Premessa sul tema (cliccare sul titolo, per andare al testo):
La psicoterapia è appannaggio delle donne, in Italia e non solo. Sono più sensibili. Ma dipende anche dal tipo di professione, che rende poco
Sul lettino di Miss Freud
La psiche curata dalle donne
Tra vent’anni la psicoterapia sarà appannaggio esclusivamente femminile. Lo dicono i numeri che già oggi registrano il 94% di psicologhe sotto i 29 anni. -Una svolta dovuta alla capacità di gestire meglio la vita interiore. Ma anche alla scarsa redditività della professione
Si tratta di una tendenza mondiale e non solo italiana, un vero e proprio terremoto confermato dai colleghi maschi
"Noi crediamo che il sesso del terapeuta non abbia importanza per la cura, ma va considerato ciò che pensa il paziente"
di Vera Schiavazzi (la Repubblica, 31.05.2011)
Tra vent’anni, sarà impossibile raccontare i propri guai, dal divorzio all’impotenza, dallo stress sul lavoro ai fantasmi sessuali, a uno psicoterapeuta maschio. Lo dicono i numeri (il 94 per cento degli psicologi sotto i 29 anni è femmina), lo dice la tendenza mondiale (anche negli Stati Uniti le cose vanno così) e lo ammettono i protagonisti, impegnati ad analizzare il terremoto - non solo femminile - che negli ultimi anni ha investito tutto il mondo del disagio psicologico, dal lettino freudiano di un tempo alle terapie brevi o brevissime di oggi.
"È vero - dice Vittorio Lingiardi, psichiatra e docente, autore con altri colleghi di un libro appena pubblicato per Raffaello Cortina sulla "svolta" della psicoanalisi in Italia - spesso è difficile trovare un bravo collega maschio al quale inviare un paziente che per la sua storia o i suoi problemi vorrebbe una persona del suo stesso sesso. Questo dipende dall’aumento delle donne in questo campo, dalla loro bravura e più in generale da una certa "femminilizzazione" del nostro mestiere. Il punto di vista delle donne ha avuto molto peso nella storia recente della psicoterapia, e per gli uomini è più difficile affrontare la propria vita interiore». Ma Lingiardi aggiunge: «In generale, noi pensiamo che il sesso del terapeuta non abbia rilevanza nel successo della cura. Ma il punto di vista del paziente va tenuto in considerazione».
È un tema, quello del possibile disagio nei confronti di chi sta di fronte a noi e dovrebbe curare la nostra anima, o almeno i nostri sintomi, che secondo alcuni andrebbe affrontato fin dalla prima seduta. «Io invito sempre i pazienti a farlo, e trovo giusto che loro se lo chiedano - dice Silvana Quadrino, psicoterapeuta e fondatrice dell’Istituto Change - Possono esserci elementi nella storia personale e nei problemi per i quali ciascuno ricorre a una terapia che suggeriscono una soluzione piuttosto che un’altra. Ed è giusto parlarne, anche tra colleghi».
All’Ordine nazionale degli Psicologi, dove ogni anno si registra l’ondata di nuove iscritte, l’analisi è più prosaica: «Le psicoterapeute aumentano così come le donne medico o le infermiere, si tratta di un lavoro di cura che è più facilmente scelto dalle donne - dice il consigliere Raffaele Felaco - Si tratta, anche, di un lavoro dove si guadagna poco, specialmente in tempi di crisi come questi, e a dimostrarlo c’è il crollo dei contributi che ognuno versa alla nostra cassa previdenziale. È normale che i maschi siano attratti da maggiori prospettive di guadagno».
Fino a quando la psicoterapia era, soprattutto, l’analisi classica, freudiana e junghiana in primo luogo, lunga e costosa, basata su sedute frequenti prolungate per anni, in effetti, i terapeuti maschi erano numerosi e autorevoli. Ora di quel dotto esercito è rimasta una qualificata retroguardia, mentre l’onda rosa invade il mondo delle terapie cognitive e comportamentali, di chi vuole curare il sintomo piuttosto che l’anima, di chi non cerca di frugare a mani nude nell’inconscio altrui ma preferisce piuttosto offrire un aiuto spiccio e concreto, e proprio per questo criticatissimo dai "veri" analisti.
Sulla carta, dal 1989, tutti sono uguali: laureati in medicina e in psicologia possono frequentare per 4 anni una delle scuole riconosciute di psicoterapia, poi un tirocinio e un esame, e infine iscriversi nei due elenchi tenuti dai rispettivi Ordini.
Anche un nome famoso della psicoanalisi italiana, Luigi Zoja (a lungo alla guida della società scientifica che riunisce gli junghiani, e tra poco in libreria per Bollati Boringhieri con "Al di là delle intenzioni. Etica e analisi", riconosce alla teoria dei bassi guadagni qualche dignità: «Proprio come in medicina, a mano a mano che la piramide allarga la propria base entra un numero maggiore di donne, e in prospettiva la professione potrebbe diventare femminile tanto quanto lo è stato l’insegnamento. Il mondo italiano risente del proprio provincialismo e maschilismo, ma anche negli Stati Uniti, da tempo, le donne sono maggioranza nel nostro lavoro. La mentalità puritana e rigorosa degli americani ha individuato così il rimedio agli esempi storici di abuso del terapeuta sulla paziente. In verità il genere sessuale del terapeuta dovrebbe essere indifferente rispetto alla riuscita del percorso, così come i possibili abusi possono avvenire in tutte le direzioni. Noi pensiamo che chi fa questo lavoro dovrebbe avere un sufficiente equilibrio e una preparazione abbastanza solida da evitare qualunque disagio al paziente».
