Speculazione, ricatto al debito
Spesso i socialisti europei denunciano con virulenza la finanza, che regna in modo assoluto sul globo e che converrebbe regolamentare in modo migliore. Inoltre bisognerebbe sapere di che cosa e di chi si parla, perché l’immagine incorporea dei «mercati» ha l’effetto di lasciare nell’ombra i beneficiari della crisi e delle misure di austerità in corso.
Jeoffrey Geuens, professore incaricato presso l’Università di Liegi, autore di La Finance imaginaire. Anatomie du capitalisme : des «marchés financiers» à l’oligarchie, Aden, Bruxelles, 2011
(traduzione dal francese di José F. Padova)
di Jeoffrey Geuens Le Monde Diplomatique, maggio 2012, pagg. 1, 4-5
Passato dalla banca pubblica alla finanza privata, e da François Mitterrand a François Bayrou, Jean Peyrelevade spiegava nel 2005: «Il capitalismo non è più percepibile direttamente. (...) Rompere con il capitalismo è rompere con chi? Mettere fine alla dittatura del mercato, fluida, mondiale e anonima, è prendersela con quali istituzioni?» E questo ex direttore aggiunto del gabinetto del primo Ministro Pierre Mauroy conclude: «Marx è impotente in mancanza di un nemico identificato (1)».
Deve veramente meravigliare che un rappresentante dell’alta finanza - presidente di Banca Leonardo France (famiglie Albert Frère, Agnelli e David-Weill) e amministratore del gruppo Bouygues - neghi l’esistenza di un’oligarchia? Ancora più strano è il fatto che i media dominanti si palleggino l’un l’altro questa immagine incorporea e spoliticizzata delle potenze finanziarie. I servizi giornalistici sulla nomina di Mario Monti al posto di presidente del Consiglio italiano potrebbero, a questo riguardo, costituire molto bene l’esempio perfetto di un discorso-schermatura che evoca «tecnocrati» ed «esperti» là dove viene costituito un governo di banchieri. Si è potuto perfino leggere sul sito Web di alcuni quotidiani che «personalità della società civile» avevano appena preso il comando (2).
Poiché l’équipe di Monti conta nei suoi ranghi anche professori universitari, da parte dei commentatori si stabiliva in anticipo la scientificità della sua politica. Solo che, osservando più da vicino, la maggior parte dei ministri facevano parte dei consigli d’amministrazione dei principali trust della Penisola.
Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, è presidente-direttore generale della banca Intesa Sanpaolo; Elsa Fornero, ministro del Lavoro e professore d’economia all’Università di Torino, è alla vicepresidenza d’Intesa Sanpaolo; Francesco Profumo, ministro dell’Educazione e della ricerca, rettore del Politecnico di Torino, è amministratore di UniCredit Private Bank e di Telecom Italia - controllata da Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca e Telefónica - dopo essere passato in Pirelli; Piero Gnudi, ministro del Turismo e dello sport, è amministratore di UniCredit Group; Piero Giarda, incaricato delle Relazioni con il Parlamento, professore di finanza pubblica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è vicepresidente del Banco Popolare e amministratore di Pirelli. Quanto a Monti, è stato consulente di Coca-Cola e di Goldman Sachs e amministratore di Fiat e Generali.
Porosità fra due mondi
Se i dirigenti socialisti europei non hanno ormai più parole abbastanza dure per denunciare l’onnipotenza dei «mercati finanziari», la riconversione degli ex tenori del social-liberismo avviene senza che i loro antichi compagni manifestino troppo rumorosamente la loro indignazione. Già primo ministro dei Paesi Bassi, Wim Kok è entrato nei consigli d’amministrazione dei trust olandesi Internationale Nederlanden Groep (ING), Shell e KLM. Il suo omologo tedesco, l’ex cancelliere Gerhard Schröder, si è anch’egli riqualificato nel privato, come presidente della società Nord Stream AG (joint-venture Gazprom - E.ON - BASF - GDF Suez- Gasunie), amministratore del gruppo petroliero TNK-BP e consulente per l’Europa di Rothschild Investment Bank. Questa traiettoria, a prima vista sinuosa, non ha in realtà nulla di singolare. Molti ex membri del suo governo, appartenenti al Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), hanno anch’essi barattato l’abito di Uomo di Stato per quello di Uomo d’Affari: l’ex ministro dell’Interno Otto Schily è attualmente consulente del trust finanziario Invest-Corp (Bahrein), dove ritrova l’ex Cancelliere austriaco, conservatore; Wolfgang Schüssel, il vicepresidente della Convenzione Europea Giuliano Amato o ancora Kofi Annan, ex Segretario generale delle Nazioni Unite (ONU). L’ex ministro tedesco dell’Economia e del lavoro, Wolfgang Clement, è partner della società River-Rock Capital e amministratore di Citi-Group Germania, Caio Koch-Weser, segretario di Stato alle Finanze dal ’99 al 2005, è vicepresidente di Deutsche Bank. Infine, il ministro delle Finanze del primo governo di Angela Merkel, Peer Steinbrück, SPD, è amministratore di Thyssen-Krupp. Quanto ai «degni eredi» della signora Margaret Thatcher ed ex dirigenti del Partito Laburista, hanno fatto a loro volta atto di sottomissione all’alta finanza: l’ex ministro degli Affari esteri David Miliband fa il consulente delle società Vantage-Point Capital Partners (Etats-Unis) e Indus Basin Holdings (Pakistan); l’ex Commissario europeo al commercio, Peter Mandelson, lavora per la banca d’affari Lazard; lo stesso Anthony Blair accumula i posti di consulente della società svizzera Zurich Financial Services e di gestore del Fondo d’investimenti Lands‑downe Partners con quello di presidente del Comitato consultivo internazionale di JPMorgan Chase, al fianco di Kofi Annan e di Henry Kissinger.
