Indice Analitico [Il testo, in pdf, è in fondo]
Introduzione
Capitolo 1
- 1.1 The American Dream
1.2 La casa e la sua architettura
1.3 Il Suburb: The perfect society
Capitolo 2
2.1 L’inizio della sovversione
2.2 The Haunted House Formula
2.3 The Bad Place
Capitolo 3
3.1 Il Romanzo
3.2 La trama
3.3 Analisi linguistico-concettuale di Burnt Offerings
3.3.1 “L’offerta scottante”
3.3.2 La ricerca della felicità
3.3.3 The House
3.3.4 The House like a Trap
3.3.5 Gli Allardyce: lo specchio della società corrotta
Conclusioni
Bibliografia e Webliografia
Sul tema, nel sito, si cfr. (cliccare sui titoli, per accede ai doc.):
RIPENSARE L’"AMERICA" E IL SOGNO DEL "NUOVO MONDO".
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
DOC.
"IO HO UN SOGNO". IL DISCORSO DEL 28 AGOSTO 1963 A WASHINGTON
DI MARTIN LUTHER KING *
Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sara’ ricordata come la piu’ grande manifestazione per la liberta’ nella storia del nostro paese. Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra simbolica, firmo’ il Proclama dell’emancipazione. Si trattava di una legge epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri, marchiati dal fuoco di una bruciante ingiustizia. Il proclama giunse come un’aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattivita’.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi. Sono passati cento anni, e la vita dei neri e’ ancora paralizzata dalle pastoie della segregazione e dalle catene della discriminazione. Sono passati cento anni, e i neri vivono in un’isola solitaria di poverta’, in mezzo a un immenso oceano di benessere materiale. Sono passati cento anni, e i neri ancora languiscono negli angoli della societa’ americana, si ritrovano esuli nella propria terra.
Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione vergognosa. In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un "paghero’" di cui ciascun americano era destinato a ereditare la titolarita’. Il "paghero’" conteneva la promessa che a tutti gli uomini, si’, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: "vita, liberta’ e ricerca della felicita’".
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio. Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto, un assegno che e’ tornato indietro, con la scritta "copertura insufficiente". Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia in fallimento. Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di opportunita’ di questo paese non vi siano fondi sufficienti. E quindi siamo venuti a incassarlo, questo assegno, l’assegno che offre, a chi le richiede, la ricchezza della liberta’ e la garanzia della giustizia.
Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all’America l’infuocata urgenza dell’oggi. Quest’ora non e’ fatta per abbandonarsi al lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del gradualismo. Adesso ’ il momento di tradurre in realta’ le promesse della democrazia. Adesso e’ il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata della segregazione fino al sentiero soleggiato della giustizia razziale. Adesso e’ il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale per collocarla sulla roccia compatta della fraternita’. Adesso e’ il momento di tradurre la giustizia in una realta’ per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste. L’afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non finira’ finche’ non saremo entrati nel frizzante autunno della liberta’ e dell’uguaglianza. Il 1963 non e’ una fine, e’ un principio. Se la nazione tornera’ all’ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi sperava che i neri avessero solo bisogno di sfogarsi un po’ e poi se ne sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa.
In America non ci sara’ ne’ riposo ne’ pace finche’ i neri non vedranno garantiti i loro diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finche’ non spuntera’ il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’e’ qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci portera’ a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti. Non cerchiamo di placare la sete di liberta’ bevendo alla coppa del rancore e dell’odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignita’ e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza dell’anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattivita’ di cui oggi e’ impregnata l’intera comunita’ nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perche’ molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che il loro destino e’ legato al nostro. Hanno capito che la loro liberta’ si lega con un nodo inestricabile alla nostra. Non possiamo camminare da soli. E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sempre avanti. Non possiamo voltarci indietro.
C’e’ chi domanda ai seguaci dei diritti civili: "Quando sarete soddisfatti?". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalita’ poliziesca. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ non riusciremo a trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli alberghi delle citta’, per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ tutta la facolta’ di movimento dei neri restera’ limitata alla possibilita’ di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno piu’ grande. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identita’ e derubati della dignita’ dai cartelli su cui sta scritto "Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare. No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finche’ la giustizia non scorrera’ come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione. Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la liberta’ sono stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e travolti dai venti della brutalita’ poliziesca. Siete i reduci della sofferenza creativa. Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la redenzione.
Tornate nel Mississippi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre citta’ del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione puo’ cambiare e cambiera’.
Non indugiamo nella valle della disperazione. Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficolta’ di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno. E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgera’ e vivra’ il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verita’ evidenti di per se’, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternita’.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformera’ in un’oasi di liberta’ e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalita’.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiu’ nell’Alabama, dove i razzisti sono piu’ che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio la’ nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sara’ innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sara’ rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme. Questa e’ la nostra speranza. Questa e’ la fede che portero’ con me tornando nel Sud. Con questa fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fraternita’.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, schierarci insieme per la liberta’, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno verra’, quel giorno verra’ quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un significato nuovo: "Patria mia, e’ di te, dolce terra di liberta’, e’ di te che io canto. Terra dove sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi liberta’". E se l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero.
E dunque, che la liberta’ riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire.
Che la liberta’ riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la liberta’ riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la liberta’ riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la liberta’ riecheggi dai pendii sinuosi della California.
Ma non soltanto.
Che la liberta’ riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la liberta’ riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la liberta’ riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la liberta’.
E quando questo avverra’, quando faremo riecheggiare la liberta’, quando la lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e da ogni paese, da ogni stato e da ogni citta’, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi per mano e cantare le parole dell’antico inno: "Liberi finalmente, liberi finalmente. Grazie a Dio onnipotente, siamo liberi finalmente".
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3331 del 17 marzo 2019
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XX)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: -centropacevt@gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Lettere internazionali
L’eredità economica per Biden
di Michele Alacevich *
Nel suo ultimo Stato dell’Unione di fronte al Congresso, il 4 febbraio 2020, Trump descrisse la ripresa economica degli ultimi anni come una clamorosa inversione di tendenza rispetto agli otto anni dell’amministrazione Obama ̶ il «grande ritorno dell’America». La sua narrazione, benché costruita su dati reali, è però profondamente tendenziosa.
È vero, per esempio, che nei primi tre anni della sua presidenza Trump l’economia statunitense sia cresciuta notevolmente. Un exploit del genere ha fatto molta impressione, soprattutto su chi guardava all’apparente contrasto tra la crescita del 2,4% del 2017, primo anno di Trump, e quella dell’1,6% dell’ultimo anno di Obama. Il tasso di disoccupazione, allo stesso tempo, cadeva a livelli mai raggiunti dal 1969, intorno al 3,5%. -Eppure, benché Trump abbia sempre personalizzato questi risultati, la realtà è che essi sono la conclusione di un intero decennio di crescita per la gran parte sviluppatosi sotto Barack Obama.
Due tabelle, preparate da agenzie federali indipendenti, riescono a raccontare molto più di tante parole.
La prima, relativa all’andamento del Pil statunitense dal 2008 al 2020, mostra che con Obama la crescita economica è stata spesso più vigorosa che sotto Trump, benché caratterizzata da maggiore variabilità.
La seconda, relativa al tasso di disoccupazione, è ancora più chiara: la discesa iniziò nel 2010 e non si è arrestata fino all’arrivo della pandemia. Se le menzogne sono evidenti, rimane però da spiegare la continuità.
Le ricette economiche di Trump ̶ la cosiddetta Trumponomics ̶ hanno funzionato? Un’analisi settoriale della produzione industriale non sembra offrire chiavi interpretative interessanti: alcuni settori sono cresciuti più con Trump che con Obama, altri mostrano andamenti opposti. In ogni caso, le differenze sono relativamente piccole.
Ciò che è certo è che il reddito medio disponibile è cresciuto, per due ragioni. La prima è che i salari minimi sono cresciuti di più del 50%. Ciò però è avvenuto non in virtù di una crescita del salario minimo federale, fermo dal 2009, ma perché diversi Stati o aree metropolitane hanno aumentato la parte del salario minimo di loro competenza. Trump, in queste politiche, non c’entra nulla. C’entra eccome, invece, con la seconda ragione, cioè la riforma fiscale del dicembre 2017.
Messa in campo in fretta e furia dopo che Trump si rese conto di non avere i voti per abrogare la riforma sanitaria di Obama, la riforma fiscale ha di fatto barattato il potere di acquisto di gran parte della popolazione nel lungo periodo con un piccolo stimolo fiscale di breve periodo e soprattutto con un gigantesco trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi.
La riforma fiscale, entrata in vigore poco più di due anni fa, è la più importante dalla riforma fiscale attuata da Ronald Reagan nel 1986. A differenza della riforma di Reagan, che fu discussa a lungo e votata anche da molti democratici, la riforma di Trump è stata discussa in sole quattro settimane e approvata senza un solo voto democratico. In breve, riduce le tasse alle imprese, limita molte detrazioni a vantaggio delle fasce più deboli e riforma profondamente gli scaglioni per l’imposta sulle persone fisiche.
Quattro cose sono chiare. In primo luogo, l’enfasi sui tagli ai redditi più alti è un ritorno in piena regola a quella credenza mistica (o cinica) della cosiddetta trickle-down economics, cioè l’idea che una minore tassazione dei redditi alti significhi maggiori consumi e investimenti e dunque un beneficio per tutti gli strati della popolazione, anche i più poveri. In realtà, i fatti non confermano la teoria e come ha scritto Branko Milanovic, «c’è un limite al numero di Dom Pérignon che possiamo bere». L’effetto netto è semmai una maggiore disponibilità di risorse per investimenti speculativi, con un conseguente aumento dei margini di rischio e un’accresciuta instabilità sistemica del settore finanziario.
In secondo luogo, la riforma è enormemente regressiva. Secondo un’elaborazione del Tax Policy Center, il 60% più povero della popolazione beneficerà di piccoli tagli fino al 2025, dopodiché vedrà le tasse salire. Il quintile più povero della popolazione, per esempio, ha beneficiato di una riduzione dell’1% nel 2018 e beneficerà di un’ulteriore riduzione dell’1,3% nel 2025, ma vedrà crescere le tasse del 4,6% nel 2027. Il quintile più ricco, al contrario, godrà di un taglio del 65% e non vedrà alcun incremento. Un altro aspetto lascia particolarmente sgomenti, cioè che, se la riforma fiscale per le imprese è permanente, quella per le persone fisiche è solo temporanea. Non deve sorprendere: perché lasciare aperta una voragine fiscale che secondo il Congressional Budget Office porterà il debito americano al 180% del Pil entro il 2050? A quel punto il trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi avrà raggiunto il suo scopo. In ultima analisi, sempre secondo il Congressional Budget Office, la riforma costerà circa 60 miliardi di dollari ai redditi tra i 10.000 e i 75.000 dollari, e farà risparmiare 20 miliardi ai redditi superiori ai 75.000 dollari.
Il terzo punto è che la riforma non si pagherà da sola. La retorica dei suoi sostenitori, come già detto, è che meno tasse significhino più consumi, più investimenti, redditi in crescita e benessere per tutti. I calcoli del Congresso dicono invece che la differenza tra entrate e uscite, per il governo americano, salirà dal 3 al 5% all’anno. Come ha scritto il «New York Times» alla vigilia della riforma, «i Repubblicani non stanno semplicemente cercando di trasferire soldi dalla classe media e dai poveri di oggi ai ricchi e alle imprese, ma di trasferirli dalla classe media e dai poveri del futuro ai ricchi e alle imprese».
In quarto luogo, la riforma è molto più di una semplice riforma fiscale, perché limita le autorità dei singoli Stati e delle città nella loro capacità di raccogliere risorse con cui finanziare la spesa per istruzione, salute, trasporti e servizi sociali, che ricevono una gran parte dei fondi da tasse locali e non federali. Stati con sistemi fiscali più progressivi come California e New York, non a caso saldamente democratici, faranno più fatica a sostenere i servizi pubblici e quelli per i più deboli.
Infine, la riforma elimina le sanzioni per chi non rispetta l’obbligo di indicare la propria copertura sanitaria sulla dichiarazione dei redditi. Queste sanzioni avevano lo scopo di scoraggiare la scelta di fare a meno di una copertura sanitaria da parte di famiglie a basso reddito, una scelta che permette di risparmiare nel breve periodo, ma pericolosa per salute (e finanze) nel lungo periodo. Molti esperti concordano sul fatto che, a causa di questa piccola modifica, circa 13 milioni di persone perderanno la copertura sanitaria. Meno risorse a livello locale, insieme all’eliminazione delle sanzioni in caso di mancata dichiarazione di una copertura sanitaria, hanno di fatto trasformato la riforma fiscale in una riforma sanitaria mascherata.
Questa l’eredità che Biden si trova tra le mani, che ha conseguenze dirette sulle dinamiche della disuguaglianza negli Stati Uniti. Tra i Paesi Ocse, il livello di disuguaglianza interno agli Stati Uniti è superato solo da Turchia, Messico e Cile. La disuguaglianza, inoltre, si sviluppa su diversi piani che si rafforzano a vicenda: crescente disuguaglianza economica produce ed è a sua volta generata da crescente disuguaglianza nei livelli di istruzione e salute, di genere e razza, nonché di benessere e accesso alla giustizia, ai servizi sociali, e a lavori ben remunerati. La mobilità sociale, per secoli la faccia positiva della medaglia, quasi la controparte ideologica di un’alta disuguaglianza in base al principio che il successo è alla portata di chiunque voglia impegnarsi per raggiungerlo, si è bloccata. Oggi il sogno americano non funziona più, e ha funzionato sempre meno negli ultimi cinquant’anni.
La pandemia ha amplificato enormemente queste fratture sociali, offrendocene una misura ̶ quella dei morti per Covid-19 ̶ di sconcertante brutalità. La città di Chicago, per fare un solo esempio, ha il 30% di popolazione nera. Gli afroamericani, però, sono il 70% dei casi di Coronavirus e il 50% delle morti.
La disuguaglianza razziale, in altre parole, si combina con quella economica e incide sulla disuguaglianza nell’accesso al sistema sanitario nonché, in ultima analisi, sulle percentuali di chi soccombe e chi sopravvive. Ma ciò significa che un discorso sulle crescenti disuguaglianze deve anche affrontare il problema ideologico del razzismo e del suprematismo bianco. L’agenda che Joe Biden si trova ad affrontare è molto difficile. C’è da sperare che la vicepresidente Kamala Harris, espressione di una sensibilità molto attenta alle minoranze e alle fratture che segmentano la società americana, abbia un ruolo molto più centrale di tanti suoi predecessori.
* Il Mulino, 20 gennaio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Covid e la fine del sogno americano
di Alessandro Carrera *
Houston, 16 luglio 2020. L’ultimo giorno normale della mia vita è stato il 6 marzo 2020, l’ultima lezione che ho tenuto in classe. Ciò che ha salvato la mia università dalla pandemia, allora, è stato lo spring break, la vacanza di primavera che cominciava la settimana dopo. Tempo pochi giorni, e si è visto che tornare in classe non era più possibile. Io stavo insegnando un corso sulla biopolitica. Parlavamo e abbiamo continuato a parlare via Teams [...]
Perché la prendo così alla lontana, in un giorno in cui lo Houston Chronicle pubblica 43 pagine di necrologi di morti di Coronavirus, molti dei quali si potevano assolutamente evitare? Perché non so come fare altrimenti. [...]
Faccio fatica a parlare del presente perché la mente continua ad andarmi indietro nel tempo, ai primi anni dopo il mio trasferimento negli Stati Uniti, alle cose di cui mi accorgevo e alle quali non volevo dare troppo peso perché non volevo essere il viaggiatore che sa tutto, arriva in un paese nuovo e dopo due settimane ha già capito la psicologia, l’antropologia, la biologia e la fisica di tutta la popolazione ed è già pronto al vecchio gioco del vado, capisco l’America e torno - anche perché io sapevo che non sarei tornato, che sarei rimasto qui, ed ero io che dovevo capire, non ero io che dovevo spiegare.
Ma dalle impressioni non potevo difendermi, le potevo solo archiviare. Poiché non sto iniziando un libro, anche se potrei, devo solo riassumere queste forti impressioni in uno sgomento - lo provavo allora e lo provo ancora adesso - davanti all’intensità con la quale gli americani riescono a credere. A credere in qualunque cosa e senza distinzioni di valore: nella loro eccezionalità, nella serie televisiva che stanno guardando, nel loro Dio fatto a loro strettissima misura, nell’ultimo prodotto che hanno visto pubblicizzato in televisione, nell’ultima causa che hanno abbracciato, nell’ultima teoria di complotto che hanno visto su youtube, nelle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e in Barack Obama che è un alieno venuto da Sirio. Avevo già formulato un giudizio, molti anni fa, ma l’avevo tenuto per me, perché non sono un ingrato. [...]
Intelligenti, dedicati, tenaci, instancabili, sì. Ma furbi, ecco, quello no. La furbizia è una dote mediterranea, viene dall’essere stati conquistati e dominati per secoli, dal sapere che non ti puoi fidare di nessuno, che sulla pubblica piazza lo puoi dire e lo devi dire, che tu credi nel tuo sindaco, nel tuo partito, nel tuo parroco, nella tua nazione, nel duce, nel presidente e nel papa, ma dentro le mura di casa tua la storia può essere ben diversa, e ti prepari ad affrontare le cose non importa chi vince. Non è una bella dote, la furbizia, e soprattutto chi è convinto di essere molto furbo non lo è per niente.
Il vero furbo è quello che sa benissimo di poter essere ingannato anche e soprattutto da se stesso, e non dà troppa importanza alle sue opinioni. È una dote brutta e cinica, ma ti aiuta a sopravvivere. Gli americani delle grandi pianure, del centro del continente, quelli che guardano con disprezzo a New York e a Los Angeles e si ritengono, solo loro, i veri americani, questa dote brutta e cinica non l’hanno mai imparata (e anche gli altri non la praticano molto bene), non ne hanno mai avuto bisogno perché non sono mai stati sconfitti.
Un momento, si dirà, certo che lo sono stati. È dall’epoca del Vietnam che non hanno fatto altro che accumulare sconfitte militari. Ma non lo sanno. Hanno sviluppato un’arte della negazione della realtà che non ha uguali al mondo. Certo, lo so che la realtà ormai è un optional anche in molte altre parti del pianeta. Negare la realtà e costruirsi un castello incantato di fantasie paranoidi è un meccanismo di difesa dall’ineluttabile, valido (per un po’, non per molto) quanto ogni altro. Ma gli Stati Uniti non sono nati su queste basi, non dovevano esserlo, non doveva andare così.
Invece sta accadendo questo: che gli Stati Uniti vengono oggi sconfitti dal più stupido degli organismi, più stupido ancora del loro presidente, e si sono impegnati nel più grande esperimento di rimozione della realtà che si sia mai visto nella storia. Ce ne sono stati altri, ma non su questa scala. Del resto, la scala conta poi così tanto? Perché un piccolo esempio non può valere quanto uno grande? Non posso togliermi di mente la storia che Jared Diamond racconta in Collasso a proposito dei vichinghi e degli inuit in Groenlandia.
Arrivano i vichinghi, colonizzano la Groenlandia e vogliono vivere da vichinghi, mangiando carne di manzo, non quelle foche puzzolenti che mangiano gli inuit. Importano mucche dalla Norvegia, più mucche che possono. Le mucche mangiano tutta la poca erba disponibile, non hanno più niente di cui sostenersi e devono essere abbattute. E i vichinghi cominciano ad avere fame. Ora, il vichingo furbo cosa farebbe? Magari andrebbe a spiare come fanno gli inuit a sopravvivere, magari cercherebbe di imparare come si fa a cacciare le foche, anche se non gli piacciono. Ma il vichingo non è furbo. Lui ha il suo lifestyle, e non è mica un selvaggio come gli inuit. Continua a mangiare le sue mucche finché di mucche non ce n’è più, dopo di che comincia a morire anche lui. E Diamond si chiede: che cosa sarà passato per la testa all’ultimo vichingo rimasto mentre stava per morire, ultimo della sua razza, mentre intorno a lui quei selvaggi degli inuit sopravvivevano come avevano sempre fatto?
È la stessa domanda che mi faccio io ogni giorno che qui in Texas c’è qualcuno che muore di COVID perché credeva che fosse una bufala. Due giorni fa è morto uno di 37 anni che aveva postato sui suoi social: “Io non mi metterò mai quella maschera del cazzo!” Pochi giorni prima, a San Antonio, è morto uno di trent’anni. Ultime parole twittate: “Credevo che fosse una bufala, mi sono sbagliato”. Accendo la televisione e vedo un medico intervistato in un ospedale nella parte nord della città, le cui unità di cura intensiva sono strapiene. È fuori dalla grazia di Dio, e dall’accento capisco che è italiano: “Vengono i parenti dei ricoverati,” dice, “e non vogliono mettersi la mascherina, dicono che è una bufala!”
È vero, l’ha detto il presidente a suo tempo, che era una bufala. Ma era mesi fa, e ormai non lo dice più neanche lui. Dice che tutto è sotto controllo e che nessuno ha affrontato la situazione meglio di lui. Questo è un capitolo a parte, ma restiamo sulla bufala. L’ha detto mesi fa, appunto. Con tutto quello che è venuto dopo, perché così tanta gente si è attaccata a quella frase come a un’ancora di salvezza (“It’s a hoax!”) e ci sta ancora attaccata? Perché vogliono morire per difendere la loro convinzione? Perché morire per una bufala?
La gente muore per qualunque motivo. Per la patria e per il re, per Mussolini, per Hitler, per Lenin, per Stalin, per Mao e per Pol Pot. In Texas, c’è chi voleva morire perché il suo barbiere potesse riaprire. Nelle settimane di un lockdown peraltro non totale, quando le cose stavano andando meglio - finché il governatore ha deciso di annullarlo e la vera catastrofe è cominciata - una milizia armata si è presentata davanti a un barbiere dalle parti di Dallas per dargli il diritto costituzionale di riaprire, e il giovanotto intervistato con un AR-15 in mano ha dichiarato che lui per quel barbiere era disposto a morire. Spero almeno che facesse dei tagli eccezionali.
L’ordine simbolico si è ridotto a ben poco, se mettere una mascherina lo fa crollare. Eppure questo è ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Siamo di fronte a quella che Ernesto De Martino chiamava “apocalisse culturale” o, per essere più chiari, una “fine del mondo”. “Non c’è il diritto costituzionale di non prendersi il coronavirus” ha detto uno dei miliziani in difesa dei barbieri e dei saloni di tatuaggi. Quando il governatore del Texas ha imposto l’uso delle mascherine in tutte le contee dove ci sono più di 20 casi (ed è stata la prima volta in cui l’ho visto preoccupato, anzi spaventato), è stato sepolto da una valanga di insulti sui social media: venduto ai liberal, traditore, non ti voteremo più (e magari...). Il vicegovernatore, che per qualche motivo locale è più potente del governatore, è andato da Fox News a dire che i medici dovrebbero stare zitti e comunque lui a loro non crede.
Il vicegovernatore è lo stesso ad aver detto, già mesi fa, che i vecchi, lui compreso, devono essere preparati a morire purché l’economia non si fermi. Non è stato accolto da un coro di pernacchie, ma con il silenzio degli spartani alle Termopili.
Adesso muoiono anche i giovani. Meno. D’accordo, ma anche loro. Ma la vera questione è un’altra. La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, che per gli americani è il prequel della Costituzione, dice chiaramente che tutti hanno diritto alla vita, alla libertà, e alla ricerca della felicità. Lasciamo perdere le implicazioni giuridiche e politiche di un linguaggio di fine Settecento e prendiamo le parole alla lettera. Dov’è finito il diritto alla vita in questa pulsione di morte che sta devastando gli Stati Uniti? Se non c’è il diritto costituzionale di non prendersi il COVID-19, vuol dire forse che c’è il diritto costituzionale di contagiare gli altri? Cos’è questa fregola di morire per chiunque, per Trump, per un barbiere, per un bar? Forse i survival skills che si insegnano nei corsi di sopravvivenza nascondono una colossale pulsione di morte? È una psicosi di massa quella che coinvolge ormai il 40 per cento della popolazione - che è quella che voterà per Trump e forse riuscirà a farlo vincere ancora perché non è la paura della morte a fermarli, ma il godimento di sfidarla, e Trump questo godimento glielo dà. Una volta stavo spiegando in classe il concetto di pulsione di morte quando mi interruppe uno studente afroamericano. “So esattamente di che cosa sta parlando,” mi disse. “Io sono stato nell’esercito, e quando ci hanno chiesto perché volevamo diventare dei marines, quello vicino a me ha risposto: ‘Perché voglio sfidare la morte’”.
Chi muore perché “era una bufala” o perché lui quella maschera del cazzo non se la mette, forse non si ritiene un eroe nel momento in cui si rende conto che non ce la farà, ma i suoi amici lo trattano come tale, e come tale lo celebreranno. Il diritto alla vita di cui parlava la Dichiarazione d’indipendenza si è rivelato come l’altra faccia del diritto alla morte. E io - d’accordo, non ho le prove - sono certo, certissimo, che la maggior parte della gente qui non ha capito il concetto di “asintomatico”. Ti vuoi contagiare? Padronissimo, ma non sei padrone di contagiare me. Sembra facile da capire, no? No, non lo è. La parola “asymptomatic” era sconosciuta fio a pochi mesi fa, non fa parte del linguaggio di nessuno, è una parola di cinque sillabe, è greca, nessun cowboy l’ha mai usata, farebbe anche fatica a pronunciarla (sono ingiusto, lo so, mi sto sfogando, va bene?). Leggo articoli di dottori sconsolati, hanno capito che la malattia più grande non è il COVID, è la disinformazione. Le domande che gli vengono rivolte non hanno nessun legame con la realtà. Ancora una volta il bisogno americano di credere, per favore fatemi credere in qualcosa per cui vale la pena di morire prende il sopravvento.
La parola chiave è proprio godimento. La classe operaia in America non ha più nessuna fiducia nel futuro, sa di essere stata esclusa dal sogno americano anche se continua a sognarlo (“Lo chiamano sogno americano,” diceva il comico George Carlin, “perché bisogna proprio essere ben addormentati per poterci credere”), dunque vive nel presente, e nel godimento, qualunque godimento, che il presente può offrire. La classe medio-superiore, la borghesia, risparmia, fa progetti, pensa alla carriera, alla casa, all’università in cui mandare i figli. Sa trattenere, anche per tutta la vita, la ricerca del piacere. La classe operaia non ha più voglia di vivere così perché sa che non serve a nulla. Non ha più voglia di avere fiducia in qualunque progetto sociale che alla fine li lascerà da parte perché non sono abbastanza smagati, abbastanza istruiti, abbastanza consapevoli del mondo in cui vivono. E dunque prendono quello che c’è, e subito. Se hanno voglia di mangiare schifezze le mangiano, se hanno voglia di ubriacarsi si ubriacano, se hanno voglia di sesso lo fanno. Perché non dovrebbero? Che sicurezze hanno nella vita? Domani possono perdere tutto, il lavoro, l’assicurazione sanitaria, la casa, la famiglia. Che cosa gli succede di meglio se non lo fanno? Non puoi andare a fargli la morale, a spiegare che devono essere razionali, prendere precauzioni, informarsi, credere alla “scienza” o a chi ha una laurea in tasca. Sono disposti a credere a tutto tranne che alla scienza, perché la scienza (quando l’ho detto ai miei studenti sono rimasti sorpresi) ha sempre torto. La scienza non è l’informazione che ricevi oggi e che domani sarà superata da un’altra informazione. La scienza è un processo, non un fatto e nemmeno un dato. Ma questi sono discorsi da laureato e non gli è mai venuto niente di bene, a loro, da chi aveva una laurea in tasca, come è tristemente vero che per loro non cambierà molto a novembre (se ci arriviamo), non importa chi vincerà le prossime elezioni (se ci saranno).
30 marzo circa, una coppia dell’Arizona ha sentito Trump in televisione che incoraggiava l’uso di un certo preparato il cui nome cominciava con clor... Sono andati di corsa giù in cantina dove hanno trovato una bottiglia di detergente per vasche di pesci il cui nome cominciava con clor... L’hanno bevuta. Il marito è morto, la moglie è finita in ospedale. Non sono stati gli unici. C’è una “chiesa” in Florida, ardente sostenitrice di Trump, che predica il lavaggio intestinale a base di disinfettanti, per avere un corpo il più possibile pulito per quando Gesù ritornerà. Non è una novità. Ci sono esempi del genere nel cristianesimo del secondo secolo, quando si predicava la castrazione per andare in paradiso senza quegli imbarazzanti organi sessuali. Ma adesso siamo nel ventunesimo secolo e la mia domanda è questa: se un Imam fondamentalista dicesse a un membro dell’Isis di bersi una caraffa di candeggina, lui lo farebbe? Se Hitler avesse detto (detto, non ordinato) a una SS di bersi un litro di varechina alla sua salute, la SS l’avrebbe fatto? Se Mao avesse consigliato a una guardia rossa di pulirsi l’intestino con un bel bicchierone di clorochina, la guardia rossa l’avrebbe bevuta? Non ho una risposta, e so che il problema non riguarda più solo l’America, di casi ce ne sono stati anche altrove. Ma è dall’America che viene tutto, è all’America che abbiamo sempre guardato, e ora dall’America viene un desiderio di morte che fa impallidire il vecchio nichilismo mediterraneo (che è poi un altro nome della furberia).
Il serpente nel Giardino dell’Eden è proprio quella terribile paroletta, “diritti”. Io ho il “diritto costituzionale” di prendermi il COVID, se voglio, ho il “diritto costituzionale” di non mettermi la mascherina quando vado a fare la spesa, ho il “diritto costituzionale” di andare dal barbiere e di farmi un tatuaggio. Ma, primo: il proprio lifestyle non può essere e non sarà mai un diritto costituzionale; secondo (e qui mi rifaccio a Simone Weil, La prima radice), i diritti sono tali di fronte alla legge, non di fronte alla comunità. Davanti alla comunità il singolo ha solo degli obblighi, e la comunità ha degli obblighi verso di lui. Io ho l’obbligo di non fare del male alla mia comunità, e la mia comunità ha l’obbligo di non fare del male a me. La confusione tra diritto e obbligo distrugge ogni comunità. Purtroppo questa confusione è rampante anche dove non la si dovrebbe vedere, tra la sinistra (accademica e non), e perfino nei movimenti in difesa dei diritti civili e delle minoranze. Non ripeterò la vecchia, reazionaria frase, “Dove ci sono dei diritti ci sono anche dei doveri”. Dirò piuttosto che dove non ci sono diritti ci sono obblighi. Se il diritto viene ridotto al diritto di fare questo e di fare quest’altro - cioè il mio privilegio di classe o di razza di fare quello che mi pare, e a ramengo il mondo intero - lo stesso concetto di diritto alla vita non sta più in piedi, perché allora ci sarebbe anche il dovere di vivere. Ma se io sono vivo, allora devo fare di tutto perché la mia comunità viva, e la mia comunità ha l’obbligo di mantenermi in vita, anche se sono vecchio, anche se sono povero, anche se il colore della mia pelle non è quello della maggioranza dei miei concittadini, e anche se sono uno che sarebbe meglio per tutti se sparissi dalla faccia della Terra. Non ci sono eccezioni.
La conseguenza più triste di questo culto di morte che ha preso gli Stati Uniti per la gola, e che si riassume in Trump ma è cominciato prima di lui e non finirà con lui, è che anche le persone più miti finiscono per arrabbiarsi parecchio con i covidioti in marcia, e con qualche ragione (Gli idioti in marcia era il titolo di un racconto distopico degli anni Cinquanta, autore Cyril M. Kornbluth, in cui gli idioti, ormai la maggioranza sul pianeta Terra, vengono convinti a emigrare su Venere dopo essere stati convinti che è un paradiso tropicale). Non è bello leggere di un altro idiota che è morto perché “era una bufala” e pensare: “Bene. Uno di meno, e un letto d’ospedale in più per chi ne ha davvero bisogno”. È orribile, non foss’altro per tutto quello che ho appena scritto sugli obblighi che il vivere in una comunità impone (Simone Weil va ancora più in là: sostiene che un uomo solo nell’universo non avrebbe diritti ma avrebbe comunque degli obblighi). Non posso liquidare la questione sostenendo che chi mette a repentaglio la sua vita, quella della sua famiglia, e magari anche la mia, perché la Costituzione non dice che lui deve mettersi la mascherina, se l’è voluta e non è un mio problema. Purtroppo lo è.
Ma non posso neanche ignorare che, appunto, siamo di fronte a un esperimento epocale di disgregazione del concetto stesso di comunità, e la furberia di sopravvivenza, che è anti-comunitaria per eccellenza, è ormai necessaria. Lo stress che un presidente sociopatico esercita sulla psiche dei suoi cittadini, non importa se sono sostenitori od oppositori, sta raggiungendo limiti che la nazione non può più tollerare senza finire essa stessa soggetta a episodi psicotici acuti. Conferenza stampa di pochi giorni fa: Come stanno andando le cose, signor presidente? Bene, benissimo, stiamo facendo un ottimo lavoro. Si rivolge a un tale seduto alla sua destra: Quanti morti? 130.000, signor presidente. Ah, sì, 130.000, Dunque, dicevo, stiamo facendo un ottimo lavoro...
Queste iniezioni giornaliere di disempatia, in cui il presidente parla dei suoi cittadini come di un formicaio appena bruciato (nel plauso del già citato 40%) hanno l’effetto di farti sentire ancora meno empatico di quello che sei, e io non mi escludo. Non sarebbero così efficaci, però, se non si basassero su un fondo comune già presente, su una sociopatia diffusa che è sempre stata parte dell’anima americana. Insieme al puritanesimo e all’illuminismo, il libertarismo estremo, cioè il rifiuto totale dell’idea di società civile (quella degli obblighi e non dei diritti), ha contribuito per la sua parte a fare dell’America quello che è stata e quello che è oggi. Ma quello che sarà domani non lo sappiamo, perché questa creatura essenzialmente folle che è l’“americano” di razza bianca (gli altri hanno altri problemi), devastato dal suo Dio, dal suo paesaggio e dal suo clima (se non siete mai stati nel nord del Texas, diciamo tra Abilene e Lubbock, non potete capire la sensazione fisica che il resto del mondo semplicemente non esista), e che finora trovava sfogo nell’alcol, nelle armi o nella convinzione di essere razzialmente superiore, ora capisce che il suo mondo sta per finire, e nella sua caduta ci deve trascinare con lui.
