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"DOLLARO TITANIC". L’economia e la teologia del dio Mammona ("Deus caritas est") è finita!!! Il dio Dollaro è al tramonto. Una nota di Vittorio Zucconi - a cura di pfls

domenica 18 novembre 2007.
 

Il tramonto del dio Dollaro

di Vittorio Zucconi *

WASHINGTON Dollaro. La parola tintinna alle orecchie del mondo con il suono di quei talleri d’argento boemo ai quali deve il nome. Evoca sogni di ricchezza, ma soprattutto di sicurezza, di forza e di egemonia, come un transatlantico inaffondabile tra la flotta di barchette e navigli monetari sballottati dalle onde delle periodiche “tempeste valutarie”.

Vederlo oggi imbarcare acqua speronato dall’euro, dalla sterlina, dal franco svizzero, persino dall’umile dollaro canadese, che gli statunitensi avevano sempre guardato come tagliando per il Monopoli, è molto più che un problema finanziario o una questione di commerci. È lo shock di scoprire che una supremazia apparentemente inattaccabile, espressione e strumento insieme della supremazia dell’America sul mondo, sta facendo acqua e rischia di essere un altro dei caduti sotto i colpi della presidenza Bush.

Il dollaro è da settant’anni più di uno strumento valutario, di una moneta rifugio o di una riserva custodita nei forzieri delle nazioni, o nei conti numerati dei despoti e dei trafficanti: è la bandiera che i marines e i fanti sbarcati nelle isole del Pacifico e sulle spiagge di Normandia piantarono, anche acquistandola con le loro vite, sul mondo.

A noi passeggeri sul “dollaro Titanic”, qui a bordo del transatlantico America che ignora la crisi dell’almighty dollar, la sola moneta che avesse meritato l’aggettivo riservato al Signore onnipotente, il sentimento di stupore del mondo arriva attutito, lontano. Tra la completa indifferenza del comandante e degli ufficiali in plancia, che guardano con benign neglect, con benevola negligenza la deriva della nave, ben contenti che i rapporti di cambio ostacolino le importazioni mentre favoriscono le esportazioni e ingrossano i profitti delle multinazionali che fatturano anche in euro, l’America dello shopping natalizio e dei saldi non avverte ancora le scosse. L’orchestra dei consumi, quella che fa ballare due terzi dell’economia americana, continua a suonare.

La celebre frase di Richard Nixon che nel 1971, nel pieno di un altro uragano monetario, rispose al presidente della Fed, Arhur Burns, preoccupato anche per la lira italiana, «io me ne strafotto della lira», suona oggi autoironica. È la Casa Bianca che sembra “strafottersene del dollaro” ed è la barchetta lira, diventata la corazzata euro, a infischiarsene della moneta verde.

Agli elettori dell’America repubblicana, che guida Chevrolet e Ford, fa acquisti negli hangar commerciali della più grande catena di discount al mondo, la Wal- Mart, mangia carne macellata in Nebraska, patate raccolte in Idaho e indossa camicie cucite in Cina pagate pochi centesimi all’ora, l’affondamento del dollaro ben poco interessa. È l’America della “costa blu” e della “riva di sinistra”, la California, delle sponde oceaniche dove milioni di senza documenti sudano per mandare a casa dollari che comprano sempre meno, si calzano scarpe italiane, si guidano auto tedesche e si sogna la vacanza in Toscana-Italia, è questa l’America dove l’anemia della valuta americana pesa. E qualcuno insinua, come il finanziere James Cramer, conduttore di uno show di Borsa, che a Bush non dispiaccia troppo punire gli snob che comunque non voteranno mai repubblicano o le rimesse di quegli immigrati che in California votano democratico. Ma né a Manhattan né a Omaha, né a San Francisco o a Cincinnati, ci sono quei segnali di panico che avrebbero travolto l’Italia, se avesse visto la vecchia lira affondare.