«Noi psicoterapeuti dovremmo essere come gli angeli, senza sesso - ironizza Vera Slepoj, una delle più note e autorevoli psicoterapeute italiane, autrice di testi come "Le ferite delle donne", ma anche psicologa di squadre di calcio come il Palermo - In generale dunque bisognerebbe affermare che il sesso del terapeuta non ha alcuna importanza. Ma naturalmente questo può avvenire soltanto se il lavoro su se stessi è stato fatto fino in fondo e se si è capaci di escludere qualunque forma seduttiva, dal maschio che cura verso la paziente e viceversa. Le celebri storie del passato, da Freud in giù, non possono più influenzare la realtà di oggi».
Slepoj, però, spinge il giudizio più in là: «Centinaia di giovani donne studiano psicologia e diventano terapeute perché sono interessate alla propria conflittualità, al desiderio di curare se stessi o gli altri. È importante distinguere tra questi due bisogni, e non lasciarsi tentare dall’onnipotenza di chi cura, un’inclinazione tipicamente femminile».
La psicoterapeuta che siede di fronte al paziente, dunque, non dev’essere né mamma né fidanzata, né sorella né amante, o - almeno - non deve esserlo di più di quanto non facciano i colleghi maschi alle prese con fantasie e fantasmi delle pazienti femmine. Per curare un uomo bisogna conoscerlo bene, studiarne i limiti e le timidezze, dice Vera Slepoj.
Altrimenti, è facile trovarsi davanti a un muro di silenzio, lo stesso che spinge moltissimi maschi a non iniziare neppure una terapia: «Imprigionato nella dinamica del potere, l’uomo ha immiserito anche il proprio corpo, rinchiudendolo in una separatezza che ha atrofizzato le sue capacità di relazione», spiega Stefano Ciccone, biologo, autore di "Essere maschi" per Rosenberg & Sellier.
Ma è davvero così difficile trovare un brav’uomo, e soprattutto un bravo psicologo, come ha titolato pochi giorni fa il New York Times alle prese con le lamentele dei propri lettori che dopo la difficile scelta di iniziare un percorso di sostegno psicologico o di analisi si ritrovavano circondati da un mondo di sole donne? No, assicura il presidente dell’Ordine degli Psicologi italiani, Luigi Palma: «Il vero problema è un altro, cioè la mancanza di servizi pubblici in grado di rispondere alla domanda crescente di cure. È vero che le donne crescono molto nella nostra categoria, ma non al punto da costituire un problema, anzi, sono una risorsa. Il fatto è che gli italiani non dispongono delle risorse economiche, e spesso anche delle conoscenze necessarie, per rivolgersi a terapie qualificate». Non servono più maschi, insomma, ma soltanto più professionisti, di qualunque sesso e pagati dal servizio sanitario pubblico, per curare nevrosi e paure di 60 milioni di italiani.
Il sesso dell’analista conta, ma fino a un certo punto
Gli stereotipi e il ruolo della fiducia
di Michela Marzano (la Repubblica, 31.05.2011)
GLI hanno insegnato a tenersi tutto dentro. Non si fa. Non si mostra. Soprattutto non si dice. Gli hanno spiegato che per essere un "vero uomo" deve sempre mostrarsi sicuro di sé e forte. E che le proprie debolezze e le proprie fragilità non le deve confidare proprio a nessuno. Certo, quando le cose vanno veramente male, si può scherzare con gli amici. Al limite, si può anche domandare un consiglio. Tanto tra uomini ci si capisce...
Ma andarne a parlare con una donna, è tutta un’altra cosa! Come si fa a dirle che ci si sveglia la notte strangolati dall’angoscia, che la mattina si fa fatica ad alzarsi per andare al lavoro, che il senso della vita sfugge, che quello che si è vissuto da bambini continua a tormentarci? Eppure gli uomini che stanno male sono tanti. E sono sempre più numerose le donne che decidono di diventare terapeute. Che fare allora? Abbandonare gli atavici pregiudizi sulla virilità e sull’inferiorità delle donne e cercare un aiuto femminile, o rinunciare ancora prima di aver provato, perché di una donna non ci si può fidare?
È difficile cominciare una psicoterapia. Per chiunque. Anche quando si sta veramente male. Perché, nonostante tutto, c’è sempre la tentazione di credere che ce la si può fare da soli. Che non serve a nulla andare a raccontare i fatti propri a qualcun altro e che, con uno sforzo di volontà, ci si deve poter rimettere in piedi.