* Doppiozero, 19 luglio 22020 (ripresa parziale).
Un delitto efferato/
Bob Dylan. Murder Most Foul
di Alessandro Carrera *
Con un messaggio sul suo sito www.bobdylan.com e poi su vari social media, Bob Dylan ha annunciato l’uscita di questa sua canzone,Murder Most Foul, dedicata all’uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy a Dallas, Texas il 22 novembre 1963.
La canzone, postata su youtube e ripresa da vari siti, è la prima in otto anni firmata da Dylan (dall’uscita di Tempest, 2012) e stando alla voce e dall’arrangiamento sembra registrata non più di cinque anni fa. “Murder most foul”, il delitto più efferato, è una citazione dall’Amleto di Shakespeare (Atto I, Scena 5; lo spettro del padre descrive la sua morte ad Amleto) e tutta la canzone, come è nello stile di Dylan, contiene moltissime citazioni da canzoni e film, riferimenti letterari e storici, in particolare relativi all’assassinio di Kennedy il riferimento alla “collinetta erbosa” o grassy knoll verrà immediatamente compreso da chi è convinto che proprio dietro quella collinetta della Dealey Plaza di Dallas si celasse un tiratore scelto) ma non solo.
L’ultima parte è una vera e propria litania, in cui Dylan invoca il disc jockey Wolfman Jack (Robert Preston Smith, 1938-1995) perché suoni, come lamento funebre per il presidente ucciso e per l’America tutta, una selezione di brani musicali (ma anche film) che copre l’intera storia della popular music americana e inglese del Novecento.
La prima volta che Dylan aveva affrontato il tema risale alle ultime settimane del 1963, in una serie di poesie intitolate Kennedy Poems e ufficialmente ancora inedite. Come già Tempest, la canzone dell’album omonimo dedicata all’affondamento del Titanic, Murder Most Foul è una finestra aperta sul tempo, ma non è legata nessun anniversario particolare e la sua uscita nei tempi della pandemia può risuonare come una meditazione sulle speranze tradite dell’America e allo stesso tempo una celebrazione del potere dell’arte di dare senso a eventi la cui verità sembra destinata a sfuggire per sempre (vari accenni fanno capire che Dylan non sembra avere molta fiducia nelle conclusioni ufficiali raggiunte dalla Commissione Warren, ma d’altra parte qui Kennedy è celebrato più per il suo mito che per la sua eredità storica).
La musica può ricordare a tratti Not Dark Yet dall’album Time Out of Mind del 1997, ma è più semplice, appena accennata, e fa di Murder Most Foul quasi un poema intonato con accompagnamento musicale di pianoforte, viola, contrabbasso e batteria. Di sedici minuti e cinquantasei secondi, è il brano più lungo registrato da Dylan.
Il testo merita una lunga e dettagliata analisi che non è questa la sede per affrontare. Ne offro una traduzione basata su una trascrizione trovata in internet, da me rivista e corretta sulla base dell’ascolto del brano.
Alessandro Carrera
Un delitto efferato
Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,
giorno d’infamia per l’eternità
il Presidente Kennedy era sulla cresta dell’onda,
un bel giorno per vivere, un bel giorno per morire.
Condotto al macello come un agnello da sacrificio,
dice un momento ragazzi, voi sapete chi sono?
Sicuro che lo sappiamo, sappiamo bene chi sei tu.
Era ancora in macchina quando la testa gliela fecero saltare.
Ammazzato come un cane alla luce del sole,
questione di tempo, e il tempismo era perfetto.
Hai dei debiti in sospeso, siamo qui per ritirare,
ti uccideremo con odio, senza il minimo rispetto.
Ne rideremo, ti stordiremo, te lo butteremo in faccia,
abbiamo già qualcuno qui per prendere il tuo posto.
Il giorno che al re fecero saltare le cervella
migliaia guardavano, nessuno vide niente,
avvenne così in fretta, così in fretta di sorpresa,
proprio lì davanti agli occhi di ciascuno,
la più grande magia mai compiuta sotto il sole,
perfetta esecuzione, un tocco da maestro,
Uomo lupo, oh uomo lupo, oh uomo lupo manda il tuo ululato,
è il gioco del cucù, è un delitto efferato.
Zitti bambini, che poi lo capirete,
stanno arrivando i Beatles, per la mano vi terrete.
Una scivolata giù per la ringhiera, andate a prendere la giacca,
attraversate il Mersey e afferrate il mondo per la gola.
Ecco tre barboni, vestiti da far pena,
raccattate i pezzi e a mezz’asta le bandiere.
Io vado a Woodstock, è l’Era dell’Acquario,
poi andrò ad Altamont e starò vicino al palco.
Sporgiti dal finestrino, goditi la vita,
c’è un party proprio dietro quella collinetta erbosa.
Impila i mattoni, versa il cemento,
non dica che Dallas non la ama, Signor Presidente.
Pigia sull’acceleratore, infila il piede fin nel serbatoio
cerca di arrivare al triplo sottopassaggio.
Tu cantante al nerofumo, tu pagliaccio con la biacca,
non fatevi vedere dopo il calar del sole.
Nel quartiere a luci rosse come un poliziotto in caccia
a vivere nell’incubo di Elm Street.
Se ti trovi a Deep Ellum metti i soldi in una scarpa,
non chiedere che cosa il tuo paese farà mai per te,
qui non si fa credito, soldi da bruciare,
A Dealey Plaza a sinistra devi svoltare.
Vado all’incrocio, farò l’autostop,
fede, speranza e carità, è lì che sono morte.
Sparategli che corre, ragazzi, sparategli finché potete,
Vediamo se l’uomo invisibile lo colpirete.
Addio Charlie, addio Zio Sam,
francamente, Miss Scarlett, non me ne frega niente.
Qual è la verità? Dove se n’è andata?
Chiedi a Oswald e Ruby, dovrebbero saperlo.
Civetta saggia dice, risparmia pure il fiato,
Gli affari sono affari, è un delitto efferato.
Tommy, mi senti? Sono la Regina dell’Acido,
viaggio in una Lincoln limousine, lunga e nera,
sul sedile posteriore di fianco a mia moglie
e per destinazione l’aldilà.
Mi chino a sinistra, ho la testa sul suo grembo,
oh Dio, sono finito in una trappola.
Bene, non chiediamo tregua e tregua non ne diamo,
siamo qui sulla strada vicino a quella dove stai.
Gli hanno mutilato il corpo, gli hanno preso le cervella,
che altro hanno fatto, accanirsi sulla pena,
ma la sua anima non c’era, dove mai poteva stare,
per cinquant’anni non han fatto altro che cercare.
Libertà, oh libertà, libertà dal bisogno,
mi spiace dirglielo, signore, ma solo I morti sono liberi.
Dammi un po’ d’amore, non dirmi una bugia,
getta l’arma nello scolo e vattene via.
Svegliati piccola Suzie, andiamo a fare un giro,
oltre il Trinity River, teniamo gli occhi aperti.
Accendi la radio, non toccare i comandi,
da qui a Heartland Hospital sono solo sei miglia.
Mi fai girare la testa Ms. Lizzy, mi riempi di piombo,
quella tua magica pallottola viene avanti come niente.
Sono solo un allocco, un patsy come Patsy Cline,
non ho mai sparato a nessuno né davanti né dietro,
ho sangue in un occhio, sangue in un orecchio,
alla nuova frontiera non ci arriverò mai
Il film di Zapruder l’ho visto ieri notte,
trentatré volte almeno, forse anche di più.
È orrendo, un inganno, è crudele, è cattivo,
la cosa più brutta che si possa vedere.
L’hanno ucciso una volta, l’hanno ucciso una seconda
l’hanno ucciso come in un sacrificio umano.
Il giorno che l’hanno ucciso qualcuno mi ha detto ragazzo mio,
l’età dell’Anticristo è appena cominciata.
L’Air Force One è arrivato all’imbarco
Johnson ha giurato alle 2.38.
Fammelo sapere quando la spugna avrai gettato,
È quello che è, un delitto efferato.
Gattina mia, qual è la novità, che cosa c’è da dire?
Ho detto che l’anima della nazione è stata lacerata,
la sua lunga decadenza ormai è cominciata,
e che siamo a trentasei ore dopo il giorno del giudizio
Wolfman Jack parla in lingua,
a pieni polmoni e non la smette più.
Metti su una canzone, Mr. Wolfman Jack
suonala per me nella mia lunga Cadillac.
Suonami Only the Good Die Young,
portami là dove hanno impiccato Tom Dooley.
La Saint James Infirmary alla corte di King James,
se vuoi ricordare è meglio che ti scrivi i nomi.
Suonami anche Etta James, suonami I’d Rather Go Blind,
suonala per l’uomo con la mente telepatica.
Suona John Lee Hooker, suona Scratch My Back,
per quello che teneva lo strip club e di nome aveva Jack.
Guitar Slim, Goin’ Down Slow,
Suonala per me e per Marilyn Monroe.
Suona Please, Don’t Let Me Be Misunderstood.
Suonala per la first lady che non si sente niente bene.
Suona Don Henley, suona Glenn Frey,
porta tutto all’estremo e poi mollalo lì.
Suonala pure per Carl Wilson
che guarda da lontano alla Gower Avenue,
suona la tragedia, suona Twilight Time,
riportami a Tulsa, alla scena del delitto.
Suonane un’altra e Another One Bites the Dust,
suona The Old Rugged Cross e In God We Trust.
Monta su quel cavallo dal pelo rosa, prendi la strada deserta,
sta’ lì e aspetta che gli esploda la testa.
Suona Mystery Train per Mr. Mystery,
l’uomo che cadde morto come un albero senza radici.
Suonala per il reverendo, suonala per il parroco,
suonala per il cane che non ha un padrone.
Suona Oscar Peterson, suona Stan Getz,
suona Blue Skies, suona Dickey Betts,
suona Art Pepper, Thelonious Monk,
Charlie Parker e tutta quella roba,
tutta quella roba e tutto quel jazz,
suona qualcosa per L’uomo di Alcatraz.
Suona Buster Keaton, suona Harold Lloyd,
suona Bugsy Siegel, suona Pretty Boy Floyd,
gioca i numeri del lotto, calcola le quote,
suona Cry Me a River per il signore degli dei
suona Number Nine e suona il numero sei,
suona per Lindsey e per Stevie Nicks,
suona Nat King Cole, suona Nature Boy,
suona Down in the Boondocks per Terry Malloy,
suona Accadde una notte e One Night of Sin
ti stanno ascoltando in dodici milioni.
Suona il Mercante di Venezia, suona i mercanti di morte,
suona Stella by Starlight da Lady Macbeth.
Non tema Presidente, c’è aiuto in arrivo,
saranno qui i suoi fratelli, gliela faranno pagare.
Fratelli, che fratelli? Che cosa faranno pagare?
Ditegli che li aspettiamo, vengano pure, sistemeremo anche loro.
Love Field è dove l’aeroplano è atterrato,
ma poi non è più ripartito.
Impossibile stargli alla pari, secondo a nessuno.
l’hanno ucciso sull’altare del sole nascente.
Suona Play Misty for Me e That Old Devil Moon,
suona Anything Goes e Memphis in June,
suona Lonely at the Top e Lonely Are the Brave,
suona per Houdini che si rivolta nella tomba,
suona Jelly Roll Morton, suona Lucille,
suona Deep in a Dream e suona Driving Wheel,
Suona la Sonata al Chiaro di Luna in fa diesis
e Key to the Highway eseguita dal re dell’armonica.
Suona Marching through Georgia e Dumbarton Drums,
suona Darkness and Death che verrà quando verrà,
suona Love Me or Leave Me del grande Bud Powell,
suona lo stendardo insanguinato, suona il delitto efferato.
* Doppiozero, 02.04.2020 (ripresa parziale).
FLS
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: IL SOGNO INFRANTO. Il cinema (d’autore) di Sergio Leone .... *
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Il cinema (d’autore) di Sergio Leone
A 30 anni dalla morte di Sergio Leone Mimesis, editore sempre attento a spiegare le meccaniche del cinema, pubblica un libricino scritto da Antonio Rainone, docente de L’Orientale di Napoli, sul cinema del grande cineasta. Con pochi elementi e parole chiare l’autore definisce il profilo di un regista che ha ’semplicemente’ creato cinema
di Davide Parpinel (LINKinMOVIES, 26 Giugno 2019)
La domanda a cui sembra rispondere Antonio Rainone, autore del volumetto Sergio Leone. Dal cinema popolare al cinema d’autore, edito da Mimesis Cinema, per la collana Minima (8€, 85 pagine, 2019) è: "Nel 2019 il cinema di Sergio Leone può essere ancora oggetto di studio?". La risposta fornita è: "Certo. Anzi seppur il regista romano abbia girato solo sette lungometraggi, e su questi film è stato detto di tutto e di più, ancor’oggi è possibile rintracciare un filo d’analisi comune". Questo fil rouge è appunto svelato nel sottotitolo, ossia capire come il cinema di Leone, la sua poetica, la sua idea di cinema, il suo mestiere si è evoluto in una così breve carriera. In sette capitoli, più prefazione, conclusione, indice dei nomi e riferimenti bibliografici (strumenti necessari per elevare il libro da saggio critico a saggio scientifico) Rainone articola la sua dissertazione la quale si svolge in poche tappe e utilizzando semplici strumenti argomentativi.
L’autore nella prefazione particolareggia il quesito iniziale, domandandosi: "Perché, oggi, un’apologia di Sergio Leone?". La risposta è affidata alla voce dello stesso Leone che Rainone sembra restituire al lettore, discutendo dei suoi film. Utilizzando, inoltre, le voci della critica (contrarie o a supporto), i pareri degli addetti al settore o dei registi che hanno collaborato con Leone, confrontando il suo cinema con quello dei suoi contemporanei come Federico Fellini o Sam Peckinpah, riferendosi al contesto culturale dell’epoca, con particolare attenzione a quello italiano, oltre che a quello politico e sociale e poi menzionando e trovando spunti di relazione in altri film, Sergio Leone. Dal cinema popolare al cinema d’autore riflette sul cinema, sulle tematiche e sullo stile di un regista che film dopo film si è imposto autorialmente.
Prima data: 1960. L’analisi di Rainone comincia dal 1960, quando dopo una lunga gavetta a Cinecittà iniziata vicino al padre Vincenzo, regista del muto, e collaborando sui set di De Sica e Comencini, Sergio Leone dirige un peplum movie, cavalcando così quel filone storico-mitologico che piaceva più ai produttori e al pubblico che al regista. Il Colosso di Rodi fu il suo primo film e non riscosse molti riconoscimenti. È in questo contesto, come sottolineato dall’autore, che Leone subito dopo dirige Per un pugno di dollari. In un momento cinematografico in cui in Italia i film sui centurioni incontravamo il gusto anche dei giovanissimi spettatori, il regista romano diresse un western con uno stile innovativo in cui contava la mano e l’occhio del regista sopra l’interpretazione. Rainone illustra una geografia delle motivazioni che portano questo primo film di Leone ad avere quel quid in più rispetto al cinema in circolazione, considerando che al contrario dei western americani non aveva una storia d’amore e si appoggiava ai tratti del genere noir.
L’analisi del libro quindi prosegue, passando a Per qualche dollaro in più, film considerato poco riuscito, più spinto da interessi commerciali, che piacque solo a Carlo Verdone, come ricorda l’autore del libro, per arrivare a Il buono, il brutto e il cattivo che rappresenta, sempre nelle parole di Rainone, la prima vera svolta autoriale del regista. 182 minuti di western uscito a Natale 1966, curato nei minimi dettagli. Per questo la lente di ingrandimento dell’autore è precisa nel considerare tutti gli elementi linguistici che rendono grande questa pellicola: la fotografia di Tonino Delli Colli, il montaggio rapido e incisivo, l’organizzazione narrativa ricca di eventi e sottostorie. Ad avvalorare questa tesi nel libro sono riportati i pareri della critica, oltre alla voce di uno dei figli artistici di Sergio Leone, Bernando Bertolucci.
Con C’era una volta il West Leone diviene così un autore. Rainone afferma che il 21 dicembre 1968, qualche giorno dopo l’arrivo nei cinema italiani di 2001: Odissea nello spazio, uscì "il più straordinario, spettacolare, visionario ed epico western che si sia mai visto". Nonostante non sia in sintonia con la società che richiedeva al cinema messaggi e analisi di temi, e nonostante l’accoglienza fredda della critica (il libro riporta le parole di Tullio Kezich che riconobbe a Leone una grande immaginazione e gusto per l’effetto sonoro, ma troppa lentezza nella narrazione) e lo scarso successo commerciale con C’era una volta il West, Leone conferisce una dimensione mitica ed epica agli stereotipi del cinema western. L’esempio di tutto ciò: la morte fuori campo di Cheyenne.
Il capitolo 5 prende in esame la relazione tra Giù la testa e il messaggio politico, sempre nel prosieguo dell’analisi cronologica del cinema leoniano; mentre il capitolo successivo racconta la produzione di Leone di Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii, parentesi farsesca che testimonia la sua duttilità autoriale. Il lettore quindi giunge a C’era una volta in America. Qui il regista intreccia il noir, tanto caro, e il gangster movie nella storia tragica di un uomo, Noodles (Robert De Niro) inadatto al mondo che lo circonda e figlio di un’epoca passata. Tecnicamente con questo film Leone, nella tesi del libro, si avvicina a Orson Welles e così descrivendo filologicamente alcune scene, Rainone avvalora la sua idea e conclude il libro.
La conclusione è l’eredità. La vera chiusura con il cinema di Leone, afferma l’autore del libro, è la sua eredità. In quest’ultimo capitolo Rainone problematizza e sviscera in che modo i temi e la maniera di fare cinema del regista abbiano lasciato un modus operandi che è stato d’esempio per molti e che travalica i generi cinematografici. Al netto delle opinioni dell’autore i suoi più vicini eredi appaiono Quentin Tarantino come anche David Cronenbergh e Michael Cimino.
All’ultima pagina anche il lettore meno appassionato di cinema, apprezza Leone. Il motivo sta nella scelta del focus di analisi di Rainone, esaustivo, comprensivo e totale, e nella sua semplice capacità di argomentare. L’autore rimane sempre molto oggettivo, portando testi e opinioni a favore della sua tesi e anche quando queste confutano, alimentano comunque l’idea dell’evoluzione autoriale del cinema leoniano. Questo avviene perché Sergio Leone non è stato solo un regista: Leone ha fatto il cinema, come si legge nel libro.
Federico La Sala
L’Americaaaa!
di Romano A. Fiocchi (Nazione Indiana, 23 maggio 2019)
Pochi sanno cosa sia Ellis Island. A scuola non te lo insegnano. A scuola ti parlano soltanto di quella migrazione in massa di milioni di europei verso un mondo dove c’era libertà, democrazia, lavoro. E allora l’immagine più comune scolpita nella memoria collettiva è il grido che Baricco mette in bocca ai passeggeri del Virginian che per primi avvistano la Statua della libertà: l’Americaaaa!
Ma l’America era altro. In primo luogo era Ellis Island. Tra il 1978 e il 1980 Georges Perec e il regista Robert Bober cercarono di capire cosa fosse e soprattutto lo documentarono in un lungometraggio che fu trasmesso nel novembre 1980 dalla rete francese con il titolo: Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir (alcuni spezzoni sono reperibili su YouTube, mentre il video completo è acquistabile in versione DVD sul sito dell’Ina, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive). Quello che fecero, Bober con le immagini e Perec con il testo della voce fuori campo, fu raccontare come tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, in alcuni edifici appositamente costruiti su un isolotto alla foce dell’Hudson, a un passo da Manhattan, oltre sedici milioni di emigranti vennero trasformati in oltre sedici milioni di Americani.
Il testo di Perec, pubblicato in Francia, uscì nell’edizione italiana solo nel 1996 grazie alla traduzione di Maria Sebregondi, in un volumetto verde della collana Gli Aquiloni di Rosellina Archinto. Poi, come tante pubblicazioni di Perec, sparì dal mercato. (La sparizione è un motivo caro a Perec, ricordiamoci che fece sparire la lettera “e” da un intero romanzo...)
Nel 2005 Ellis Island riapparve parzialmente in rete: una decina di pagine tradotte dal nostro Andrea Inglese, uscite appunto su Nazione Indiana, qui. Mentre il 10 maggio 2017 Laura Barile rievocava il fascino di questo testo su Alfabeta 2, l’Archinto S.a.s. lo ripubblicava e ricolmava il vuoto editoriale. È stato così che l’ho trovato, rovistando sulle scaffalature della Libreria del Mondo Offeso.
Ellis Island è un prezioso libretto di settantadue pagine composto di due parti: L’isola delle lacrime, una sorta di introduzione storica, e Descrizione di un cammino, la parte più corposa e poetica. Perché Perec, fedele alla sua scrittura, riesce a fare della poesia attraverso la semplice elencazione di oggetti, luoghi, persone: “All’inizio, si può solo provare a nominare le cose, una per una, semplicemente, enumerarle, censirle, nel modo più banale possibile, nel modo più preciso possibile, cercando di non dimenticare niente”. Tanto meno i numeri, quelli più impressionanti: cinque milioni di emigranti provenienti dall’Italia, quattro milioni dall’Irlanda, un milione dalla Svezia, sei milioni dalla Germania, tre milioni dall’Austria e dall’Ungheria, tre milioni e cinquecentomila dalla Russia e dall’Ucrania, cinque milioni dalla Gran Bretagna, e così via. Tutta gente disperata che per i più svariati motivi scappava dal vecchio continente.
Poi elenca le compagnie di navigazione (compresa la nostra Italian Line), i porti di partenza (i nostri: Palermo, Napoli, Genova, Trieste), i nomi dei piroscafi (i nostri: Umbria, Lusitania, San Giovanni, Giuseppe Verdi, Duca degli Abruzzi), la raffica incalzante delle ventinove domande che bersagliavano l’emigrante: Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli Stati Uniti? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? eccetera. Sì, perché i soldi erano una garanzia: chi viaggiava in prima o in seconda classe veniva ispezionato a bordo da un medico e da un ufficiale di stato civile, e sbarcava senza problemi.
Gli altri sostavano a Ellis Island sino a passare il controllo degli ufficiali sanitari che segnalavano i casi sospetti tracciando una lettera con il gesso sulla schiena: C la tubercolosi, E gli occhi, F il viso, H il cuore, K l’ernia, L la claudicazione, SC il cuoio capelluto, TC il tracoma, X il ritardo mentale. Il sospettato avrebbe prolungato la sua permanenza a Ellis Island per accertamenti più minuziosi, talvolta sino ad essere respinto.
Tutti insomma passarono da Ellis Island. Che funzionava, dal punto di vista organizzativo, con la proverbiale efficienza degli States: “Una fabbrica all’americana, rapida ed efficace come un salumificio di Chicago: a capo di una catena, si mette un irlandese, un ebreo ucraino, un pugliese, all’altro capo - previa ispezione degli occhi, ispezione delle tasche, vaccinazione, disinfezione - ne esce un americano”. Col tempo le regole di questa fabbrica diventarono sempre più severe. Alla fine i respingimenti furono duecentocinquantamila, tremila i suicidi. I fortunati sentirono invece pronunciare l’agognata e fatidica frase: Welcome to America.
Perec non commenta, lascia che commenti e paragoni siano elaborati nella mente e nel cuore del lettore, quello di allora e quello di oggi. Perché il testo, inutile dirlo, è di una valenza universale e attuale: “L’emigrazione verso gli Stati Uniti era cominciata molto prima che incominciasse Ellis Island e non è terminata con la sua chiusura. I messicani, i portoricani, i coreani, i vietnamiti, i cambogiani hanno dato il cambio”. Ci sono poi le vicende dei nomi storpiati, suoni tipici di mezza Europa trascritti all’americana trasformando Skyzertski in Sanders, Goldenburg in Goldberg, Kowalski in Smith (entrambi significano fabbro). Compresa la storiella del vecchio ebreo russo che disse shon vergessen (in yiddish: l’ho scordato), e lasciò Ellis Island come John Ferguson.
Tutto questo per poi scoprire che l’America non era poi l’America che era stata loro raccontata. Certo, la terra apparteneva a tutti, peccato che i primi arrivati si erano ampiamente serviti e ai nuovi emigranti non restava se non ammassarsi in tuguri senza finestre e lavorare quindici ore al giorno. “I tacchini - scrive Perec - non cadevano già arrostiti direttamente nei piatti e le strade di New York non erano lastricate d’oro. Anzi, il più delle volte, non erano lastricate affatto. E allora capivano che era proprio per fargliele lastricare che li avevano fatti venire. E per scavare gallerie e canali, costruire strade, ponti, grandi dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare miniere e cave, fabbricare automobili e sigari, carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum, corned-beef e saponette, e costruire grattacieli ancora più alti di quelli che avevano scoperto all’arrivo”.
L’American dream e la nuova sinistra americana
di Antonio Funiciello (Il Mulino, 24 maggio 2019)
Che cos’è il sogno americano? Lo storico premio Pulitzer James Truslow Adams ha scritto, in The Epic of America (1931):
Thomas Jefferson, sempre in polemica con l’Europa classista, aveva già fissato l’obiettivo della nuova Repubblica che gli americani stavano costruendo: opporre all’aristocrazia europea dei privilegi e della ricchezza un’aristocrazia americana delle virtù e dei talenti. Una Repubblica guidata da una siffatta aristocrazia non avrebbe potuto che accrescere le proprie potenzialità e disporsi a essere lo spazio di vita migliore per quel pursuit of happiness che, in ultima istanza, è il vero fondamento e lo scopo del sogno americano.
Ma come calibrare il primato dell’American dream in una società aliena o allergica alla lotta di classe che, a partire dalla metà dell’Ottocento, infiammava invece il vecchio continente come un enorme bosco di alberi secchi? Semplice: concependo il sogno americano in un’ottica espansiva e includente. Lo suggeriva anzitutto la filosofia: quell’illuminismo schietto a cui i padri fondatori erano legati. Lo consigliava anche la geografia: in una terra così immensa per una popolazione così esigua, non c’era motivo di pensare che non ci sarebbe stato spazio e fortuna per tutti. Ma lo ispirava anche la lontananza da quell’Europa bigia e litigiosa, organizzata in società dove il destino dei singoli era strettamente legato alla discendenza familiare.
Così l’American dream divenne l’essenza dell’ethos nazionale americano: perché era un sogno che univa senza dividere; un sogno da fare insieme, eppure ognuno a casa propria; un sogno cominciato con tredici colonie, ma che non poteva avere fine perché i suoi principi erano truths to be self-evident in ogni luogo e in ogni tempo. E da subito, infatti, i partiti maggiori e i leader americani più importanti cominciarono a modellare la propria identità sulla base di chi meglio sapeva interpretare la capacità di espansione e il potere di inclusione dell’American dream.
Se è vero che la Guerra civile scoppiò prevalentemente per ragioni economiche, essa fu in realtà così dirompente perché si nutriva di una stringente contraddizione: negare la partecipazione attiva all’American dream a esseri umani di diversa pigmentazione di quella della maggioranza degli americani. Una contraddizione che andava sradicata almeno nominalmente, con esplicito richiamo nella legge fondamentale dell’Unione. Consapevolezza che lentamente maturò in quel secondo padre della patria che, dopo George Washington, fu Abramo Lincoln.
Da Lincoln in poi, i soggetti del bipartitismo statunitense si sono definiti in relazione al sogno americano. Nel Partito democratico, si è assistito a una divisione interna tra gli ammiratori del sogno e i loro imitatori (la suggestione kierkegaardiana è qui voluta, con il conseguente parallelo tra sogno americano e cristianesimo). Da Woodrow Wilson a John Kennedy, una lunga schiera di democratici ammiratori del sogno hanno centrato su di esso il loro racconto. Da Lyndon Johnson a Bill Clinton, un altrettanto importante insieme di imitatori, interpreti e testimoni viventi del sogno (uomini venuti dal nulla e arrivati al 1600 di Pennsylvania Avenue) hanno rafforzato, con la loro esemplare biografia, il legame della sinistra americana con il sogno.
Sia gli imitatori sia gli ammiratori dell’American dream non sono mai venuti meno - e ciò li unisce indissolubilmente - alla versione di un sogno che fosse espansiva e includente. In fondo, anche il lungo dibattito post Seconda guerra mondiale, che portò alle leggi del presidente Johnson contro l’apartheid verso i neri d’America, era un dibattito centrato sull’American dream. In particolare, i leader dei diritti civili si dividevano tra chi (Martin Luther King su tutti) concepiva la battaglia per i diritti civili come l’ennesima tappa dell’espansione includente dell’American dream a ogni cittadino e chi proponeva una versione redistributiva ed escludente del sogno.
Alla fine, com’è noto, l’ebbe vinta ancora una volta la versione originaria, quella che allarga il campo, contro quella che s’incarica di creare divisione e conflitto. Il più bel discorso politico di tutti i tempi, l’orazione di King al Lincoln Memorial di Washington, era proprio il racconto di una visione espansiva e accogliente del sogno americano («I have a dream that one day in Alabama... little black boys and black girls will he able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers»).
Oggi che nuove minoranze pesano felicemente e finalmente nella politica statunitense, e i loro rappresentanti al Congresso cominciano a farsi sentire, il punto di complessità della questione democratica che pongono è ancora una volta sull’interpretazione dell’American dream. Martin Luther King, a differenza di altri leader neri, non ha mai detto che per dare ai neri (includendoli nel sogno) bisognava togliere ai bianchi (riducendo il loro spazio nel sogno). Oggi, viceversa, molti dei leader delle minoranze che vivacizzano la nuova sinistra americana propongono un’interpretazione redistributiva ed escludente del sogno.
C’è di buono che questi leader, a parte qualche sciocchezza detta su Israele, ripudiano la violenza e si sentono appassionatamente ingaggiati nelle forme istituzionali e nei modi costituzionali dell’Unione. Tuttavia le loro battaglie sono per lo più all’insegna di una contestazione feroce dell’occupazione degli spazi politici negati dai wasp e dalle piccole minoranze ai wasp alleate. Se le loro modalità di lotta non somigliano a quelle violente degli anni Sessanta, la loro retorica non somiglia purtroppo a quella di King.
È vero: l’incremento del gap tra chi ha di più e chi ha di meno negli States è costantemente cresciuto negli ultimi anni. In particolare sotto Barack Obama, l’uscita dalla grande crisi economica è stata accompagnata da un forte indebitamento generale, con il paradossale (per un presidente di sinistra...) ulteriore aumento del gap di cui sopra. Questo problema esiste, non solo in America, ed è enorme. Ma le minoranze che animano a sinistra la politica americana, sono poste di fronte a un tema che, prima di essere sociale ed economico, è filosofico e culturale.
Limitarsi, infatti, a una critica economica e sociale delle degenerazioni del sogno rende inefficace la critica in quegli Stati, in particolare del Midwest, dove la globalizzazione e la grande crisi economica hanno fatto danni non tra le minoranze emergenti, ma nella maggioranza bianca del Paese. Le policies economico-sociali della nuova sinistra americana non possono fare breccia in quegli Stati. Se si vuole davvero che la critica produca una proposta di governo nazionale capace di essere competitiva alle prossime presidenziali, l’esercizio intellettuale e politico va impegnato anche sul fronte dell’interpretazione filosofica e culturale dell’American dream a cui ci si vuole associare.
L’American dream funziona quando non nega ad alcuno di potercela fare: un americano non può usare l’America dream contro un altro americano. Quando è successo, c’è stata la guerra tra gli americani o tensioni sociali che hanno mietuto morti e feriti. Il sogno americano o è espansivo e includente o non è il sogno americano. È un punto concettuale dirimente, con il quale la nuova sinistra americana è chiamata, che le piaccia o meno, a fare i conti.
Reportage.
Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi
Piccolo viaggio nell’isoletta alle porte di New York che è stata il punto di approdo dell’emigrazione europea in America fra Ottocento e Novecento. Oggi è il museo della nostra memoria
di Riccardo Michelucci (Avvenire, venerdì 29 marzo 2019)
[Foto] Ellis Island, la porta del «nuovo mondo»... quando i migranti eravamo noi
Annie Moore arrivò il 1° gennaio 1892 dopo una lunga traversata sull’oceano. Si era imbarcata due settimane prima su una nave a vapore partita da Cork, nell’Irlanda meridionale. Quel giorno, nell’isoletta alle porte di New York, si respirava aria di festa. Il centro immigrazione era stato appena inaugurato e si preparava ad accogliere i primi emigranti in arrivo dal Vecchio Continente. Possiamo immaginare lo stupore e la felicità di quella 17enne irlandese quando il capo degli ispettori, John Weber, le consegnò una moneta d’oro da dieci dollari aprendole le porte del sogno americano. Una statua in bronzo all’interno del Museo nazionale dell’immigrazione di Ellis Island la ricorda oggi come la prima emigrante arrivata qua alla ricerca di una vita migliore. Dopo di lei sarebbero sbarcati altri dodici milioni di uomini, donne e bambini in gran parte europei, tantissimi dei quali italiani.
Annie Moore è diventata un simbolo di quell’emigrazione epocale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento, sebbene uno studio recente abbia accertato che negli Stati Uniti non trovò mai la fortuna che cercava. Trascorse il resto della sua vita in povertà in un sobborgo di New York e morì poco più che 40 enne a causa di un attacco cardiaco, dopo aver seppellito cinque dei suoi undici figli, sfiniti dalle malattie e dalla denutrizione.