Sono i centri studi, gli osservatori che cercano di guardare oltre l’orizzonte dello shopping e dei soliti cicli di boom and crash, come quelli che stanno squassando il mercato degli immobili e dei mutui, quelli che annusano il cambio epocale di clima. «Ormai il mondo ha due monete di riferimento, l’euro e il dollaro, non più soltanto una, il dollaro», avvertiva già nel 2003 il Cato Institute di Washington, e soltanto perché la Cina, che insieme con il Giappone ha la massima quantità di cambiali del Tesoro americano nelle proprie riserve, puntella ancora la valuta Usa, il “Signore onniponte” non tracolla. Ma l’universo statico dei cambi, costruito a Bretton Woods sopra l’egemonia politica, militare e culturale degli Stati Uniti dominanti, è divenuto una galassia fluida, un sistema a due soli, per ora. Almeno fino a quando la Cina dovesse decidere di calare la carta del proprio yuan e commerciare utilizzando la propria moneta.

Di questa rivoluzione, che sta portando alle conseguenze inevitabili quello che accadde nel 1971 quando Nixon fu costretto ad abbandonare la parità fra dollaro e oro per impedire il saccheggio dei lingotti di Fort Knox compiuto soprattutto dalla Banque de France, il pubblico che grida felice sugli ottovolanti di Disneyworld, che intinge patatine fritte nel ketchup di McDonald’s, che lotta contro le compagnie di assicurazione per le cure mediche, nulla sa. I grandi media popolari, e anche i giornali di qualità, ignorano il fatto che il dollaro americano si sia dimezzato di valore rispetto all’euro nell’arco di cinque anni, da quando bastavano 75 centesimi di dollaro per comperare un euro, al corso di questi giorni quando ne occorrono praticamente il doppio, 145 centesimi. L’universo di Internet, pronto a vibrare per ogni voce sulle possibili relazioni saffiche di Hillary Clinton o sulla biancheria mistica indossata dal mormone Mitt Romney, dorme di fronte al colossale debito americano, ai miliardi di buoni del Tesoro accatastati nelle casseforti di Cina e Giappone, al rischio di inflazione che sempre la svalutazione della propria moneta comporta.

È l’autismo valutario di una nazione abituata a considerare appunto “Dio” la propria moneta, che resiste anche alle voci terrificanti di un possibile passaggio in massa dei produttori di greggio dal dollaro all’euro. O alle non più tanto velate minacce - l’ultima è dell’agosto scorso - dei cinesi, che meditano di passare dal dollaro alla valuta europea come principale strumento di riserva. Nella autoreferenzialità di questa amministrazione Bush, ipnotizzata dalle sirene del “nuovo secolo americano”, non si sente una voce autorevole, né alla Fed né al Tesoro, riflettere su quale fondamentale ruolo abbiano giocato il dollaro, la sua centralità assoluta, il suo essere il danaro del commercio, delle riserve, dell’ultimo rifugio, nel creare il secolo americano vero, il Ventesimo. La fissazione della forza militare ha fatto dimenticare che senza l’egemonia culturale e l’egemonia finanziaria, le armi da sole non sostengono un impero, neppure se si crede un impero del Bene.

Qualche pensionato che fino a ieri attraversava le frontiere con il Canada e il Messico per rifornirsi di medicinali a minor costo in quelle nazioni, sta scoprendo amaramente che il vantaggio di cambio è svanito e il dollaro non arriva più lontano come un tempo, né viene accolto come il messia. Gli immobiliaristi di New York si consolano al pensiero dei futuri acquirenti europei e asiatici che, come accadde già negli anni effimeri dello yen giapponese trionfante, sbarcheranno per accaparrarsi appartamenti e palazzi in saldo.

Ma nel fondo della coscienza popolare, l’idea che quella moneta con la sua inconfondibile S barrata stia diventando soltanto una delle tante valute in un mondo che è costretto ancora a tenerla nelle riserve, senza più desiderarla, non è ancora penetrata. Soltanto chi ha speculato un anno fa, o ancora sei mesi or sono, sul grande ritorno del transatlantico verde, ha scoperto che quel pugno di dollari si è trasformato in un pugno di mosche.

* la Repubblica, 18.11.2007


Sul tema, nel sito, si cfr.:

"IN GOD WE TRUST": TUTTO A CARO-PREZZO ("DEUS CARITAS EST")!!!

-  LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).

-  "Deus caritas est": la verità recintata!!!

-  DIO E’ VALORE ("CARITAS") E HA LA SUA LOGICA: "LE FEDI COME LE AZIENDE ASPIRANO AL MONOPOLIO". Una recensione di Paolo Mieli, del libro di Philippe Simonnot, "Il mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam".


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