Non è facile ammettere che qualcosa possa un giorno sfuggire al proprio controllo e che, talvolta, ci sia bisogno di rimettersi completamente in discussione. Tanto più che, durante una psicoterapia, tutto può accadere. Soprattutto rendersi conto che si è imboccata una strada cieca e che ci si è incastrati, fin da piccoli, in dinamiche familiari complesse e tortuose. È allora che interviene la figura dell’analista, angelo tutelare dei propri segreti più reconditi, che dovrebbe poterci aiutare a ricominciare tutto da capo. Ma come fare se non ci si fida?
Quando si comincia una psicoterapia, spesso si arriva con una serie infinita di "perché" cui si vorrebbe avere una risposta il più velocemente possibile. Solo che, strada facendo, ci si rende conto che alcune risposte non arriveranno mai. E che il ruolo del terapeuta è soprattutto quello di prenderci per la mano e accompagnarci in un lungo viaggio all’interno di noi stessi.
È per questo che ci si deve poter fidare della persona cui si affidano le proprie angosce, i propri dubbi, i propri tormenti. Ed è per questo che è tanto difficile "guarire". Perché quella che quasi tutti chiamano guarigione, in realtà, è un cambiamento talvolta impercettibile del proprio modo di osservare il mondo. Anche se è proprio questo cambiamento che può poi aiutarci a non riprodurre sempre gli stessi errori.
Allora è inutile dire che il sesso del terapeuta o dell’analista non conta. Non perché le competenze o le capacità abbiano un sesso, ma perché quando si comincia una psicoterapia si proiettano sull’analista tutta una serie di fantasmi e di aspettative che dipendono necessariamente anche dal sesso di colui o di colei con cui si parla. È il famoso gioco del transfert e del contro-transfert.
Quando nella relazione analitica "accade" qualcosa che va oltre la semplice comunicazione razionale. Quando ci si rende conto che è proprio perché si ha fiducia nella persona che ci sta di fronte che ci lascia andare, si capiscono le dinamiche ingarbugliate da cui non si riesce ad uscire da soli e si cerca di cambiare.
Non esistono regole universalmente valide. Non è vero che per una donna sia sempre meglio una terapeuta e che per uomo, invece, sarebbe meglio un altro uomo. Tutto dipende da quello che si vuole "riparare" o anche semplicemente "capire". Certo, bisognerebbe poter avere la scelta. Ed è un peccato che siamo sempre meno gli uomini che decidano di fare i terapeuti.
Ma è assurdo credere che una terapeuta non vada bene per uomo, solo perché si tratta di una donna. Pensarlo, significa solo essere prigionieri degli stereotipi. Quegli stessi stereotipi che talvolta sono all’origine del malessere che si cerca di sormontare. Quegli stessi stereotipi che troppo a lungo hanno impedito agli uomini di riconoscere le proprie debolezze, di domandare un aiuto, e eventualmente di imparare a stare meglio con se stessi. Come chiunque. Visto che ognuno di noi, nella vita, deve prima o poi fare i conti con la propria interiorità, ammettere di non essere onnipotente e accettare di convivere con le proprie fragilità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
FLS
Silvia Vegetti Finzi: «Non facciamo più figli, stiamo vivendo un’eutanasia culturale»
La psicologa tra maternità (disimparata) e virilità oggi intesa come violenza
di Roberta Scorranese (Corriere della Sera, 18 settembre 2020)
Non facciamo più figli.
«Ma la colpa è anche nostra».
Si spieghi meglio.
«Io ho ottantadue anni, sono entrata nel movimento femminista tardi, nel 1980, ma sono poi stata molto attiva. E la mia generazione ha sbagliato a non proporre una nuova idea di maternità alle giovani donne di allora, oggi ultra quarantenni».
Avete insistito troppo sulla realizzazione professionale?
«Vi abbiamo insegnato ad essere figlie e non madri. A fare carriera e non a costruire un nuovo modello di maternità. Vi abbiamo spinto a cercare madri simboliche, da Virginia Woolf ai modelli più attuali, cercando di tenervi sempre in una condizione “filiale” e non “generatrice”. Non vi abbiamo passato il libretto delle istruzioni. Così oggi ci sono migliaia di quarantenni che non hanno avuto figli e quando chiedo loro il perché di questa scelta la risposta è quasi sempre “Perché c’erano altre priorità”».
Non solo. Negli anni Ottanta c’è stata una corrente di pensiero che ha provato a demolire la maternità.
«Che grave errore che abbiamo commesso, è il momento di riconoscerlo».
Però si deve a voi se oggi tante ragazze non hanno paura di confrontarsi con i colleghi uomini a scuola, all’università e sul lavoro.
«Certo, ma sappiamo quello che succede: sono bravissime negli studi, si laureano meglio e prima degli uomini, magari cominciano a lavorare presto ma poi? Poi, scompaiono. Spariscono nel percorso della carriera e nella crescita professionale. Spesso per il cosiddetto «soffitto di cristallo», ma spesso anche perché non riescono a conciliare la maternità con il lavoro. Quello che avremmo dovuto fare è elaborare una maternità migliore, non cancellarla».