Per oltre sessant’anni Ellis Island è stata la porta d’accesso al “nuovo mondo” e visitandola oggi è quasi impossibile non volgere il pensiero a chi, anche ai giorni nostri, è costretto a intraprendere viaggi simili, e vede spesso i suoi sogni sfociare nella disillusione. Un secolo fa questa era l’isola della speranza, nota anche come l’isola delle lacrime perché in tanti vi conobbero umiliazioni, deportazioni, respingimenti. Le famiglie qui potevano ricongiungersi oppure finire fatalmente divise da un destino crudele.
La Statua della Libertà è così vicina che sembra quasi di poterla toccare. I grattacieli di Manhattan spiccano all’orizzonte lasciando immaginare la carica emotiva di chi arrivava qui dopo un’interminabile traversata oceanica. L’edificio principale di Ellis Island, in mattoni rossi con quattro torrette all’esterno, è stato interamente restaurato e aperto al pubblico nel 1990 e ospita oggi l’unico museo statunitense che documenta la storia dell’immigrazione dall’era coloniale ai giorni nostri. Ogni anno viene visitato da oltre quattro milioni di persone perché quasi la metà degli attuali abitanti degli Stati Uniti ha almeno un familiare passato dalle sue stanze.
Nel 1892 questa isoletta artificiale costruita con i detriti degli scavi della metropolitana di New York venne trasformata in un centro di ispezione per i migranti in arrivo negli Stati Uniti. Cinque anni dopo l’edificio principale finì distrutto da un incendio ma fu ricostruito e ampliato con nuovi spazi aggiunti per adeguare l’isola al crescente transito di persone provenienti da ogni parte del mondo. Le loro storie, in gran parte anonime, prendono forma al primo e al secondo piano con una serie di mostre fotografiche di grande impatto. Le sale e le stanze oggi adibite a spazi espositivi ricostruiscono esperienze di vita vissuta facendo ascoltare le voci registrate dei protagonisti e mostrando piccoli oggetti d’uso quotidiano come valigie, ceste, sacchi, utensili e abiti d’epoca.
«Sono venuto in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro», recitava un famoso canto degli emigrati italiani, «ma quando sono arrivato ho visto che le strade non erano lastricate affatto e che toccava a me lastricarle». Ci sono stanze rimaste intatte da allora, come i dormitori nei quali sostavano i malati o le persone sottoposte a quarantena. Sempre al secondo piano si trova anche il luogo forse più evocativo dell’intero museo: l’enorme “Registry room”, la sala dove le persone attendevano con paura e trepidazione la chiamata degli ispettori per espletare l’ultima parte burocratica e ottenere finalmente il permesso di sbarcare. In quei lunghi interrogatori venivano loro richiesti i dati anagrafici, la professione, la destinazione, la disponibilità di denaro, gli eventuali carichi penali. E, non ultimo, l’orientamento politico. In poche ore si decideva il destino di intere famiglie.
Il restauro ha ricreato un ambiente identico a com’era cento anni fa: l’imponente soffitto a volta in mattoncini bianchi, il pavimento color vermiglio, le bandiere a stelle e strisce issate sui parapetti. L’assenza delle panche dove sedevano gli emigranti in attesa di giudizio conferisce al grande salone ormai spoglio un’atmosfera di tragica ineluttabilità. Ma la “Registry Room” era soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso che nella maggior parte dei casi si concludeva sui traghetti per Manhattan. Prima di arrivare lì i passeggeri di prima e seconda classe delle navi venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra dagli ufficiali dell’immigrazione. I più poveri, quelli che avevano viaggiato in terza e quarta classe, erano invece inviati sull’isola dove i medici li controllavano frettolosamente.
Chi non superava gli esami veniva contrassegnato sulla schiena con un gessetto e sottoposto a ulteriori accertamenti. Una croce in caso di sospetti problemi mentali, altri simboli o lettere per disturbi quali ernia, tracoma, congiuntivite, patologie al cuore, ai polmoni o anche per una semplice gravidanza. Dai registri ufficiali risulta che appena il 2% degli emigranti sia stato respinto, circa un migliaio di persone al mese. Spesso venivano immediatamente reimbarcati sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti e che in base alla legislazione americana aveva l’obbligo di riportarli nel porto dal quale erano partiti. Molti preferirono suicidarsi, piuttosto che affrontare il ritorno a casa.
Le regole di esclusione erano spietate e imponevano che i vecchi, i ciechi, i sordomuti, i deformi e le persone affette da infermità, malattie mentali o contagiose non potessero accedere al suolo americano.
Il centro di Ellis Island era stato progettato per accogliere 500 mila persone all’anno, ma agli albori del secolo ne arrivarono circa il doppio, con oltre un milione di approdi nel solo 1907, l’anno più difficile. In seguito i decreti sull’immigrazione degli anni ’20 posero fine alla politica di «porte aperte» degli Stati Uniti e introdussero rigide quote d’ingresso basate sulla nazionalità.
La Grande depressione del 1929 limitò drasticamente gli arrivi, che scesero dai circa 240mila del 1930 ai 35mila nel 1932. Ellis Island si trasformò a poco a poco da centro di smistamento degli immigrati a luogo di raccolta per deportati e perseguitati politici. Durante la seconda guerra mondiale vi furono rinchiusi italiani, tedeschi e giapponesi e anche in seguito venne utilizzata principalmente per la detenzione. La struttura venne chiusa definitivamente il 12 novembre 1954 e gli edifici in disuso andarono lentamente in rovina.
L’ultima mostra fotografica racconta gli anni dell’abbandono e della successiva rinascita, con il lungo restauro che ha trasformato Ellis Island in un luogo imprescindibile della nostra memoria recente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo" (Kafka).
Federico La Sala
Bob Kennedy, la faccia morale dell’America finita nel sangue
Le lotte contro la segregazione razziale e le marce per i diritti dei latinos
di Furio Colombo (Il Fatto, 06.06.2018)
Quando cominci a parlare - nel mio caso, a riparlare - di Robert Kennedy, ti accorgi che qualcosa di diverso, di insolito e anche di difficile da spiegare, segna il ricordo e la riflessione, rispetto a ogni altro politico. Per esempio, con Robert Kennedy sei entrato nella segregazione razziale che conosceva ancora il linciaggio, e sei uscito in un mondo di diritti ottenuto con una sfida che è stata insieme di popolo e di governo, di grandi manifestazioni di massa combattute contro una polizia accanitamente ostile (cani lupo, bastoni e pompe d’acqua), ma con a fianco un ministro della Giustizia disposto, con le truppe federali, a tener testa a un governatore che aveva già schierato la sua guardia nazionale intorno alla sua università segregata. Il governatore Wallace, a gambe divaricate, davanti al portone da non valicare, ha spiegato: “Sono stato eletto per questo”. Il ministro della Giustizia, Robert Kennedy, ha risposto. “Sei stato eletto giurando sulla Costituzione”. Kennedy ha precisato che un’Alabama fuori dalla Costituzione sarebbe stato anche fuori dagli Strati Uniti. Quella stessa sera il primo afroamericano ha fatto il suo ingresso nell’università fino ad allora segregata.
Questo episodio, come tanti durante la lotta per i diritti civili, ci dice molto della tenacia e della forza morale di Robert Kennedy. Ma voglio far notare che ho detto forza morale, non forza politica. Politicamente Kennedy non era né più grande né più forte dei suoi elettori democratici al Congresso e nel Paese.
Tutti sapevano tutto dell’esclusione e umiliazione dei neri, e non avevano, fino a quel momento, mosso un dito. Ma durante la lotta per i diritti civili, che ha visto il governo americano (in prima fila il ministro della Giustizia) schierato dalla parte degli umiliati e offesi, è emerso un aspetto nuovo, unico e breve nella politica americana: la forza morale. Comincia qui la presenza di un fatto nuovo di cui è rappresentante e portatore Robert Kennedy. Non è la politica che affronta il problema della spaccatura razziale del Paese, non saprebbe come e non può perché.
Il conflitto nasce completamente fuori dalla politica, e - attraverso la voce di Martin Luther King -, diventa la grande questione morale. Robert Kennedy la raccoglie e capisce che quella è la strada che va al di là del razzismo, al di là della vita dei poveri, al di là delle disuguaglianze mortali. E, poco dopo, al di là e contro la guerra nel Vietnam.
Robert Kennedy si rende conto di essere entrato (fin dall’uccisione di suo fratello) nell’area della non convenienza, che dissuade ogni politico, nell’area del pericolo, perché ti opponi troppo a troppe cose che hanno un peso (e un costo) troppo grande. La sua immagine, sempre più amata e seguita da masse di giovani, si contrappone a volti e poteri non visibili.
Il fenomeno strano, che resta unico nella nostra memoria, è che “la sua strada sbagliata” (cito il senatore Humphrey, democratico e amico di famiglia che rimproverava a Robert Kennedy) gli porta un successo popolare immenso che, subito prima di essere ucciso, ha travolto l’America.
Ho vissuto giorno per giorno quell’ultimo periodo di febbre affettuosa ed entusiasta, una febbre sempre più grande. Ho partecipato, giorno per giorno, all’ultima campagna elettorale di Robert Kennedy e ricordo, ogni sera, le mani piagate da decine di migliaia di strette di mano.
Ma adesso, mentre ne scrivo nel giorno dell’anniversario del suo assassinio, non riesco a non ricordare un altro evento di cui Robert Kennedy è stato protagonista. È accaduto due anni prima. L’ex ministro della Giustizia si era messo alla testa di una lunga marcia dei raccoglitori di uva messicani, portati in California come clandestini, per raccogliere l’uva di immense coltivazioni per paghe inesistenti. La marcia a piedi partiva da El Centro e arrivava a Sacramento, e accanto a Robert Kennedy c’era Cesar Chavez, improvvisato sindacalista dei contadini senza paga, uomo intelligente e analfabeta, capace di tener testa alle televisioni in modo da coinvolgere l’intera America in un famoso “sciopero dell’uva”.
Ecco, ripensando e rivedendo la testa del giovane leader assassinato, mentre viene scrutata dai flash e dalle telecamere, sul pavimento dell’Hotel Ambassador, mi ricordo di quella marcia in cui Robert Kennedy e Cesar Chavez parlavano insieme alla folla, l’uno nello spagnolo dei campi, l’altro nel suo inglese di Harvard. E mi domando: può esistere una santità laica? E come mai, adesso, il luogo in cui viviamo (dall’America di Kennedy all’Italia di Spinelli e Colorni) sia diventato un mondo carogna, con le frontiere di filo spinato a lama di rasoio, in modo che i bambini con la faccia sfregiata siano i primi a imparare che le frontiere non si attraversano?
Sferzò il sogno americano
Il Nobel non se ne accorse
di Paolo Bertinetti (La Stampa, 24.05.2018)
A Philip Roth, morto ieri all’età di 85 anni, il Premio Nobel avrebbero dovuto darlo almeno venti anni fa, dopo l’assegnazione dal Premio Pulitzer per Pastorale americana: un capolavoro assoluto, un romanzo che offre un ritratto acutissimo e amaro della società americana, dagli anni del dopoguerra fino a quelli del Vietnam, dalle illusioni e dalle follie della giovane generazione anti-sistema alle illusioni e alle sconfitte di quella uscita dalla guerra. Una generazione che spronata dal clima di esaltazione collettiva che si affermò dopo la fine del conflitto (e dei sacrifici) si lanciò con convinzione ed entusiasmo nella costruzione di un’America più ricca e più grande che mai; e che dopo, come nel caso del suo protagonista, si ritrovò a dover nascondere i fallimenti dietro la facciata del benessere. È in questo romanzo che Roth ha raggiunto il vertice della sua produzione letteraria.
Roth era nato a Newark nel 1933. Suo padre, Herman Roth, figlio di ebrei emigrati negli Stati Uniti dalla Galizia, era un esponente di spicco della comunità ebraica che popolava il quartiere di Newark chiamato Weequahic. Il quartiere e la scuola stessa di Weequahic dove si era diplomato nel 1950 sono stati lo sfondo di molti dei suoi romanzi. Più che lo sfondo: sono stati il terreno fecondo su cui ha fatto crescere la sua invenzione romanzesca, trasformando nei personaggi della finzione, nelle loro vicende, nei loro dilemmi quanto aveva osservato nei suoi anni di formazione.
Questo avvenne tuttavia in un secondo tempo, anche se l’identità ebraica è centrale già nei suoi primi lavori. Ma come oggetto di satira, tant’è vero che il lavoro d’esordio, Goodbye Columbus, gli valse l’etichetta di «ebreo che odiava se stesso per il fatto di essere ebreo». L’accusa, accompagnata dallo scandalo, fu ampiamente rinnovata in occasione della pubblicazione nel 1969 del Lamento di Portnoy, uno dei libri più osceni, scrisse il New Yorker, «che mai siano stati pubblicati».
Ma quello che Roth voleva rappresentare era la rivolta della sua generazione contro il perbenismo repressivo dell’ambiente familiare. Alexander Portnoy, un nevrotico giovanotto di Weequahic, ricorre alle cure di uno psicanalista. Il romanzo è il suo monologo sul lettino del terapeuta: una scelta formale brillante, che consente a Roth di sbizzarrirsi in un parlato di irresistibile vivacità - e comicità.
Portnoy non parlava solo della giovane generazione ebraica; ma di tutta quella generazione, e non solo quella americana. Anche per questo fu un successo strepitoso, tanto in Europa quanto in America. Ma fu anche motivo di attacchi durissimi contro Roth, che decise di defilarsi. Nel 1972 si recò a Praga per «rendere omaggio» a Kafka; e al suo ritorno a New York si dedicò allo studio del ceco e alla frequentazione della comunità ceca, prendendo le distanze dall’ambiente letterario newyorchese.
In seguito si trasferì a Londra, insieme all’attrice Claire Bloom (che sposò più tardi), dove trascorse sei mesi all’anno fino al 1989, quando tornò in America per essere vicino al padre gravemente malato. I romanzi più notevoli degli anni londinesi sono quelli che hanno come protagonista lo scrittore Nathan Zuckerman, il suo alter ego: Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, La lezione di anatomia e il postmoderno La controvita. Il vertice della sua produzione romanzesca giunse però più tardi, con la trilogia in cui, a partire dalla rivisitazione della sua città natale, delle sue strutture sociali e dei suoi rapporti famigliari al loro interno, seppe offrire una riflessione sull’America del dopoguerra (e sulla sua Storia) che parla non solo agli americani, ma anche a tutti noi.
Pastorale americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana compongono una trilogia che affronta temi centrali della realtà americana, la guerra in Vietnam, il maccartismo, la discriminazione razziale, attraverso una scrittura diventata molto più asciutta di quella dei primi lavori ma capace di improvvise impennate liriche, molto «costruita» ma al tempo stesso piena delle cadenze dell’oralità. Anche in seguito, soprattutto in Indignazione e in Il complotto contro l’America, che alcuni considerano un’anticipazione dell’era Trump, Roth seppe riproporci i nodi della Storia attraverso le sue storie, da grande maestro di linguaggio e di invenzione romanzesca.
Il Nobel non glielo hanno dato. Peggio per il Nobel.
Il nichilista che svelò l’America
Ossessionato dalla caducità della vita umana e dalle sue contraddizioni, per raccontare le sue storie partiva sempre dall’io. E dalla cucina di casa
di Alessandro Piperno (Corriere della Sera, 24.05.2018)
Philip Roth - insieme a un paio di scrittori morti secoli fa - è l’individuo che non conosco con cui ho passato più tempo in tutta la mia vita. Lo frequento da quando arrampicandomi sulla libreria dei miei genitori in salotto, su su fino all’ultimo scaffale zeppo di romanzi proibiti, misi le mani sul Lamento di Portnoy . Allora scoprii che tre anni prima della mia nascita qualcuno aveva saputo parlare del cuore nero dell’adolescenza in un modo che nessuno (neanche il compagno di classe più intraprendente e sboccato) avrebbe potuto eguagliare.
Da allora ho recuperato dapprima i romanzi dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta mal editati (almeno in Italia) e così sfortunati, per poi lasciarmi andare sempre più sbigottito alla gigantesca, stupefacente resurrezione che, per dirla con Coetzee, ha sfiorato «vette shakespeariane» tra il ’95 e il ’97, quando Roth diede alle stampe Il teatro di Sabbath e Pastorale americana, ovvero quanto di più toccante e ambizioso uno scrittore abbia prodotto nell’ultimo mezzo secolo.
Ieri mattina mentre si diffondeva la notizia della sua morte - preso dal sentimentalismo corrivo e melenso che ogni tanto ci illanguidisce i cuori e di cui subito ci vergogniamo - ho mandato un messaggio a un amico con cui da lustri condivido l’idolatria rothiana: «Gli avevo a stento perdonato la decisione di non scrivere più, ma questo?». La risposta, non meno retorica in fondo, mi è sembrata un magnifico epitaffio: «Si finisce per scambiare l’immortalità della carta con l’immortalità della carne».
La beffa è che se c’è un romanziere che non ha scommesso sull’eternità, quello è Philip Roth. Anzi, prevedeva che nel corso di un quarto di secolo i lettori di narrativa si sarebbero assottigliati al punto da ridursi al novero di cultori della poesia latina. Mi auguro che avesse torto - se non altro per la salute del mio conto in banca - ma riconosco in tale affermazione tutto il realismo rothiano, inteso come buon senso della realtà.
Roth appartiene ai rari giganti della letteratura - da Montaigne a Joyce - che non se la sono mai raccontata. Che non hanno mai scambiato la propria dedizione all’arte per una cosa seria e indispensabile per il resto dell’umanità. Che hanno lavorato indefessamente, senza mai illudersi che ciò avrebbe potuto cambiare qualcosa. E lo hanno fatto perché non poteva essere altrimenti. «Lavoro tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette. Se mi ci metto per due o tre anni, alla fine ho un libro». Semplice, no? Sì, se hai la carica sexy di Philip Roth, il suo carisma morale, la sua sfrontatezza artistica. Del resto, è difficile spiegare a chi non lo capisce quanto persuasivi, vitali, euforizzanti siano gli inconfondibili giri di frase rothiani, l’eloquenza, la sintassi teatrale, gli avverbi ossessivi e tonitruanti. E i punti interrogativi? Chi altro ha saputo dare un simile lustro alle forme interlocutorie?
Il fatto è che Roth è attratto dalle contraddizioni, e da tutto ciò che è storto e non funziona, è animato dal sospetto che nella vita i conti tornino raramente. In tal senso è un autentico moralista. In uno dei passi più celebri di Pastorale americana scrive: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando».
Era dai tempi di Port Royal che uno scrittore non parlava in modo tanto franco e ossessivo dell’ineluttabilità della morte e della caducità della vita umana. E ciononostante la narrativa di Roth, con tutte le sue divagazioni cimiteriali, i suoi affreschi plumbei, le patologie invalidanti, è gioiosa, come sanno essere gioiose solo le cose belle e le cose vere. Lo so, forse, date le circostanze, sarebbe più saggio e didascalico soffermarsi sull’America, sul sesso, sulla misoginia (che d’altronde io non ho mai riscontrato), sull’onanismo, sull’assimilazione ebraica, sui conflitti etnici, sull’epica e sull’ambizione, insomma sui temi à la page che impreziosiscono la narrativa rothiana; ma si dà il caso che, almeno per me, il cuore dell’opera di Roth sia racchiuso nel titolo di uno dei suoi libri meno belli: My Life as a Man, la mia vita di uomo. E Dio ha voluto che la sua vita combaciasse con la letteratura, in un matrimonio talmente difficile che a un certo punto Roth ha chiesto il divorzio, appendendo la penna al chiodo. «Anche l’arte è vita» si accalorava con un’intervistatrice di un noto settimanale francese. «Capisce? Isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita, la lingua è vita».
Ciò che molti detrattori hanno confuso per egotismo altro non è che la constatazione che la sola maniera per scrivere qualcosa di decente è partire da sé, tornare ossessivamente a se stessi, a costo di essere equivocati o vilipesi. Gli alter ego rothiani - Alex Portnoy, Nathan Zuckerman, David Kepesh e Philip Roth stesso con tanto di sosia annessi - non svolgono la stessa funzione degli pseudonimi in Stendhal o degli eteronimi di Pessoa. Roth non li inventa per nascondersi o per reinventarsi. Lo fa per essere ancora più schietto e spietato.
Nell’intervista alla «Paris Review» del 1984 Hermione Lee gli chiede: «Quando scrive in testa ha un lettore in particolare?». La risposta è tanto spiritosa quanto emblematica: «No. A volte mi capita di avere in testa un lettore anti-Roth. E penso, come odierà questa cosa. Il che può rivelarsi proprio la spinta di cui ho bisogno». Non è facile resistere alla tentazione di compiacere il lettore, ma provocarlo deliberatamente è un esercizio ancor più complicato. E tuttavia riuscire a metterlo con le spalle al muro, alle corde, di fronte al suo perbenismo e al suo puritanesimo, può dare gioie impagabili. Ecco un’altra lezione da tenersi stretti.
C’è una cosa piccola di Philip Roth che mi ha sempre sorpreso e intenerito. Se date un’occhiata ai suoi ultimi libri in hardcover - le edizioni americane naturalmente - troverete la sua biografia zeppa di onorificenze che neanche un ambasciatore o un generale pluridecorato. Premi su premi, e tra i più internazionalmente prestigiosi. Ripeto: la cosa mi ha sempre sorpreso e intenerito. Mi dicevo: che te ne fai di questa roba? Sei Philip Roth. Sei tu che dai lustro a quelle bigie istituzioni, non viceversa. Del resto, ho sentito dire che il Nobel mancato fosse un serio problema per lui. Anche questo mi sembra incredibile. Il Nobel? A che ti serve il Nobel? Non ti basta esserti inventato Mickey Sabbath, Drenka Balich e il loro funambolico amore adulterino?
Eppure, pensandoci bene, anche questo esprime al meglio la contraddittorietà di Philip Roth. Immagino che quei riconoscimenti avrebbero riempito di orgoglio i suoi genitori, soprattutto il padre per cui Philip aveva un’autentica venerazione. Roth passa per il grande distruttore delle famiglie, l’accusatore indefesso dell’istituzione patriarcale. È lui ad aver detto: «Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita». È così che stanno davvero le cose? C’è uno scrittore che, nel suo sostanziale ateismo, materialismo, nichilismo, abbia coltivato un culto per gli avi, per i penati, in poche parole per la genealogia familiare più di Philip Roth? A me pare proprio di no.
A un tratto, ne La controvita, durante un litigio tra i fratelli Zuckerman, Henry chiede con sarcasmo a Nathan: «Dimmi una cosa, è mai possibile, almeno fuori dai tuoi libri, che tu abbia un quadro di riferimento un po’ più vasto del tavolo della nostra cucina di Newark?»; Nathan gli risponde: «Il caso vuole che il tavolo di quella cucina di Newark sia la fonte di tutti i miei ricordi ebraici».
Ora che la sua vita è finita, che la sua opera è chiusa per sempre, è facile notare come Roth abbia impiegato metà dei suoi libri a fuggire da quella cucina, e l’altra metà provando a rientrarci. È così che funziona, no? Da ragazzo non pensi che a scappare di casa, da adulto metti in atto i propositi libertari, da vecchio faresti di tutto per tornare all’ovile. Troppo tardi: ogni cosa che ti faceva palpitare e infuriare è venuta meno e ciò che resta parla una lingua aliena.
Philip Roth 1933 - 2018
Rischiò se stesso attraverso i romanzi
Adesso tocca a noi
di Richard Ford (Corriere della Sera, 24.05.2018)
Ho conosciuto Mr. Roth soltanto attraverso i suoi romanzi e i suoi racconti, che ho letto con enorme ammirazione letteralmente attraverso tutta la mia - ormai piuttosto lunga - vita. Era uno scrittore avventuroso, che aveva il coraggio di raccontare e immaginare quelle verità spesso dolorose con le quali non sempre siamo in grado di fare i conti dentro di noi.
Le nostre vite di esseri sessuali, il nostro ruolo nelle nostre famiglie (il ruolo di padre, di figlia), le nostre identità di cittadini della nostra repubblica, la nostra - presunta - identità religiosa. Usò se stesso - come uno scrittore o una scrittrice fanno, quando ne hanno la forza - come cavia umana, per il beneficio altrui.
La mia paura più grande - che sento con forza nel giorno della morte di Mr. Roth - è che questo coraggio, da parte degli scrittori, sia in via d’estinzione, destinato a essere ulteriormente soffocato dalla correttezza politica, dal potere coercitivo del denaro sulle industrie che, storicamente, hanno supportato la scrittura e l’immaginazione, e (specialmente in America, che è stata uno dei grandi argomenti affrontati da Mr. Roth) dai laidi, violenti effetti della censura che scaturisce dall’opportunismo politico.
Roth ha sofferto per aver fatto uso della libertà della sua immaginazione. Spero che noi che restiamo possiamo essere disposti a correre rischi con i nostri libri, proprio come ha fatto lui.
La guerra di Indipendenza che inventò gli americani
Storia. Solo l’esigenza di combattere un nemico comune fece mettere in secondo piano le enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie: questa la tesi di Alan Taylor in «Le rivoluzioni americane»
di Francesco Benigno (il manifesto, 04.02.2018)
La Guerra d’indipendenza americana, atto di nascita degli Stati Uniti d’America, è stata a lungo raccontata dalla storiografia, ma anche dalla letteratura e dal cinema, come la rivoluzione vittoriosa del popolo americano, unito e determinato, contro il tirannico dominio britannico. Ma, soprattutto, è stata tradizionalmente narrata in contrapposizione alla rivoluzione francese e, in controluce, a quella russa: se queste sono state segnate dalla tragicità della violenza e da una radicalità politica smisurata, capace di condurre a esiti inumani, la prima è stata per lo più presentata come una rivoluzione moderata, positiva, portatrice di valori universali, non guastati dall’assolutezza ideologica.
Più conflitti convergenti
Ora, il nuovo libro di Alan Taylor, Rivoluzioni americane Una storia continentale 1750-1804 (Einaudi, pp. XII-640, euro 35,00) smonta completamente, e con buoni argomenti, queste rassicuranti certezze. Taylor, autorevole storico dell’università della Virginia, già vincitore di due premi Pulitzer e di un National Book Award, ha scritto infatti un’opera programmaticamente revisionista, sin dal titolo: l‘uso del plurale rivoluzioni al posto del singolare vuole segnalare subito come l’evento di cui si parla non vada considerato come risultato di un conflitto a senso unico, quello di un popolo oppresso che si scrolla di dosso un ingombrante oppressore, bensì come una sorta di punto di convergenza di una serie di conflitti diversi e non omogenei fra loro; la cronologia qui utilizzata, poi, estesa agli anni 1750-1804, significativamente slargata rispetto agli anni veri e propri della guerra d’indipendenza, combattuta tra il 1775 e il 1783, va anch’essa controcorrente; l’aggettivo continentale, infine, segnala un significativo allargamento spaziale, abbracciando anche gli avvenimenti del Canada, della Louisiana e dei grandi spazi del West e le politiche degli imperi concorrenti: francese e spagnolo.
Il risultato di questo riposizionamento è felice. Decostruita la lettura nazionalistica, che vorrebbe la rivoluzione americana come prima manifestazione di un popolo americano già esistente - la sua epifania - Taylor porta a considerarla, viceversa, come l’essenziale processo di gestazione che ne forgia la fisionomia e ne determina la nascita. In verità, un parto doloroso: a scontrarsi non furono solo l’esercito americano e quello inglese ma anche sezioni contrapposte della società americana.
Da una parte i patrioti, una minoranza radicale e dall’altra i lealisti filo-britannici, un’altra minoranza ancor più esigua, con in mezzo la maggioranza di una popolazione a lungo indecisa. Sarà anzi proprio la lunga guerra, distruttiva e tragica - non limitata cioè ai combattimenti degli eserciti schierati, ma fatta di saccheggi, devastazioni e repressioni che colpivano la popolazione civile - a determinare l’orientamento maggioritario a favore del fronte patriota; e comunque, alla fine del conflitto, ben 60.000 lealisti fuggiranno dal paese come esuli.
La cosiddetta Guerra d’Indipendenza è stata in realtà, ci dice Taylor, come tutte le rivoluzioni, una guerra civile, e anzi la prima guerra civile americana. Quando, nel 1777, il Congresso adottò gli articoli di Confederazione e Unione, essi furono più una temporanea alleanza di stati che l’espressione di una nazione coesa. Solo l’esigenza di combattere insieme un nemico comune e soverchiante fece valere gli elementi condivisibili a scapito delle enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie.
Le conseguenze di questo orientamento sono importanti: non sono gli americani ad avere fatto la rivoluzione ma è la rivoluzione ad avere «inventato» gli americani. Una testimonianza di Benjamin Franklin del 1775 è rivelatrice: «non ho mai sentito in nessuna conversazione qualunque persona, ubriaca o sobria, manifestare la minima espressione di desiderio di secessione, o l’opinione che una tale manovra possa essere positiva per l’America».
All’epoca in cui questa frase fu pronunciata il conflitto armato si era già - in modo strisciante - avviato, ma si presentava come la somma di una serie di contrasti su questioni nodali agitate dai patrioti contro le pretese del parlamento britannico di intervenire negli affari americani, e non come la richiesta di una sovranità autonoma. In gioco c’era, certo, lo statuto costituzionale delle colonie e la contestazione americana di tasse imposte da organismi privi di propri rappresentanti (secondo lo slogan No taxation without representation) ma non solo.
Meno indagati dalla storiografia sulla guerra d’Indipendenza, ma non per questo meno importanti, almeno due altri temi scottanti erano sul tappeto. Il primo era relativo alle terre delle popolazioni indiane, l’immenso spazio libero al di là della catena dei monti Appalachi, il famoso West con la sua mitica frontiera mobile, in perenne avanzamento. Se la causa dei Sons of liberty ebbe successo fu anche grazie all’incerta gestione inglese delle terre d’occidente occupate dalle tribù dei «pellerossa»; una linea oscillante fra il precipitoso tentativo di frenare la spinta alla colonizzazione, le impopolari concessioni a franco-canadesi cattolici e le pratiche di appalto di intere zone a un ceto di accaparratori di terra corrotti e inaffidabili. Non per caso gli indiani dell’ovest combatterono largamente a fianco degli inglesi mentre i pionieri coloni si schierarono in maggioranza con i patrioti.
C’è poi la questione degli schiavi neri. La posizione dell’opinione pubblica inglese era avversa al regime di schiavitù, contrario alla tradizione liberale cui essa si ispirava. Fu famosa la causa vinta davanti a un tribunale inglese da uno schiavo di Boston portato in Inghilterra: questi aveva sostenuto che, una volta in Gran Bretragna, andava affrancato perché su quel suolo la schiavitù non è ammessa e gli schiavi che lo calcano divengono ipso facto uomini liberi.
Ancora una volta la posizione oscillante del governo britannico, incapace di promulgare un editto di affrancamento degli schiavi neri ma tendenzialmente favorevole ad ascoltare le ragioni della popolazione afroamericana in catene, e giunto perfino a minacciarne la liberazione, produsse un esito simile: mentre diverse migliaia di schiavi in fuga si arruolarono per combattere a fianco delle truppe di Sua Maestà, gran parte del ceto di proprietari di piantagioni del sud finì per sposare la causa patriota.
Principi e negati
La contrapposizione partitica successiva fra i federalisti alla Hamilton e i repubblicani alla Jefferson, trattata nell’ultima parte del volume, non è di conseguenza che l’esito e lo specchio di questo insieme di contraddizioni, che continueranno a segnare, almeno fino alla guerra civile - tra il 1861 e il 1865 - la vita politica statunitense. Tra esse ce n’è una trattata dal libro con garbo e ironia: vale a dire la distanza irrisolta tra gli enunciati che innervano l’autorappresentazione della libertà americana e la prassi politica concreta.
Mentre la proclamazione universale dei diritti faceva della rivoluzione americana il caposaldo di una nuova legittimità centrata sul potere popolare e sul diritto inalienabile di ciascuno alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, nella pratica questi principi erano negati agli indigeni americani, espropriati di tutto, e agli schiavi neri, mantenuti in catene.
Incubo “Dreamers”, con Trump 800 mila americani a rischio
Il "falco" dell’amministrazione Jeff Sessions annuncia la fine del «Daca», il programma di Obama per i migranti arrivati da bambini e cresciuti negli Stati uniti. Nei giorni scorsi gran via vai di consiglieri alla Casa bianca. Alla fine ha prevalso l’ala più estremista. La reazione dell’ex presidente: «Colpire questi giovani è sbagliato e crudele, non hanno fatto niente di male»
di Marina Catucci (il manifesto, 06.09.2017)
NEW YORK Donald Trump ha deciso alla fine di chiudere il programma di Obama sull’immigrazione, il Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals), che proteggeva gli immigrati irregolari arrivati negli Stati uniti da bambini, al seguito dei i propri genitori, che erano immuni dalle espulsioni e, da adulti, avevano ottenuto il permesso di lavoro. L’idea era che questi bambini cresciuti in America, immersi in questa cultura, sono a tutti gli effetti americani, Dreamers, sognatori, li aveva chiamati Obama.
«Sono americani nel cuore, nello spirito, in ogni altro modo a eccezione di uno solo, i documenti», ha reagito l’ex presidente Usa, definendo «crudele» la decisione. Un «autogol», ha rincarato Obama in serata: «Colpire questi giovani è sbagliato, non hanno fatto nulla di male. Vogliono avviare nuove imprese, lavorare nei nostri laboratori, servire nelle nostre forze armate...».
ORA, INVECE, TRUMP ha chiesto al Congresso di sostituire il programma Daca con una nuova legge entro il 5 marzo 2018. A comunicarlo non è stato Trump, ma il procuratore generale Jeff Sessions, con un annuncio brevissimo dopo il quale non ha accettato domande.
La Casa Bianca quindi non accetterà nuove richieste di protezione sotto il Daca, ma al momento gli attuali 800mila iscritti del programma non corrono rischi immediati di deportazione in paesi che di fatto non conoscono, e dopo aver dato volontariamente i propri dati all’amministrazione precedente, quella attuale li sta usando come elenco di deportazione che smembra famiglie e interrompe percorsi di vita.