Questa enumerazione, che ci spiace dover infliggere ai lettori, si rivela nondimeno indispensabile quando i media omettono tenacemente di esporre gli interessi privati delle personalità pubbliche. Oltre alla porosità fra due mondi che di buon grado descrivono sé stessi come distinti fra loro - se non addirittura opposti -, l’identificazione dei loro agenti doppi è necessaria per una buona comprensione del funzionamento dei mercati finanziari.
Così, e al contrario di un’idea in gran voga, la finanza ha una faccia, o piuttosto molte (4). Non già quella del pensionato della Florida o del piccolo azionista europeo, compiacentemente dipinti dalla stampa, ma piuttosto quelle di una oligarchia di proprietari e di gestori di ricchezze. Peyrelevade ricordava nel 2005 che lo 0,2 % della popolazione mondiale controllava la metà della capitalizzazione in Borsa del Pianeta (5). Quei portafogli sono gestiti da banche (Goldman Sachs, Santander, BNP Paribas, Société générale, etc.), da società d’assicurazioni (American International Group [AIG], Axa, Scor, etc.), da fondi di pensioni o d’investimenti (Berkshire Hathaway, Blue Ridge Capital, Soros Fund Management, etc.); tutti istituti che investono ugualmente capitali propri.
Questa minoranza specula sul corso delle azioni, dei debiti sovrani o delle materie prime grazie a una gamma pressoché illimitata di prodotti derivati, che rivelano l’inesauribile inventiva degli ingegneri finanziari. Lungi dal rappresentare l’esito «naturale» dell’evoluzione di economie mature, i «mercati» costituiscono la punta di diamante di un progetto che gli economisti Gérard Duménil et Dominique Lévy definiscono «concepito in modo d’accrescere i redditi delle classi superiori (6)». Un successo innegabile: il mondo conta ormai circa 63.000 «centomilionari» (che detengono al minimo 100 milioni di dollari), i quali rappresentano una ricchezza combinata di circa 40.000 miliardi di dollari (ovvero un anno del PIL mondiale).
Irresponsabili diventati «saggi»
Questa personificazione dei mercati può rivelarsi imbarazzante, tanto che talvolta è più comodo sfidare i mulini a vento. «In questa battaglia che si inizia vi dirò qual è il mio vero avversario», aveva tuonato il candidato socialista all’elezione presidenziale francese, François Hollande, in occasione del suo discorso del Bourget (Seine-Saint-Denis), il 22 gennaio scorso. «Non ha nome, non ha volto, non ha partito, non presenterà mai la sua candidatura, quindi non sarà mai eletto. Questo avversario è il mondo della finanza». Attaccare i reali protagonisti dell’alta banca e della grande industria avrebbe ben potuto portarlo a fare il nome dei dirigenti dei fondi d’investimento, che decidono, pienamente consapevoli, di lanciare attacchi speculativi sui debiti dei Paesi dell’Europa meridionale. O ancora, a mettere in discussione i doppi ruoli di alcuni suoi consiglieri, senza dimenticare quelli dei suoi (ex) colleghi socialisti europei passati da una multinazionale all’altra.
Scegliendo come direttore della sua campagna elettorale Pierre Moscovici, vicepresidente del Circolo dell’industria, una lobby che riunisce i dirigenti dei principali gruppi industriali francesi, il candidato socialista segnalava ai «mercati finanziari» che alternanza socialista non faceva decisamente più rima con «serata di gala». Ma Moscovici non ha forse ritenuto che non bisognava «avere paura del rigore», affermando che in caso di vittoria i deficit pubblici sarebbero stati «ridotti, a partire dal 2013, a meno del 3 %, costi quel che costi», ciò che implicherebbe «prendere i provvedimenti necessari (7)?».