Così, mentre l’idea di famiglia in qualche modo si recupera - pensiamo alle famiglie allargate o a quelle costruite sul senso di comunità -, la maternità è difficilmente recuperabile nella sua natura simbolica.
«Esatto. È una perdita anche culturale. Pensiamo solo all’Italia: siamo il paese delle madri, dalla forma più discutibile come il “mammismo” a quella più nobile, cioè quella delle grandi rappresentazioni iconografiche della maternità religiosa. Eppure la sa una cosa? Ogni volta che ho proposto alle femministe una riflessione sulle annunciazioni nella pittura, mi hanno risposto molto freddamente».
Le annunciazioni sono uno scrigno di simboli materni: la paura, il coraggio, la dedizione, la crescita personale.
«Aggiungo una cosa. In molte rappresentazioni mariane non c’è solo Gesù, c’è anche il piccolo Giovanni. I due bambini vengono raffigurati come coetanei ma fisicamente diversi: il Cristo è delicato e angelico, Giovanni è materico, ricciuto, a volte vestito di pelli di animali. Io ci vedo un messaggio di profondità straordinaria: il bambino del giorno e il bambino della notte. Quello reale e vissuto e quello non vissuto e non elaborato. Pensi quanto sarebbe importante per il femminile studiare ed assimilare tutto questo. Invece nulla. E allora che cosa vediamo? Maternità conflittuali, difficoltà ad integrare i ruoli e, per riflesso, una paternità debolissima».
Il «mammo»?
«Che errore. Noi abbiamo bisogno di padri, non di mammi. La dissimmetria è un valore, io amo l’altro non il mio simile. Ma d’altra parte questo è il risultato di una maternità confusa. Il padre, simbolicamente, non esiste finché la madre non lo indica come tale. È sempre la madre che definisce la figura paterna e, al tempo stesso, ne trae forza. Bisogna capire che distilliamo potenza dalla differenza».
Lei lo ha sempre detto: sposiamo il padre ideale per i nostri figli, quello che cambia i pannolini e che cucina, ma poi non lo desideriamo più.
«Mettiamola così: molte donne sposano l’uomo che non è proprio l’oggetto del desiderio ma è grazie a lui che tante mogli potranno, come Rossella O’Hara, continuare a desiderare “l’altro”. Io e mio marito siamo stati assieme per sessantadue anni perché abbiamo riconosciuto le differenze ma ci siamo sforzati entrambi di integrarle. Ci siamo adattati alle stagioni della vita senza pretendere di rimanere nello stadio iniziale dell’incanto. Lui ha accettato di fare, qualche volta, il principe consorte accompagnandomi per convegni e io ho fatto altrettanto».
Perché ha anteposto il cognome di suo marito (Vegetti) al suo?
«Perché all’epoca era obbligatorio firmare così nei documenti pubblici, ci siamo sposati nel 1960. Poi ho mantenuto il doppio cognome. Un po’ come era obbligatorio, per una coppia sposata, esibire il certificato di matrimonio al momento di prenotare una stanza d’albergo. Di passeggiare mano nella mano non si parlava, ma pensi che una volta, era il 1963, fui costretta a scendere da un tram a Milano: indossavo un abito senza maniche. Oggi tutto questo sembra assurdo, ma quando mi sono iscritta all’Università Cattolica, nel 1963, il bidello dovette prestarmi la sua giacca perché una donna non poteva entrare in segreteria con le braccia scoperte».
È vero che c’erano due corridoi distinti, uno per gli uomini e uno per le donne?
«Certo, e così facendo si erotizzava tutto, anche la cosa meno pruriginosa come camminare per un corridoio universitario. Ma quello che non dimenticherò mai è uno specchio: recava la scritta “La donna che si depila le sopracciglia è una donna che mente”. Lo aveva voluto lo stesso padre Gemelli».
Il Sessantotto cambiò tutto?
«Sì, ma non è che nel Sessantotto le donne ebbero questo grande ruolo di protagoniste in Italia. Facevano le fotocopie dei volantini e nacquero così gli “angeli del ciclostile”. Poi vede, non era facile. Se una donna prendeva la parola in un’assemblea con centinaia di persone lo sguardo maschile era molto più presente e condizionante di quanto lo sia oggi. E lo sguardo maschile - ricordiamocelo - è sempre giudicante. Con una sua logica binaria: vecchia/giovane, brutta/bella, ribelle/docile. È stato difficilissimo affermarsi».
Soprattutto per una donna che si occupava di psicoanalisi, disciplina che in Italia venne ostacolata sia dal marxismo che dalla Chiesa cattolica.
«Mi dispiace dirlo ma il momento in cui la psicoanalisi divenne un vero fenomeno culturale coincise, in Italia, con le lezioni di Armando Verdiglione. Un personaggio molto discusso ma finalmente nei suoi incontri la psicoanalisi diventava il canale attraverso il quale leggere la cultura e il nostro tempo. Oggi io penso che solo con Massimo Recalcati questa disciplina assume un peso culturale che va oltre il mero significato terapeutico. Sono grata a Recalcati per questo, me lo faccia dire».
È d’accordo con la lettura che Recalcati ha fatto dell’assassinio di Willy Monteiro Duarte a Colleferrro (violenza contro la «parola di pace» che Willy tentava di portare in una rissa, ndr.)?