Il provvedimento è stato definito il più crudele della presidenza Trump fino ad ora, e tuttavia la mossa del presidente che fa inorridire la sinistra e la destra moderata, è probabile che sia accolta con scetticismo da molti dei sostenitori più conservatori di Trump, che volevano non un rinvio al Congresso, ma la fine definitiva di quello che è considerato un abuso da parte di Obama.
UNA SOLUZIONE CONTROVERSA che scontenta tutti, in pratica, e spacca ulteriormente il Partito repubblicano, già diviso dalla battaglia che è stato il voto fallimentare sull’Obamacare.
Non è nemmeno chiaro, infatti, se il Congresso controllato dai repubblicani sarà disposto a votare per annullare o meno il Daca; anche nei dibattiti più aspri dell’ultimo decennio, i bambini portati illegalmente negli Stati uniti, che hanno studiato o sono diventati militari, hanno sempre attirato più empatia che critiche. In questi giorni in cui il Texas è devastato dal passaggio dell’uragano Harvey, per la posizione geografica di questo Stato di confine si sono visti molti Dreamers nei vari corpi di soccorso, mettere la propria vita a rischio per salvare quelle dei texani, o perderla, come nel caso di Alonso Guillen, nato in Messico è cresciuto in America, la cui barca si è capovolta mentre stava salvando i sopravvissuti delle inondazioni nella zona di Houston.
ORA, INVECE, chi non è già protetto dal programma è a rischio, chi ha un permesso Daca che scade tra oggi e il 5 marzo 2018, può richiedere un rinnovo ma solo di due anni; per altri, lo status giuridico termina già il 6 marzo 2018. «Non è chiaro cosa significhi ritardare questo provvedimento di sei mesi - ha detto al New York Times Mark Krikorian, a capo del Centro per gli studi sull’immigrazione -. Trump è stato tirato in molte direzioni diverse, e siccome non ha nessuna ideologia forte, o una vera conoscenza del problema, finisce per non sapere cosa fare».
LA PRIMA REAZIONE politicamente pragmatica è arrivata dal governatore democratico dello stato di New York, Andrew Cuomo, secondo il quale lo Stato della Grande mela difenderá i suoi Dreamers e porterà in tribunale la decisione di Trump. Intanto sono state organizzate manifestazioni in tutti gli Stati uniti, sin dalla mattina si sono visti picchetti di centinaia di persone davanti alla Casa Bianca, sotto le Trump tower sparse in tutta America. Una veglia era stata fatta durante la notte sotto casa di Ivanka Trump e di suo marito e consigliere del presidente, Jared Kushner, e altre più grosse manifestazioni sono attese in serata. «ERA UN DISASTRO annunciato - dice William, avvocato newyorchese che ha preso un giorno libero per manifestare sotto la Trump tower -. Trump deve dare un segnale ai suoi, non ha mantenuto nessuna delle promesse elettorali, forse non riuscirà a costruire nemmeno un metro di muro col Messico. Questa è una mossa più facile per dimostrare fedeltà alla propria base, fa niente che sia crudele, inutile ed economicamente dannosa».
In effetti il fine settimana di Trump ha visto un via vai di consiglieri avvicendarsi e ha prevalso l’ala più estremista, capeggiata proprio da Jeff Sessions, in disperato bisogno di tornare tra le grazie del presidente dopo le frizioni legate alle indagini sul Russiagate nelle quali era troppo coinvolto.
OGNUNO ha, evidentemente, una serie di personali ragioni di credibilità che lo portano ad affrontare e ad usare come mezzo il Daca. Come se migliaia di vite non ne venissero coinvolte.
L’ex presidente ha deciso di scrivere un post su Facebook subito dopo l’annuncio di Sessions. Ecco il testo
Una decisione crudele contraria al nostro spirito e al buon senso
di Barack Obama (la Repubblica, 06.09.2017)
QUELLO dell’immigrazione può essere un tema controverso. Tutti desideriamo dei confini sicuri e un’economia dinamica, e le persone possono legittimamente nutrire opinioni discordi su come correggere il nostro sistema di immigrazione affinché tutti si attengano alle regole. L’iniziativa presa oggi dalla Casa Bianca però non si basa su questi presupposti. Stiamo parlando di giovani che sono cresciuti in America: bambini che studiano nelle nostre scuole, giovani adulti che stanno muovendo i primi passi nel mondo del lavoro, che giurano fedeltà alla nostra bandiera. Questi dreamers sono americani nel cuore, nella mente, e in tutti i modi ad eccezione di uno: sulla carta.
Sono stati portati in questo Paese dai loro genitori, in alcuni casi quando erano ancora neonati. Magari non conoscono nessun altro Paese al di fuori del nostro. Forse non parlano un’altra lingua. Spesso nemmeno sanno di essere senza permesso sino al momento in cui presentano una domanda di lavoro, si iscrivono all’università o fanno domanda per prendere la patente. Nel corso degli anni i politici di entrambi i fronti hanno lavorato insieme per preparare delle leggi che dicessero a questi giovani - ai nostri giovani - che nel caso in cui i tuoi genitori ti abbiano portato qui da bambino e tu abbia trascorso qui un certo numero di anni, se sei disposto ad andare all’università o ad arruolarti nelle forze armate hai la possibilità di rimanere qui e guadagnarti la cittadinanza. Per anni, quando ero presidente, ho chiesto al Congresso di inviarmi una simile proposta di legge. Quella proposta non è mai arrivata. E poiché non aveva senso espellere dei giovani di talento e pieni di entusiasmo dall’unico Paese che conoscevano esclusivamente a causa dell’operato dei loro genitori, la mia amministrazione si è data da fare per fugare l’ombra della deportazione che incombeva su questi giovani, affinché essi potessero continuare a dare il loro contributo alle nostre comunità e al nostro Paese. Lo abbiamo fatto basandoci sul principio legale, ben fondato, della discrezionalità dell’accusa, a cui sia presidenti democratici che repubblicani hanno fatto ricorso, perché le agenzie che si occupano di mettere in atto le leggi sull’immigrazione dispongono di risorse limitate, ed è sensato impiegare tali risorse per coloro che giungono in questo Paese illegalmente per nuocerci. Le deportazioni dei criminali sono aumentate. Circa ottocentomila giovani si sono fatti avanti: hanno soddisfatto requisiti stringenti e il controllo della loro fedina penale. E grazie a questo l’America è diventata più forte. Oggi quell’ombra è tornata nuovamente a gravare su alcuni dei migliori e dei più brillanti dei nostri giovani.
Prendere di mira questi ragazzi è sbagliato, perché essi non hanno fatto nulla di sbagliato. Equivale ad un autogol, poiché intendono lanciare nuove attività, lavorare nei nostri laboratori, arruolarsi nel nostro esercito e contribuire in altri modi al Paese che amiamo. Ed è crudele. Cosa accadrebbe se l’insegnante di scienze di nostro figlio, o la nostra gioviale vicina di casa si rivelasse essere una dreamer? Dove dovremmo spedirla? In un Paese che non conosce o di cui non ha memoria, in cui si parla una lingua che magari nemmeno conosce?
Sia chiaro: l’iniziativa che è stata presa oggi non è imposta dalla legge. Si tratta di una decisione politica e di una questione morale. Quali che siano le preoccupazioni o le rimostranze che gli americani possono nutrire nei confronti dell’immigrazione in generale, noi non dovremmo minacciare il futuro di questo gruppo di giovani che si trovano qui non per colpa loro, che non rappresentano alcuna minaccia, che non tolgono nulla a tutti quanti noi. Sono quel lanciatore della squadra di softball di nostro figlio, quel paramedico che aiuta la sua comunità dopo un disastro, quel cadetto riservista che non chiede altro che di poter indossare una divisa del Paese che gli ha offerto un’opportunità.
È proprio perché questa iniziativa è contraria al nostro spirito e al buon senso che gli esponenti del mondo del lavoro e della religione, gli economisti e gli americani di ogni schieramento avevano fatto appello all’amministrazione affinché non facesse ciò che ha fatto. E adesso che la Casa Bianca ha trasferito al Congresso la responsabilità che ha nei confronti di questi giovani, toccherà ai membri del Congresso proteggere loro e il nostro futuro.
Infine, si tratta di elementare moralità. Si tratta di vedere se siamo un popolo che caccia dall’America i giovani che sono determinati a farsi strada. È questione di definire che popolo siamo - e che popolo vogliamo essere. A renderci americani non sono le somiglianze, o l’origine del nostro cognome, o il modo in cui preghiamo. Ciò che fa di noi degli americani è la fedeltà verso un insieme di ideali: siamo creati uguali; tutti meritiamo la possibilità di fare della nostra vita ciò che desideriamo; tutti abbiamo il dovere di farci avanti. È questo ciò che ha permesso all’America di fare così tanta strada. Ed è così che, continuando su questa strada, perfezioneremo la nostra Unione.
(Traduzione di Marzia Porta)
Trump cancella il sogno dei migranti
di Giuseppe Sarcina (Corriere della Sera, 06.09.2017)
WASHINGTON Dal sogno all’incubo. Circa 800 mila giovani rischiano di essere espulsi dagli Stati Uniti il 5 marzo 2018, quando scadrà la copertura legale del programma Daca, «Deferred action for childhood arrivals».
Ieri il ministro della Giustizia Jeff Sessions ha annunciato che il provvedimento emanato da Barack Obama nel giugno del 2012 è «abrogato». La norma protegge le persone entrate illegalmente negli Stati Uniti, quando erano bambini con meno di 16 anni. A loro viene garantita la possibilità di «vivere il sogno americano». Nel concreto significa ottenere un permesso di lavoro valido due anni (rinnovabile), a patto di soddisfare sette requisiti, tra i quali: avere avuto meno di 31 anni nel giugno del 2012; risiedere negli Usa dal giugno 2007; frequentare o aver frequentato le scuole.
La decisione è stata annunciata con un tweet da Donald Trump: «Congresso, preparati a fare il tuo lavoro-Daca». Camera dei Rappresentanti e Senato hanno sei mesi di tempo per elaborare un altro schema di tutele. Se non si troverà un accordo, i «sognatori» verranno spediti nei Paesi di origine.
Il presidente dice di aver tenuto fede a un impegno preso nella campagna elettorale. Sessions mette in bella copia le motivazioni. La prima è giuridica: «Il potere esecutivo aveva agito in modo unilaterale, creando grande incertezza sul piano legale». La seconda, di merito: «La nazione deve poter fissare il limite di quanti immigrati accettare ogni anno e questo significa che non tutti possono essere ammessi». Lo stesso Obama replica con un lungo post su Facebook: «È una scelta sbagliata, autolesionista, crudele». Da oggi, dunque, gli uffici amministrativi non accetteranno altre domande, ma la situazione non è affatto chiara.
Nei giorni scorsi i procuratori generali di dieci Stati hanno minacciato il ricorso alla Corte Suprema contro il Daca. Nello stesso tempo Trump ha ricevuto l’appello «a favore dei dreamer s», firmato dai manager di General Motors, Hewlett Packard, Wells Fargo e Marriott. Il New York Times segnala il calcolo di Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analitics: a questo punto il Prodotto interno degli Stati Uniti potrebbe diminuire di 105 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni.
È una vicenda in cui si mescolano interessi materiali, memoria, identità. Il fronte anti Trump tiene insieme l’ex ministro della Difesa, il democratico Leon Panetta, figlio di immigrati italiani, e Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, che sceglie più o meno le stesse parole di Obama: «giornata triste e crudele per l’America».
Il presidente afroamericano si misurò nel 2012 con il problema forse più difficile. Il 5 giugno 2012, durante le elezioni, trovò l’ufficio di Denver, in Colorado, occupato da un sit-in contro la sua politica migratoria. Il 15 annunciò la nascita dello «scudo per i figli degli irregolari».
Anche ieri c’è stata una manifestazione di protesta: due-trecento attivisti si sono radunati davanti alla Casa Bianca. Ma per Trump quelle voci non contano: il presidente guarda alla sua base elettorale, rocciosa e ostile con gli stranieri. Ancora una volta, però, l’operazione è parziale. Come è successo con l’Obamacare, The Donald distrugge, ma non offre soluzioni alternative. I consiglieri dello Studio Ovale sono divisi, i repubblicani, se possibile, ancora più confusi. E l’agenda parlamentare di settembre è già disseminata di trappole: dalla discussione sul tetto del debito alla riforma fiscale.
Spiegel, Trump ’sgozza’ Statua Libertà
Prima pagina shock del settimanale che titola ’America First’ *
(ANSA) - BERLINO, 3 FEB - Un disegno di Donald Trump a figura intera, con un coltello insanguinato in una mano e la testa mozzata della Statua della libertà nell’altra, è la provocatoria copertina di Der Spiegel in uscita domani. La rivista accompagna l’immagine con il titolo "America First", il motto della campagna elettorale di Trump. Nel disegno, la faccia del presidente non ha lineamenti, tranne che per la bocca spalancata nell’atto di urlare la sua rabbia.
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino***
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle “spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere” (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA “MORTE NERA” (cfr.: Massimo Palma,”Waler Benjamin, l’inquilino in nero; cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a “Infanzia salentina”, pagine del lavoro di Nicola Fanizza, “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini” - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
Il discorso di insediamento di Donald Trump
di Francesca Rigotti *
Questa è una breve analisi retorico-tematica del discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti di Donald John Trump, che intenzionalmente non entra nel merito della critica politica se non quando l’autrice proprio non ce la fa a stare zitta.
Un discorso popolar-populista
Il discorso inaugurale di Trump tenuto a Washington il 20 gennaio 2017 è popolare nell’impianto, in quanto semplice, comprensibile e composto da frasi molto brevi disposte paratatticamente, con un impiego minimo di proposizioni subordinate. È comunque anche un discorso populista in quanto esalta il primato del popolo quale unico detentore e gestore della sovranità. Ma limitiamoci agli aspetti retorici e tematici. Visto e sentito pronunciare sullo schermo, il discorso del neopresidente era ricco di pathos, di impegno e di passione; apparentemente non letto, pronunciato eroicamente sotto la pioggia, è stato tenuto con vivace movimento delle mani e con voce da melodramma (forse il figlio adolescente è stato attento almeno al discorso paterno, dopo che per tutto il tempo della cerimonia non aveva fatto che sbadigliare e ciondolare e muoversi se era in piedi, o presumibilmente guardare qualche apparecchietto elettronico che aveva in mano quando stava seduto, l’unica cosa che evidentemente riusciva a tenerlo fermo e buono nonostante i continui rimbrotti materni).
Continuità e discontinuità
Il discorso presenta continuità e discontinuità coi discorsi inaugurali dei presidenti degli Stati Uniti in genere, e in particolare con quelli degli ultimi decenni. La continuità è rilevabile in diversi elementi: la linea sempre e comunque ottimistica; il richiamo alla benedizione divina rivolta agli Stati Uniti d’America - l’«America» - nonché l’appello al destino assegnato da Dio a questo paese (American destiny) di essere una nazione benedetta, anzi eletta da Dio, per scopi particolarmente nobili e di guida di altri popoli e paesi. La continuità si legge anche in alcune delle (scarse) metafore, in particolare nell’impianto metaforico bellico-militare, quello della nascita e quello dell’edilizia, che guarderemo più avanti.
Si registra invece discontinuità nella forte contrapposizione noi-voi/loro che si riflette anche nella dimensione di chiusura/apertura cui si accennerà nelle ultime considerazioni.
La forma di pensiero oppositiva
Proprio la contrapposizione noi/loro è particolarmente vivace e ampiamente sottolineata nel testo, anzi è di su di essa che si costruisce tutto il discorso, articolato, in questa prospettiva, in tre parti. Essa si basa sulla forma di pensiero oppositiva di tipo binario che dipinge il mondo in termini di voi-noi/loro. Voi, il popolo americano, forte, sano, fiero, sicuro (o meglio, che una volta lo era), protagonista della prima parte; e noi che vi salveremo e faremo l’America grande etc. Ma chi sono i noi? Lo si capisce quando si incontra in mezzo, in una breve parte centrale che fa da cerniera tra la prima e la seconda parte, l’io-Trump. Io, afferma in prima persona il presidente, lotterò per voi strenuamente fino all’ultimo respiro e mai vi lascerò cadere. L’io salvatore, fondatore di una nuova nazione grande e vincente, si inserisce dunque a metà discorso, dopo che nella prima parte Trump aveva parlato soltanto di voi (you, American people) e del vostro paese (e del vostro lavoro, controllo, governo etc.). Dopo il passaggio dal voi all’io il pronome personale diventa noi, we, voi e io insieme, il popolo e il suo leader, contro... contro chi? Contro chi si indirizza la visione separatista che opponendo noi (voi+io) a loro va a coibentare la coesione sociale del proprio gruppo?
Contro la casta e contro il resto del mondo
In primo luogo l’avversario individuato è la casta politica che detiene il potere a Washington, contro la quale Trump manifesta un forte risentimento (vedi il testo di Belpoliti su doppiozero). Il piccolo gruppo dei politici di Washington, pur limitandosi a parlare ma non agendo, ha incassato i premi del governo, si è arricchito, ha fiorito e prosperato a spese del popolo; adesso è invece quest’ultimo che passa a controllare le politiche di governo. In secondo luogo l’avversario è formato da tutti coloro che non sono Americani ma entrano in questo paese a derubarlo, a strappare la ricchezza dalle case americane per ridistribuirsela a casa loro, o che non essendo Americani in qualche modo hanno goduto e godono della ricchezza e della protezione americana.
Un nuovo millenarismo
Il mettersi in moto del nuovo noi composto da voi (cittadini Americani) e da me (Trump) è il segnale della nascita del nuovo millennio che inizia hic et nunc, qui e ora , here and now - parole ripetute a indicare un momento storico aurorale - a partire dal momento dell’insediamento del nuovo presidente. A confermare la nascita di una nuova era il neopresidente ha sottoscritto la proclamazione della ricorrenza, ogni 20 gennaio, della «Giornata nazionale del patriottismo». Da questo momento, dopo l’apocalisse americana in cui, nella descrizione dell’oratore, «donne e bambini giacciono intrappolati dalla povertà, le fabbriche si ergono nel paesaggio come pietre tombali, il sistema educativo priva di conoscenza i nostri studenti giovani e belli, e criminalità, bande rivali e droga hanno rubato tante vite e tanto potenziale umano», inizia la nuova epoca auspicata dal millenarismo di Trump, ovvero la ricostruzione del paese in maniera autoctona, con mani e lavoro americano. Ora, come sia possibile conciliare il protezionismo dell’ideologia che proclama «America first» con un altro valore decantato nel mondo neoliberista di qua e di là dell’oceano quale la meritocrazia, è un mistero totale, cosa che vale per tutti i paesi protezionisti dei loro cittadini, dalla Gran Bretagna alla Svizzera. Ma abbandono subito la critica politica per passare alle metafore del discorso inaugurale.
Le metafore di Trump
Una caratteristica del linguaggio politico di Trump è di essere generalmente povero di metafore; qualcuna di più compare nell’orazione del 20 gennaio, ma la quantità è, rispetto ai discorsi di altri presidenti, assai modesta. Vediamo all’opera metafore del viaggio (we will determine the course of America); metafore bellico-militari, le più frequenti ma anche le più logore dato il loro uso frequente nelle campagne (appunto) elettorali, presenti in espressioni come victory, winning, fight; vediamo forme di personificazione, allorché l’oratore istituisce paragoni tra il potere, lo stato o la nazione e condizioni umane quali il fiorire, prosperare, soffrire, sognare, essere derubati o distrutti, come se i corpi sociali fossero corpi fisici di persone. Ma nell’insieme, il linguaggio di Trump è letterale e aderente alla realtà: del resto la struttura delle sue frasi corte, formate da soggetto, predicato, apposizione o complemento (e proprio se si vuol essere complessi, avverbio) non permette proprio, nella sua banalità e semplicità estrema, l’impiego articolato di paragoni. Insomma è come se Trump avesse trasferito anche nella forma retorica dell’orazione le modalità comunicative del Twitter, del quale si considera campione.
Chiusura e apertura
Riprendendo, per concludere, la tematica delle continuità e discontinuità con precedenti discorsi inaugurali di presidenti degli U.S.A., si nota che il discorso di Trump introduce una cesura per quanto riguarda la posizione degli Stati Uniti d’America nel mondo. Che l’oratore di turno fosse democratico o repubblicano, costante era il riferimento all’America quale faro delle nazioni, protettrice e distributrice al mondo di quella libertà di cui era fiera garante, terra di immigrazione, crogiuolo di culture, madre generosa che apriva le sue braccia agli oppressi di tutto il mondo mostrando loro il fulgore e i benefici della libertà. Ora quella immagine, per quanto filistea, è completamente scomparsa e di quella luce non rimane neppure un barlume: resta, drammatica nel suo isolamento, l’immagine di una terra oscura ritirata in se stessa e protetta dalle sue coste, nonché aggrappata disperatamente a un sogno visionario riassunto nello slogan «America First». Sogno visionario America first? Due parole che fanno accapponare la pelle a chi ricorda il ruolo del sogno nel discorso di Martin Luther King, e a tutti coloro che credono e sanno che prima degli interessi economici dei cittadini di uno stato vengono quelli che Angela Merkel ha ricordato a Donald J. Trump essere «i valori universali»: la giustizia e la libertà, il rispetto e l’eguaglianza, i diritti e la solidarietà.
* DOPPIOZERO, 21.01.2017 (ripresa parziale).
Domani un Thanksgiving premonitore
Stati uniti. Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati Uniti
di Giuseppe Cassini (il manifesto, 23.11.2016)
Almeno una volta all’anno tutti gli americani, sparsi nella vastità del continente, riuniscono le famiglie per condividere affetti, gioie, dolori e l’immancabile tacchino farcito. La ricorrenza da festeggiare è il Thanksgiving Day e cade domani, ultimo giovedì di novembre.
Ma quest’anno la parola “festeggiare” sembra fuori luogo. Per la prima volta dopo 150 anni dalla Guerra di Secessione, qui negli Stati Uniti si vedono famiglie spaccate dalle scelte elettorali dei propri congiunti, e che ora rifiutano di sedersi al desco comune. Attenzione, non è un’irritazione passeggera, ammoniscono i sociologhi: è una spaccatura epocale.
Bob Putnam, noto anche in Italia per le sue passate ricerche sul “familismo amorale” nel Mezzogiorno, osserva da decenni l’affievolirsi del “capitale civico” nel suo Paese e ora dice: «Se aveste partecipato a un Thanksgiving cinquanta anni fa, quasi certamente avreste avuto attorno a voi commensali di diversa estrazione. Oggi è raro sedersi a tavola con gente che non sia affine a noi».
Soltanto chi ignora la “sacralità” del Thanksgiving Day tende a sottovalutare il fenomeno soggiacente: cioè la gravità dello strappo che sta sfaldando il tessuto sociale degli Stati uniti.
Qualche cifra può bastare a misurarne la fragilità: nell’indice Gini che misura le sperequazioni di reddito gli Stati uniti si piazzavano nel dopoguerra alla pari con la Svezia, mentre oggi sono vicini al Messico. Nell’ultimo trentennio la produttività negli Stati uniti è cresciuta dell’80%, mentre i salari sono mediamente aumentati in termini reali appena dell’11% (chi ne ha profittato?).
Un terzo della popolazione è “creazionista”, anti-darwiniana e anti-abortista senza se e senza ma; ed è la stessa che difende la pena di morte, l’uso della tortura (quando ce vo’ ce vo’), la libertà di armarsi e la castrazione giudiziaria per i recidivi di reati sessuali.
Su 320 milioni di abitanti un terzo è obeso (fra cui il 14% dei minorenni), un altro terzo è sovrappeso (fra cui il 17% dei minorenni) e sono sopratutto i poveri ad ingrassare.
Le carceri ospitano un quinto dei reclusi del mondo (circa 2.200.000, di cui metà neri); in proporzione è come se l’Italia avesse 500.000 carcerati invece degli attuali 50.000.
La disoccupazione fra i neri è doppia della media nazionale e il 70% dei bambini neri nasce da madri senza marito, quasi tutte sotto la soglia della povertà.
I grandi imperi della storia sono decaduti per sfaldamento interno piuttosto che per attacchi esterni; l’attuale disgregazione del tessuto sociale spinge gli Usa in quella direzione. La vittoria di Trump ne è un sintomo, un sintomo roboante. Si sta facendo largo (è il caso di dirlo) una genìa di governanti di stazza extra-large, divoratori di Big Mac, arroganti, inclini alla violenza verbale e - temo - anche fisica.
I valori filadelfiani su cui si regge l’Unione erano permeati anche fisicamente di uno stile sobrio, di quella sobria eleganza originata nel Secolo dei Lumi e trasfusa nell’arredamento dell’Independence Hall a Filadelfia e della Casa Bianca a Washington. Vi immaginate quegli interni arredati col gusto da satrapo turkmeno delle magioni del Donald? Ovviamente gli verrà impedito di provarci. Intanto, però, circola la battuta sul figlio più piccolo di Trump che entrando alla Casa Bianca esclama: «Papà, ma siamo diventati poveri?».
Trump presidente, l’imprenditore-showman che ha distrutto i politici e convinto gli americani
Il ritratto - Miliardario di famiglia, ha sempre curato più l’immagine che la sostanza. Berlusconi tra i modelli, la politica come il luogo in cui appagare il suo ego smisurato. Le tante ombre della sua carriera non hanno minimamente pesato davanti al messaggio-chiave, quello che gli elettori atterriti dagli effetti della globalizzazione volevano sentirsi dire: "L’establishment vi ha tradito"
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI *
NEW YORK - Il Silvio Berlusconi americano. Molti lo hanno descritto proprio così, anche fra i più brillanti analisti dei media Usa, compresi alcuni opinionisti repubblicani. E’ proprio da qui che bisogna partire. Donald Trump, appena eletto presidente degli Stati Uniti, non ha inventato quasi nulla - solo un brillante show televisivo, The Apprentice - ma ha studiato modelli vincenti. Berlusconi è uno di quelli, altri più locali sono Ronald Reagan, Arnold Schwarzenegger, Jesse Venture (in decrescendo).
Grande imprenditore, geniale uomo d’affari. O affarista mediocre, truffatore seriale, bancarottiere, evasore fiscale. Doctor Jekyll e Mister Hide, insomma. La verità su Trump è sempre sfuggente. Come immobiliarista, non si è fatto da solo: ha ereditato una discreta fortuna dal padre, e secondo le stime più accurate della sua fortuna (molto poco trasparente) non avrebbe aggiunto molta ricchezza a quella paterna. Le "torri" (grattacieli) Trump che si vedono a New York, a Las Vegas, in Florida, spesso non sono più sue da tempo. I grossi immobiliaristi newyorchesi lo considerano un protagonista minore del loro business. Lui però ha curato il "brand", lasciando il suo marchio anche in cose che non gli appartengono più. Ha investito nei casinò, ma anche lì ha avuto meno successo di quanto si creda, le bancarotte sono state numerose. Trump è presidente degli Stati Uniti: la notizia sui siti internazionali
Ha varie linee di "merchandising", abbigliamento o vini, sempre utili ad alimentare la sua notorietà ma non necessariamente generose di fatturato. Ha posseduto e gestito il marchio di diversi concorsi internazionali per reginette di bellezza, come Miss Universo: anche lì, più immagine che sostanza. Non è un Bill Gates né uno Steve Jobs, nel mondo del grande capitalismo americano è un microbo. Solo come showman ha dimostrato un talento innegabile. The Apprentice, il reality tv in cui lui selezionava aspiranti imprenditori, è stato uno dei più grandi successi della tv americana.
La politica lo ha sempre attirato. Probabilmente perché sentiva che poteva appagare il suo ego, il suo narcisismo smisurato. E’ stato democratico prima che repubblicano, ha frequentato i Clinton e tutti i notabili del partito democratico newyorchese. Ha capito da tempo, però, che la sua fortuna poteva essere legata alla destra. Ne ha corteggiato le frange più radicali e razziste. Il suo vero ingresso sulla scena politica nazionale avviene quando lui si fa capo del movimento "birther": quattro anni fa, all’epoca della campagna elettorale del 2012, lui comincia ad accusare Obama di essere nato in Kenya, quindi ineleggibile, un usurpatore. La menzogna diventa leggenda metropolitana, vi si aggiunge l’insinuazione che Obama sia anche musulmano. Che sia falsa non conta, è un messaggio subliminale grazie al quale Trump diventa il beniamino di tutta l’America bianca e arrabbiata che non può ammettere un afroamericano come leader della nazione. Trump si accorge che manipolando i social media acquista rapidamente un seguito enorme, entusiasta. Comincia il suo uso intenso, quasi ossessivo, di Twitter. La campagna del 2012, anche se lui non si candida, diventa la prova generale di quel che verrà.
Nessuno lo prende sul serio quando lancia la sua candidatura nell’estate 2015. Gli altri repubblicani però esitano ad attaccarlo. Pensano che il fenomeno Trump si sgonfierà da solo. Lo corteggiano, sicuri che verrà il momento di ereditarne i fan. E lui li frega tutti, uno per uno cadono come birilli politici di professione come Jeb Bush, Ted Cruz, Marco Rubio. Li distrugge ridicolizzandoli. Azzecca tutte le parole d’ordine vincenti: il Muro, la denuncia dei trattati di libero scambio. All’America che soffre per la globalizzazione lui dice: l’establishment vi ha traditi, vi ha venduti alla Cina e al Messico. Ha interpretato, meglio di chiunque altro, l’aria del tempo.
Una campagna insurrezionale, rivoluzionaria, un’Opa ostile su un partito antico che ebbe come leader Abraham Lincoln, Dwight Eisenhower, Ronald Reagan. E’ riuscito perfino a farsi votare dai mormoni e dagli evangelici, lui che è al terzo matrimonio e si vantato di numerose conquiste e avventure extra-coniugali, fino alla ex modella di riviste per soli uomini che è la sua moglie attuale, Melania. Non lo ha danneggiato la rivelazione che Melania ha lavorato come fotomodella violando le leggi sull’immigrazione. Non gli ha nuociuto il fatto di avere impiegato immigrati clandestini nei suoi cantieri. Mentre tutti gli scandali di Hillary l’affondavano incollandole addosso l’immagine di una disonesta, lui è diventato presidente dopo essere stato un candidato-teflon, come a suo tempo Reagan.
* la Repubblica, 09 novembre 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
L’incognita Hillary: campagna sospesa *
Hillary Clinton costretta a sospendere la campagna elettorale per le Presidenziali americane. Niente viaggio in California previsto proprio in questi giorni. E la polmonite della candidata democratica entra prepotentemente nella corsa per la Casa Bianca. Senza escludere colpi di scena e l’ipotesi di trovare un nuovo candidato democratico. E ci sono indiscrezioni di altri componenti dello staff di Hillary che sarebbero stati colpiti dalla stessa patologia. Anche il rivale Donald Trump è intervenuto. Annunciando che presto darà conto sulle sue condizioni di salute: «Io sto bene. Ho appena fatto gli esami e quando avrò l’esito lo farò sapere».
La segretezza più grave della polmonite
di Massimo Gaggi *
«Gli antibiotici curano la polmonite. Ma non so quale possa essere la cura per l’ossessione della segretezza che affligge Hillary Clinton creandole problemi che si sarebbe potuta risparmiare». Difficile essere più nitidi e concisi di David Axelrod, lo stratega elettorale di Obama.
David Axelrod analizza il macigno che è caduto sulla campagna del candidato democratico alla Casa Bianca.
C’è la notizia della nuova malattia, certo, che rafforza i timori sulla fragilità della salute della ex first lady. La polmonite dopo i problemi alla vista, la trombosi e la commozione cerebrale di quattro anni fa, i «non ricordo» durante le testimonianze davanti al Congresso. La patologia polmonare potrebbe essere, in sé, un problema minore: può essere risolta con pochi giorni di cure, anche se lei deve averla trascurata a lungo, visti gli attacchi di tosse che la perseguitano da giorni, e anche se gli anziani recuperano più lentamente. E lei dovrà affrontare tra meno di due settimane il dibattito più importante di tutta la campagna elettorale col suo avversario, Donald Trump.
Il quale, dopo averla spesso insolentita ironizzando proprio sulle sue precarie condizioni di salute, ha improvvisamente assunto, su questo, un atteggiamento più composto (le ha anche augurato una pronta guarigione), consapevole che insistere ora sarebbe, per lui, controproducente: sono più che sufficienti, per mettere in cattiva luce la Clinton, il goffo tentativo della sua campagna di nascondere la realtà, l’irritazione del pool di giornalisti che segue la candidata per essere stato lasciato all’oscuro (se non addirittura depistato) e, infine, la tardiva ammissione che Hillary è affetta da una polmonite.
La campagna più sorprendente (e per certi versi inquietante) della recente storia americana diventa ancora più incerta con questo sviluppo che certamente indebolisce la candidatura della Clinton, ancora in testa nella maggior parte dei sondaggi ma con un margine di vantaggio su Trump che si assottiglia sempre più. In campo democratico nessuno ipotizza apertamente l’emergere di una candidatura alternativa anche perché la Clinton non ha certamente alcuna intenzione di tirarsi indietro, come dimostra il fatto che per tre giorni ha continuato a fare campagna anche con la polmonite.
Ma nel partito è sicuramente iniziata una riflessione informale sul da farsi qualora la situazione dovesse precipitare. Per i problemi di salute della Clinton o anche per quella «October surprise» che molti continuano a temere, tra rivelazioni di Wikileaks e inchiesta dell’Fbi sulle email «segrete» che è ancora aperta, con le ultime migliaia di messaggi, scoperti solo di recente, setacciati proprio in queste settimane. I democratici la difendono a spada tratta, sostenendo che, ferma restando l’importanza della trasparenza, il primo candidato donna della storia viene sottoposto a un esame molto più severo di Trump che fin qui sul suo stato di salute ha rivelato ancora meno della Clinton, nonostante sia più vecchio di lei: una brevissima ed enfatica lettera di un gastroenterologo per assicurare che il miliardario sta benissimo. E, visto che di trasparenza si parla, l’occasione torna buona per ricordare che Trump continua a rifiutarsi di mostrare anche le sue dichiarazioni dei redditi.