Figura [retorica] imposta dalla comunicazione politica, la denuncia dei «mercati finanziari», tanto virulenta quanto inoffensiva, è rimasta finora lettera morta. Come Barack Obama, che accordò la grazia presidenziale ai responsabili americani della crisi, i dirigenti del Vecchio Continente ci avrebbero messo ben poco tempo per perdonare gli eccessi degli speculatori «avidi» che pure mettevano alla gogna. Non rimaneva allora nient’altro da fare se non ridorare il blasone ingiustamente imbrattato dei degni rappresentanti dell’oligarchia. Come? Nominandoli alla testa di commissioni incaricate di elaborare nuove regole di condotta! Da Paul Volcker (JPMorgan Chase) a Mario Draghi (Goldman Sachs), passando per Jacques de Larosière (AIG, BNP Paribas), lord Adair Turner (Standard Chartered Bank, Merrill Lynch Europe) o ancora il barone Alexandre Lamfalussy (CNP Assurances, Fortis), tutti i coordinatori incaricati di portare una risposta alla crisi finanziaria mantenevano stretti legami con i più importanti operatori privati del settore. Gli «irresponsabili» di ieri, come toccati dalla grazia, si metamorfizzavano in «saggi» dell’economia, incoraggiati da media e intellettuali che, poco tempo prima, non avevano parole abbastanza dure per denunciare il sussiego e la cecità dei banchieri.
Infine, non vi è più alcun dubbio che speculatori abbiano potuto trarre profitto dalle crisi che si sono date il cambio questi ultimi anni. Per questo l’opportunismo e il cinismo di cui danno prova i predatori in questione non deve fare dimenticare che essi hanno goduto, per realizzare i loro obiettivi, di connivenze ai più alti livelli dello Stato. John Paulson, dopo aver guadagnato più di 2 miliardi di dollari nella crisi dei subprime, della quale è il principale beneficiario, non ha forse ingaggiato l’ex patron della Riserva Federale, Alan Greenspan, già consigliere di Pacific Investment Management Company (Pimco, controllata da Allianz), uno dei principali creditori privati dello Stato americano? E che dire dei principali gestori internazionali di hedge funds: l’ex presidente del National Economic Council (sotto Obama) ed ex Segretario al tesoro di William Clinton, Lawrence Summers, è stato direttore esecutivo della società D. E. Shaw (32 miliardi di dollari all’attivo); il fondatore del gruppo Citadel Investment; Kenneth Griffin, originario di Chicago, ha finanziato la campagna elettorale dell’attuale Presidente degli Stati Uniti; quanto a George Soros, si è comprato le prestazioni del laburista lord Mark Malloch-Brown, ex amministratore del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo...
La finanza ha le sue facce: da lungo tempo le si incrocia sui viali del potere.
(1) Jean Peyrelevade, Le Capitalisme total, Seuil - La République des idées, Paris, 2005, p. 37 et 91.
(2) Anne Le Nir, «En Italie, Mario Monti réunit un gouvernement d’experts», 16 novembre 2011, www.la-croix.com; Guillaume Delacroix, «Le gouvernement Monti prêt à prendre les rênes de l’Italie», www.lesechos.fr, 16 novembre 2011.
(3) Keith Dixon, Un digne héritier. Blair et le thatchérisme, Raisons d’agir, Paris, 2000.
(4) Lire «Où se cachent les pouvoirs», Manière de voir, n° 122, avril-mai 2012 (en kiosques).
(5) Jean Peyrelevade, Le Capitalisme total, op. cit.: 1 % des Français possèdent 50 % des actions.
(6) Gérard Duménil et Dominique Lévy, The Crisis of Neoliberalism, Harvard University Press, Cambridge (Massachussets), 2011.
(7) «Pierre Moscovici: "Ne pas avoir peur de la rigueur"», 8 novembre 2011, www.lexpress.fr
I banchieri-gangster restano impuniti
di Federico Rampini (la Repubblica, 11 agosto 2012)
«Gli scandali bancari hanno distrutto la fiducia del pubblico, ricostruirla sarà una sfida», commenta amaro il capo della vigilanza sulla City di Londra, Lord Turner. L’Economist ha coniato un neologismo, "banksters", facendo la fusione banchiere-gangster. Il New York Times sentenzia: «I banchieri non sentono né il vincolo della legge né quello della morale». Vi sembra di rileggerei titoli del 2008, l’anno del crac sistemico originato dai mutui subprime?
Invece sono cronache di questi giorni. Imperterriti, impuniti, i banchieri colpiscono ancora. Goldman Sachs era finita sotto inchiesta per frode da parte del Dipartimento di giustizia americano per aver venduto titoli legati ai subprime e al tempo stesso aver scommesso con dei derivati sul loro fallimento. Un guadagno da più di un miliardo di dollari. Ma ieri gli investigatori hanno rinunciato al processo penale. Come se nulla fosse accaduto, la finanza cattiva è più forte che mai.
L’ultima: Standard Chartered, gloriosa banca britannica molto radicata sui mercati asiatici, è stata colta in flagrante complicità con l’Iran. Calpestando le sanzioni, ha nascosto 60.000 operazioni per un valore di 250 miliardi di dollari con il regime di Teheran. Il mese scorso era stata la sua consorella Hsbc a confessare: riciclaggio di denaro sporco dei narcotrafficanti, e ripetute violazioni delle leggi bancarie americane.
