le lenti del suo telescopio. Con la scoperta dei satelliti di Giove - le Stelle Medicee - delle montagne sulla luna, di una miriade di stelle mai viste prima, delle fasi di Venere e delle macchie solari, si era lanciato nella conquista dell’invisibile. Il telescopio di Galileo apre l’esplorazione del "grande ma troppo lontano", e pochi anni dopo, nel 1624, lo stesso Galilei inaugura la ricerca del "troppo piccolo per essere visto" con un nuovo strumento, il microscopio, che affida ai naturalisti della Accademia dei Lincei.
Dobbiamo ricordare un’altra invenzione della scuola di Galilei, il barometro di Torricelli. Al di sopra della colonnina di mercurio si forma il vuoto, e nasce così una tecnologia essenziale per i moderni acceleratori, strumento di elezione per lo studio dei nuclei e dei loro componenti elementari, ma che hanno tante applicazioni nell’industria e nella medicina.
Il telescopio e il microscopio acuiscono la vista, ma la rivoluzione si compie combinando questi strumenti con un’idea più antica: sostituire alla visione diretta quella mediata da una immagine, sia essa una pittura, una scultura, o una fotografia. Si apre così una infinità di nuove possibilità, fino ai metodi di visualizzazione usati nello studio delle particelle elementari. L’immagine può essere prodotta dalla luce visibile, ma anche da radiazione di lunghezza d’onda minore - raggi ultravioletti, raggi X, raggi gamma - o di lunghezza d’onda maggiore - gli infrarossi o addirittura le onde radio, in un radar o in un radiotelescopio. E ancora possiamo usare onde sonore, nell’ecografia, o fasci di elettroni, nel microscopio elettronico.
Una semplice spruzzata di limatura di ferro permette di visualizzare le linee di forza di un campo magnetico. Qualsiasi cosa che possa essere misurata - la pressione o l’umidità dell’atmosfera, le quotazioni della borsa, la febbre di un malato - può trasformarsi in immagine, e dato che un’immagine vale più di tante parole, la visualizzazione di dati scientifici si sta affermando come una disciplina a sé, dovunque in rapido sviluppo. La lunghezza d’onda della radiazione determina i limiti alle dimensioni degli oggetti che si possono vedere. Se la distanza tra due dettagli in un oggetto è molto minore di una lunghezza d’onda, essi rifletteranno la luce, o altra radiazione, con la stessa fase e saranno quindi indistinguibili. Con la luce visibile, ad esempio, che si estende dai 0.38 micron (millesimi di millimetro) per il violetto ai 0.75 micron per il rosso, si potranno vedere distintamente batteri, di qualche micron, ma non dei virus che sono tipicamente cento volte più piccoli. Immagini più dettagliate richiedono lunghezze d’onda più piccole. Per superare i limiti della luce visibile bisogna quindi passare alla luce ultravioletta, o ai raggi X, o a fasci di elettroni.
La ricerca del piccolo ci ha rivelato una struttura complessa. Anzitutto gli atomi, i blocchetti del grande Lego della materia. Partendo dagli atomi si formano le molecole, dalle più semplici alle più complesse, come il Dna che codifica la materia vivente, o quelle nanostrutture, assemblaggi di centinaia o migliaia di atomi che sono alla base delle più promettenti tecnologie dei materiali.
Gli atomi sono essi stessi strutture complesse, composti da elettroni che ruotano intorno a un nucleo centrale, diecimila volte più piccolo. I nuclei sono composti da protoni, dotati di una carica elettrica positiva, e neutroni, elettricamente neutri. Il nucleo più semplice, quello dell’idrogeno, contiene un singolo protone. All’estremo opposto i nuclei più pesanti, come quello dell’uranio, che contengono oltre duecento tra protoni e neutroni. A loro volta protoni e neutroni sono composti da quark, particelle che allo stato delle conoscenze sono considerate elementari, cioè non ulteriormente scomponibili.
Con gli atomi, i nuclei e le particelle elementari entriamo nel regno della meccanica quantistica, un mondo strano e diverso, in cui non possiamo guardare un oggetto senza disturbarlo. La radiazione luminosa è composta da quanti, la cui energia è inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda: a lunghezza d’onda più piccola corrisponde un’energia più elevata. Ed ecco il problema: per studiare un atomo dobbiamo usare quanti di luce la cui energia è sufficiente a disturbarne la struttura.
Nel regno dei quanti l’osservazione modifica necessariamente l’oggetto osservato. Ma c’è di più: tutte le particelle, elettroni inclusi, si comportano come onde. C’è quindi una confusione di ruoli tra l’elettrone che circola in un atomo e il quanto di luce che usiamo per osservarlo. Ambedue sono particelle che si comportano come onde, osservatore ed osservato si confondono.
Guardare una particella significa farla scontrare con altre, siano esse quanti di luce, elettroni, o anche protoni, e registrare le conseguenze dell’interazione. Tanto maggiore l’energia delle particelle, tanto minore sarà la loro lunghezza d’onda, e di conseguenza più piccoli i dettagli che potranno essere rivelati. Per massimizzare l’energia totale delle particelle che si scontrano, la soluzione più efficace è rappresentata dai collisori, macchine in cui si fanno scontrare frontalmente due fasci di particelle di alta energia.
Questa tecnica è stata sperimentata per la prima volta nei Laboratori di Frascati dell’INFN all’inizio degli anni Sessanta in una piccola macchina, ADA, realizzata sotto la direzione di Bruno Touschek, e la sua ultima espressione è LHC, il gigantesco collisore di protoni - 27 chilometri di circonferenza - che sta per entrare in funzione al CERN di Ginevra. L’energia dell’urto può trasformarsi in nuove particelle, tra cui molte che per la loro vita effimera non si trovano in natura.
Tra le scoperte più sensazionali, i quanti delle interazioni deboli, i bosoni W e Z, e tre nuovi quark, l’ultimo dei quali, il quark t (top) è la più pesante particella sinora nota, quasi duecento volte la massa di un protone.
Lo sviluppo della fisica delle particelle ha offerto il campo a una eccitante gara tra teoria ed esperimento. In molti casi la teoria ha sopravanzato l’esperimento, prevedendo ad esempio le caratteristiche e la massa dei bosoni W e Z. Altre volte l’esperimento ha portato a scoperte inattese, come quella di una asimmetria tra materia ed antimateria.
L’insieme dei fatti sinora accertati si inquadra nel cosiddetto Modello Standard, affinato e verificato con grande precisione negli ultimi decenni. Molti indizi mostrano però che il lavoro è ben lungi dall’essere completo. Il Modello Standard è ancora imperfetto, perché non comprende una corretta descrizione quantistica della forza di gravitazione. Un secondo indizio proviene dalla cosmologia: gran parte della materia nell’universo, la cosiddetta materia oscura, è composta da particelle mai osservate nei nostri laboratori. I teorici stanno mettendo a punto le possibili teorie del futuro, prima tra tutte la cosiddetta teoria delle stringhe. Ma solo l’incontro tra teoria ed esperimento, come ha insegnato Galilei, porterà un progresso decisivo, ed è quindi forte l’attesa per quanto il nuovo collisore LHC del CERN potrà rivelare.