Insomma: sembra avere da nascondere più lui della Clinton. Ma «The Donald» non si è fatto cogliere in contropiede: ha subito detto che si è appena sottoposto a controlli medici accurati: appena riceverà i risultati dei test, li renderà noti. Continua, invece, il silenzio sulle tasse. Ad essere chiuso in un angolo, però, oggi non è Trump, che ha recuperato dopo i passi falsi di luglio, ma il suo avversario democratico. Coi continui tentativi di nascondere i fatti - dai pasticci fatti con le email e coi finanziamenti della Fondazione Clinton fino a una banale malattia - la Clinton alimenta quell’irritazione dell’opinione pubblica nei confronti dei politici tradizionali considerati cinici e bugiardi, che sta cambiando in profondità l’umore degli elettori anche in America.
«Hillary ha la forza per farcela»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE * NEW YORK Hillary Clinton sta cercando di recuperare fisicamente e politicamente, dopo aver rivelato all’America, con tre giorni di ritardo, di essersi ammalata di polmonite. A sorpresa Donald Trump glissa e preferisce attaccare la concorrente su altri temi. Mentre il presidente Barack Obama le dà la carica: «Hillary ha la forza per farcela».
Già domenica sera Clinton ha annullato il viaggio a San Francisco e Los Angeles previsto per ieri e oggi. La candidata democratica, 68 anni, parteciperà ai comizi in teleconferenza dalla sua casa di Chappaqua, nello Stato di New York. Due giorni di stop parziale, prima di riprendere la campagna.
Intanto il suo staff prova a respingere l’accusa di aver intenzionalmente nascosto quali fossero le reali condizioni di salute dell’ex segretario di Stato. Solo domenica 11 settembre, alle 17.30 ora degli Stati Uniti, i collaboratori di Hillary hanno diffuso la nota del medico di fiducia, Lisa Bardack: «Ha la polmonite, deve prendere gli antibiotici e stare a riposo». La diagnosi, però, risale a venerdì 9 settembre. «Avremmo potuto fare di meglio», scrive su Twitter Jennifer Palmieri, responsabile per la comunicazione, «ma è un dato di fatto che il pubblico sappia più di Hillary Rodham Clinton che di qualsiasi altro candidato della storia». Brian Fallon, portavoce dello staff, ha annunciato, invece, «che non ci sono altri problemi di salute, al di là della polmonite». In settimana lo staff «fornirà un quadro completo di informazioni mediche», mentre si è diffusa la notizia che almeno sei collaboratori di Hillary siano stati colpiti dalla stessa infezione.
Anche Trump, così ha detto, presenterà nei prossimi giorni «i risultati di una serie di esami clinici»: «Credo saranno molto buoni, perché mi sento veramente in forma», ha aggiunto. Il tycoon newyorkese, spiazzando molti osservatori, in mattinata è stato lieve sulla malattia di Hillary, nonostante l’iniziativa condotta nei mesi scorsi dai media conservatori che lo appoggiano. «Spero che guarisca e torni presto in gara. Non credo che il partito democratico la sostituirà. La vedremo al dibattito presidenziale fra due settimane». Qualche ora dopo Trump, parlando a Baltimora, è stato durissimo. Venerdì scorso Hillary aveva sostenuto che «metà degli elettori di Trump fanno parte del cestino dei miserabili; sono xenofobi, razzisti, omofobi, sessisti, islamofobi».
Il candidato repubblicano l’ha tacciata di «arroganza»: «Non si possono classificare e offendere così gli americani».
G. Sar.
* Corriere della Sera, 13.09.2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Matthew Thomas
L’altra faccia del sogno americano
di Daniela Pizzagli (Avvenire, 02.07.2016)
Scelto fra gli autori di punta della serata-evento di ieri sera al Teatro Franco Parenti di Milano per festeggiare i settant’anni della casa editrice Neri Pozza, Matthew Thomas rappresenta, con il suo romanzo d’esordio Non siamo più noi stessi (Neri Pozza, pagine 752, euro 14,50) un percorso narrativo che evita gli stereotipi di tanta letteratura postmoderna, intrappolata fra variegate dipendenze e compiaciute perversità, per raccontare la storia di una donna e della sua famiglia in modo tradizionale, dall’infanzia alla maturità, con l’intento di mettere in scena gli inciampi del ’grande sogno americano’ di fronte alla realtà.
Il romanzo, molto corposo ma sempre coinvolgente, è subito entrato nella lista dei best seller del New York Times ed è stato tra i finalisti dei principali premi americani, per essere poi tradotto in tutto il mondo. I lettori italiani lo trovano in una nuova edizione rilegata e corredata dai commenti dei numerosi Book Club Neri Pozza: un’iniziativa che sottolinea il costante rapporto della casa editrice con i propri lettori.
L’autore, quarantunenne newyorkese, ex insegnante di letteratura, non ci tiene ad affiliarsi all’élite intellettuale della Grande Mela, sfugge agli orpelli di Manhattan e ambienta la sua storia nel Queens, un quartiere di emigrati dove nel 1951 troviamo la piccola Eileen, figlia d’irlandesi il cui cognome Tumulty già fa capire che la protagonista è destinata a un’infanzia difficile e turbolenta. Ma lei riuscirà coraggiosamente a sopportarla perché sorretta appunto da quel ’sogno americano’ che la porta a lottare per migliorare il proprio destino, prima attraverso il lavoro d’infermiera e poi nel matrimonio con un promettente ricercatore e docente universitario.
«Sono partito dalla riflessione che il cosiddetto ’sogno americano’ di poter raggiungere qualsiasi meta con la volontà e l’intraprendenza - dichiara Thomas - non soltanto è contraddetto dai fatti, ma non può nemmeno essere definito propriamente ’americano’, perché si tratta di un’aspirazione tipicamente umana. È vero che ci sono Paesi che offrono condizioni più vantaggiose di altre, ma l’uomo non desisterà comunque dall’affrontare rischi per cer- care di migliorare la propria situazione, lo vediamo anche nelle grandi migrazioni attuali».
E il tema dell’immigrazione è uno dei fili conduttori del romanzo. Si parte dall’emigrazione negli Usa del secondo dopoguerra, rappresentata dai genitori di Eileen, per arrivare agli asiatici che dagli anni ’80 si diffondono nei quartieri periferici di New York, suscitando la diffidenza di chi - come la protagonista, a sua volta figlia d’immigrati - li considera invasori destinati a snaturare la cultura dominante.
«È un tema molto sentito da chi, come me, è cresciuto a New York, crogiuolo di tutte le etnie: io l’ho inserito per infondere energia alla storia attraverso i diversi personaggi di immigrati. Quando Eileen, ormai più che cinquantenne, torna alla sua vecchia casa e resta a cena con i nuovi proprietari indiani, capisce l’infondatezza dei suoi pregiudizi. Oggi purtroppo il mondo è percorso da questi rigurgiti xenofobi che sono orribilmente autodistruttivi. I nazionalismi, benchè prospettino vantaggi immediati, vanno contro la storia, significano solo stagnazione e quindi decomposizione della cultura».
Eileen si batte per avere la casa di proprietà e tutti gli status symbol dell’agiata borghesia cui vorrebbe appartenere. Il marito Ed, invece, è ossessivamente dedito alla sue ricerche e sente l’insegnamento come una missione: rappresentano due ideali inconciliabili che solo l’amore può tenere insieme? «Gli obiettivi materialistici di Eileen nascono dalle ristrettezze dell’infanzia, dall’emarginazione sociale che ha voluto riscattare, ed è stato più difficile per lei in quanto donna. Ed invece è un idealista che ha avuto il privilegio di poter coltivare la sua passione per la ricerca, e non gli interessano gli allori della carriera accademica, con grande delusione di Eileen. Però Eileen resta convinta che il loro sia ’un amore da scrivere nel grande libro della vita’: questa frase fa comprendere come, pur essendo pragmatica, coltivi in sé il romanticismo necessario per superare i suoi limiti caratteriali».
Proprio quando i sogni di Eileen sembrano realizzarsi, il destino le riserva un tiro imprevedibile: al cinquantenne Ed viene diagnosticato l’Alzheimer. Da qui in poi il romanzo si sviluppa soprattutto sul contesto relazionale, con le diverse reazioni di Eileen, del loro figlio Connell, degli amici e dei colleghi nei confronti di Ed che, come dice il titolo, non è più se stesso.
«Questa parte mette a nudo tutti i conflitti interiori dei personaggi: impauriti, frustrati, insofferenti, dilaniati fra compassione e sensi di colpa, disorientati di fronte all’inconoscibile. Di proposito non descrivo mai la soggettività di Ed nello sviluppo della malattia, ma lo descrivo attraverso le reazioni dei suoi cari, per mettere il lettore di fronte all’inconoscibilità della coscienza stessa». Il progredire della malattia e il disgregarsi dell’interazione sono raccontati con tanta precisione e partecipazione da sembrare frutto di un’esperienza personale. «È così. Mio padre, morto nel 2002, soffriva di Alzheimer. Sapevo di voler scrivere a proposito di questa parte della mia vita, ma non in modo autobiografico: era necessaria una fiction per prendere le distanze e poterne parlare con oggettività. Non volevo scrivere un romanzo sull’Alzheimer, ma in cui l’Alzheimer, intrecciato ad altri temi, fungesse da elemento di squilibrio per mettere in luce la fragilità dei progetti umani e l’ambivalenza dei sentimenti. Solo di fronte alla malattia di Ed, Eileen e Connell si affacciano sui propri lati oscuri mai percepiti prima.»
Nato da due genitori con obiettivi tanto diversi, Connell è un personaggio che in un certo senso compie una sintesi: dopo un difficile percorso scolastico, in cui è vittima di bullismo, e un dispersivo cammino di autoconsapevolezza, si realizzerà nell’insegnamento.
«Il bullismo è una vera piaga nella scuola americana, ma penso ovunque. I bulli se la prendono con i più vulnerabili e Connell, a causa della malattia del padre, è fragile e destabilizzato, perciò il bullismo di cui è vittima rischia di rovinargli la vita, di tarpargli il futuro. Ma proprio attraverso la malattia del padre Connell ha avuto, quasi senza accorgersene, un addestramento all’empatia, e sarà proprio l’empatia a salvarlo, e a fargli scegliere la strada dell’insegnamento ».
Michelle Obama: "Ogni giorno mi sveglio in una casa costruita da schiavi" *
Il sogno americano è vivo e vegeto, e secondo Michelle Obama, la sua vita ne è la prova.
Il discorso, tenuto al City College di New York, dalla first lady davanti ai laurenadi, ha emozionato e riscosso applausi e approvazioni.
"È ’la storia che assisto ogni giorno - ha detto - quando mi sveglio in una casa che è stata costruita dagli schiavi, e guardo le mie figlie - due belle nere giovani donne - andare a scuola, salutando loro padre, il presidente degli Stati Uniti ".
La signora Obama ha continuato a ricordare ai laureati che, mentre i padri fondatori non avrebbero potuto immaginare il giorno in cui un uomo di colore potrebbe essere il presidente, "tutti voi siete il frutto della loro visione."
"La loro eredità è molto la vostra eredità. E la vostra eredità. E non lasciate che nessuno vi faccia pensare in modo diverso. Voi siete la prova vivente che il sogno americano dura ancora nel nostro tempo".
Il patriottismo working class ha il suo Boss
di Andrea Colombo (il manifesto, 16.09.2015)
È una star più controversa di quel che sembri, mr. Bruce Springsteen. Moltissimi lo adorano, ma non sono pochi neppure quelli che ne pensano più o meno tutto il male possibile, e spesso sono proprio i più appassionati di musica a storcere il naso. Hanno qualche buon argomento dalla loro. Springsteen non è un musicista eccezionale come Van Morrison o un innovatore geniale come Phil Spector, i suoi testi non hanno la potenza ineguagliata di quelli di Dylan, le sue canzoni non vantano la connessione profonda con l’animo di un intero popolo che trasforma i capolavori folk di Woody Guthrie in classici senza tempo e quasi senza autore, voci di un popolo. Solo per citare gli autori che più di ogni altro hanno influenzato Springsteen dai punti di vista, rispettivamente, dell’impostazione vocale, dell’orchestrazione, della poetica e della missione sociale.
Allora perché, nonostante tutto, Bruce Springsteen è un musicista e un autore del tutto degno di reggere il paragone con questi giganti, e per certi versi persino più significativo di tutti loro, Dylan escluso? Una risposta aiuta a trovarla Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro, i sogni (Donzelli, pp. 216, euro 25), il volume appena dedicato all’opera del «Jersey Devil» da un Sandro Portelli particolarmente ispirato. Un libro che è anche una dichiarazione d’amore, e che proprio in virtù di quella passione, la stessa che anima gli adolescenti alla scoperta dei loro primi dischi, sfugge alla minaccia sempre incombente quando l’accademia si occupa di cultura popolare e di massa: quella dell’erudizione devitalizzante. Il sogno infranto
All’interno di un impianto giustamente poco strutturato, dissezionando i testi e alternando l’analisi degli stessi con rapidi flash di esperienze dirette tutte in un modo o nell’altro legate all’oggetto del suo studio, Sandro Portelli colloca l’opera di Springsteen all’incrocio di due tematiche portanti, che formano quasi per intero l’essenza dell’universo springsteeeniano: il sogno americano e il lavoro. Non c’è modo di separare il rocker born in the Usa dall’American Dream, in tutte le sue diverse sfaccettature. Ma è un sogno americano colto nel momento del declino, vissuto e rimpianto e inseguito di nuovo proprio quando per la prima volta si dissolve la sua anima più intima e se ne inceppa il motore: la mobilità sociale, la certezza che per i figli la vita sarà comunque migliore che per i genitori.
Ugualmente quel sogno Bruce Springsteen non prova mai a smantellarlo, la tentazione di demistificarlo neppure lo sfiora. Lo rivendica, anzi, e lo invoca . Anche per questo Jim Cullen , in uno dei primi e migliori studi sulla rockstar di Freehold (frequentemente citato anche da Portelli), lo indica come erede della grande tradizione repubblicana, sia pure nella corrente opposta a quella di Reagan o della stirpe dei Bush.
Il rapporto di Bruce Springsteen con il patriottismo e la bandiera a stelle e strisce, segnala giustamente Portelli, è più complesso di quanto possa sembrare al radicalismo italiano, con tutte le sue tare di ingenuo e manicheo ideologismo. Springsteen, come del resto lo stesso Woody Guthrie, è intriso di spirito patriottico. Quando critica l’America lo fa in nome dell’America e di quel «vero» sogno americano che è stato tradito ma non ucciso né dimenticato. Il famoso tentativo reaganiano di appropriarsi di Springsteen, negli anni Ottanta, era una spudorata falsificazione, ma immaginarselo come una specie di militante anti-americano è altrettanto falso, e forse anche di più. Il mito della libera comunità
L’altro versante fondamentale dell’American Dream, quello della mobilità non sociale ma spaziale, è ancor più presente, sin dai primi testi di Springsteen. Però, nota Portelli, con uno scarto fondamentale rispetto alla mitologia classica d’America: i protagonisti di queste canzoni non se ne vanno mai da soli verso l’orizzonte. Partono, o sognano di farlo, in coppia, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna, un «noi» che apre la strada al Springsteen più recente e lo anticipa, a quel We Take Care of our Own, che si allontana dal mito solitario dell’eroe americano ma solo per avvicinarsi a quello, altrettanto fondativo della libera comunità che «si prende cura di se stessa».
Quello da cui i personaggi di Springsteen fuggono è il lavoro. Onnipresente nelle canzoni giovanili di Springsteen ma anche, sia pure in forme diverse, in quelle mature, il lavoro era il grande rimosso del rock’n’roll, dice Portelli: ciò che non si poteva nominare nei dischi che facevano ballare e impazzire i teens dei Cinquanta e Sessanta.
Bruce Springsteen viola il tabù: lo sposta la centro del suo mondo, nella stessa postazione che occupa nelle vite dei suoi personaggi e del suo pubblico. Gente che sbarca il lunario facendo lavori uninspiring, come li definisce Portelli citando la strofa aggiunta da Bruce alla Jersey Girl di Tom Waits, jobs e non careers come preferisce specificare Jim Cullen: quei lavori, primo fra tutti quello di fabbrica, che non ti danno niente se non quattro soldi per sopravvivere a stento, che ti svuotano la vita invece di riempirla e che tuttavia sono sempre meglio della disoccupazione che distrugge le esistenze e gli amori di tanti altri protagonisti di queste canzoni.
Ma è lavoro anche quello che vengono a cercare i migranti di Ghost of Tom Joad e di Devils and Dust, ed è lavoro, aggiunge Portelli, farsi il mazzo sul palco quattro ore ogni sera sfidando il pubblico a chi regge di più. Genealogie operaie
Quello di Springsteen, idealmente, è il lavoro che dà dignità, che dovrebbe essere per tutti quel che era per mamma Zirilli in The Wish, quello che offriva orgoglio e identità persino agli operai dell’inferno siderurgico di Youngstown. Quando ancora c’era. Bruce ci crede, come crede nell’american dream, ma è la stessa fede colma di di rimpianto per qualcosa che non c’è più.
Quello di Bruce Springsteen viene definito spesso come un «rock maturo», proprio per la capacità di parlare, per empatia e genealogia operaia se non per esperienza diretta, delle vite reali di chi lo ascolta. Questo, sottolinea l’autore, è comune nel country. Non nel rock’n’roll, la cui missione era in realtà opposta: spezzare le catene della realtà di ogni giorno con un impeto di pura energia, romantica o festosa oppure, spesso, rabbiosa, ma sempre incompatibile con working life.
Rispetto a quella tradizione Bruce Springsteen rappresenta la massima eresia, perché mette al centro proprio ciò che andava dimenticato, e la massima ortodossia, perché di quella medesima energia adolescenziale fa l’antidodo in grado di contrastare il declino non solo del sogno americano ma della capacità di sognare in generale, il fortilizio inespugnato di una fede che, limitando la lettura ai testi, non avrebbe quasi più possibilità di resistere.
Oltre il muro del suono
Anche se quello di Portelli è soprattutto uno studio sui testi, l’autore non manca di sottolineare come spesso le parole e la musica viaggino in direzioni contrastanti, con il ritmo tirato che contraddice la mestizia della storia: basti pensare alla distanza tra la versione originaria e acustica di Born in the Usa e la sua trasformazione in sin troppo trionfale inno rock.
Sprigsteen, poi, non è solo musica e parole: è anche, forse soprattutto, un performer artist e le sue lunghissime, trascinanti perfomances non sono mai solo concerti ma cerimoniali collettivi di cui l’artista è l’officiante, animatore di feste il cui obiettivo non è più esorcizzare o far dimenticare la realtà delle vite comuni ma riconoscerla e ciononostante spingere a non farsene piegare grazie alla stessa fede e alla stessa energia che il rock’n’roll ha regalato agli adolescenti per decenni.
Per questo fa confluire tutto e tutti, la visionarietà di Dylan, l’impegno di Guthrie, il «muro del suono» di Spector in quell’oceano che per Springsteen, e non solo per lui, è ancora Elvis Preslyy.
Prima di lui non lo aveva fatto nessuno. Come lui, nessuno è in grado di farlo. Sarà abbastanza per definirlo uno dei grandissimi della musica popolare americana e non solo americana?
Se l’America punisce il sogno americano
di Guido Rossi (Il Sole 24 Ore, 25.08.2012) *
Con alterne vicende la democrazia americana ha costituito per il resto dell’Occidente un sicuro punto di riferimento, sia pur a volte ambiguo e non privo di aspre critiche, ma apprezzato come una sorta di centro dell’Impero, con tutti gli avvicinamenti e le lontananze possibili.
Ancora oggi non v’è dubbio che la situazione interna ed estera degli Stati Uniti produca effetti e conseguenze globali che ci riguardano da vicino, poiché le vicende americane non possono essere considerate separate ed avulse dalle prospettive politiche ed economiche dell’Europa e del nostro Paese.
Peraltro, già dal 1840 nel suo grande libro "De la démocratie en Amérique" Alexis de Tocqueville aveva intuito una possibile deriva della democrazia nell’isolamento individualistico, nella mancanza di solidarietà, nel conformismo e nell’uniformità che rendono i singoli dipendenti da chi comanda e meno liberi.
Riprendeva ben più pesantemente la critica, con indiscussa maestria, un secolo dopo Jean Cocteau, al termine della "Lettera agli americani" (Archinto, 2002), invitandoli a «riconoscere che la vostra libertà vuol dire che siete liberi di non essere liberi e che in questa forma accettate di essere diretti e privati di libertà».
Recentemente la situazione politica americana sembra decisamente peggiorata e sempre più incline ad adottare la formula dello "stato di eccezione", creato da paure reali o indotte, che portano a ritenere che regole e diritti garantiti dai principi costituzionali possano essere sospesi. Sono infatti i ben noti e ampiamente illustrati casi Wikileaks, Snowden e da ultimo Manning, che stanno ancora riempiendo le cronache, a rivelare la crisi di un sistema politico con un diffuso contributo degli "Whistleblower", quegli ambigui "soffiatori di fischietto", da noi più noti come "gole profonde", praticanti di illegalità legalizzate e premiate, sia pur nell’incertezza dell’applicazione delle regole.
Compito principale dello Stato è garantire la sicurezza ai suoi cittadini, sicché quando si ritenga che questa viene minacciata, passa in secondo piano la tutela dei diritti dei cittadini, vuoi in nei loro diritti politici, vuoi in quelli economici.
E fra questi per primo a soccombere è il diritto di libertà nella sua dimensione della privacy, della conservazione della propria identità, cultura, credo ed opinione, nell’eguaglianza, insomma, di tutti quelli che vengono chiamati diritti fondamentali.
Sicurezza e diritti costituiscono dunque un equilibrio difficile, dacché lo choc dell’11 settembre ha legittimato l’intrusione di controlli incisivi nella identità e nella vita dei cittadini, allo scopo di garantire da parte dello Stato la sicurezza delle vite umane nella lotta contro il terrorismo.
È al riguardo inappuntabile l’ultimo commento dello Wall Street Journal che: "too much security can produce a kind of madness", sicché in quel caso la paranoia dello stato di eccezione fa saltare le regole della democrazia.
Ed è così che la National Security Agency (Nsa) controlla il 75% delle email degli americani e ha registrato ben 56mila telefonate attraverso la tecnologia internet. Ciò è avvenuto senza alcuna protezione della privacy e, come ha confermato la Corte di sorveglianza sul Foreign Intelligence, con aperte violazioni della Costituzione.
Alcuni commenti recenti nelle pagine dello Wall Street Journal e del New York Times, per citare tra i più autorevoli e diffusi quotidiani, hanno sottolineato con vigore che le libertà civili sono a rischio e che incombe il pericolo che la sicurezza diventi un apparato industriale governativo che non protegge quel che è veramente a rischio, ma serve ad altri scopi, in un sistema di controlli, aiutato da uno sviluppo tecnologico senza freni, che mentre predica anche legislativamente la trasparenza opera nell’opacità. [...]
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leggi su http://24o.it/6kD0d
Addio al sogno americano
di PAUL KRUGMAN (la Repubblica, 01 Agosto 2013)
Detroit è un simbolo del vecchio concetto di declino economico. L’abbandono non ha colpito solo il centro della città; in tutta la sua area metropolitana, tra il 2000 e il 2010 la popolazione ha subito un calo più drastico di quello registrato in altre grandi città. Per converso, Atlanta può essere citata ad esempio di sviluppo impetuoso. In quello stesso periodo, il numero dei suoi abitanti è aumentato di oltre un milione: un incremento paragonabile a quelli di Dallas e Houston, senza la spinta aggiuntiva del petrolio.
Ma al di là di questo netto contrasto, c’è un fattore che accomuna una Detroit in bancarotta a un’Atlanta in piena crescita. Sembra che anche qui, nonostante il boom, il “sogno americano” sia ormai svanito. Chi nasce in una famiglia povera difficilmente riesce a migliorare la propria condizione. Di fatto, l’ascensore sociale - o in altri termini, la possibilità di raggiungere uno status socioeconomico più elevato rispetto alle proprie origini - ad Atlanta sembra funzionare anche peggio che a Detroit, dove il livello di mobilità sociale è comunque basso.
Uno studio recente promosso dall’Equality of Opportunity Project (EOP) e diretto da un gruppo di economisti delle università di Harvard e Berkeley si basa su una serie di confronti tra i tassi di mobilità sociale di diversi Paesi. Ne risulta che l’America di oggi, che pure continua a considerarsi come la terra delle opportunità per tutti, ha un sistema classista ereditario persino più rigido di altre nazioni avanzate. Gli autori del progetto hanno peraltro riscontrato notevoli differenze, in materia di mobilità sociale, anche all’interno degli Stati Uniti. Ad esempio a San Francisco, chi è nato in una famiglia appartenente al 20% inferiore (in termini di reddito) della scala sociale, ha l’11% di probabilità di elevarsi fino al “top fifth”, cioè al 20% con i livelli di reddito più alti; mentre ad Atlanta questa prospettiva è limitata al 4% di chi nasce povero.
Gli studiosi hanno poi cercato di individuare i fattori collegati ai tassi più o meno elevati di mobilità sociale, giungendo a risultati in parte sorprendenti. Contrariamente alle aspettative, il fattore razziale sembra giocare un ruolo relativamente modesto. È invece emersa una correlazione significativa tra il grado di sperequazione sociale esistente e le probabilità di miglioramento In altri termini, quanto più debole è il ceto medio, tanto minori sono le probabilità di ascesa sociale. Questo risultato trova riscontro anche a livello internazionale: nelle società relativamente egualitarie come quella svedese, la mobilità sociale è molto più elevata che nell’America di oggi, con i suoi stridenti contrasti tra poveri e super-ricchi. È inoltre emerso un altro dato significativo: la correlazione tra la segregazione abitativa - cioè la condizione delle fasce sociali relegate in quartieri molto distanti delle città estese a macchia d’olio - e le probabilità di riscatto da una condizione di indigenza.
Ad Atlanta, la distanza fisica tra i quartieri bene e quelli abitati dalle fasce più povere è enorme. Sembra dunque che esista un rapporto inversamente proporzionale tra la dispersione urbana e il grado di mobilità sociale: un argomento in più per chi promuove le strategie urbane di “smart growth” (crescita intelligente) con centri urbani compatti e facilmente accessibili ai mezzi di trasporto collettivi. Quest’osservazione andrebbe tenuta in considerazione anche nel più ampio contesto di una nazione che sta deviando dalla propria rotta, e continua a parlare di pari opportunità mentre si rivela incapace di offrirle a chi più ne ha bisogno.
Copyright The New York Times Traduzione di Elisabetta Horvat
Detroit dichiara bancarotta: è la più grande città Usa a "fallire"
Il governatore avvia le procedure di emergenza finanziaria per la città capitale dell’auto. Il debito ammonta a oltre 18,5 miliardi di dollari
dal nostro inviato MASSIMO VINCENZI *
NEW YORK - Alla fine di una delle giornate più calde di questa bollente estate americana, Detroit entra ufficialmente nel suo inferno: arriva infatti nel tardo pomeriggio il via libera alle procedure previste dalla legge per il fallimento della città. La capitale dei motori e della musica nera conquista così il non invidiabile record della bancarotta più grande della storia americana. E’ la prima metropoli ad arrendersi davanti all’impossibilità di pagare i propri debiti che oscillano tra i 18 e i 20 miliardi di dollari.
Il commissario straordinario, Kevyin Orr non è riuscito nel miracolo che gli aveva chiesto a marzo il governatore del Michigan Rick Snyder. Che ora si limita a dire: “Mi sembra che non ci sia altra soluzione”. Eppure Orr ci ha provato in tutti i modi: ore al tavolo delle trattative con i creditori per convincerli ad allentare la presa, poi ancora con i sindacati per provare ad ottenere un via libera a tagli del personale e riduzione delle retribuzioni. Al termine di una riunione più difficili, verso la fine di giugno sbotta davanti ai microfoni: “Servono sacrifici dolorosi e devono essere condivisi da tutti. Ognuno deve fare la sua parte, altrimenti sarà la bancarotta”.
Ma non c’è stato niente da fare, i manifestanti rimangono sotto il suo ufficio con i cartelli: HANDS OFF OUR PENSIONS, giù le mani dalle nostre pensioni. E così dopo anche gli ultimi no, ecco la decisione non più rinviabile. Una mossa rischiosa e quasi paradossale, che arriva infatti nel momento in cui il settore dell’economia privata è in decisa ripresa. I tre giganti dell’auto Gm, Ford e Chrysler sono fuori dal tunnel: la produzione è ripartita, i contratti girano e anche secondo l’ultimo Beige Book della Fed il mercato delle quattro ruote è destinato a tornare sul bello stabile. Il New York Times raccontava due giorni fa del “miracolo di Jefferson North”, la fabbrica dove la Chrysler/Fiat produce la nuova Jeep Grand Cherokee destinata a portare nelle casse della società quasi due miliardi di dollari: “Un segno di speranza , la prova che la spirale negativa della città può essere interrotta”.
Persino il settore immobiliare segna qualche timido accenno di ripresa con il ritorno di investimenti nella parte più ricca. Ma la desertificazione dei quartieri, soprattutto quelli periferici, è la causa scatenante che ha portato al Chapter 9, la pratica che regola i fallimenti delle municipalità. “Siamo una grande città, ma siamo in declino da oltre sessant’anni”, dice Orr nella sua conferenza stampa più triste. Come rimanere a vivere da soli dentro una palazzo: la manutenzione costa, i servizi costano, tutto costa mai soldi non entrano più, visto che la base fiscale a cui far pagare le tasse si è ridotta. Dai quasi 2 milioni degli anni Cinquanta agli ottocentomila abitanti scarsi di oggi, dal 2000 un balzo all’indietro del 26%: il calo è vertiginoso. Una città dentro la città di quasi ottantamila edifici è disabitata, il 40% delle luci stradali non funziona, vigili del fuoco e polizia sono al limite della loro operatività. Gli agenti rispondono al numero delle emergenza, il 911, quasi con un’ora di ritardo, la media nazionale è di 11 minuti. Al contrario della criminalità che invece funziona benissimo contendendo a Chicago il record di violenza e omicidi. E sale pure la disoccupazione che negli ultimi dieci anni è passata dal 7.6% al 18,6%.
A peggiorare la situazione decenni di amministrazione pubblica a cavallo tra l’incapacità e il malaffare, con un’altalena di operazioni finanziare sbagliate, intervallate da veri e propri episodi di corruzione. Per questo un avvocato che ha seguito altri fallimenti pubblici e che conosce bene il caso di Detroit spiega al New York Times: “Non basterà sanare il debito, serve un cambio strutturale di tutta la gestione a partire dagli stipendi dei lavoratori pubblici, altrimenti da qui a pochi mesi i problemi torneranno uguali ad adesso”. E un altro sul Washington Post usa una metafora eloquente: “Come se fossimo stati investiti da una Katrina, ma lunga dieci anni”.
Quando riceverà il via libera ufficiale, il commissario potrà procedere a vendere gli asset per trovare un po’ di ossigeno. Una decisione, la sua, molto contrastata all’interno della metropoli, con i manager delle aziende private che hanno provato in tutti i modi a fargli cambiare idea. Spaventati dalle conseguenze imprevedibili di questa strada, a partire dal discredito gettato sul brand. Essendo il primo caso così grande, gli esperti infatti si dividono nei commenti sui media americani su quello che potrebbe accadere adesso. E lo stesso Obama segue passo dopo passo la situazione e i suoi collaboratori sono in stretto contatto con il commissario e il governatore. L’impressione è che molte altre città, nella stessa situazione, siano alla finestra per capire dove porta la strada della bancarotta: “Come se avesse ceduto una diga”, dice un’analista alla Cnn. Non resta che vedere se l’onda sarà bella da cavalcare o se travolgerà le speranze di Motor City.
* la Repubblica, 18 luglio 2013
Usa, "spiate" anche grandi società web.
New York Times: "Obama ha perso credibilità"
Lo scandalo sta mettendo in seria difficoltà l’amministrazione. Il Washington Post rivela che Nsa e Fbi hanno accesso diretto anche ai server di Microsoft, Yahoo!, Google, Facebook, PalTalk, Aol, Skype, Youtube e Apple. L’amministrazione: "Riguarda solo cittadini non americani" *
NEW YORK - Le rivelazioni del Guardian sulle telefonate "spiate" dalla National Security Agency (Nsa) rischiano di travolgere l’amministrazione americana. E l’ondata di critiche nei confronti della Casa Bianca è destinata a crescere. Secondo il Washington Post, infatti, non sono sotto controllo soltanto le comunicazioni telefoniche di milioni di clienti della Verizon, una delle maggiori compagnie Usa: Nsa e Fbi hanno accesso diretto anche ai server di nove società internet - Microsoft, Yahoo!, Google, Facebook, PalTalk, Aol, Skype, Youtube e Apple - e possono estrarre video, audio e foto che consentono di "seguire" i movimenti e i contatti di milioni di cittadini, di controllarne potenzialmente la vita.
E se il controllo sui tabulati telefonici è recente (l’ordinanza giudiciaria top secret di cui il Guardian è entrato in possesso risale al 25 aprile scorso) il programma per il web, nome in codice Prism, è stato creato nel 2007 ed è una delle fonti primarie della Nsa. "Sembra simile a quello controverso voluto dal presidente George W. Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre", scrive il quotidiano, secondo il quale Microsoft è stata la prima azienda a diventare partner di Prism, nel maggio 2007.
Per aprire i loro server alle autorità e acquisire l’immunità da azioni legali, le società devono ottenere una direttiva dal procuratore generale e dal direttore nazionale dell’intelligence. In pratica - afferma il Washington Post - hanno spazio di manovra, come dimostra il fatto che Apple ha resistito per anni prima di entrare a farne parte. Google precisa di comunicare "i dati al governo nel rispetto della legge" e nega che sia stata "creata una porta per il governo nel sistema".