E’ ancora fresca la vicenda della JP Morgan Chase, un buco di bilancio da 5,8 miliardi di dollari per speculazioni azzardate (e possibilmente illecite) sui derivati. Nel suo piccolo anche l’Italia si affaccia nell’elenco: vedi il caso dell’amministratore delegato di Medio-banca, Alberto Nagel, indagato per ostacolo all’autorità di vigilanza nel pasticcio Ligresti-Fonsai. Ma perfino questi scandali recenti impallidiscono di fronte alla "madre di tutte le truffe", la vicenda del tasso Libor. Una frode così gigantesca, operata con tale spavalderia e arroganza, che perfino il capo supremo della banca più coinvolta, il dimissionario Robert Diamond di Barclays, ha dovuto ammettere di sentirsi «nauseato, fisicamente sconvolto» di fronte alle email che i suoi trader si scambiavano nel corso della maxitruffa.
Lo scandalo del Libor sembra aver superato ogni limite. In confronto appaiono quasi veniali la vicenda dei mutui tossici che provocò il tracollo globale del 2008, o le frodi sui rating delle grandi agenzie S&P e Moodÿ s. Come spiega Gary Gensler, presidente di una delle authority di vigilanza sui mercati finanziari americani (la Commodity Futures Trading Commission), la manipolazione illegale del Libor «mette in discussione l’affidabilità di un tasso-chiave, un tasso che determina i rendimenti per i risparmiatori che cercano di assicurarsi un futuro, o i costi dei mutui per la casa». Accertare che veniva truccato il Libor, è come scoprire che qualcuno ha il potere di modificare la misurazione delle ore, o della temperatura, a fini di lucro. Se è così, non possiamo più essere certi di nulla.
Cos’è il Libor, esattamente? L’acronimo sta per London Interbank Offered Rate. E’ il più importante e universale di tutti i tassi d’interesse interbancari, una sorta di "termometro centrale" della finanza, da cui ne dipendono tanti altri che toccano la nostra vita quotidiana. Ogni mattina prima delle ore 11 di Londra, i dirigenti di 19 banche globali si coordinano per annunciare il "minor tasso di mercato" quale viene misurato in quella giornata. Sulla base di quel tasso le banche si regolano per farsi credito l’una con l’altra. A cascata, dal Libor dipendono i tassi sui prestiti ai consumatori, sul credito rateale per l’acquisto di automobili, sui mutui per la casa, sui fidi bancari alle imprese. Il Libor influenza in cento modi i bilanci dei fondi pensione, perfino delle finanze pubbliche.
Solo di recente la Barclays ha ammesso di avere sistematicamente truccato quel tasso "ufficiale" per almeno quattro anni consecutivi, dal 2005 al 2009. Lo ha fatto per interesse privato. Per ora ci ha rimesso la poltrona il suo chief executive Diamond, e la Barclays ha patteggiato il pagamento di 453 milioni di dollari di multe, ma presumibilmente questa vicenda è solo agli inizi. Si sospettano collusioni nelle authority di vigilanza, le accuse rimbalzano tra New York e Londra.
Già ora è chiaro che la Barclays non può avere agito da sola. Tra le banche sospettate di essere le sue complici nel "cartello" (definizione della Commissione Ue), sono sotto indagine Citigroup, JP Morgan Chase e Hsbc. L’economista John Stodder Jr. le descrive come «istituzioni un tempo rispettate, oggi infettate dall’avidità, che hanno sovvertito il capitalismo e rapinato i pensionati». Gli Stati della California, New York, Florida, Connecticut e Maryland sono pronti a costituirsi parte civile per i danni subiti nei loro bilanci. Si unirà a loro il Calpers, il più grande fondo pensione del mondo, che eroga gli assegni previdenziali per gli statali della California: anch’essi derubati dal "cartello" del Libor.
Ma processi e maximulte servono a qualcosa? L’interrogativo è legittimo, a quattro anni dalla «madre di tutte le crisi finanziarie»: era ragionevole pensare che il disastro del 2008 provocato dalla finanza tossica avrebbe vaccinato il sistema bancario dai comportamenti più distruttivi. Non è andata affatto così. La truffa del Libor, come si vede dalla sua cronologia, si è prolungata anche nel 2009 cioè dopo che le maggiori banche occidentali erano finite sotto tutela statale, assorbendo ingenti risorse pubbliche per i loro salvataggi. Erano istituti di credito semi-nazionalizzati, salvati dalla bancarotta con i soldi dei contribuenti, e continuavano a rubare.
Com’è possibile? Dov’è l’origine profonda di un degrado così diffuso, così pervasivo, così incurabile? Una rispostala fornisce l’analisi delle ultime sanzioni somministrate in America contro le aziende colpevoli di frode ai danni dello Stato. Magistratura e organi di controllo colpiscono con velocità e con severità negli Stati Uniti, eppure non basta. Dall’inizio di quest’anno siamo già a quota 8 miliardi di dollari di multe, più del doppio di tutte le multe del 2011 (nell’aggregato non ci sono solo le banche ma tutte le imprese sanzionate, incluse le aziende farmaceutiche e petrolifere). A seguire l’escalation degli scandali, sorge il dubbio che le sanzioni non siano un deterrente efficace. Forse perché colpiscono le società, ma non i loro capi.
