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ALLA RICERCA DELL’ "ARCA PERDUTA". LA BUONA-DUALITA’, L’AMICIZIA E LA SCOPERTA DI SE’. Galimberti risponde a una lettera di Rita Guerzoni e cerca di andare oltre "gli equivoci dell’anima" - a cura di Federico La Sala

martedì 29 aprile 2008.
 
[...] Tuteliamo l’amicizia. Forse è l’unico spazio che ci rimane per un residuo di sincerità, una sorta di riunificazione con noi stessi dalla dissociazione che ci è imposta, una forma di autoriconoscimento secondo quel modulo che Platone ci indica là dove dice: "Se uno, con la parte migliore del suo occhio guarda la parte migliore dell’occhio dell’amico, vede se stesso" [...]

Nell’amicizia la scoperta di sé

Epicuro annovera l’amicizia tra i piaceri puri perché, a differenza dell’amore, è scevra dal dolore

Risponde Umberto Galimberti *

È con rispetto e gratitudine che la ringrazio per quelle "invocazioni" all’amicizia ritmate sull’invocazione a quello Spirito di cui l’amicizia s’impregna e irradia, quando oltrepassa la nostra miseria e si fa "nella fatica, riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto".

È dell’amico, infatti, questa capacità di scuoterti, di farti rinsavire, di farti "rientrare" in te stesso, di metterti in contatto con la parte migliore di te. Perché il suo sguardo è lo sguardo dell’altro che indaga il tuo cuore e lo scruta, perché se è sincero non può non dirti ciò che per te è bene. E, allo stesso modo, ciò che per te è male.

La mancanza di tempo è un alibi, e quanto poco ne avevamo quando passavamo le ore a parlare con gli amici! Perché era un bisogno, un’esigenza così forte da anteporle il sonno e lo studio, la famiglia e il dovere! È questo bisogno che mi ha fatto riagganciare con le unghie e coi denti amicizie che si erano perse nel tempo e nella fretta. E posso annoverare il tempo speso con loro tra il più ricco della mia vita. E mi danno gioia e serenità le certezze di quel che sono per loro, di ciò che loro sono per me.

-  Rita Guerzoni, Finale Emilia (Modena)
-  rita.guerzo@tiscali.it

Il nostro tempo è caratterizzato o da solitudini di massa, ciascuno davanti al suo computer, vittime di bulimia informatica per non perdere neppure un frammento di mondo, o adunate di massa in occasione di concerti, o davanti a maxischermi per le partite di calcio, o in piazza San Pietro ad applaudire parole di fede o di speranza, ma non più l’amicizia, che è quel rapporto duale che evita alla solitudine di impazzire e alla gran massa di affogarci. Oggi "amicizia" è diventata una parola che cataloga amori che non si vogliono svelare, rapporti coniugali resi esangui dalla quotidianità, conoscenze utili a scambi di favori, relazioni ipocrite che un giorno possono rivelarsi vantaggiose. Nulla di più, nulla di autentico, ma soprattutto nulla che possa dare espressione a quel bisogno di narrazione, di racconto, di immaginazione, di allusione, di cui si nutre la nostra anima quando nei fatti vuol trovare dei significati, nel dolore un argine, nella gioia una comunicazione, nella monotonia della ripetizione un lampo di novità.

Tutto ciò non è possibile nella solitudine dove il dolore dilaga e la gioia resta inespressa, e neppure nella gran massa che concede espressione solo all’applauso o allo slogan, ma unicamente nell’amicizia, dove la parola si fa affabulatoria, immaginifica, confidenziale, segreta e soprattutto fuoriesce dalla "concretezza", oggi da tutti invocata ed eretta a valore, che altro non è se non un limitarsi del linguaggio, un controllo delle parole, uno stare ai fatti, come richiede il "sano realismo" degli uomini di poche parole, a cui non verrebbe mai in mente di chiedere alla luna "che ci fa in cielo" o a se stessi "che ci fanno qui sulla terra".

In solitudine queste domande restano inespresse o soffocate. In mezzo alla gente che quotidianamente frequentiamo possono generare qualche sospetto, perché sono domande troppo cariche di senso per poterle esplorare in solitudine, e troppo fuori dall’usuale per poter essere accolte in pubblico come domande "serie". Eppure queste sono le domande di cui si nutre l’anima, domande poco realistiche ma cariche di simbolismo, per dare spazio alle quali gli antichi Greci, accanto al singolare e al plurale, avevano inventato il "duale", che è lo spazio dell’amicizia, dove ogni parola che rinvia a un’eccedenza di senso non rischia di apparire parola folle, perché l’ascolto dell’amico non è solo un ascolto razionale, ma aperto a tutti gli sconfinamenti di senso, che è prerogativa del cuore.

Ma dove trovare il tempo? Si giustificano i più. Non a caso l’amicizia è diffusa tra i giovani che hanno a disposizione tanto tempo, e riprende in età senile quando non si ha null’altro a disposizione che il tempo. Ma che dire di una cultura che concepisce l’amicizia come una "perdita di tempo"? Non inganniamoci. Non è il tempo che ci manca, è la capacità di stare l’uno con l’altro in quella forma intermedia che non è la fusione dell’amore e neppure l’anonimato dei rapporti impersonali perché solo funzionali, è la capacità di muoverci in quella zona di confine tra le prescrizioni della ragione e quegli sprazzi di follia che di continuo attraversano la nostra anima e che solo l’amicizia sa accogliere. Perché proibirci questo spazio? Quale spietata tirannide ci impone di stare ai fatti e a nient’altro che ai fatti?

Tra l’anonimato del pubblico e la solitudine del privato vogliamo conservare quello spazio intermedio, propiziato dall’amicizia, che ricuce quella dissociazione a cui la nostra cultura ci costringe quando ci obbliga a non essere mai in pubblico quel che veramente siamo, e a vergognarci un po’ in privato delle nostre pubbliche performance. Tuteliamo l’amicizia. Forse è l’unico spazio che ci rimane per un residuo di sincerità, una sorta di riunificazione con noi stessi dalla dissociazione che ci è imposta, una forma di autoriconoscimento secondo quel modulo che Platone ci indica là dove dice: "Se uno, con la parte migliore del suo occhio guarda la parte migliore dell’occhio dell’amico, vede se stesso".

A meno che ciascuno non sia diventato per se stesso il maggior ingombro da evitare, qualcuno con cui non si sa che rapporti avere, qualcuno da evitare, quando non da affogare con le cose da fare, per non trovarci mai a tu per tu con questo sconosciuto che lo sguardo accogliente dell’amico potrebbe incominciare a raccontare, a delinearne i contorni, a propiziarci l’incontro. È infatti la scoperta di noi quello che l’amicizia favorisce e propizia.

* la Repubblica/D, 26.04.2008.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

FURTO O DONO? LA CECITA’ DEL DESIDERIO, LA NEGAZIONE DELL’ALTRO, E "LA VITALITA’ DELLA NOSTRA ESISTENZA". La risposta "ambivalente" di Umberto Galimberti a una lettera di Giuseppe Ferrara


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