Il New York Times dedica alla vicenda un editoriale al vetriolo che mette sotto accusa direttamente il presidente Barack Obama parlando di un "abuso di potere che richiede vere spiegazioni". Il governo federale "ha perso ogni credibilità", scrive il comitato editoriale del giornale, uno dei più influenti degli Stati Uniti, tradizionale sostenitore delle politiche del capo della Casa Bianca. E come se non bastasse, l’amministrazione ha risposto "con le stesse banalità che ha usato ogni volta che il presidente Obama è stato sorpreso a eccedere nell’uso dei suoi poteri".
Duro anche il sito progressista Huffington Post che apre con un titolo provocatorio a tutta pagina "George W. Obama" e sotto un fotomontaggio di una faccia frutto della fusione delle foto dell’attuale presidente e del suo predecessore.
L’amministrazione Obama si difende dicendo che questo tipo di sorveglianza rientra nella "lotta al terrorismo". E un alto esponente del governo federale trinceratosi dietro l’anonimato assicura che il programma Prism riguarda esclusivamente cittadini non americani che vivono fuori dagli Stati Uniti e osserva che la legge che autorizza questo tipo di raccolta dati non permette il controllo di cittadini Usa. Si tratta - sottolinea la fonte - della "più importante mole di dati d’intelligence mai accumulati, usati per proteggere la Nazione da molteplici minacce".
Linea ribadita più tardi dallo stesso capo della Nsa, James Clapper, che ha definito "pieni di errori" gli articoli del Guardian e del Wp e ha deplorato una fuga di notizie che mette a rischio la sicurezza nazionale. Il numero uno dell’agenzia ha quindi annunciato che alcuni dettagli del programma saranno resi noti per permettere agli americani di capire meglio e correggere le impressioni sbagliate create dai resoconti dei due quotidiani.
* la Repubblica, 07 giugno 2013
Usa, spiati al telefono milioni di utenti
Casa Bianca difende controlli su utenti della compagnia Verizon: ’proteggiamo nazione’ *
ROMA, 6 GIU - La National Security Agency sta spiando le registrazioni telefoniche di milioni di utenti americani di Verizon, una delle maggiori compagnie di telefonia degli Usa, sulla base di un ordine segreto di un tribunale emesso in aprile. Lo denuncia il Guardian online.
L’ordine della Foreign Intelligence Surveillance Court (Fisa), emesso il 25 aprile, chiede a Verizon di dare informazioni alla Sicurezza Usa su tutte le chiamate telefoniche fornite dai suoi sistemi giorno per giorno, sia all’interno del Paese che tra gli Stati Uniti e altri Paesi, scrive ancora il Guardian che ha ottenuto una copia del documento. Il documento, sottolinea il giornale britannico, mostra per la prima volta che sotto l’amministrazione Obama le registrazioni delle comunicazioni di milioni di cittadini americani vengono raccolte indiscriminatamente e in massa, a prescindere dal fatto che gli utenti siano sospettati o meno di un illecito. Il Fisa ha concesso il via libera all’Fbi il 25 aprile dando al governo la possibilità di ottenere i dati per tre mesi, fino al 19 luglio. In base alla decisione della Corte, vengono raccolti i numeri di entrata e uscita delle chiamate, i dati sulla localizzazione, gli orari e la durata, ma non i contenuti.
STAFF OBAMA DIFENDE CONTROLLI,PER LOTTA TERRORISMO L’amministrazione Obama difende la pratica dei controlli sulle telefonate degli utenti di Verizon definendola "uno strumento fondamentale per proteggere la nazione dalle minacce terroristiche’, ha detto un alto funzionario della Casa Bianca.
Un alto funzionario dell’amministrazione Obama conferma la raccolta di dati sulle telefonate di milioni di utenti dell’operatore Usa Verizon."Decliniamo ogni commento", ha risposto anche Verizon attraverso il suo portavoce a Washington Ed McFadden.
WP, ORDINE GIA’ NEL 2006 - L’ordine per la sorveglianza telefonica emesso da un tribunale Usa e pubblicato dal Guardian, "é autentico" e "sembra un atto di routine di rinnovamento di una direttiva emessa per la prima volta dalla stessa corte nel 2006". Lo scrive il Washington Post, citando funzionari dell’amministrazione Usa e un esperto, tutti coperti dall’anonimato.
* ANSA, 06 giugno 2013
undici racconti
Il sogno americano svanisce in una gabbia di polli
di Gianni Riotta (La Stampa, 19/02/2013)
Nel 1919 Annette Wynne scrisse questi versi, che ancora qualcuno recita negli asili americani, «Where we walk to school each day/ Indian children used to play» dove camminiamo verso scuola, ogni mattina, giocavano un tempo i bambini Indiani, e resta incerto se la scrittrice fosse affranta, o sollevata, dalla scomparsa dei piccoli nativi americani e dalla sicurezza che ora le strade, e le città, assicuravano ai coloni europei.
Lo storico inglese John Keegan, per primo, descrisse lo scontro di civiltà tra i poveri arrivati dal vecchio continente e gli abitanti d’America come guerra tra poveri, dove le abitudini nomadiche degli indigeni, abituati a muoversi nell’immenso e ricco continente quando avevano esaurito le risorse di una zona, collidevano con la fame degli europei, decisi a colonizzare ogni centimetro del nuovo paese.
Lo scrittore Sherwood Anderson, come molti artisti americani, provava il senso di colpa per quella occupazione che, agli occhi della gente normale, appariva come un modo per non morire di fame, ma per gli uomini di cultura diventava peccato originale che, accoppiato alla schiavitù prima e alla segregazione razziale dopo, sporcava per sempre il sogno di un nuovo paese, l’American Dream.
Anderson scrive i racconti de Il trionfo dell’uovo due anni soli dopo i versi infantili della Wynne: sono amari, agri, non ingenue filastrocche, eppure il senso di nostalgico isolamento è identico. L’autore di Winesburg, Ohio condivide la penosa sensazione che l’America abbia usurpato il suo territorio e la sua anima, sottraendoli ai primi abitanti: e che la pena per questo furto sia l’alienazione e il senso di smarrimento di ogni colono. Perfino Fitzgerald, nelle struggenti righe finali de Il Grande Gatsby, quando, ormai consumato il sacrificio del gangster romantico, il suo amico Nick Carraway medita sul passato ancestrale di Long Island, si interroga sul sogno smarrito d’America, estrema chance di emancipazione per l’uomo.
Così nel Trionfo dell’uovo, un bambino racconta con acidità il fallimento del padre, prima come allevatore di polli e poi come oste. In una pianura non ancora rosa dalla Depressione, mancano 8 anni al crollo di Wall Street del 1929, le malattie falcidiano i polli, l’esistenza è grama e infelice, i padroni sono incapaci di arricchirsi e prosperare e, proprio come gli animali, penano e stentano. Quando l’allevamento fallisce il padre prova con un ristorante, esibendo sempre la collezioni di pulcini deformi sotto alcol che ha messo insieme. Vorrebbe intrattenere un cliente solitario con i suoi giochi con le uova, prova ad attrarne l’attenzione con barattoli colmi di galletti mostruosi, ma alla fine si sporca soltanto di tuorlo, l’estraneo lo irride e lui si rifugia dai familiari, sconfitto e infelice.
Come Gogol in Russia, Sherwood Anderson usa il grottesco come chiave narrativa, qui non ci sono Nasi o Cappotti volanti, ma c’è il Pollo, metafora della nostra infelicità umana. Infelicità che, nei racconti tradotti ora da Daniele Suardi per Piano B edizioni, non è «colpa» degli individui o della storia, è il marchio del Caino americano, povero, infelice e alienato perché ha scippato il continente ai nativi. Qui il paese si divide: per il Common Man americano, il cittadino che prima e dopo la Depressione sputa sangue per sopravvivere, nessun senso di colpa è ragionevole, era impossibile lasciare a poche decine di migliaia di indiani un continente sterminato, mentre Asia e Europa pativano la fame.
Non così per gli intellettuali, confusi come i pulcini della fiaba di Sherwood Anderson e costretti nella propria condizione di assurdità, «Growing up absurd», in italiano La gioventù assurda, è il saggio di Paul Goodman che, ancora nel 1960, lamenta l’infelicità della generazione che allora era «giovane», maschera dell’infelicità esistenziale degli americani tutti. Come denuncia politica questo sentimento passerà nei film, Easy Rider, Alice’s Restaurant, Getting straight, in italiano L’impossibilità di essere normale, ma è già distillato nelle pagine di Anderson che ora appaiono in italiano.
Il lettore non le avvicini con gusto di antiquariato letterario, cercando cosa appassionasse un tempo su Anderson Cesare Pavese o Elio Vittorini, che lo incluse nella celebre antologia Americana, tradotto da Umberto Morra e Carlo Linati. Meglio leggerlo come scrittore, cercarne il gusto amaro non di critica all’America, ma alla condizione intera del genere umano. Pensate: il regime di Mussolini impose all’antologia Americana di Vittorini una prefazione ad hoc per deprecare materialismo ed egoismo degli Stati Uniti, ignorando che l’opera intera di scrittori come Anderson era già tesa a denunciare l’anima perduta del proprio paese.
L’insediamento
Obama, uomo libero libera l’America
di Furio Colombo (il Fatto, 23.01.2013)
Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all’America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto. Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”.
Ma poiché noi parliamo dall’Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell’America che tende a tirarsi indietro”.
Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l’America non è più quella di una volta”. L’ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell’invasione del Mali, dell’intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).
MA TORNIAMO a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l’assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.
Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l’America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l’incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell’uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.
“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell’Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.
E DICHIARA, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l’assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l’intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d’avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l’America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L’America (certo l’America di Obama) non è più quella di una volta”.
L’uguaglianza di Obama
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23.01.2013)
L’eguaglianza è la grande assente nel linguaggio politico contemporaneo, nonostante la nostra sia un’età a tutti gli effetti di egemonia democratica, e la democrazia sia un sistema che fa dell’eguaglianza (civile e politica, ma anche delle condizioni di partecipazione alla vita della società) il suo fondamento e la sua aspirazione.
Nel suo epico discorso di insediamento come 44esimo Presidente degli Stati Uniti, Barak H. Obama lo ha ricordato ai suoi concittadini e a tutto il mondo. E lo ha fatto riandando alle origini del patto sul quale l’America che lo ha rieletto è nata, alla Dichiarazione di Indipendenza: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
A scrivere queste rivoluzionarie parole era stato Thomas Jefferson, un illuminista che credeva come i nostri Filangieri, Verri e Beccaria, che la legge dovesse occuparsi non ad opprimere o dominare ma a creare le condizioni di benessere dei cittadini. La “felicità pubblica” era un ideale importante. Dalla consapevolezza della sua importanza comincia la storia della democrazia moderna.
Il governo, secondo questa filosofia che a noi sembra desueta, dovrebbe creare le condizioni grazie alle quali le persone possono prima di tutto conoscere le loro potenzialità (a questo serve un sistema educativo aperto a tutti) e poi contare su leggi giuste e ben fatte e istituzioni trasparenti e funzionali per poter progettare la loro vita secondo il loro discernimento.
Insomma vivere, e vivere con soddisfazione per quanto possibile, e non nella sofferenza, nell’umiliazione e nella miseria. E questo è un bene per il singolo e la società. Il governo non dispensa felicità dunque. Ciò che si impegna a fare è rendere le persone davvero responsabili della loro vita; far sì che esse possano contare su se stesse, non sulla fortuna di appartenere a una buona famiglia, non sul favore delle persone potenti, non sull’elemosina di chi ha più.
La democrazia, parola per secoli vituperata per volere dare potere e visibilità a tutti, anche ai poveri e inacculturati, è stata nobilitata anche dalla Rivoluzione americana alla quale Obama si è ispirato. Essa ha inaugurato una visione evolutiva delle conquiste sociali e politiche al centro delle quali c’è la persona come valore attivo, agente di scelte, ma anche soggetto dotato di sensazioni e sentimenti, che valuta la propria vita all’interno delle relazioni con gli altri.
Nella democrazia, l’intera struttura della società, dall’etica alla politica, ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il benessere e la libertà degli individui sono la condizione per misurare il benessere o il progresso dell’intera società.
Rivalutando questa tradizione che dal Settecento cerca di coniugare democrazia e giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione pubblica non evade da questi compiti, non lascia il campo alla giungla degli interessi (e quindi alla vittoria di chi è più forte) per riservarsi, eventualmente, di venire in soccorso a chi soccombe. Lo stato della democrazia non fa questo. Esso prepara il terreno all’eguale libertà invece di giungere dopo; non dispensa carità ma garantisce diritti, e per questo promuove politiche sociali.
Ecco perché il principio della libertà individuale non sta solo scritto nelle costituzioni ma diventa a tutti gli effetti un criterio che valorizza le capacità concrete e sostanziali delle persone di vivere il tipo di vita al quale danno valore. L’espansione della libertà è condizione di felicità, perché possibilità di fare, di scegliere, di sperimentare con dignità e senza subire umiliazione.
Ecco perché il tema della giustizia è un tema di risorse o di condizioni di benessere, non semplicemente di esiti e nemmeno soltanto di equo trattamento. A questa promessa di “felicità” è ritornato il presidente Obama per inaugurare il suo secondo mandato: una promessa di impegno per uno sviluppo “illimitato” come o indefinito (cioè senza limiti predeterminati) è il mondo delle nostre possibilità in quanto persone libere nei diritti ed eguali nelle opportunità.
In questo inizio secolo, il viaggio mai finito della democrazia sembra aver trovato il suo Ulisse, nocchiero di un percorso incerto negli esiti e periglioso, ma avvincente e mosso da uno scopo che dovrebbe essere alla nostra portata: vivere con dignità, apprezzando il valore della nostra libertà.
Clima, eguaglianza, diritti e accoglienza
Ecco la nuova era di Barack Obama
Pochi attimi dopo aver giurato nelle mani di John Roberts, presidente della Corte Suprema, Obama si è rivolto alla folla del National Mall ripetendo più volte “We, the people”, le parole con cui inizia la Costituzione
Il presidente giura e si richiama ai Padri Fondatori: «Conservare la libertà richiede le azioni di tutti»
di Maurizio Molinari (La Stampa, 21.01.2013)
Con un discorso breve ma intenso il presidente Barack Obama ha chiesto all’America di «agire» per «portare nel presente» «valori e idee» dei Padri Fondatori della Repubblica americana, sottolineando le battaglia che ritiene decisive nei prossimi 4 anni: per la difesa del clima, l’eguaglianza dei diritti dei gay, l’accoglienza degli immigrati e la difesa democrazia nel mondo.
Pochi attimi dopo aver giurato nelle mani di John Roberts, presidente della Corte Suprema, Obama si è rivolto alla folla del National Mall ripetendo più volte “We, the people”, le parole con cui inizia la Costituzione. «Ciò che distingue l’America è il credo nell’uguaglianza fra tutti gli uomini» ha esordito, ricordando che “i patrioti del 1776 non si sono battuti per sostituire un re con i privilegi di pochi” e dunque resta l’uguaglianza il timone della nazione.
Da qui l’appello ai singoli cittadini perché «conservare la libertà collettiva richiede azioni di ogni individui» a cui spetta di «agire assieme, una nazione e un popolo». L’impegno per il nuovo quatriennato che inizia sono di «cogliere le possibilità illimitate» offerte «dalla fine di un decennio di guerre e l’inizio della ripresa».
Obama è a favore della «riduzione dei costi della Sanità e del deficit» ma non vuole smantellare l’impegno dello Stato federale per i cittadini perché «Medicare, Medicaid e Previdenza ci rafforzano». Le promesse riguardano i grandi temi: «Risponderemo alla minaccia dei cambiamenti climatici», «uguaglianza per i fratelli e le sorelle gay», «un metodo migliore per accogliere gli immigrati». E sulla politica estero l’impegno è a «restare l’ancora delle alleanze nel mondo», «sostenendo la democrazia dall’Asia all’Africa, dalle Americhe al Medio Oriente» nella convinzione che «una pace durevole non richiede una guerra perenne».
Nel finale ha ricordato Martin Luther King «che ci ha guidato in questo Mall» per terminare: «Portiamo la luce della libertà verso un incerto futuro».
Obama, piano per controllo delle armi.
"Proteggere i nostri figli è la priorità
Alla Casa Bianca Obama presenta il suo piano per arginare i crimini da armi da fuoco davanti alle famiglie delle vittime della strage nella scuola del Connecticut. Tra le altre misure, lo stop ai caricatori con più di 10 colpi, controlli sui precedenti di chi acquista, attenzione alle malattie mentali e alle immagini violente in videogiochi, cinema e tv. I lobbisti della NRA: "Sarà la battaglia del secolo" *
WASHINGTON - "Proteggere i nostri figli è il primo compito di una società e non è un tema che può dividerci. Io amo il mio Paese e voglio che tutti siano felici e si sentano sicuri". Così il presidente degli Usa Barack Obama, presentando il più significativo sforzo mai fatto negli ultimi vent’anni da un’amministrazione Usa per contrastare la violenza generata dal troppo facile accesso alle armi. Obama annuncia 23 decreti e un impegno da 500 milioni di dollari. Il cuore delle riforme nel bando sulle armi automatiche e i caricatori di proiettili di grande portata e, soprattutto, nell’obbligo di controlli sull’identità e i precedenti degli acquirenti. Alcune misure sono immediatamente esecutive, altre richiederanno il sì del Congresso. In particolare, proprio il bando alle armi automatiche.
"Queste saranno riforme difficili - avverte Obama -. Si opporranno lobbisti e politici, che non vogliono perdere consensi e guadagni. Dietro le quinte opereranno perché nulla cambi". Obama si rivolge al Congresso: "Chiedo di approvare proposte specifiche e di farlo immediatamente. Serve un controllo del passato di tutti coloro che intendono comprare un’arma". Poi agli americani: "Chiedano al Congresso di agire. E se non lo fa chiedano spiegazioni". Al momento della firma dei decreti presidenziali, Obama viene circondato da un gruppo di bambini. L’immagine, trasmessa da tutte le principali Tv Usa, dà il senso della svolta. Un’ora dopo il discorso del presidente la National Rifle Association, espressione della potente lobby americana delle armi, diffonde a sua volta un annuncio ai suoi iscritti: "Sarà la battaglia del secolo". Obama vuole la riforma, spiega la NRA, "non per proteggere i bambini o per fermare i crimini. E’ per vietare le vostre armi". E in sei Stati - Wyoming, Alabama, Missouri, Montana, Texas, South Carolina - le autorità di polizia locali hanno già annunciato che ignoreranno qualsiasi legge per limitare l’accesso alle armi imposta dalla Casa Bianca.
"Stop ai caricatori con più di dieci proiettili. A cosa serve un caricatore da centinaia di pallottole? - chiede Obama in un passaggio del suo discorso -. A sparare più colpi nel più breve tempo possibile". Era questo che intendevano i Padri Fondatori quando, nel secondo emendamento della Costituzione Usa, inserirono il diritto a possedere un’arma per difendersi? "Rispetto le nostre forti tradizioni sul possesso delle armi - riprende il presidente -, ma serve un cambiamento. Serve da parte nostra un esame di coscienza. Ogni giorno che aspettiamo ad agire aumenta il numero delle vittime".
Il presidente cita un numero: 900, le persone morte a causa delle armi dopo la strage alla scuola Sandy Hook di Newtown, Connecticut, del 14 dicembre scorso. L’evento che ha spinto Obama a prendere l’iniziativa. "Novecento persone. E il 40 per cento della vendita di armi avviene senza informazioni su chi le acquista" dice il presidente, ringraziando le famiglie delle vittime della strage del Connecticut invitate alla Casa Bianca per l’annuncio che "hanno trovato il tempo di essere qui oggi". La strage di Newtown, che proprio Obama definì "il più brutto giorno della mia presidenza". Da quel giorno Obama ha promesso di concretizzare una più dura lotta contro quella lobby pro-armi che da tempo ha avvertito i suoi sostenitori delle reali intenzioni del presidente: costringerli a metter via i loro fucili.
Obama presenta un piano in tre parti, focalizzato su armi e violenza, istruzione, salute mentale, messo a punto nell’ambito delle indicazioni fornite dal vicepresidente Joe Biden che ha guidato una task force dedicata allo studio dell’argomento. Ecco dunque la richiesta al Congresso di approvare il bando alle armi d’assalto - in realtà la reintroduzione di un divieto in vigore fino al 2004 - e i limiti all’approvvigionamento di munizioni.
Obama propone uno statuto federale che ponga fine alla vendita di armi ad acquirenti per conto terzi e il controllo a livello federale, non di singolo Stato, dei precedenti di chi vuole acquistare un’arma. In particolare, le nuove misure proposte da Obama imporranno alle agenzie governative di rendere disponibili le informazioni relative alle persone in modo da impedire a individui "pericolosi" l’acquisto di armi. Ad oggi, secondo la "Brady Campaign to Prevent Gun Violence", il 40% degli acquisti di armi in America avviene senza simili controlli, comprese le vendite di armi effettuate da privati alle fiere del settore o via internet. Tra le altre misure, rendere illegali negli Usa le pallottole perforanti, sia impedendo la loro fabbricazione negli Usa che la loro importazione; adottare un programma per arruolare 1.000 vigilantes armati a protezione delle scuole. Obama chiede pene più dure per i trafficanti di armi, per chi vende armi ai criminali.
Il presidente quindi chiede una campagna di informazione nazionale sull’uso sicuro e responsabile delle armi e sulla loro detenzione in casa. E, al Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie di Atlanta, di condurre una ricerca approfondita sulle cause degli atti di violenza legati alle armi, inclusa la verifica dell’influenza dei videogiochi violenti. Obama ha quindi nominato Todd Jones, attuale direttore ad interim, a capo dell’agenzia federale per i controllo di Armi, esplosivi, Tabacco e Alcol e ha chiesto al Congresso un rapida ratifica delle designazione.
Gli Stati Uniti "vantano" il più alto tasso di possesso privato di armi al mondo, mentre i lobbisti pro-armi etichettano ogni tentativo di arginarlo come una violazione del diritto a quel possesso, garantito dal secondo emendamento della Costituzione Usa. Argomentazione, quest’ultima, a cui si controbatte affermando che i padri fondatori del Grande Paese non potevano immaginare l’uso di armi d’assalto più di duecento anni fa, quando il possesso di pistole era comunemente considerato difesa personale e i fucili non sparavano più di un proiettile per volta.
Di fronte a questo dibattito, l’opinione pubblica americana appare più attratta da una vera e più forte azione federale che porti a un bando su scala nazionale delle armi automatiche simili a quelle in dotazione all’esercito, secondo il risultato di un sondaggio condotto dall’agenzia Associated Press. Per l’84 per cento degli adulti intervistati, sarebbe necessario anche fissare uno standard federale in merito a controlli sul passato di quanti intendano acquistare armi.
Sullo sfondo aleggia sempre il timore che la potentissima National Rifle Association e i suoi alleati al Congresso siano troppo forti per essere sconfitti. Proprio quella NRA che martedi scorso ha diffuso un video che definisce Obama un "ipocrita elitario", che a scuola protegge le sue figlie con agenti dei servizi segreti armati mentre non assume alcun impegno in merito all’impiego di guardie armate a difesa di tutte le scuole e tutti gli scolari d’America. La NRA conclude: "Il miglior modo per prevenire sparatorie e massacri è mettere un’arma in mano a più ’bravi ragazzi’".
* la Repubblica, 16 gennaio 2013)
Il sogno americano: un mitragliatore sotto l’albero
Boom di vendite del fucile usato per la strage dei bambini in Connecticut
E anche degli zaini anti-proiettile per gli scolari
di Angela Vitaliano (il Fatto, 28.12.2012)
New York Sheeba Anderson, il giorno di Natale, è tornato a casa contento, stringendo il suo pacco forte per essere sicuro di non perderlo. A 6 anni non ti importa se Babbo Natale il tuo regalo lo ha lasciato in chiesa, con tutti gli altri destinati ai bambini orfani o in affido. Peccato che il regalo di Sheeba non sia piaciuto affatto alla donna che cura la casa famiglia di Harlem, perché all’interno conteneva una pistola. Vera.
Proprio la tragedia del Connecticut che ha scosso l’opinione pubblica, spingendo il presidente a compiere i primi timidi passi verso una regolamentazione più severa sulle armi, ha dato un vigore spaventoso alla passione degli americani per pistole e fucili, facendo schizzare alle stelle i numeri delle vendite. E se il piccolo Sheeba, ignaro della pericolosità del suo regalo, è corso a mostrare contento la sua pistola alla signora Anderson che, terrorizzata, gliel’ha strappata di mano lasciandolo con un’espressione tristissima. Molti altri amiericani non hanno trovato invece di meglio che farsi immortalare su Twitter e Facebook con in mano i loro preziosi gingilli trovati sotto l’albero.
Ancora più raccapriccianti i messaggi che li accompagnavano, tipo quello di Sara che scrive “non vedo l’ora di vedere la faccia di mio marito quando aprirà il suo regalo. Gli ho comprato un AR15 prima che siano tutti vietati”. L’AR15, è l’arma che è stata usata da Adam Lanza nella strage della scuola di Newport dove hanno perso la vita venti bambini e sei adulti. Un altro tweet diceva “vedere mio cugino di 10 anni imbracciare l’AR15 trovato sotto l’albero mi rende molto invidioso”.
LA PREOCCUPAZIONE che il governo federale possa imporre un divieto sulle armi automatiche e da guerra, ha fatto incrementare le vendite. “Normalmente vendo una ventina di queste armi in un mese - dice il responsabile di un negozio di Randolph, nel New Jersey - ma negli ultimi tre giorni ne ho vendute trenta”. La strage di Newtown, d’altro canto, aveva già dato vita mote reazioni inconsulte come quella dell’insegnante della scuola Montessori del Minnesota che si era presentata a scuola armata di una Magnum 357. Momenti di grande successo anche per i produttori di zaini e schermi antiproiettili che, nelle ultime settimane, hanno visto le loro vendite aumentare addirittura del 500%.
“Guardavo i numeri delle prenotazioni - dice Elmar Uy, vice presidente della BulletBlocker, azienda produttrice - e non credevo ai miei occhi. Cifre superiori dieci volte alla media”. Gli zaini anti proiettile hanno un costo che va dai duecento dollari a salire, ma per “soli” 175 è possibile procurarsi uno schermo antiproiettile “portatile” che puo’ essere facilmente inserito in zaini, borse da donna e borse portacomputer. Lo schermo pesa solo mezzo chilo. Nemmeno dopo la strage del cinema di Aurora le vendite avevano subito una tale impennata.
Se la follia sembra dilagare in maniera da un lato, dall’altro c’è chi, come il sindaco di Los Angeles, il democratico Villaraigosa, cerca di favorire le azioni per limitare la circolazioni di armi. Cosi, l’iniziativa “Gun reduction and Youth Development Program”, organizzata con il Dipartimento della Polizia cittadina, che dal 2009 si svolge nel mese di maggio, è stata anticipata a questi giorni in risposta alla strage di Newtown.
Grazie alla possibilità di “consegnare” la propria arma alle forze dell’ordine senza dover dare spiegazioni sulla sua provenienza, sono state raccolti oltre 1500 fra fucili e pistole. Per invogliare i cittadini a disfarsene, il Comune ha anche offerto, in cambio, buoni spesa da 100 dollari.
Il dio delle armi e la religione dell’America
Quindicimila morti all’anno. L’attaccamento a bibbia e fucile vanno spesso insieme
di Massimo Faggioli (l’Unità, 16.12.2012)
NON SI SA ANCORA SE LA STRAGE DI NEWTOWN CAMBIERÀ L’ATTEGGIAMENTO DELL’AMERICANO MEDIO nei confronti delle armi: quelle precedenti, specialmente da Columbine High School nel 1999 in poi, non ci sono riuscite. Negli Stati Uniti si contano oltre 15.000 morti per armi da fuoco ogni anno (le cifre variano) ed è un paese da sempre assuefatto alla violenza. Le statistiche dicono che negli Stati Uniti c’è meno violenza rispetto ai decenni precedenti, e che nel paese circolano più armi, ma quelle stesse armi sono nelle mani di una parte numericamente decrescente di americani: una minoranza, ma sempre più armata.
Anche per questo motivo il caso di Newtown non rappresenta un’eccezione alla regola, ma esattamente la regola di un’America in cui il feticcio dell’arma (non solo pistole e fucili, ma di recente anche supertecnologici archi e frecce) tende a rintanarsi in fasce ristrette della popolazione.
Ridurre la genesi dell’attentato alla mentalità disturbata dell’attentatore equivarrebbe ad ignorare uno degli elementi tipici dello scenario morale americano.
Nel suo Democrazia in America, Alexis de Tocqueville aveva descritto il viaggio alla conquista del nuovo mondo come l’avventura into the wild dell’uomo americano armato di «una Bibbia, un’ascia, e un giornale». Da allora il mondo americano è assai cambiato, ma non si è attenuata la radicale differenza con il mondo europeo quanto a percezione morale della violenza e della detenzione delle armi.
Ma accanto a questa differenza tra la mentalità americana e quella del resto del mondo sulle armi in mano alla popolazione civile, è cresciuta anche la distanza tra le due estreme della morale americana, frutto della polarizzazione culturale del paese: quella pro-guns e anti-abortion da un lato, e quella anti-guns e pro-abortion dall’altra.
Da una parte i liberals credono nella necessità di un maggiore controllo sulla circolazione delle armi sul territorio degli Stati Uniti e nella totale libertà di scelta della donna circa l’aborto; dall’altra, gli attivisti anti-abortisti sono tra i più affezionati a quell’interpretazione al secondo emendamento della Costituzione americana che dà ai cittadini il diritto di portare armi.
Ma la giurisprudenza costituzionale sul secondo emendamento risente di un fondamentalismo giuridico che è passato dalla Bibbia alla Costituzione anche grazie ai giudici cattolici della Corte Suprema, oggi ben sei su nove. Si dimentica che la mens di quel secondo emendamento intendeva dare ai cittadini il diritto di armarsi non per difendersi dal crimine o dalle violenze domestiche, ma dagli abusi del governo in un’America da sempre diffidente del potere, specialmente di quello del governo federale.
Gli Stati Uniti d’America sono un paese eccezionale rispetto al mondo intero quanto a intensità del sentimento religioso e quanto a fascinazione per la violenza e la morte: le due cose sono collegate.
L’attaccamento alla Bibbia e al fucile vanno spesso insieme: non è un caso che il Mosè di Hollywood, Charlton Heston, sia diventato il più famoso portavoce della National Rifle Association, la lobby capace di far eleggere deputati e senatori e capace di bloccare qualsiasi tentativo di approvare leggi sul controllo delle armi.
Il presidente degli Stati Uniti, sommo pontefice della religione americana, sopraffatto dall’emozione è l’immagine dell’impotenza di quel pontefice di avere ragione non solo della lobby della Nra, ma anche di quella larga fetta di americani che vedono nel diritto di portare armi l’ultima linea di difesa simbolica contro il governo, la politica, gli intellettuali, i gay, i mass media, il cosmopolitismo.
Quei bambini morti, le lacrime dei loro genitori e di tutti i genitori d’America sono i sacrifici umani che l’America si lascia imporre dalla religione del fucile. Finora le chiese americane sono state timide sulla questione delle armi, molto più timide che sulle altre questioni pro life: è tempo che il controllo delle armi entri a far parte della «cultura della vita» nell’America religiosa. Fino ad allora, la religione delle armi continuerà a mietere vittime.
Il tramonto del sogno americano
Solo il 4% dell’ultima generazione nata dopo gli Anni 70 è salito di un gradino nella scala sociale.
Così negli Usa è sfumata la speranza di una vita migliore
di Vittorio Zucconi (la Repubblica, 12.07.2012)
WASHINGTON. IL GRANDE fiume del “sogno americano”, quella corrente forte e tumultuosa che ha trasportato generazioni di persone verso la speranza di una vita migliore, sta diventando una palude di acqua stagnante. La società americana ha perduto la propria formidabile mobilità e comincia a somigliare sempre di più alle stanche società del Vecchio Mondo, dove è ormai molto più facile scivolare verso il basso che arrampicarsi verso l’alto. Soltanto il 4 per cento degli americani dell’ultima generazione post anni ‘70 oggi divenuta adulta è riuscita a salire di qualche gradino sulla scala del reddito, a migliorare la propria situazione in termini assoluti, di guadagni e di sicurezza, e in termini relativi, rispetto alle altre classi di censo.
L’Istituto di ricerche sociali Pew, che è il più serio ed equilibrato in materie di demografia e di sociologia, ha concluso con evidente amarezza che il «sogno americano è vivo e gode ottima salute, ma soltanto a Hollywood». Nella realtà quotidiana, è già un successo se famiglie e individui riescono a galleggiare sul reddito medio nazionale, che è oggi di 49 mila e 900 dollari annui lordi, quaranta mila euro. Una cifra che potrebbe apparire invidiabile a un salariato italiano, ma diventa assai più smunta se depurata, oltre che dalle tasse, dai costi della assicurazione sanitaria privata, delle imposte locali e immobiliari calcolate sul valore di mercato delle casa, dei trasporti privati, indispensabili nella transumanza quotidiana dei pendolari senza mezzi pubblici. Nonostante quella “ricerca della felicità” che la Costituzione garantisce a ogni cittadino, come “ricerca”, ma non come risultato, la rincorsa è sempre più simile al sofisma di Achille e della tartaruga, dove il cittadino Achille deve correre sempre più un fretta senza mai riuscire a raggiungere la tartaruga.
Il reddito delle persone e delle famiglie è infatti generalmente aumentato, anche attraversando il ciclone delle due recessioni in questa prima decade del 2000, quella del 2001, dopo l’11 settembre, e quella del 2008, dopo un altro settembre nero, il collasso delle torri di carta finanziarie. Ma la distribuzione della ricchezza si è squilibrata molto più che in passato, trasformando il profilo della società americana da quello «a mela» con il grosso della classe media attorno alla circonferenza, a quello «a pera», dove la polpa si colloca ormai verso la base.