Lo dice apertamente il senatore Jack Reed, democratico del Rhode Island: «II cittadino si chiede com’è possibile che tante imprese commettano reati gravi, e tuttavia nessuno dei dirigenti viene colpito individualmente». In realtà non è proprio così: la sola authority di Borsa, la Securities and Exchange Commission (Sec), ha perseguito 55 top manager con 2,2 miliardi di multe. E’ vero però che nella maggioranza dei casi la giustizia è impersonale, incrimina l’azienda anzi ché i suoi capi, i quali pur dimissionati a volte si ritirano con "paracadute d’oro", bonus e super-pensione. La spiegazione va cercata nel tradizionale pragmatismo dei sistemi giudiziari anglosassoni, in particolare quello americano, che preferisce "andare a caccia delle tasche più capienti" ("go after deep pockets"), cioè puntare dritto verso le finanze aziendali dove si possono estrarre le multe più pesanti.
Questo realismo, che bada al sodo e vuole massimizzare l’incasso di multe per lo Stato, ha un effetto collaterale perverso. Le grandi società per azioni spalmano le multe nei loro bilanci, scaricandole sugli azionisti e in ultima istanza sui clienti attraverso aumenti di prezzi, tariffe, commissioni e interessi.
Per il top manager dunque non c’è un disincentivo sufficiente. Un responsabile della vigilanza bancaria Usa di recente ha confessato al New York Times: «I banchieri oggi mi sembrano perfino più prepotenti di quanto fossero prima della crisi». L’impunità individuale alimenta l’arroganza. Lord Turner arriva a conclusioni analoghe: «La dimensione dell’attività finanziaria è aumentata, il suo peso sull’economia è sempre più largo, di conseguenza i potenziali benefici dalle frodi sono ancora maggiori». Il crimine paga, se a rapinare la banca è il banchiere stesso.
La metastasi è così grave e pervasiva, da provocare un clamoroso ravvedimento in uno dei più grandi banchieri d’America. Il caso del "banchiere pentito" è quello di Sanford Weill, colui che negli anni Novanta guidò la folle corsa verso il gigantismo della finanza. Weill fu l’artefice della fusione tra Citibank e Travelers, da cui nacque il colosso Citigroup. Ebbe un’influenza politica notevole, ispirando la "convergenza bipartisan" verso la deregulation finanziaria. Fu uno degli attori-chiave nell’iter della legge Gramm-Leach-Biley del 1999, che con il voto repubblicano e democratico, e la firma dell’allora presidente Bill Clinton, accelerò fusioni e acquisizioni. Quella legge segnava la fine della regola sacra contro la "mescolanza dei mestieri", applicata dopo il crac di Wall Street del 1929.
La storica legge Glass-Stegall del 1933, approvata per volere di Franklin Roosevelt nella Grande Depressione, vietava alle banche che raccolgono depositi dei risparmiatori, di usarli per investimenti speculativi o per acquisire partecipazioni azionarie. Era una sana divisione dei rischi, andata in frantumi nel 1999 sotto i colpi del pensiero unico neoliberista. Oggi Weill fa autocritica. «Dobbiamo tornare a separare i banchieri d’investimento dalle banche di deposito», ammette l’ex fondatore di Citigroup.
Prima di lui, lo va dicendo da quattro anni Paul Volcker, il grande saggio della finanza, che fu presidente della Federal Reserve. Volcker nel 2008 era uno dei consiglieri più ascoltati da Barack Obama. Poi il presidente dovette prendere le distanze dai suoi suggerimenti troppo radicali. Non sarebbero mai passati al Congresso, davanti allo sbarramento delle lobby bancarie. Il che ci riporta all’origine stessa della crisi, la rottura degli equilibri fra oligarchie finanziarie e governi. Sicuri della loro impunità, i banchieri hanno "investito" nella politica e ne sono diventati spesso i padroni, o almeno dei robusti azionisti con potere di veto. Senza aggredire il loro potere, e possibilmente smembrare le basi stesse del loro "perimetro aziendale", la lista degli scandali è destinata ad allungarsi, insieme al bilancio dei danni sociali e collettivi.
Un trader per padrone
di Guido Carandini (la Repubblica, 11 agosto 2012)
“Europei, fate conoscenza col vostro nuovo padrone". Questo il titolo di un articolo dell’International Herald Tribune del 4 agosto soprastante la foto a piena pagina di un ventisettenne che è a capo, nella Royal Bank of Scotland di Londra, della sezione che si occupa del mercato dei titoli di Stato. È Tim Skeet, uno dei nuovi padroni delle sorti europee e alle cui dipendenze il trentenne James Konrad (che prima si occupava di scommesse nelle corse dei cavalli) tratta giornalmente 3 miliardi di sterline - 4,7 miliardi di dollari di titoli di Stato dell’eurozona.