«Sì, anche se io l’avrei incentrata di più sul femminile».
Cioè?
«Penso che questi parossismi di mascolinità siano una reazione alla paura della femminilità. Donald Winnicott nei primi anni Trenta sosteneva che in ogni società persiste una grande paura delle donne. Si spiega con la dipendenza che si prova nei primi due anni di vita: senza una madre un neonato non sopravvive. E in questo mancato “grazie” alla madre risiede una violenza che tenta di abbattere quella dipendenza. E così, senza un’adeguata educazione, la virilità in molti casi cambia pelle, si confonde con la durezza e alla fine con la violenza. Specie contro le donne».
Alla base, dunque, c’è sempre una paura di essere sopraffatti.
«Winnicott poi lega questo ragionamento alla politica e dice che le tirannie sono il risultato di questa paura: diventiamo devoti ad un essere che non dipende da nessuno, un tiranno, appunto, un potere assoluto».
Torniamo ad una mancata - o monca - elaborazione della maternità.
«Lo dico da sempre: se dessimo alla maternità il giusto peso, saremmo molto più liberi».
Professoressa, lei è nata il 5 ottobre del 1938: esattamente un mese dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia.
«Sì, con un padre ebreo e una madre cattolica. Pensi che beffa: per i nazisti io avrei potuto rientrare nei “gentili”, ma per i fascisti no. Però la nostra origine ebraica non venne elaborata in famiglia, nessuno mi aveva mai detto che io ero ebrea così da bambina sentivo montare una paura folle quando ascoltavo certe dichiarazioni senza che l’oggetto della mia paura fosse ben chiaro. Una cosa terribile».
Nel suo libro Una bambina senza stella lei dipinge una non-madre.
«Mia madre è stata durissima con me. Ho vissuto a modo mio l’isolamento, il sentirmi invisibile e un’identità incerta. Però qualche anno fa sono stata invitata ad una serata dalle sue ex alunne, oggi anziane, che mi hanno dipinto una donna completamente diversa: una maestra dolcissima, amorevole, che si prendeva cura “delle sue bambine”. Le do atto di questo, devo farlo. Però con lucidità devo anche riconoscere che non sono stata amata. Fa bene fare i conti con il proprio passato».
Oggi qual è il suo rapporto con la fede?
«È strettamente legato al riconoscimento dei miei limiti. Vorrei fare tante cose ma non riesco, vorrei capire ma non ce la faccio. È allora che entro in un territorio diverso, quello del sacro. La fede per me è capire che siamo destinati alla finitezza».
E se si guarda indietro che cosa vede?
«Tanti errori, primo tra tutti quello di aver troppo spesso fornito “soluzioni precotte” ai miei figli, quando avrei dovuto lasciarli andare. Ma trovo anche tanta ricchezza: di amici, colleghi, dell’amore di mio marito. E mi lasci dire una cosa per chiudere: credo che oggi la vera grande povertà non sia quella dello spirito, la vera miseria è il tempo che ci manca e che non riusciamo a trovare mai».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Silvia Vegetti Finzi, Mettere al mondo il mondo ( Festival di Filosofia, Modena 16 settembre 2017)
Se un padre e una madre tornano adolescenti
Massimo Ammaniti analizza i pericoli che si annidano quando genitori insicuri e in perenne crisi non sono più riferimento certo per i propri figli
di Michela Marzano (la Repubblica, 15.11.2015)
Se i genitori sono degli eterni adolescenti come fanno i ragazzi e le ragazze a crescere e a diventare adulti? Se padri e madri sono insicuri e in perenne crisi, come possono essere un punto di riferimento per i propri figli? Sono queste alcune delle domande cui cerca di rispondere Massimo Ammaniti nel saggio La famiglia adolescente ripartendo dal concetto di adultescenza che, apparso negli Stati Uniti già negli anni Ottanta, ha poi avuto un notevole successo designando ormai anche in Europa quelle persone adulte per età, ma ancora adolescenti nel modo di vestirsi, negli atteggiamenti e negli interessi.
Per Ammaniti, la famiglia di oggi sarebbe una “famiglia liquida”, come direbbe Zygmunt Bauman, ossia non solo una famiglia in cui si sta sempre insieme e si condivide tutto, ma anche una famiglia in cui gli adolescenti, quelli veri, non troverebbero alcun aiuto per affrontare le complessità della vita.
Certo, l’adolescenza dei figli continua ad essere vissuta dai genitori come un periodo delicato, che irrompe nella vita familiare costringendo i genitori a confrontarsi con figli sempre alla ricerca di sensazioni forti e che, talvolta, finiscono col mettersi in pericolo. A differenza del passato però, quando il modello familiare era più rigido ed esisteva un’etica del dovere, oggi non ci sarebbe più alcuna capacità da parte dei genitori di arginare crisi e sbandamenti dei propri ragazzi.
Come si può aiutare un figlio quando si è ancora insicuri e si preferisce il ruolo di “madri-sorelle” o di “padri-fratelli” piuttosto che quello di guide e di consiglieri?