Il tormento del cittadino Achille e della inafferrabile tartaruga della promozione sociale si manifesta in un dato chiarissimo: l’85 per cento delle persone, maschi come femmine (che comunque continuano a guadagnare meno dei propri colleghi, a parità di lavoro) hanno, nominalmente, più dei propri genitori, posseggono più beni, mobili o immobili, case, seconde case, oggetti di consumo, eppure sono scesi, o sono a rischio di retrocessione, sulla scala sociale. E’ un arretramento relativo, dunque, che produce quel sentimento di frustrazione e di rancore che ha mosso le proteste di “Occupy”. Non tanto, e non solo, per la rabbia verso quell’uno per cento che controlla troppa parte della torta, ma per il sentimento di avere perduto la possibilità di ritagliarsene in futuro fette più sostanziose. Il “sogno americano”, appunto.
La certezza, pur molto mitologica, dell’ideologia neopuritana alla Horatio Alger, lo scrittore popolarissimo che all’alba del ‘900 convinse generazioni di bambini e ragazzi che con il proprio duro lavoro, la disciplina, la tenacia, l’orizzonte delle loro possibilità era infinito, come i grandi cieli del West.
A tutti era aperta la strada del “ rags to riches”, del salto dagli stracci alla ricchezza. Hollywood, negli stessi anni e ancora oggi, aveva accompagnato e fortificato il mito, con avventure a lieto fine di orfanelle, straccioni, emarginati, morti di fame capaci di balzare ai vertici della società, come esemplificò il classico “Trading Places”, Una Poltrona per Due, con Eddie Murphy e Dan Aykroid. E invece sono proprio gli afroamericani, come il protagonista di quella fiaba a colori, il segmento della popolazione dove è più facile scivolare all’indietro che progredire e uscire dalla condizioni nelle quali si è nati, soprattutto perché scarseggia il carburante primo della mobilità positiva: i titoli di studio. Anche se non sono più una condizione sufficiente a garantire una vita di relativo benessere, le lauree rimangono necessarie per poter sperare di sottrarsi al ciclo dei lavori a salari minimo, friggendo hamburger e servendo clienti negli ipercentri commerciali.
Nel corso della vita adulta, un laureato guadagnerà il doppio di un non laureato. Mentre la desindacalizzazione generalizzata, soprattutto nel mondo della grande, o ex grande, industria, ha tolto quella cinghia di trasmissione salariale che aveva fatto, ad esempio dei metalmeccanici di Detroit, la grande “classe media” americana senza bisogno di lauree o dottorati.
Il sogno vive ancora, e si mantiene, nei casi sensazionali, ma individuali degli Steve Jobs che dal garage di famiglia passano a creare industrie colossali, dei Bill Gates, fuoricorso universitario senza pezzo di carta ma con montagne di dollari generati dalla sua azienda, o, in politica, dei Rick Santorum, nipote di minatori italiani, o dei Barack Obama, figli di nessuno, senza altra raccomandazione che la propria intelligenza, balzati da oscuri licei fino alla Presidenza degli Stati Uniti o a poltrone senatoriali.
Ma è sui grandi numeri, quelli che contano, che il “sogno” si rivela essere sempre più leggenda: è oggi più facile che dai vertici della scala sociale si ricada all’indietro - lo fa il 6% dei figli di ricchi o privilegiati - che dal fondo si passi al piolo più alto, appunto il 4%. E il numero dei poveri, nella definizione tecnica, è salito alla cifra record di 42 milioni. Non sarebbero, queste setacciate dall’Istituto Pew che ha studiato gli andamenti e gli spostamenti della placca sociale americana, cifre specialmente tragiche, se lette in relazione ad altre società e ad altre nazioni. Ma per l’America, per l’immagine di sé, che regge questa “nazione di nazioni” da oltre due secoli, la mobilità è un ingrediente fondamentale. Il “patto sociale”, la costituzione non scritta che regge la democrazia americana è la promessa delle occasioni, non quella dei risultati.
Ammettere che si deve correre sempre più forte per restare fermi o per non slittare indietro è una ammissione di fallimento per la cultura dell’operoso calvinismo che promette, come faceva Horatio Alger nei suoi cento libri best seller, la ricompensa terrena al sacrificio e alla fatica. E se in futuro gli storici dovranno esaminare come, quando e perché anche questa «città luminosa sulla collina», come diceva Reagan citando i libri sacri, comincia ad affievolirsi, non saranno l’indebitamento, la globalizzazione, la finanza a spiegare il declino dell’impero americano, ma la fine del “sogno”.
Una fine che si manifestò con lancinante chiarezza, nel collasso dei valori immobiliari dopo il 2002. La casa, o almeno quelle scatole di legno e cartongesso riprodotte all’infinito nel «grande ovunque americano» dei sobborghi che qui vengono generosamente chiamate case, sono, da sempre, la materializzazione tangibile, vivibile del sogno realizzato, oltre che il primo, e spesso unico investimento delle famiglie, che contano sulla rivalutazione e sulla vendita per finanziarsi la propria vecchia oltre le magre pensioni federali. Erano, quelle abitazioni, il fiume che alimentava il sogno, la sola e vera “scala mobile” dell’americano media.
Quando la scala, spinta al parossissimo dall’ingordigia dei prestatori e dall’incoscienza dei debitori abbagliati dalle facili occasioni, si è bloccata, sui gradini è ruzzolata la speranza. C’è soltanto un gruppo di americani che vede costantemente aumentare il proprio reddito e la propria posizione relativa e sono gli ispano americani, i “latinos”, destinati a diventare il gruppo etnico più numeroso, anche dei bianchi, tra una generazione. Addio “American Dream”, benvenuto al “Sueño Americano”.
“Vedrete che ci rialzeremo dopo il buio viene la svolta”
Lo scrittore americano Lansdale: “Da noi più opportunità che altrove”
di Alix Van Buren (la Repubblica, 12.07.2012)
Non dite a un texano che il Sogno americano, quello con la maiuscola, è morto, se no lui vi scaglia addosso una sfilza di rimproveri. Soprattutto se il texano è Joe Lansdale, icona letteraria, prolifico autore di romanzi, racconti noir, epopee, accomunato dal New York Times a Mark Twain e ai fratelli Grimm per la sua nuova opera, Acqua buia, già in vetta alle classifiche anche in Italia (Einaudi, Stile Libero). «Il Sogno americano, per l’appunto, è un sogno», lui martella al telefono con la sua cantilena texana. «Non è affatto una promessa, né tanto meno una certezza. È, piuttosto, un’opportunità: c’è chi sa afferrarla, e chi no». Lansdale, gli economisti dipingono uno scenario inquietante, parlano di mobilità sociale bloccata: chi è nato in fondo alla scala, ci resta; chi invece è stato allevato col cucchiaio d’argento, continua a vivere nell’agio.
Fra le due classi non c’è più ricambio. Le statistiche mentono? «Le statistiche sono fatte di numeri: non sono persone, esseri viventi, e per di più americani. La mia prima risposta è che in questo Paese, l’America, le famose “opportunità” sono molto più numerose che altrove. E questo malgrado la crisi economica, le difficoltà che stiamo attraversando, l’innegabile malessere di chi si trova senza lavoro. Però, non è la prima volta che ci troviamo in queste condizioni: nel passato s’è visto di peggio».
A che tempi si riferisce? «A un passato nemmeno tanto lontano: al 1973, con le lunghe code alle pompe di benzina, la recessione, la disoccupazione. Penso, ancora più indietro, alla Grande Depressione, quando tanta gente perse davvero tutto, a cominciare dai miei genitori, e non esistevano assicurazioni, né altre forme di protezione come invece ci sono oggi. Però, sa che cosa arrivo a dirle? »
Cosa? «Che proprio in tempi di crisi l’ingegno, la creatività umana esprimono il meglio di sé stessi. È un dato di fatto che l’inventiva spesso emerge dalla disperazione. Stavolta spetta a un’intera nazione - l’America - tirarsi fuori della fossa in cui siamo stati scaraventati. Se ci riusciremo tutti assieme, se ci impegneremo a cambiare il sistema per renderlo più equo, allora potremo persino parlare di un sogno collettivo americano».
Lei è tanto ottimista? «Perché non esserlo? Gli americani smettano di farsi ingannare da chi finge di avere il loro interesse a cuore. Alle prossime elezioni presidenziali, escludano Mitt Romney, che sa nulla dei problemi della gente comune, vuole ridurre le tasse soltanto ai ricchi, come fece Bush, e così aprì la voragine in cui ci dibattiamo oggi. Infatti, viviamo in una società dove le ricchezze sono concentrate nelle mani dell’1 per cento della popolazione, e le guerre hanno dissanguato le casse».
Sta facendo campagna per Obama? «Se vuole, è così. Ma non abbiamo scelta: dobbiamo concedere a Obama altri quattro anni per riparare almeno in parte i danni compiuti dai suoi predecessori, ad esempio per ridurre le tasse alla classe media, per eliminarle del tutto ai poveri. In questo modo si riequilibra il sistema. Si restituiscono, a chi è più in basso, i mezzi per risalire la famosa scala della mobilità sociale».
Un po’ com’è successo a lei? «Già, io sono figlio della Grande depressione, mio padre era analfabeta, mia madre aveva appena un diploma delle scuole medie. Disponevamo di un tetto sotto cui dormire, di un pasto caldo in tavola, null’altro. I miei hanno lavorato sodo per darmi un’istruzione, io mi sono impegnato per farmi strada. E ho iniziato a salire, pian piano, su per quella scala. Se Dio vuole i miei figli arriveranno ancora più su. Questo è il sogno americano, ecco. È una possibilità, lo ripeto, non una certezza. E per realizzarla, bisogna battersi. Infatti, la verità è anche questa: oggi molti vogliono “arrivare” senza “sudare”. Senza “sognare” abbastanza».
Povera classe media senza più modelli
Il declino dell’uomo americano
L’ultimo libro di Charles Murray spiega come è finito il mito della tradizionale "way of life"
Le sue tesi hanno provocato reazioni polemiche di intellettuali "liberal" come Krugman
di Maurizio Ricci (la Repubblica, 13.04.2012)
Vi ricordate l’America? L’America dei film di Frank Capra, ma anche di John Wayne e di decine di serie televisive: quell’insieme di ambizione, lavoro duro, certezze religiose, solidità familiare, scrupolo morale, spirito di solidarietà, attivismo comunitario che rendevano l’American way of life un impasto unico al mondo, condiviso in ogni angolo e in ogni strato sociale del paese. Quell’America non c’è più. Si sta erodendo e disgregando, scrive Charles Murray nel suo ultimo libro, Coming apart, anche doveè nata, nel suo cuore storico: l’America bianca.
Murray è un uomo di destra. Il suo libro più famoso, The Bell Curve, è stato al centro di aspre polemiche, perché sembrava implicare una inferiorità genetica dell’intelligenza dei neri. Anche per questo, forse, nel nuovo libro, Murray si concentra sull’America bianca. Ma pure questa finisce per essere una scelta di destra, che individua nei soli bianchi i depositari di quegli ideali e di quei valori, in contrapposizione all’America multicolore di Obama. Come è di destra l’idea che l’erosione dell’American way of life non sia generalizzata, ma contrapponga una parte del paese, che le rimane fedele, ad una parte che se ne allontana e che questa spaccatura si sia aperta con la "rivoluzione culturale" degli anni ’60: rock, marijuana, diritti civili e liberazione della donna.
Sembra di sentire la retorica di Rick Santorum e di Newt Gingrich contro le élites liberal delle due coste, lontane dall’America profonda. Murray le distingue anche geograficamente, isolando le élites in una serie di enclaves, i superZip, cioè distretti postali (superCap, li chiameremmo noi), sparsi fra New York, San Francisco, Chicago e Philadelphia, rispetto all’America delle città ex operaie della Pennsylvania o del Michigan. A distinguerle sono le differenze di reddito, ma Murray, come tutta la destra americana, insiste che la divaricazione principale non è economica o politica. È culturale. La contrapposizione tra un’America delle classi alte, convertita al camembert e al Borgogna, allo yogurt e al muesli, e un’America delle classi inferiori, rimasta a birra e salsicce è, da molti anni, merce corrente su qualsiasi quotidiano.
Murray ne riassume le caratteristiche, costruendo un virtuale superZip, Belmont, abitata da medici, avvocati, ingegneri e guru della finanza e una altrettanto virtuale città ex operaia, Fishtown, dove vive gente senza laurea, colletti blu, impiegati, commessi e misurandone aspirazioni e comportamenti. Ed è qui che Murray compie un’inattesae vistosa inversionea U, rispetto alla tradizionale propaganda della destra repubblicana. Perchéèa Belmont, fra le élites dei laureati e post-doc (il 20 per cento della popolazione bianca americana fra i 30 e i 50 anni), dicono i suoi dati, che l’American way of life continua a vivere e prosperare. Ed è nella Fishtown di una classe media che sprofonda verso il basso (30 per cento dei bianchi della stessa età) che quegli ideali e quei valori stanno svanendo.
L’immagine di due traiettorie divergenti è netta. Negli anni ’60, a Belmont il 94 per cento dei bianchi era sposato. A Fishtown, l’84 per cento. Nel 2010, era l’83 per cento a Belmont, il 48 per cento a Fishtown. Le ragazze madri bianche, nel 1970, erano l’1 per cento a Belmont, il 6 per cento a Fishtown. Nel 2008, a Belmont siamo ancora all’1 per cento, a Fishtown al 44 per cento. Anche il rapporto con il lavoro è diverso, per un bianco di 30-40 anni, a seconda che viva a Belmont o a Fishtown. Nel primo caso, ad aver rinunciato a qualsiasi tipo di lavoro era il 3 per cento, sia nel 1968 che quarant’anni dopo. A Fishtown la percentuale di uomini giovani che si dichiarano fuori dalla forza lavoro è aumentata dal 3 al 12 per cento. Il tasso di criminalità è rimasto, più o meno lo stesso, durante mezzo secolo, a Belmont, ma è aumentato di cinque volte a Fishtown. Anche la religione, così importante nell’immaginario morale americano, mostra la stessa divaricazione. A Belmont, gli agnostici o indifferenti sono saliti in quarant’anni dal 29 al 40 per cento.A Fishtown dal 38 quasi al 60 per cento.
Il libro di Murray ha suscitato, anche questa volta, polemiche vivaci. Gli intellettuali liberal non ne contestano i numeri, ma la loro spiegazione. Ciò che caratterizza, in questi decenni, Fishtown, dicono, è la costante erosione dei redditi, la discesa dei salari, la chiusura delle fabbriche e la perdita delle occasioni di lavoro, mentre Belmont diventava sempre più ricca. Paul Krugman, ad esempio, si chiede se sia il caso di sorprendersi se i giovani, rendendosi conto che non guadagneranno mai come i loro padri, smettono di sposarsi e condurre le loro famiglie come i loro padri: «Abbiamo creato una società, in cui molti giovani non vedono alcuna possibilità di raggiungere uno status da classe media. A questo punto, guardiamo alla loro incapacità di aderire ai valori della classe media e dichiariamo che ci deve essere qualche forza misteriosa che corrode la nostra moralità».
L’accumularsi delle polemiche non stupisce: impostare la campagna elettorale su uno scontro intorno ai valori morali, piuttosto che sulle diseguaglianze sociali e le misure per il rilancio dell’economia è l’asse intorno a cui ruota l’imminente battaglia delle presidenziali. L’analisi di Murray, però, illustra il singolare rovesciamento della politica americana di questi anni. Perché il messaggio di sviluppo di Obama dovrebbe trovare l’eco migliore fra gli impoveriti di Fishtown e quello moralista dei repubblicani fra i pii abitanti di Belmont. Invece, avviene il contrario. Proprio fra i colletti blu dei bianchi trovano più facile eco i proclami contro l’aborto, la contraccezione, gli aiuti di Stato, che Santorum, Gingrich, Romney ripetono ogni giorno e Obama, dicono le elezioni precedenti e tutti i sondaggi, parte con il maggiore svantaggio.
Mentre i laureati post-doc di Belmont sembrano i più infastiditi dall’estremismo dei candidati repubblicani e i più pronti a riportare l’attuale presidente alla Casa Bianca.
Fra le possibili spiegazioni, una ne fornisce l’inchiesta condotta, nelle scorse settimane, dal New York Times. Anche se, apparentemente, sembra complicare ulteriormente il quadro. Dall’inchiesta risulta che le aree del paese che ricevono la quota maggiore di aiuti e sussidi pubblici, in termini economici o di assistenza diretta (Fishtown, sostanzialmente), sono anche quelli dove più forte è la presa elettorale della destra estrema del Tea Party, che si batte all’insegna del meno Stato, meno aiuti, meno debito, meno tasse (sui ricchi). L’elemento cruciale che esce dalle interviste fra gli aderenti del Tea Party è l’aspro, lancinante senso di colpa di chi si rimprovera di non essere in grado di sopravvivere senza aiuti e sussidi. Non è vero che, a Fishtown, l’American way of life è morta. Anche dove non si vede, scava nel profondo della psiche americana. Purtroppo, dice Krugman.
Si è fermato il sogno americano
di Federico Rampini (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Addio sogno di rifarsi una vita lasciando il gelo del Nord per approdare qui sulla West Coast. Basta con l’illusione che tutto sia possibile giù nella Sun Belt ("Cintura del Sole"), nell’Arizona o nel Nevada dalle mille opportunità. Gli americani hanno smesso di migrare, nel loro stesso paese. La mitica mobilità interna di questo popolo è crollata. «Siamo una nazione congelata», è la definizione che coniano gli esperti, sulla base degli ultimi dati del censimento. Eccoli qua, quei dati rielaborati dai ricercatori del Carsey Institute, per i tre Stati più tipici. Arizona, Florida, Nevada: per decenni furono le destinazioni di tanti americani decisi a "ripartire": nuovo lavoro, nuova casa, nuovi progetti.
Ebbene, l’Arizona che prima della crisi aveva un afflusso medio di centomila immigrati "domestici" (cioè americani) ogni anno, ora ne accoglie meno di cinquemila. La Florida è passata da oltre duecentomila arrivi annui, ad un saldo netto negativo: meno trentamila residenti. Il Nevada vedeva entrare in media cinquantamila nuovi abitanti all’anno, ora non arriva più nessuno.
Ci sono delle micro-eccezioni, come la Silicon Valley qui attorno a San Francisco, beneficiata dai buoni risultati di Apple, Google, Facebook, nonché dal recente boom di una nuova generazione di start-up legate a Internet, alle tecnologie verdi, alla biogenetica. Qui vicino, a Mountain View o a Cupertino, continuano ad arrivare giovani superlaureati in ingegneria, matematica, medicina. Ma sono piccoli numeri in un’oasi, forse anche una "bolla". La California nel suo insieme, invece, ha smesso di guadagnare popolazione da tempo. In parallelo, gli Stati del Nord-Est da dove si partiva in cerca di un futuro migliore, hanno visto crollare del 90% le loro uscite.
È la fine di un mito americano: le migrazioni interne hanno raggiunto il minimo storico da quando le autorità federali iniziarono a misurarle, cioè dalla seconda guerra mondiale. È uno degli effetti sconvolgenti della Grande Contrazione, la crisi eccezionalmente prolungata in cui ci troviamo dal 2008. Fino a quell’anno, l’America poteva vantare una superiorità su tutte le nazioni europee: la mobilità. Geografica e sociale. Perché le due cose sono strettamente connesse. Bisogna ricordarsi (o immaginarsi) un mondo in cui è facile "chiudere bottega" lì dove non hai avuto il successo sperato, vendere la casa con tutti i mobili, partire a qualche migliaio di chilometri e trapiantarti in un altro angolo del paese dove l’economia tira, ricominciare da zero: questa era l’America fino al 2007, l’ultimo anno prima del disastro. Era un mondo davvero diverso dall’Europa, grazie a tanti ingredienti.
Ricordiamoli. La flessibilità sul mercato del lavoro, dove non esiste differenza tra "precari e non": facile essere licenziati, facile ritrovare un posto. La fluidità del mercato immobiliare, dove si comprava e vendeva casa come si fa con l’automobile. Ovviamente, anche il fatto che gli Stati Uniti sono davvero "uniti": stessa lingua, stesse leggi (più o meno), pochissime barriere per inserirsi. Tutto questo era valido fino all’anno di grazia 2007. E faceva un oceano di differenza tra l’America e l’Europa: il Vecchio continente era per antonomasia il luogo di tutte le rigidità, i localismi, le barriere.
Ora quell’idea dell’America è stata spazzata via, sotto la pressione delle due principali manifestazioni della crisi. Da un lato si è paralizzato il mercato immobiliare: con cadute fino al 40% nel valore delle case, vendere significa impoverirsi, veder sfumare un bel pezzo dei propri risparmi. «Se nessuno può permettersi di vendere o comprare casa - osserva il demografo William Frey della Brookings Institution - la stagnazione è inevitabile». D’altro lato, ed è ancora più grave, c’è una disoccupazione stabilmente elevata, a livelli europei: è il 9% della forza lavoro in media negli Stati Uniti, se si contano solo i disoccupati ufficiali, ma sale fino al 15% effettivo se si includono gli "scoraggiati" che hanno smesso di cercare e quindi non figurano nelle statistiche, oppure hanno accettato lavori part-time insufficienti per mantenersi. Ancora più nuovo, rispetto alla tradizione americana, è il dato della disoccupazione giovanile salita ben oltre il 20%: un altro sintomo di "europeizzazione".
Questo ha effetti deprimenti sulla mobilità geografica, perché tipicamente i giovani erano i più disponibili a traversare l’America in cerca di una terra promessa, un Eldorado economico dove realizzare i propri sogni. Oggi, al contrario, fanno qualcosa di impensabile: restano, o tornano, in casa dei genitori. È il fenomeno dei "bamboccioni in America", recentissimo e sconvolgente. Sabato scorso il New York Times lo ha sbattuto in prima pagina, tanto è clamoroso - e traumatizzante - in una società dove l’addio dei giovani al focolaio dei genitori era un rito d’iniziazione molto precoce. Fino al 2007, in media ogni anno si formavano 1,3 milioni di nuovi nuclei familiari: giovani single, o giovani coppie che andavano ad abitare "altrove", quindi diventavano autonomi. L’anno scorso questo numero è sceso a 950.000, con una perdita netta del 30%. Ben 350.000 giovani americani hanno dovuto rinunciare all’indipendenza, e rassegnarsi a rimanere in casa dei genitori. Qui non li chiamano "bamboccioni", bensì "generazione boomerang": avevano lasciato casa per andare al college, ora tornano indietro.
E per forza: nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni solo il 74% ha un lavoro, un altro minimo storico. Il 14,2% dei giovani adulti è costretto a vivere in casa di mamma e papà, un fenomeno mai visto prima in America (ed è ancora più elevato tra i maschi: il 19%). Questo crea a sua volta una spirale perversa. Quando l’economia tirava, e i giovani uscivano di casa presto, per ogni nuovo nucleo familiare che si formava l’economia guadagnava 145.000 dollari: tutte le spese legate all’acquisto dei mobili ed elettrodomestici per la casa, l’automobile, ecc. Ora che quei giovani restano in casa dei genitori, la loro spesa è minima e contribuisce alla depressione dei consumi.
La fine della mobilità americana ci colpisce anzitutto per la sua dimensione geografica: abbiamo sempre associato questo paese a una grande libertà di movimento, spostamenti continui da una costa all’altra, dal Sud al Nord (nella prima industrializzazione) o viceversa (dagli anni Settanta in poi). Ma l’aspetto geografico ha il suo corollario sociale. Gli americani si "spostano" meno anche sulla piramide dei ceti e dei redditi. La mobilità da uno Stato Usa all’altro coincideva con una forte ascesa nella scala sociale: i figli degli immigrati più poveri arrivati dal Messico, avevano una fondata speranza di guadagnare molto più dei genitori. Ora anche questa mobilità si è fortemente ridotta. Il che dà ragione al movimento di Occupy Wall Street, ovvero del "99%".
Per la prima volta nella storia, l’America di oggi comincia ad assomigliare alle società europee sclerotizzate, oligarchiche. Lo conferma una fonte autorevole e indipendente, il bipartisan Congressional Budget Office: il famigerato "un per cento" della popolazione americana ha visto i suoi redditi aumentare del 275% negli ultimi trent’anni. Il fenomeno della dilatazione nelle diseguaglianze sociali quindi è più antico dell’ultima crisi, in una certa misura ne è la causa. Ma con esso si è progressivamente svuotato il contratto sociale che era all’origine di questa nazione. L’idea che puoi sempre ripartire, perché c’è sempre un "altrove migliore" che ti aspetta, in questa crisi sta diventando un’illusione.
Io sono europeo
di Vittorio Cristelli (“vita trentina”, 6 novembre 2011)
Se qualcuno in una ipotetica intervista, volendo sapere la comunità di appartenenza, ci ponesse a bruciapelo la domanda “chi sei?”, molti risponderebbero: “Sono trentino, sono altoatesino, sono italiano”. Qualcuno provocatoriamente potrebbe rispondere “sono padano”. Ma nessuno probabilmente risponderebbe “sono europeo”. Eppure è a questa coscienza che dobbiamo tendere, specie oggi di fronte alla globalizzazione che dovrebbe progressivamente farci sentire cittadini del mondo. A questo ho pensato in questi giorni di fronte alla “lettera di intenti” che il Capo del governo italiano ha dovuto consegnare ai 27 Paesi dell’Eurozona e alla Commissione di Bruxelles e leggendo i relativi giudizi e reazioni.
È certo che si è trattato di un commissariamento dell’Europa nei confronti dell’Italia e del suo governo che aveva fissato tutt’altri itinerari. Le reazioni, del tipo “non prendiamo lezioni da nessuno” denotano orgoglio nazionale antistorico e ignoranza della stessa protezione che può derivare dall’appartenenza alla famiglia europea. C’è stato perfino chi ha maledetto l’Euro. Figuratevi se questi direbbero “sono europeo”!
Io non entro nel merito dei singoli provvedimenti contenuti nella lettera, che anzi qualcuno, come quello dei licenziamenti facili, può essere criticato esattamente perché non è affatto “europeo”. Si pensi, solo per un attimo a quello che Jeremy Rifkin chiama “sogno europeo” da preferire a quello americano, proprio perché condito di solidarietà specie con i più deboli. Ma scalciare perché l’Europa interviene onde impedire che l’Italia faccia fallimento, è comportarsi come un bambino che strattona e prende a calci chi lo agguanta per impedirgli di cascare nel fiume.
È vero che i richiami all’Italia sono venuti non dall’Europa politica ma dalla Banca centrale (Bce) e quindi dal mondo finanziario, ma è vero pure che finora si è realizzata solo l’Europa economica e finanziaria. L’Europa politica e culturale è ancora di là da venire. Già, parecchi anni fa Jean Monnet, uno dei fondatori della nuova Europa ebbe a dire: “Se si partisse adesso incomincerei dalla cultura”.
Questo discorso vale anche per le Chiese, che sono in ritardo rispetto all’ideale che si erano proposte. Il vescovo di Piacenza Gianni Ambrosio, delegato italiano negli Episcopati europei, così si esprime in una recente intervista: “In questo momento l’attenzione più importante è fare sì che la dizione Unione Europea diventi parte di una mentalità comune e diffusa”. Non un’Unione astratta e senza anima, ma “una vera comunità capace di solidarietà e attenta al principio di sussidiarietà”. Già, la sussidiarietà che non significa solo che non debbono fare le entità superiori quello che riescono a fare gli enti di base, ma anche che quelle devono fare ciò che gli enti inferiori non riescono a portare a termine. Donde il diritto-dovere dei richiami.
Ma le Chiese europee tutte, dalle cattoliche alle protestanti, dalle ortodosse alle anglicane hanno sottoscritto già nel 1989 a Basilea il loro progetto europeo in cui definivano l’Europa “casa comune, guidata dallo spirito di cooperazione e non di competizione”. Le “regole di casa” erano: il principio di uguaglianza di tutti quelli che vivono nella casa; la tolleranza, la solidarietà e la partecipazione; “porte e finestre aperte” e cioè contatti personali, scambi di idee, dialogo anziché violenza nella risoluzione dei conflitti. Casa aperta anche verso il futuro del mondo e del creato.
Se non ci siamo ancora è segno che anche le Chiese si sono fermate ai blocchi di partenza. “Io sono europeo” significa identificarsi in quello che Rifkin chiama “sogno europeo”. Chi non sogna però è già vecchio. Oggi si direbbe che è da rottamare.
[...] L’ex Governatore Arnold Schwarzenegger, anche mettendosi contro una parte del suo elettorato Repubblicano, un paio d’anni fa ha varato la cosiddetta SB 375, una legge che sostanzialmente impone di iniziare ad allontanarsi dal modello classico dell’american dream, ovvero un mondo fatto di villette, centri commerciali, autostrade, e centinaia di litri di benzina bruciati e scaricati nell’atmosfera per fare qualunque cosa. Uno dei capisaldi di questo mondo da cui ci si dovrebbe gradualmente allontanare, è il parco per uffici, ovvero la grande concentrazione extraurbana delle sedi di imprese, raggiungibile solo in auto, immersa nel verde, lontanissima dalle abitazioni e da tutto il resto. Apple è impresa virtuale per antonomasia, e invece cosa fa Steve Jobs? [...]
Steve Jobs Urbanista
di Fabrizio Bottini *
Come sanno gli appassionati di fantascienza, fra i mille rivoli in cui si frammenta questo ramo della letteratura contemporanea se ne possono di sicuro individuare due famiglie omogenee, che secondo la cosiddetta legge di Sturgeon si spartiscono la torta nella quota l’una di circa il 10% (la produzione che vale qualcosa), l’altra del 90% (paccottiglia allo stato puro, quando va bene). In sostanza, una piccola parte della narrativa futuristica si pone davvero problemi rilevanti, vuoi di ordine scientifico che sociale, o ambientale ecc., e li sviluppa in modo complesso e articolato cercando di farci riflettere anche sullo stato attuale delle cose. La stragrande maggioranza di ciò che compriamo in edicola, in libreria, o guardiamo al cinema e in televisione, è solo un modo come un altro per rifilarci cose già sentite e banali, travestendole più o meno elegantemente con orpelli insoliti, dai viaggi dentro le astronavi, alla vita dentro a enormi labirinti sotterranei o nelle profondità dell’oceano. Ma come capisce chiunque non basta sostituire al cappello a larga tesa e al cavallo una tuta spaziale e la velocità della luce, per passare davvero dall’avventura western a qualcosa di diverso.
Ce l’hanno insegnato sin da bambini i cartoni dei Jetsons (i Pronipoti) che si può condurre una vita del tutto noiosa e senza particolari sorprese, anche se si abita su una stazione spaziale circondata dalle stelle invece che in una villetta con giardino. Si va con mamma e papà al supermercato il sabato, salvo che i carrelli magari fluttuano in aria e le scatolette hanno forme un po’ strane. Suona il campanello della stazione spaziale, e compare il rompiscatole Sprizzi Sprazzi a cercare di venderci un aspirapolvere atomico, e via di questo passo. Ho provato una sensazione del genere dopo aver visto il breve filmato in cui Steve Jobs, con la solita buona capacità comunicativa, raccontava al consiglio comunale di Cupertino la propria “offerta che non si può rifiutare” in materia di nuova sede degli uffici Apple. Gli argomenti preliminari sono, come si può immaginare, del tutto ovvi: l’azienda cresce “come un’erbaccia infestante” e ormai si è infilata un po’ dappertutto in città, dentro a sedi proprie o meno proprie, moderne e meno moderne. Oggi scoppia, e Jobs premette il classico “vorremmo rimanere qui, dove siamo nati e cresciuti”. Figurarsi cosa ne penserebbero i nostri eroici consiglieri comunali, di veder andar via il fiore all’occhiello tecnologico e occupazionale di tutta la Silicon Valley ...
La Apple è qualcosa di molto più che non un gigante dell’high-tech: è un vero e proprio simbolo di post-modernità, tutti i suoi prodotti e anche l’immagine dell’impresa (come ben sa Jobs) contribuiscono a dare il segno alla nostra epoca. Siamo in California, anzi nel cuore socioeconomico e culturale della California, dove si dovrebbero intrecciare al meglio tutte le potenzialità, ad esempio nel rapporto fra ambiente, territorio e attività umane. L’ex Governatore Arnold Schwarzenegger, anche mettendosi contro una parte del suo elettorato Repubblicano, un paio d’anni fa ha varato la cosiddetta SB 375, una legge che sostanzialmente impone di iniziare ad allontanarsi dal modello classico dell’american dream, ovvero un mondo fatto di villette, centri commerciali, autostrade, e centinaia di litri di benzina bruciati e scaricati nell’atmosfera per fare qualunque cosa. Uno dei capisaldi di questo mondo da cui ci si dovrebbe gradualmente allontanare, è il parco per uffici, ovvero la grande concentrazione extraurbana delle sedi di imprese, raggiungibile solo in auto, immersa nel verde, lontanissima dalle abitazioni e da tutto il resto. Apple è impresa virtuale per antonomasia, e invece cosa fa Steve Jobs?
Davanti al consiglio comunale di Cupertino, Jobs racconta la sua storia di adolescente che trova il primo lavoro, tanti anni fa, alla Hewlett Packard, nella stessa città. Oggi quel campus è dismesso, perché l’azienda si è ristretta, e la Apple si è comprata tutti i settanta ettari del terreno ... per farci un nuovo office park! Seguono descrizioni dettagliate del concept plan già abbozzato dallo studio dell’archistar Norman Foster, una specie di enorme salvagente di cristallo, che come scherza lo stesso Jobs assomiglia parecchio a un’astronave. Tutto molto ambientalista e tecnologico, massimo risparmio energetico, gestione integrata di luce, acqua, rifiuti, bonifica e ripiantumazione massiccia dei terreni, niente da dire sotto questo profilo. Siamo davvero su un altro pianeta rispetto ai classici general headquarter suburbani delle grandi imprese, di solito costruiti in una logica anni ’60, e che in caso di riuso pongono enormi problemi. Ma rispunta quella vaga sensazione di trovarsi di fronte a un cartone animato dei Pronipoti: tanti spunti avveniristici, stimoli, divertimenti, ma alla fin fine non si esce dal modello che già conoscevamo, ovvero la grande sede suburbana di un’impresa, dove tutti arriveranno “da fuori” nel migliore stile del pendolarismo novecentesco, pur immersi nel verde fino al collo, ma senza alcuna integrazione urbana e sociale.