È un mercato che «è emerso come il possente protagonista nella crisi economica europea producendo uno spostamento fondamentale del potere dai politici a una relativamente oscura coorte di banchieri. L’insieme dei giudizi giornalieri di investitori e trader come Mister Konrad può ora rovesciare governi e disporre della chiave per la sopravvivenza dell’euro. Se quel mercato appare un incomprensibile Golia agli estranei, gli stessi trader intervistati hanno confessato di essere impauriti e confusi. Si sentono ora come giocolieri alle prese con inusitati livelli di rischi e di ricchezze - qualcosa, secondo la Bce, come 6,7 trilioni di sterline o 8,3 trilioni di dollari di debiti di governi dell’eurozona».
Molti ritengono che troppi trader manchino della competenza necessaria per decifrare segnali contrastanti di leader europei in una industria come quella finanziaria sempre più dipendente da premonizioni e congetture politiche. Ed ammettono che le fluttuazioni a breve dei tassi di interesse dei titoli raramente riflettono valutazioni accurate dei valori e dei rischi. "Ciò nonostante esse hanno per i politici l’ultima parola a ogni livello delle politiche governative e spesso sono male interpretate".
Nel seguito dell’articolo si moltiplicano da parte dei trader intervistati le manifestazioni di perplessità circa il metodo da loro usato nelle valutazioni dei titoli fino al punto di dichiarare, come fa Tim Skeet, che "di questi tempi nulla è misurabile. Si tratta sempre meno di una questione di denaro e sempre più di un oracolo di Delfi". Andrew Bolds, a capo di Pimco, che governa il maggior fondo mondiale di obbligazioni, dichiara che ora ha troppa paura per trattare su quel mercato, e quella stessa paura dei trader e dei loro nervosi investitori spiega perché gli interessi sono aumentati nei paesi che hanno problemi, come l’Italia e la Spagna. Mentre degli investitori terrorizzati sono persino disposti a pagare Berlino per avere il privilegio di prestargli denari.
Ma il rischio può anche fruttare profitti, e tanti. Alcuni fondi di debiti sovrani hanno fruttato agli investitori un guadagno annuo del 9 per cento e, poiché quel mercato ha accresciuto la sua potenza finanziaria con la leva dell’indebitamento, le sue stime possono diventare profetiche, cioè auto-realizzarsi. Se trader come Mr. Konrad giudicano i titoli spagnoli rischiosi perché il governo spagnolo potrebbe fare bancarotta, essi possono rendere ancora più probabile quella .bancarotta aumentando i costi dell’indebitamento e speculare più sicuramente al ribasso con i relativi profitti.
Il 28 giugno Mr. De Larouzière, a capo della Natixis, che dispone di 18 miliardi di sterline di debiti, con un occhio seguiva la crescita dei rendimenti delle obbligazioni decennali spagnole, che tendevano a crescere oltre il 7%, e con l’altro occhio il summit di Angela Merkel e dei suoi colleghi europei impegnati a persuadere i mercati che il salvataggio della Spagna non sarebbe stato necessario per via di opportuni interventi a favore delle sue banche.
Ma se l’azione del summit non fosse stata tempestiva, la crescita dei rendimenti spagnoli sarebbe continuata e i titoli posseduti da De Larouzière sarebbero calati di valore. E così avvenne dopo che risultò che gli interventi per salvare la Spagna erano rimandati al 2013. Ecco un caso in cui una convinzione negativa può diventare infettiva, tanto da convincere De Larouzière a vendere titoli italiani malgrado lui fosse convito che il nostro Paese aveva preso i provvedimenti necessari per una opportuna difesa del valore dei suoi debiti.
Il trader addetto al mercato dei bond, nei suoi uffici della Royal Bank of Scotland, siede davanti a sette schermi di computer che trasmettono più di 600 prezzi al giorno, circa uno al minuto, che esprimono il sentimento del mercato che Mr. Skeet sintetizza così: «Un complesso e volatile miscuglio di visione informata combinata con sensazioni alle budella e istinti del gregge». Tim Skeet, che, al contrario dei suoi colleghi che hanno una preparazione matematica, è uno studioso di letteratura tedesca e francese, è persuaso che i moderni mercati non sono adeguati per questo nuovo mondo. «Troppe persone - egli dice - si fidano dei modelli senza porsi domande. Dovremmo passare da un approccio altamente tecnico a un approccio più intuitivo, più quantitativo».
Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il governo italiano, impegnato giornalmente in una tenzone che dovrebbe ricondurre a più razionale misura questo differenziale tra il rischio del nostro indebitamento e quello tedesco, che è assai più il frutto bacato di una distorsione del ruolo del mondo finanziario e dei suoi giochi d’azzardo che di motivate ragioni fondate sulla realtà di comportamenti e di strategie economiche e imprenditoriali.
di Paolo Berdini (il manifesto, 10.08.2012)
Il processo di vendita dei beni immobiliari pubblici era iniziato nella metà degli anni ’90, ma i numerosi provvedimenti bipartisan hanno prodotto risultati modesti. Oggi la vendita annunciata dal governo Monti si farà perché la crisi economica favorisce l’efficacia dei provvedimenti.