Nel corso degli ultimi cinquant’anni si è passati da una generazione di genitori autoritari che, a forza di imporre regole non erano capaci di riconoscere la specificità e il valore dei propri figli, a una generazione di genitori deboli, quasi presi in “ostaggio” da un ruolo che non sanno esercitare.
Ne hanno parlato illustri psicanalisti come Jacques Lacan, che non ha mai smesso di ricordare l’importanza del “nome del padre” e della necessità che i padri, appunto, trasmettessero il senso della “legge”. Esattamente come hanno fatto alcuni scrittori, non esitando a descrivere le proprie incertezze, come Michele Serra nel romanzo Gli sdraiati.
Ma allora quale sarebbe la soluzione, tornare indietro? Forse no, suggerisce Ammaniti basandosi sulla sua esperienza clinica e su molti studi. Forse basterebbe solo “cambiare marcia” e non confondere l’autorità con l’autoritarismo. Visto che nonostante la vita si sia allungata per tutti, i più piccoli continuano ad aver bisogno di figure adulte cui appoggiarsi e in cui credere, un padre o una madre di cui fidarsi. Non si tratta di ricreare barriere che hanno separato le generazioni, ma di capire che la separazione serve a salvaguardare la differenza che caratterizza ogni essere umano.
Stesi sul lettino nei Paesi dell’Islam
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, o5.10.2012)
Lo scorso 26 settembre, di fronte al numeroso corpo consolare insediato a Milano, Ferruccio de Bortoli, direttore del «Corriere della Sera», sottolineava l’urgenza di «progredire nella pace e nel dialogo in una società multietnica». Per una coincidenza tanto casuale quanto indicativa dell’attualità di questi propositi, domani si terrà all’Università di Pavia, nella storica sede del Collegio Ghislieri, un seminario internazionale dal titolo «Geografie della psicoanalisi». La metafora rinvia al confronto e al dialogo tra le molte psicoanalisi operanti oggi nel mondo. Una prospettiva coraggiosa per un sapere nato all’inizio del Novecento, nell’ambito della minoranza ebraica viennese in cerca d’identità e integrazione.
Come spesso accade nella storia del pensiero scientifico, dallo scandaglio del particolare sono emersi paradigmi ritenuti universali. Il primato dell’Inconscio, il complesso di Edipo, il disagio della civiltà e la pulsione di morte, insieme alle regole per lo svolgimento della cura, hanno costituito, sotto la tutela dell’IPA, la Società internazionale di Psicoanalisi, un corpus teorico e clinico sostanzialmente stabile e omogeneo. Ma ora l’intensificarsi di relazioni multietniche induce a chiedersi: «Che cosa sopravvive della psicoanalisi, una volta messa a dimora in culture estranee e lontane?
Dalla rivista «Psiche», cui il seminario s’ispira, sono state anticipate alcune questioni. Ad esempio, si può trasferire la prassi del lettino in contesti, come quello islamico, caratterizzati dalla intransigente affermazione della superiorità maschile? Per lo psicoanalista Gehad Mazarweh dell’Università di Teheran, intervistato da Daniela Scotto di Fasano, la posizione frontale è preferibile soprattutto per la paziente donna, che ne trae una conferma della sua emancipazione. A una conclusione analoga giunge la psicoanalista Gohar Homayounpour osservando che, in Iran, un uomo non si sdraierebbe mai dinnanzi a un’analista donna.
Anche il fine della terapia è diverso: nel mondo occidentale si tratta di ricomporre un individuo frammentato rimettendolo in contatto con le parti rimosse della sua identità e con i rapporti sociali spezzati dall’affermazione narcisistica di sé. In società ad alto indice di collettività si chiede invece alla psicoanalisi di sostenere l’emancipazione dai condizionamenti familiari e ambientali, l’acquisizione di spazi di libertà personale.
Nei nuovi rapporti culturali e professionali Lorena Preta teme possano emergere atteggiamenti neocolonialisti, improntati a una presunta superiorità della cultura occidentale. Una tentazione evitabile privilegiando la psicoanalisi della domanda, cogliendo le provocazioni dell’alterità, sopportando l’ansia del dubbio e la fatica della ricerca, accettando la reciprocità e il cambiamento.
Non dimentichiamo che l’esilio impronta la storia e la teoria della psicoanalisi, fondata sul decentramento dell’Io e l’interpretazione dell’Inconscio. Il seminario si svolgerà attraverso colloqui tra psicoanalisti italiani e stranieri che studiano e lavorano in paesi islamici, mentre Livio Boni, dell’Università di Tolosa, affronterà il contatto con l’India, un subcontinente che suscita in noi contrastanti fantasie di «origine assoluta e irriducibile alterità».
Perché questa straordinaria avventura di traduzioni e ibridazioni reciproche s’inaugura a Pavia? Perché in quell’ateneo gli studi psicoanalitici sono sempre stati aperti alla storia e al confronto con le altre discipline, tra cui una intensa collaborazione con la psichiatria e l’antropologia.
In linea generale, dalla geografia della psicoanalisi ci si attende un contributo alla comprensione di chi, proveniente da paesi lontani, pur vivendo accanto a noi, ci rimane estraneo.