Le teorie di Richard Florida sulla cosiddetta creative class hanno molti aspetti discutibili, specie quando si osserva nella pratica il tipo di riqualificazione urbana che inducono, con espulsione dei ceti a redditi medio-bassi e relative attività commerciali e di servizio. Questo piallare verso l’esclusività interi quartieri si accompagna però a un percorso parallelo virtuoso: un vero mixed-use spaziale, dove ad esempio le potenzialità delle tecnologie sono sfruttate al massimo per lavorare da casa, dal bar, per spostarsi a piedi, in bicicletta, coi mezzi pubblici, e solo quando davvero serve o se ne ha il desiderio. Ciò consente insediamenti densi, che offrono molti servizi, in una parola centri urbani in senso proprio, del tipo che abbatte le emissioni e che è raccomandato dalla SB375 di Schwarzenegger, contro la crisi energetica e il cambiamento climatico. Invece con il campus a forma di astronave dei Pronipoti voluto da Steve Jobs nell’ex parco per uffici della Hewlett Packard si riproduce un modello di azienda suburbana concentrata classica, nonostante tutte le eccellenze ambientali.
E pensare che tante imprese, come hanno rilevato da anni gli studiosi, spinte anche dalla voglia di ritrovare bacini di manodopera qualificati e concentrati, si stanno ricollocando al centro delle regioni metropolitane, in posti densi, abitati, con tante funzioni composite. I problemi della mobilità, della eventuale dispersione fra sedi diverse, della non costante prossimità fisica nel medesimo edificio, sono cose ormai rese obsolete dalle possibilità delle comunicazioni: per un lavoro qualificato appare assai più importante avere stimoli dall’esterno che trovarsi TUTTI dentro la massiccia sede centrale della multinazionale. E invece, sotto sotto, lo stratega della Apple sembra rifiutare ciò che del futuro non gli piace: lui l’american dream lo preferisce classico, con la partenza dell’automobile dal bianco steccato tutte le mattine, e l’arrivo davanti al modernissimo ufficio una mezzoretta dopo. Che importa se nel frattempo abbiamo riscaldato l’atmosfera coi nostri scarichi, ,quello è un problema secondario, che risolveremo sicuramente con un nuovo modello di iPhone, o tavoletta multi-tutto. Insomma onore al merito, ma come dicono da secoli, diffidiamo dei profeti, anche di quelli che in qualche modo ci azzeccano.
POSCRITTO: oggi 7 ottobre 2011 alcuni osservatori americani commentano, ricordando la presentazione di Jobs al consiglio comunale di Cupertino, che probabilmente la nuova futuristica sede della Apple è da interpretare come grande opera lasciata ai posteri dal visionario imprenditore. Il che non sposta di un millimetro il giudizio, sia mio che di altri, a proposito del modello obsoleto suburbano di riferimento del progetto Jobs/Foster; nella versione dell’articolo su Mall. un paio di links in più (filmato, immagini del progetto, commenti ...)
«La Basilicata sarà il mio set preferito»
di Giulia Crivelli (Il Sole 23 Ore, 02 ottobre 2011)
Record ne ha già battuti tanti, Francis Ford Coppola. Dopo aver vinto l’Oscar come miglior film con Il Padrino, nel 1972, ripetè l’impresa nel 1974 con Il Padrino II, unico sequel nella storia ad aver vinto la statuetta. Poi c’è Sofia. Chi accusò Coppola di nepotismo per averla inserita nel cast del Padrino III ha dovuto ricredersi: i figli dei geni hanno il diritto di ereditare i cromosomi dei padri e hanno il diritto di seguire le loro orme, se dimostrano talento. È il caso di Sofia. Ma forse Francis Ford Coppola, classe 1939, un giorno verrà ricordato non solo come superbo sceneggiatore e visionario regista, ma anche come imprenditore un po’ inquieto che a un certo punto ha deciso di ribaltare l’equazione del successo. Ha smesso di fare film per divertirsi e arricchirsi e ha cominciato a divertirsi e arricchirsi con il vino, il cibo e gli alberghi di lusso per poter dirigere e produrre film senza dipendere dalle logiche dell’industria cinematografica.
Il suo portafoglio di "boutique hotel" (www.coppolaresorts.com) comprende cinque strutture. Il prossimo gioiello è italiano, Palazzo Margherita di Bernalda, in provincia di Matera. Entro l’anno l’esclusivissimo hotel (nove suite in tutto) aprirà al pubblico, dopo aver superato una prova generale di tutto rispetto: è stato proprio nel più bel palazzo del paese da cui i nonni di Coppola partirono per l’America alla fine dell’Ottocento che il 27 agosto si è celebrato il matrimonio di Sofia. Quanto al vino, Coppola non è l’ultimo arrivato: fu nel 1975 che acquistò con la moglie Eleonor una prima tenuta della Napa Valley.
Lei ha aperto il suo primo albergo, il Blancaneaux Lodge, nel 1993. Cosa l’ha spinta, dopo quasi vent’anni, a ripetere l’esperienza in Basilicata?
È in questa regione che nacquero i miei bisnonni, l’ho sempre saputo ma per molti anni non ho voluto intraprendere un vero e proprio viaggio nella memoria. La Basilicata per me era la terra raccontata dai miei nonni, non un luogo reale. Quando ho iniziato a pensare di aprire un albergo in Italia avevo in mente la Puglia, perché ho molti amici che ci passano le vacanze e me ne avevano sempre parlato come di un posto splendido non ancora preso d’assalto dai turisti. Cosa che forse da qualche tempo non è più vera. Quando sono venuto a Bernalda è stato una specie di colpo di fulmine con Palazzo Margherita. Una cosa è innamorarsi di un luogo, un’altra capire se è possibile comprarlo e trasformarlo in albergo. Un’impresa affascinante, un mestiere che ormai un po’ conosco, ma che ha delle regole molte precise e richiede grandi investimenti. Bisogna essere visionari e allo stesso tempo molto pratici. Bisogna avere un sogno, ma anche una concreta possibilità di finanziarlo.
Sembra quasi che fare l’albergatore per lei sia un po’ come fare il regista.
È proprio così. Per gli ospiti dei miei hotel metto in piedi un vero e proprio show. Le persone coinvolte sono moltissime, come in un progetto cinematografico. L’esperienza stessa del soggiorno, breve o lunga che sia, deve essere come un film. Un film di cui i clienti si sentono protagonisti. La scenografia e i costumi - cioè la struttura in sé - e la sceneggiatura, che comprende il personale, il cibo, la spa e ogni piccolo dettaglio, devono fondersi il più possibile armoniosamente. Ogni film, pardon, ogni hotel, è diverso. E ogni persona lo vive in modo diverso, proprio come ogni spettatore vede una pellicola a modo suo.
Vista la passione con cui ne parla, forse dovrei chiederle come è iniziata la sua carriera di albergatore.
Dobbiamo tornare al periodo che trascorsi nelle Filippine per girare Apocalipse Now: le riprese durarono molto più del previsto. Passai moltissimi mesi nella giungla, tanti pensano che sia un posto pericoloso, in cui si rischia in ogni istante di essere azzannati da un animale o morsi da un serpente o in cui ci può ammalare delle più terribili febbri. Non è così: basta prendere piccole metodiche precauzioni, basta rispettare la natura in cui si è immersi e la giungla diventa una sorta di grembo sicuro, di luogo avvolgente che ci fa capire da dove veniamo e come, in quanto esseri viventi, siamo parte di un ecosistema. Sviluppai un attaccamento di tipo, appunto, materno per la giungla e le Filippine in particolare e volevo comprare una tenuta lì. Ma moglie mi convinse che era un luogo troppo lontano per pensare di tornarci spesso, per quanto lo amassi. Ripiegai sul Belize, dove la giungla era altrettanto bella. Ma la distanza rimaneva e la tenuta che acquistammo negli anni 80 alla fine la godemmo pochissimo. Così decisi di trasformarla in albergo. Convertire le stanze, ripensare gli spazi, arredarli, pensare al menù e all’accoglienza fu talmente divertente che finito quel progetto non vedevo l’ora di iniziare un altro.
È chiaro che la sua non sarà mai una catena. Ogni hotel ha una personalità fortissima. Di Bernalda cosa ci può dire?
Non sarà certo l’hotel di un americano in Basilicata... È un palazzo costruito tra il 1885 e il 1892 dal podestà dell’epoca, Giuseppe Margherita. A curarne la direzione artistica abbiamo chiamato Jacques Grange, forse il miglior architetto d’interni di lusso al mondo. I suoi clienti più famosi restano Yves Saint Laurent e Pierre Berge, ma ha lavorato anche per Francois Pinault e Paloma Picasso. I lavori però sono stati fatti da aziende locali e abbiamo usato materiali e lavorazioni tipiche della Basilicata. Anche perché per ristrutturalo abbiamo usufruito di una legge italiana, la 488, e sono felice se, nel mio piccolo, potrò contribuire allo sviluppo della Basilicata.
Gli imprenditori stranieri si lamentano spesso della giungla normativa e burocratica italiana. Lei che ama le giungle come si è trovato?
Probabilmente non sarei andato lontano se non avessi creato una società ad hoc, la Mar Ionio Surl, guidata da Fabio Notarangelo, un manager di grande esperienza (nato nel 1968 a Lecce, è laureato alla Bocconi e ha lavorato a lungo in America, ndr) che però conosce e ama profondamente la Basilicata, anche se è pugliese. L’ho conosciuto, poi l’ho visto lavorare, ha seguito il progetto fin dall’inizio, dall’acquisto del palazzo in poi. E sono sicuro che lavoreremo su altri progetti.
Quali?
Non pretendo di vendere il mio vino californiano qui in Italia, ma potrei comprare dei terreni per vendere il vino italiano in America. Oppure potrei potenziare Mammarella, la mia attività nel food lucano. Ma la cosa più importante e urgente sarebbe potenziare lo scalo di Pisticci, magari creando quello che in America chiamiamo "Flight base operator", una società che gestisca i servizi aeroportuali e faciliti i collegamenti, soprattutto dall’America. Ho già trovato il nome: AirFrancis.
SI PUÒ DUBITARE DEL CAPITALISMO?
DI JACK A. SMITH -Dissident Voice *
Tra il 1900 e il 2011 ci sono state ventiquattro recessioni negli Stati Uniti (compresa la Grande Depressione), una ogni 4,6 anni, con variazioni tra un decennio e un altro, principalmente per l’inevitabile sovrapproduzione e per l’avidità.
Certo, il capitalismo è altamente produttivo e ha reso ricchi molti americani e ha facilitato il governo mondiale di Washington. È anche un sistema instabile responsabile di un’estrema disuguaglianza, di povertà, di stipendi stagnanti a casa e dell’aggressione all’estero per favorire gli interessi economici statunitensi. Ma quanto spesso questo sistema viene criticato dai mass media, dal governo e negli ambiti progressisti o liberali, anche con tutto il bordello che viene prospettato alla maggioranza degli statunitensi?
Fino agli anni recenti, praticamente mai, ma ora appena un po’ di più. La pubblicazione del 27 giugno di The Nation era dedicata ad articoli come “Re-immaginarsi il capitalismo”, tutti intenti a riformare il sistema esistente e non certo a sostituirlo, ma già è un passo avanti. Ancora in giugno il Dalai Lama ha detto a 150 studenti cinesi che studiano all’Università del Minnesota che “mi considero un marxista [...] ma non un leninista.” L’ultimo Time Magazine riporta: “Il Marxismo in rialzo su Google”.
Cosa ha reso il capitalismo così sacrosanto nella nostra società? Non è stato sempre così. Per circa sessantacinque anni dall’inizio della Guerra Fredda che ha seguito nel 1945 la Seconda Guerra Mondiale, negli Stati Uniti il socialismo e le critiche al capitalismo sono state molto discussi tra gli immigrati e i lavoratori indigeni. Molti dirigenti di movimenti di lavoratori e di sindacati si consideravano socialisti. Il grande leader sindacale Eugene V. Debs (1855-1920) ha ottenuto quasi un milione di preferenze come candidato presidenziale dei socialisti nel 1920, mentre era nel Penitenziario Federale di Atlanta per essersi opposto alla Prima Guerra Mondiale. Si dice che il Partito Comunista aveva 100.000 iscritti nel 1940.
Il fattore essenziale del silenzio odierno sulle pecche del capitalismo è dovuto al fatto che cinque generazioni di Americani, partendo dalla fine dell’800 e sempre più accanitamente dalla Rivoluzione Bolscevica del 1917, sono stati addestrati dai loro governanti e dalle istituzioni, nel corso di una vita intera, a ritenere che è il socialismo sia un pericolo assoluto per il “modo di vita americano”, per la democrazia e la libertà.
Tutto questo è stato accompagnato da alcuni periodi di caccia ai rossi, di carcerazioni di massa, di deportazioni e di repressioni politiche, che sono culminate tra il 1945 e il 1960 con la purga dei socialisti e dei comunisti dal movimento dei sindacati e con la caccia alle streghe dei politici, l’imprigionamento dei dirigenti comunisti e i licenziamenti di insegnanti, scrittori, attori, registi e di normali lavoratori da decine di migliaia di posti di lavoro. Milioni di lavoratori hanno dovuto firmare giuramenti di fedeltà.
L’anticomunismo è diventata la parola d’ordine in tutta l’America, ma l’obbiettivo reale era e rimane ancora ben più vasto, e comprende tutte le varietà di socialismo dal Marxismo-Leninismo fino alla tenue socialdemocrazia, estendendosi fino alla democrazia sociale non socialista, e in modo implicito anche al progressismo e al liberalismo quando vengono attuate le riforme.
La parola “progressisti” è stata praticamente espulsa dal lessico negli anni ’50 per un paio di decenni, quando i liberali della Guerra Fredda, i classici reazionari, i politici e i vari boss la usarono per etichettare le persone “morbide sul comunismo”. Negli anni ’90 la stessa parola “liberale” è scomparsa per circa un decennio (vi ricordate della parola “L”?), principalmente per le paure diffuse dai Repubblicani e per l’allontanamento definitivo dei Democratici dal liberalismo.
Le due parole stanno tornando in auge, anche se l’influenza liberal-progressista sembra irrisoria, principalmente per l’implosione dell’URSS e per la fine della Guerra Fredda. Naturalmente, ci sono piccole organizzazione comuniste e socialiste e riviste di sinistra negli Stati Uniti, ma le critiche per la forma priva di regole del capitalismo o per il capitalismo in quanto tale sono considerate impensabili dal resto della società. Se tutto ciò non si modificherà, le enormi disuguaglianze economiche e le distorsioni della democrazia rimarranno praticamente le stesse, perché l’anticomunismo, comunque, non metterà mai in dubbio il capitalismo.
Riteniamo che Joel Kovel abbia ben reso l’idea, alla fine del suo notevole libro pubblicato nel 1994, “Red Hunting in the Promised Land”, dove ha riportato: “L’ordine capitalistico, con tutte le sue brillanti realizzazioni, non ha avuto successo; ha solo vinto [la Guerra Fredda]. Non ci potrà essere un futuro dignitoso per gli esseri umani se il sistema esistente non verrà messo in discussione. Per questo, il superamento dell’anticomunismo è indispensabile.”
Gli americani forse vivono nel paese più ricco del mondo, dove il 10% della popolazione possiede circa il 90% della ricchezza. In una nazione di 312 milioni di persone, l’intera élite potrebbe stare tranquillamente nello Yankee Stadium, con spazio sufficiente per regalare biglietti omaggio a migliaia di individui che fanno parte dei 46,2 milioni di americani che vivono sotto la soglia di povertà.
La democrazia non potrà mai realizzare il suo pieno potenziale in queste circostanze, e il tanto vantato “sogno americano” sta velocemente scomparendo dalla vista dei lavoratori e della classe media, proprio quando il sistema economico statunitense sembra diretto verso una seconda recessione e il depotenziamento di Social Security, di Medicare e di Medicaid. Non è giunto il momento in cui gli Americani debbano chiedersi cosa ci sia di sbagliato nel capitalismo, o almeno domandarsi dove stiamo andando e a che punto siamo arrivati?
********************************************** Fonte: Dare We Question Capitalism?
17.09.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE
* http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9006
Il progresso è finito al futuro serve l’eco-scienza
Per la mentalità moderna tutto ciò che sta nel mondo è lungi dall’essere perfetto. Niente è tanto buono da non poter ricevere correzioni La presunta serie infinita di battaglie vinte contro la Natura ci ha portati davanti alla prospettiva di perdere la guerra. È il punto di non ritorno
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 17.09.2011)
L’idea di poter migliorare il mondo ha radici antichissime. E si basa sulla convinzione che l’uomo possa "correggere" la Natura piegandola alle sue necessità. Ma quello che fino a poco tempo fa era un grande modello di sviluppo rischia adesso, per i suoi eccessi, di danneggiare la vita sul pianeta. Ecco perché è arrivato il momento di usare il potere della tecnica per altri obiettivi, più sostenibili. Una sorta di eco-scienza per tutti
Il concetto di "Natura" è entrato nel nostro vocabolario con un’aura di santità: indicava la Creazione divina e, come tutto ciò che è divino, evocava l’esperienza del «numinoso», ossia quel peculiare intreccio di terrore, paura e adorazione che, come nella celebre proposta di Rudolf Otto, costituì l’avvio dell’idea di Dio e tutt’ora ne rimane la vera essenza. Per questa ragione la "Natura" significava anche un qualcosa che torreggia al di sopra della comprensione e del potere d’agire degli uomini, e con cui pertanto essi non potevano trafficare: la Natura, proprio come il Dio che l’aveva concepita e fatta venire all’essere, doveva essere riverita e adorata. La semplice idea di interferire o di immischiarsi con la Natura era ritenuta al contempo inane, implausibile e sacrilega. In verità, come ha mostrato il grande filosofo russo Mikhail Bakhtin, le elevate catene montuose e gli sconfinati mari hanno indotto fin da tempi immemorabili un «timore cosmico» che nella prospettiva di Bakhtin costituiva l’origine di ogni fede religiosa.
L’idea di ri-produrre la Natura allo scopo di costringerla a servire meglio le comodità degli uomini (idea audace, insolente, presuntuosa e per molti blasfema) è nata assieme alla modernità. La svolta moderna nella storia umana è stata equivalente, nella sua essenza, a un progetto di ricambio manageriale, ossia l’intenzione di assumere la Natura, creata da Dio benché lasciata dopo la Creazione alle sue proprie vicende, sotto la gestione degli uomini, per assoggettarne l’attività al controllo, alla progettazione e alla programmazione da parte degli uomini.
Come ha sinteticamente affermato Francesco Bacone, uno degli araldi di maggiore spicco dello spirito moderno, per comandare alla Natura occorre obbedirle. Il presupposto implicito che rendeva questa ingiunzione tanto convincente quanto attraente era che, una volta che gli uomini di sapere, ossia i praticanti della scienza emergente, avessero stilato un inventario delle ferree regole che guidavano i processi naturali, gli uomini avrebbero imparato a volgere tali regole a proprio vantaggio: cioè a ottenere, in modo regolare e invariabile, effetti positivi per il loro benessere, impedendo e prevenendo quelli dannosi e indesiderabili. Gli uomini comanderanno alla Natura obbedendo alle sue leggi: era questo in realtà ciò che voleva dire Bacone. Voltaire portò l’ingiunzione baconiana alla sua conclusione logica dichiarando che il segreto delle arti è di correggere la Natura.
Per la mentalità moderna tutto ciò che sta nel mondo è lungi dall’essere perfetto e quindi può essere reso migliore. Niente è tanto buono da non poter beneficiare di un’ulteriore correzione: cosa ancor più importante, tutto agogna a venire corretto.
Del resto non esiste niente che, in linea di principio, gli uomini non possano correggere, prima o poi, se si armano della conoscenza appropriata, degli strumenti giusti e di sufficiente determinazione. Alla fine del Settecento a questo incessante sforzo di correzione è stato dato il nome di "cultura". Esso rivendicava in questo modo come proprio archetipo le antichissime pratiche dei coltivatori e degli allevatori, sebbene esse potessero apparire limitate nelle loro ambizioni, quando le si accostava alla grandiosità mozzafiato del progetto moderno. "Natura" (cioè la condizione che non è frutto di scelta umana) e "cultura" (cioè tutto ciò che gli esseri umani erano capaci di fare per adeguarsi meglio ai propri bisogni e desideri) erano l’una contrapposta all’altra. Tuttavia la loro linea di separazione veniva considerata eminentemente flessibile e soggetta a spostarsi: si riteneva infatti che il progresso della scienza e del know-how umano fosse destinato ad ampliare il dominio della cultura, riducendo al contempo con regolarità il volume delle cose e degli eventi che opponevano resistenza all’intelligenza, all’astuzia e all’inventiva degli uomini.
Oggi, diversi secoli dopo, i tempi sono maturi per arrischiare quanto meno una valutazione provvisoria, un "bilancio di carriera" di quest’ambizione moderna di dominio della Natura. Le sensazioni che un tale bilancio susciterà saranno a dir poco contraddittorie. Da una parte è lusinghiero per l’intelligenza, l’acume e la laboriosità degli uomini, dato che la nostra capacità di sfruttare le ricchezze della Natura e volgerle a nostro vantaggio (si legga: di utilizzarle per aumentare la nostra opulenza e comodità) è cresciuta enormemente, superando di gran lunga i sogni di Bacone. Dall’altra, tuttavia, siamo ormai giunti pericolosamente vicini alla linea d’arrivo dei progressi sostenibili e plausibili. Quanto più ci avviciniamo a tale linea, tanto più diveniamo consapevoli della sua differenza radicale rispetto allo "stato ultimo" di perfezione che Bacone e Voltaire avevano immaginato. La presunta serie infinita di battaglie vinte contro la resistenza della Natura ci ha portati davanti alla prospettiva (alcuni dicono: l’imminenza) di perdere la guerra. Anzi forse, intossicati per aver vinto questa lunga striscia di battaglie, abbiamo già raggiunto il punto di non ritorno, che in questo caso significa che la sconfitta definitiva è ormai divenuta una conclusione inevitabile e irrevocabile. [...]
Più o meno una dozzina di anni fa due chimici di spicco dell’atmosfera, Paul Crutzen e Eugene Stoermer, si sono resi conto che l’epoca geologica nella quale si presumeva che vivessimo, quella nota con il nome di "Olocene", era in ogni caso passata e che siamo entrati viceversa in un’epoca diversa della storia, nella quale le condizioni planetarie sono plasmate dalle attività di origine culturale della specie umana più che da qualsiasi forza naturale (per esempio, in fattorie e altri luoghi selezionati da esseri umani si piantano molti più alberi di quanti crescano nelle "foreste naturali". Negli ultimi due secoli gli uomini hanno "sciolto" e rilasciato nell’atmosfera un volume di carbon fossile che la Natura aveva impiegato centinaia di milioni di anni per legare e ammassare). Crutzen e Stoermer hanno suggerito che questa nuova epoca meriti il nome di «Antropocene», ossia «la recente epoca dell’uomo». Ci sono voluti alcuni anni perché il resto dell’establishment scientifico prestasse dapprima riluttante attenzione, e in seguito ammettesse con crescente adesione la verità dell’intuizione di Crutzen-Stoermer...
«Attribuire una data precisa all’inizio dell’Antropocene», dicono Crutzen e Stoermer, «pare assai arbitrario, tuttavia proponiamo l’ultima parte del diciottesimo secolo (...). Scegliamo questa data perché, nel corso degli ultimi due secoli, gli effetti globali delle attività umane sono divenuti chiaramente notevoli. Questo è il periodo nel quale i dati recuperati dai nuclei dei ghiacciai mostrano l’inizio di una crescita nella concentrazione atmosferica di diversi "gas serra" (...). Una tale data d’inizio coincide anche con l’invenzione del motore a scoppio da parte di James Watt, nel 1784...».
Il messaggio trasmesso dagli studi di Crutzen e dei suoi collaboratori e seguaci dice che è molto tardi, ma non ancora troppo tardi, per cambiare la direzione di tendenza dell’Antropocene e del culturale-che-si-fa-naturale. La distruzione del pianeta non è (quanto meno finora) assolutamente una conclusione inevitabile. I nostri nuovi saperi e il nostro impressionante potere tecnico possono ancora venire reimpiegati per rendere il pianeta meno, non più, vulnerabile, e per innalzare, invece che per diminuire, la qualità della vita. Quel messaggio va inteso come un segnale d’allarme e una chiamata alle armi. Il punto è, tuttavia, che non si deve oltrepassare il punto in cui la chiamata alle armi si trasforma in una campana a morto...Come suggerisce il termine stesso "Antropocene", l’agire umano è divenuto una forza critica nel determinare il destino di un sempre più ampio spettro di sistemi biofisici. Una conseguenza di questo spartiacque è che qualsiasi tentativo di spiegare la condotta o di prevenire il futuro delle condizioni di vita sul pianeta deve partire rivolgendosi all’agire umano culturalmente connotato. Come sempre, quanto più grande è la vittoria (in questo caso, della cultura sulla natura), tanto più grandi sono le responsabilità che ne conseguono.
Il nostro futuro è ancora in bilico, così come le opzioni aperte a tutti noi che lo abbiamo a cuore. La giuria, come si suol dire, è ancora riunita. Ma ormai è ora di rientrare con il verdetto. Quanto più a lungo la giuria resta riunita, tanto più grande sarà la probabilità che sia costretta a scappare dalla camera di consiglio perché sono finite le bibite fresche... Traduzione di Daniele Francesconi
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Le nostre città? Sono nate per nostalgia
Da Caino e Abele alle metropoli
Al FestivalFilosofia lo studioso spagnolo affronterà il tema dell’abitare citando i miti della creazione: l’umanità ha innalzato edifici, violando la Terra, in segno di sfida al Paradiso perduto
di Felix Duque (l’Unità, 16.09.2011)
Ogni ordine sociale espelle la natura nella quale esso stesso si è costituito. E tuttavia, sono forse lo stesso «terra» e «natura»? Il trionfo dell’artefatto, che coincide con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata o della macchina intelligente sugli esseri intramondani, può cedere il posto all’abitare? (...) Non sarà necessario, per cominciare, concepire in altro modo l’industria edilizia, un tempo chiamata «architettura» (con la sua estensione civica: l’«urbanistica»)? Un compito difficile, questo, e forse dissennato. Ma per tentare di portarlo a termine, può essere conveniente retrocedere all’origine mitica della città, esposta nei grandi racconti cosmogonici e antropogonici fondatori della nostra cultura. In essi ci si imbatte, frontalmente, non senza stupore, in un’assenza: in essi non si fa menzione, infatti, dell’abitazione dell’uomo come donazione divina. Questa compare in ogni caso solo dopo, come risultato o anticipazione di un crimine. Così, nell’origine stessa della Città, secondo quanto ci è stato trasmesso miticamente, brilla l’opposizione al Théos e, al contempo, si mette in rilievo il suo debito verso la Tecnica. Una cosa è perciò chiara fin dall’inizio: la città degli uomini non è una donazione del dio, bensì un atto di ribellione contro di esso (come se dicessimo: un rifiuto di seguire istruzioni già scritte e prescritte in un codice genetico); un atto tecnico, che ha bisogno della connivenza segreta della forza sostenitrice della terra (disprezzata giustamente nei frutti e nei doni da parte del Signore). La Città non prolunga il Giardino: si erge contro di esso. Per verificarlo, basta aprire dall’inizio il libro nel quale, secondo l’Occidente, sono radunati tutti i libri.
Nel Genesi si dice: «Piantò poi Iahvé Dio un giardino nell’Eden, verso oriente, e lì pose l’uomo che aveva formato». Il giardino, l’oasi, è limitato orizzontalmente dal deserto (o meglio, il deserto Eden solo quando viene piantato al suo centro il giardino appare come tale per la prima volta: viene così determinato, definito) e verticalmente è coperto dalla volta celeste. Solo dopo la cacciata dal paradiso e il posteriore assassinio del nomade Abele troviamo il primo riferimento ad una città, legata non solo a quel fratricidio, ma soprattutto ad un’arguzia tecnica per evitare la maledizione di Iahvé, per evitare il destino.
Dio aveva infatti deciso di rinnegare il tratto distintivo di Caino: la vita sedentaria del contadino. Lo avverte infatti che quando coltiverà la terra, essa gli negherà i suoi frutti e aggiunge: «vagherai per essa fuggiasco ed errante». E tuttavia, contro l’esplicita volontà divina, il contadino Caino non solo non si «riconverte» alla vita nomade del pastore (nomade e pastore sarà invece il nuovo Abele: Abramo, fondatore del Popolo Eletto), bensì «lontano dalla presenza del Signore» mette le radici nel doppio senso della parola: fa un figlio e fonda una città (la prima): «Esso (Caino) si mise a costruire una città, alla quale diede il nome di Enoc, suo figlio».
E così, l’uomo Caino (l’uomo di città, «civilizzato») stabilisce la sua dimora sub contrario: contro la terra che secondo la maledizione divina gli avrebbe negato i frutti -, e contro il cielo ostile e minaccioso. Letteralmente, l’abitazione umana si erge da allora, sfidante, in mezzo all’inospite (lo spaesante: ciò che rinnega ogni paese e ogni paesaggio). Per un verso, la prima città è stata edificata proprio per separarsi verticalmente dal cielo, attraverso la costruzione e la copertura delle case, come difesa contro un cielo che non sarà mai più protettore. Per altro verso, la città si espande orizzontalmente, separandosi dall’altro, dalla terra che da allora sarà sfruttata e allontanata, attraverso una cerchia divisoria, con delle mura difensive (si noti che, in inglese, town, «città», ha la stessa origine del termine tedesco zaun, «cerchia»).
Orbene, da questo asse derivano tre riflessioni. La prima riguarda la terra, che viene obbligata a ripiegarsi su se stessa e contro se stessa, per così dire, creando in questo modo una differenza tra città e campagna. Nasce così la «natura», contrapposta al mondo degli uomini, cioè la «cultura» e la «storia». Una volta proiettata questa distinzione sul mondo delle cose, ne segue un’altra, che rimanda alla mano e allo sguardo dell’uomo, ovvero la distinzione tra il naturale (che conterrebbe in sé il principio del proprio movimento) e l’artificiale (ciò che è creato, modificato e messo in moto dalla violenza tecnica).
La seconda riflessione implica l’arguzia del postporre: se ogni individuo naturale deve morire, le stirpi invece si vorranno immortali come la città che costruiscono (per il greco, la pólis è lo zoôn megistón, l’«essere vivente» più alto, presumibilmente perché non morirà). Ma l’assoggettamento continuo della natura da parte della cultura e della storia umana (ovvero, il predominio della linea evolutiva della perfezione contro il tempo ciclico delle stagioni), porterà al sogno della congiunzione della Città cosmica (Cosmópolis), abitata da un’Umanità unificata.
La terza riflessione riguarda immediatamente il nostro argomento: l’abitante della città non abita la terra. Anzi, al contrario, crede di rinnegarla. Infatti, aprire un luogo implica una divisione, un’incrinatura nel continuum della chôra, della mobile nutrice del territorio, trasformata dall’azione dell’urbanizzazione. Da allora, sia nell’interno rinnegato che nella campagna asservita (i contadini) si procede alla deforestazione, all’incendio e alla distruzione di antichi luoghi fisici e spirituali (e, spesso, alla distruzione e alla sottomissione delle genti che lì vivevano). Quindi, sarà sempre troppo tardi tranne per la cattiva coscienza e il pentimento, tardivo per definizione abitare la terra come se fosse la prima volta. Abitare nella città implica violentare la terra.
È forse allora impossibile abitare la terra a meno che non si torni ad una presunta natura vergine? Oppure al cielo promesso? Ma si noti ciò che ho detto: come se fosse la prima volta. Non sarà questo sogno di tornare all’origine, questo sogno di purezza, ciò che ci impedisce anche solo di immaginare come andrebbe abitata la terra? (...)
APERTO-CHIUSO
Che cosa brama, infatti, l’uomo di città, cioè tendenzialmente ognuno di noi? Ovviamente, brama il contrario dell’Aperto senza limite: brama la negazione e la lottizzazione, la determinazione e la distribuzione. Perché solo in questa primigenia agrometria si può dare la luce del giorno, la vita sociale, il tempo della storia. Perciò, prendendone le misure, aspira a trasformare la natura in paese, il territorio in paesaggio: ciò che lo circonda, insomma, in medio ambiente. Ma proprio per questo deve riconoscere che l’abitazione umana si erge in mezzo all’Unheimlich, in mezzo allo spaesante (ciò che è fuori da ogni paese e da ogni paesaggio; in tedesco: Wildnis, il selvaggio). E tuttavia, essendo animale di terra (Adamo di Eden), l’uomo cela dentro di sé la nostalgia animale: la nostalgia di qualcosa di perduto già da sempre: l’affermazione pura. (...)Solo che oggi, e in modo certamente patetico e perfino comico (sensu hegeliano), questa nostalgia si è scissa nei due ambiti cosmici: l’una si dirige verso la costruzione di una città legata ad una natura ben disposta, nel senso volgare dell’Eden; l’altra tende verso la città che, come Babele, possa raggiungere il cielo. Da una parte, la città inserita in una natura-pastiche, trasformata artificialmente in «vergine», come nel caso dei villaggi-vacanze in paesi esotici. Dall’altra, la città-movimento: Metropoli. Entrambi i movimenti convergono nelle megalopoli attuali.
©Consorzio per il festivalfilosofia (Traduzione di Valerio Rocco)