I beni da vendere appartengono a quattro categorie. I beni culturali, e cioè i gioielli che rappresentano la storia e il prestigio del nostro paese, luoghi spesso a disposizione di tutta la popolazione. Beni che sono alla base di uno degli articoli fondamentali della prima parte della Costituzione verranno svenduti senza remore: non ce lo possiamo permettere più, secondo la religione dei professori. Vedremo che dirà al riguardo il Presidente della Repubblica che in passato ha richiamato all’intangibilità delle radici culturali dell’Italia.
Il secondo gruppo appartiene ai beni strumentali, cioè a tutte quelle proprietà che tuttora ospitano una funzione pubblica. Si tratta di servizi scolastici, sanitari e sociali, di uffici che formano la sempre più debole trama pubblica delle nostre città. È evidente che la loro alienazione provocherà un ulteriore passo indietro per milioni di cittadini che vedranno cancellati preziosi servizi e la rete civica di convivenza. Il terzo gruppo appartiene ai (non tantissimi) beni non in uso: caserme dismesse, ospedali già soggetti alla forbice dei ragionieri, scuole ubicate in aree in cui la popolazione giovane è merce rara. Beni su cui in linea generale è difficile non convenire sul fare cassa. Ma non a tutti i costi. Le pubbliche amministrazioni spendono ingenti quantità di denaro per affitti di immobili privati. Alcune scuole sono vecchie e fatiscenti. Decine di migliaia di famiglie nelle grandi città vivono in grave disagio abitativo. Perché non si redige un piano di rientro dalle esposizioni per affitti passivi utilizzando anche a fini sociali gli immobili pubblici dismessi? Rischiamo una nuova beffa, come per la vendita degli alloggi degli enti pubblici, appannaggio a quattro soldi anche di ministri in carica.
L’ultimo gruppo è un’ulteriore sottolineatura della natura non tecnica del governo in carica. Un anno fa la stragrande maggioranza dei cittadini italiani si è espressa sul mantenimento di alcune prerogative in capo ad aziende pubbliche: questo è il senso inequivocabile del referendum sull’acqua.
Ma il quarto segmento della svendita è rappresentato proprio dai beni di proprietà della aziende municipalizzate. Un colpo micidiale alla cultura dei beni comuni. La folle dottrina liberista, dopo aver provocato la crisi a partire dai mutui subprime statunitensi e averla aggravata con la bolla immobiliare spagnola, vuole continuare a guadagnare sulle macerie. La svendita del patrimonio immobiliare pubblico non avrà alcun effetto per far uscire il paese dalla crisi economica. Servirà a far quadrare i bilanci di molti istituti di credito e fondi speculativi che a parole si dice di combattere. E servirà a far arretrare le vite di coloro che fin qui «hanno vissuto sopra le loro possibilità», come dice il professor Monti. Obiettivo da raggiungere anche svendendo le radici del nostro paese.
Il nuovo feudalesimo e la sovranità perduta
di Guido Rossi (Il Sole-24 Ore, 05 agosto 2012)
È ora evidente che, dopo la presa di posizione della Bce in difesa dell’euro e per il sostegno dei titoli del debito pubblico dei Paesi che ne richiedano un intervento, la storia d’Europa sta precipitosamente cambiando.
Una vera ambigua battaglia si è scatenata fra la troika (composta dalla Bce, l’Fmi e le istituzioni europee dominate dall’ideologia cultural-politica tedesca, che impone punizioni e austerità agli Stati peccatori) e l’amica/nemica della troika, la grande speculazione finanziaria la quale, come s’è visto nei giorni scorsi, toglie ogni credibilità al dio mercato, in un’altalena di perdite e guadagni razionalmente ingiustificata.
Che una decisa politica anti-spread rivendicata dalla Bce possa in qualche misura osteggiare la speculazione è conseguenza indiscutibile, ancorché in difetto di un’Europa politicamente unita e democratica il prezzo che si fa pagare ad alcuni Stati membri è altissimo. Oltre alle misure di politica economica e sociale, rovinose e depressive, e già imposte, dal fiscal compact alla spending review, altre ne saranno intimate agli Stati che chiederanno l’aiuto contro lo spread per mantenere il pareggio di bilancio. Tra quelli che, per molti versi non parevano ancora, fino a non molto tempo fa, destinati al fallimento, v’è ora la Spagna e poi probabilmente, nonostante le sovente contraddittorie, ma sempre ostentate dichiarazioni, l’Italia.
Si sta così ripetendo un fenomeno che Montesquieu, commentando le leggi feudali dell’Europa medievale, le considerava un avvenimento accaduto una volta sola nel mondo e «che forse non accadrà mai più». Ebbene, Montesquieu si sbagliava. Infatti, allora come oggi, insieme alla brutalità del comando, è determinante il dominio dell’economia sulla vita pubblica e sui diritti e soprattutto la confusione fra la ricchezza e l’autorità. Allora si trattava della ricchezza terriera, oggi della ricchezza finanziaria.
Come allora, il presupposto si giustifica con lo "Stato di eccezione", teorizzato da Karl Schmitt, che comporta la rigida soggezione economica della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o burocrati, poco importa. Quella attuale è la nuova forma di feudalesimo, che sottrae la sovranità agli Stati e alle sue istituzioni: si potrà forse dire non schiave, ma ridotte spesso, con ingiustificata presunzione, a semplici esecutori di politiche economiche, monetarie e sociali, imposte non certo democraticamente dal di fuori.