E, in modo specifico, una riflessione su tecniche e saperi minacciati, come sempre accade, dall’irrigidimento delle tradizioni e dal conservatorismo delle istituzioni.
Stefano Bolognini "Ecco perché la psicanalisi scopre l’Oriente"
Il cinese sul lettino
Stefano Bolognini ora presidente di tutti i freudiani del mondo. "La nostra disciplina si diffonde ovunque"
"A Pechino non solo ci tollerano, ma contano su di noi per creare una società armoniosa"
"Ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis Le terapie si fanno on line, via Skype"
di Luciana Sica (la Repubblica, 30.06.2011)
Se un cinese sogna di mangiare un chow chow, vorrà mordere il suo analista che è un cane o cibarsi di una vera prelibatezza? Non si sottrae allo humour, Stefano Bolognini: «Li amo talmente i cani, io, che un sogno del genere mi metterebbe davvero in difficoltà. Sarei comunque un pessimo analista di un paziente del genere, altro che neutralità!». Poi, più serio: «Non esistono interpretazioni oggettive, formule precostituite e valide per tutti. Èil singolo sognatore che conta: per il paziente cinese, potrà darsi il primo caso, il secondo, o anche - in modo condensato - tutti e due. Andrebbe analizzato senza preconcetti, direi anzi senza pre-concezioni troppo legate alla sua tradizione culturale».
Paziente orientale, analista occidentale. Tutt’altro che un’ipotesi astratta, visto che a sorpresa la Cina comunista risulta estremamente interessata alla psicoanalisi. E a occuparsene sarà proprio Bolognini, da un paio d’anni alla guida della Società psicoanalitica e ora - ed è la prima volta per un italiano - neopresidente dell’International Psychoanalytical Association: l’Ipa, che fu fondata da Freud nel 1910 e oggi conta dodicimila iscritti. «Un gran riconoscimento per la creatività della psicoanalisi italiana», per dirla con la punta di enfasi di Bolognini, che sarà proclamato President Elect al congresso mondiale di Città del Messico in programma dal 3 al 6 agosto. Altra notizia: alla vicepresidenza del tempio dei freudiani ci sarà la svedese Alexandra Billinghurst - mai prima d’ora una donna aveva conquistato i vertici dell’Associazione.
"Non sanno che portiamo la peste", è la celebre frase - del 21 agosto del 1909 - pronunciata da Freud, salpando con Jung (e Ferenczi) alla volta di New York. Dopo un secolo, dottor Bolognini, la psicoanalisi ha "appestato" il mondo?
«Non potrebbe essere diversamente, visto che è il più serio strumento di conoscenza e di cura del mondo interno degli esseri umani che mai sia stato messo a punto. Con una sottolineatura: la psicoanalisi ha una complessità concettuale e tecnica molto maggiore di quella di una volta».
Quali sono i Paesi "nuovi" in cui si sta diffondendo?
«Fino a pochi anni fa erano la Turchia, il Libano, tutto l’Est europeo, in Asia la Corea e in America Latina il Paraguay. Oggi, oltre alla Cina, ci sono il Mozambico che per ragioni linguistiche conta sugli analisti brasiliani, l’Iran dove le classi colte sono affamate di psicoanalisi (a Teheran lavorano otto analisi formati a Parigi e negli Stati Uniti), l’Egitto e il Marocco anche lì con analisi di derivazione francese, il Sudafrica in cui già operano quattro analisti iscritti all’Ipa e la stessa Cuba che ha preso i primi contatti con gli analisti latinoamericani sempre dell’Ipa».
La novità assoluta è la Cina. Nessun problema politico?
«Sono le attività esplicitamente antigovernative ad essere sotto controllo. La psicoanalisi non solo è tollerata ma addirittura inserita in un progetto politico volto a creare una "harmonious society"».
Una società armoniosa, grazie agli epigoni di Freud?
«Ècosì che la pensa la nomenklatura cinese, e a Pechino - lo scorso ottobre - si è svolta la prima conferenza asiatica dell’Ipa, con oltre cinquecento partecipanti. Nella capitale ci sono nove candidati in analisi dalla moglie dell’ambasciatore tedesco e altrettanti a Shangai, sempre da un analista tedesco che si è trasferito lì. Inoltre èstato riconosciuto un "Allied Center" composto da psichiatri e psicologi per così dire tifosi della psicoanalisi, una sorta di "testa di ponte" culturale favorevole all’arrivo di analisti didatti o alla possibilità che terapeuti locali vadano a formarsi all’estero per poi rientrare. Università e ospedali sostengono il progetto formativo di nuovi analisti... E ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis, di terapie on line, via Skype».
Ammetterà una certa alterazione del setting. Non saràun addio al divano?
«Assolutamente no. Intanto il primo anno di analisi è quello "tradizionale", poi la Rete consente almeno il vis-à-vis, ma solo quando c’è un problema di distanza».
I pazienti quanti sono, e soprattutto chi sono?
«Di questo sappiamo pochissimo, non esistono statistiche né censimenti. E al momento ci sono soprattutto analisi di formazione, visto che stanno iniziando. Ma in linea generale, in un paese come la Cina, dove la concezione collettivista ha depersonalizzato gli individui, credo che il recupero della soggettività sarà uno degli elementi decisivi nella richiesta di analisi».
La qualità non verrà decisamente annacquata in Oriente come in Africa?
«Gli inizi in aree lontane dai grandi centri psicoanalitici sono sempre difficili, e così è stato anche nei Paesi ora evoluti quando la psicoanalisi era agli albori - compresa l’Italia, negli anni pioneristici prima della Seconda guerra mondiale».
Mettiamo la celebre riscrittura del "romanzo familiare" dei pazienti. In realtà antropologiche così differenti dalle nostre, dove le famiglie possono essere comunità anche estese, come lavorerà un analista?
«I riferimenti teorici sono comunque quelli classici, validi in tutte le culture perché tengono conto delle invarianti di base della mente umana. Naturalmente le specificità locali vengono rispettate: del resto, già il contesto socioculturale della Sicilia varia molto rispetto a quello dell’Alto Adige. E gli analisti lo sanno».
Ma la psicoanalisi innestata in culture diversissime da quella occidentale, non produrrà nuovi ibridi?
«No, al massimo delle "nuances" differenti. Le pulsioni, il narcisismo, i conflitti di dipendenza sono universali. La sessualità, l’ambivalenza, l’aggressività, le difese contro il dolore riguardano la natura di base di tutto il genere umano».
La psicoanalisi sembra comunque prendersi una rivincita, dopo i requiem intonati negli scorsi anni. Anche grazie ad alcuni studiosi geniali come i Nobel Edelman e Kandel?
«Il riconoscimento della compatibilità con le neuroscienze è stato senz’altro importante, ma è solo una delle ragioni per cui la psicoanalisi non è destinata a morire».
Tutte le scienze evolvono: oggi lei si farebbe operare con una tecnica chirurgica di cent’anni fa o con strumenti di ultima generazione? Nel mondo, la psicoanalisi guarda a Freud come al fondatore o come a un referente teorico ancora attuale?
«La psicoanalisi rischia di diventare una religione se pone le teorie in una posizione "teologica", come fossero verità assolute rivelate. Ma questa non era la posizione mentale di Freud. Certi cultori integralisti ne assumono le teorizzazioni come elementi sacri e indiscutibili, se non come un feticcio. E invece la psicoanalisi va "vista" come un grande albero: se le radici e il tronco sono la base freudiana, tutti i rami successivi sono di una ricchezza irrinunciabile. Lo sviluppo c’è stato, e anche molto grande, ma comunque "sulle spalle di Freud"».
Un italiano alla testa dei freudiani
di Franca Porciani (Corriere della Sera, 03.06.2011)
Sigmund Freud già nei primi anni del Novecento accarezzava l’idea di fondare una società psicoanalitica internazionale, ma la nascita ufficiale della sua «creatura» , l’International Psychoanalytical Association, avvenne solo qualche anno più tardi, a Norimberga, nel marzo del 1910. L’istituzione, tuttora prestigiosa a distanza di un secolo, conta dodicimila iscritti distribuiti in tutto il mondo, dal Nord America all’Europa, dall’India al Giappone, fino al Brasile.
Ora a guidarla viene chiamato per la prima volta un italiano, lo psicoanalista bolognese Stefano Bolognini, che assumerà formalmente l’incarico di presidente al prossimo congresso dell’associazione, che si terrà in agosto a Città del Messico. Vicepresidente, una donna (anche questa è la prima volta, ma non ci sembra il caso di gridare la miracolo), la svedese Alexandra Billinghurst.
Notissimo agli addetti ai lavori per la sua intensa attività nell’ambito dell’associazione con articoli, seminari e conferenze, presidente della Società psicoanalitica italiana e membro del comitato editoriale europeo dell’ «International Journal of Psychoanalysis» , Bolognini, nato nel ’ 49, medico e psichiatra, resta però uno sconosciuto al grande pubblico. I suoi libri pubblicati per Bollati Boringhieri- come curatore Il sogno cento anni dopo, come autore L’empatia psicoanalitica e Passaggi segreti - tradotti in varie lingue, sono tecnici, rivolti agli operatori, e la ribalta televisiva non piace allo psicanalista. «Come molti colleghi dell’associazione - ci dice raggiunto al telefono a Parigi dove si trova per un congresso - sono convinto che i salotti mediatici abbiano un effetto disturbante sui pazienti» . Sposato, tre figli (e già nonno), svolge tuttora un’intensa attività clinica, ama i cani, scrive racconti (l’ultimo, Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire, uscito nel 2010 ancora per Bollati Boringhieri) e colleziona disegni italiani dal Cinquecento al Settecento. E questo nuovo impegno? «Ne sono ovviamente orgoglioso - confessa Bolognini - anche perché dimostra il grande rispetto di cui a livello internazionale gode la comunità analitica italiana. Ma mi aspetta anche un lavoro delicato di mediazione fra scuole di pensiero che, pur nella ortodossia freudiana, hanno spesso elementi di diversità»