Il trasferimento della sovranità dello Stato democratico al Leviatano tecnocratico della troika, passaggio invero che sembra obbligato per arrivare all’unica possibile soluzione di un’Europa politicamente unita e democratica, comporta quindi una revisione totale dei diritti dei cittadini e delle istituzioni democratiche, assopite nelle loro funzioni e dedite ormai solo all’esecuzione delle decisioni di gerarchie esterne e fuorvianti.
È così che i problemi del rispetto dei diritti umani e della giustizia sociale, insieme con i mali peggiori delle disuguaglianze, tra le quali domina la disoccupazione, diventano trascurabili e importano solo un vago richiamo a parole che han perso il loro significato, sicché secondo il pensiero del grande poeta W. Auden: «When words lose their meaning, physical force takes over». E qui la forza è quella del feudalesimo della troika, poiché ciò che conta è solo l’imposizione dell’austerità, sempre più regina della depressione economica.
Pare allora persino inutile, come già ricordai altra volta avevano fatto Benedetto Croce e Luigi Einaudi, scagliarsi ai tempi delle crisi contro i governi tecnici, poiché, come appare evidente, l’insieme dei partiti politici, per quel che riguarda non solo noi, ma anche altri Paesi, sono in devastante disgregazione programmatica e sempre più portati a vaniloquio politico, alimentato da conflitti interni di modesta levatura. Tecnici e politici di professione son del tutto eguali.
Questa inquietante crisi della democrazia politica, alla quale il degrado culturale della nostra classe dirigente non ha opposto alcuna resistenza, mette sempre più in pericolo sia la democrazia, sia la giustizia sociale. Il fenomeno non pare affatto destinato a processi di inversione, che solo una politica di unificazione europea potrebbe modificare, o un radicale rinnovamento di fronte alle prossime scadenze elettorali del personale politico.
Per il momento, tuttavia, ancora una volta, la descrizione più appropriata della nostra stagione politica ci viene dai noti versi di Giuseppe Ungaretti: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie», al quale può fare oggi giusta eco Vincenzo Cardarelli: «Autunno. Già lo sentimmo venire / nel vento d’agosto».
Se l’economia diventa una scommessa
di Giorgio Ruffolo (l’Unità, 11.05.2012)
LA FINANZA È DIVENTATA OGGI UN SETTORE SEMPRE PIÙ ESTESO RISPETTO ALL’ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA. UN SETTORE FLUIDO, CANGIANTE, FATTO DI “SEGNI”, PIUTTOSTO CHE DI “COSE”. Marx aveva detto: le cose si sciolgono nell’aria. Bauman preferisce la metafora “liquida” («Modernità liquida», Laterza, 2005) che si presta meglio ad una descrizione materiale e visibile del fenomeno. Questa mutazione si accompagna a una elevata efficienza, nel senso di consentire all’organizzazione produttiva di produrre più cose nello stesso tempo e consente la progressiva articolazione di società tradizionali bloccate in forme rigide: aspetti storicamente altamente positivi della finanza. Vi sono però aspetti più discutibili.
La finanza permette di “anticipare”, principalmente attraverso il credito, situazioni future: letteralmente, di speculare. Su queste speculazioni si può scommettere. E la scommessa, ove si realizzi, può cambiare il corso delle cose “reali”. In altri termini, come nello specchio di Alice, l’immagine della realtà si rovescia. Ed è Alice che guarda lo spettatore.
Ciò che, nelle condizioni normali, rappresenta la realtà, finisce per modificarla. Si inserisce allora nella economia un fattore altamente soggettivo: appunto, la “speculazione” nel senso peggiorativo. L’economia diventa sempre più dipendente da un futuro “anticipato” che può comportare forti guadagni realizzati per scommessa. O non realizzati, nel qual caso si incorre in perdite che si trasferiscono nel settore “reale” dell’economia. Una economia che dipende dal futuro incide a sua volta sul futuro.
Si realizza così uno “sfruttamento del futuro” che sostituisce in qualche misura lo sfruttamento del lavoro sul quale si basava l’accumulazione capitalistica. Concretamente, uno sfruttamento dei posteri. Cosa che può risultare rischiosa e “moralmente” sgradevole. A meno di non ragionare come Woody Allen: dopo tutto, che hanno fatto i posteri per noi? Questa, della speculazione, è una forma particolarmente sottile di liquefazione. La liquefazione delle aspettative. Il futuro, conseguentemente, si fa più incerto. È un futuro dipendente in alto grado da scommesse. Non è un caso che “i mercati” assumano sembianze quasi “metafisiche”.
Un altro aspetto della liquefazione nel processo economico emerge nel linguaggio. L’immediatezza delle tecniche di comunicazione elettroniche aumenta enormemente le potenzialità dell’informazione, computerizzandola. Il posto del computer nella nostra economia è diventato decisivo nel senso autentico della parola. Molte decisioni vengono prese dai calcolatori indipendentemente dalla volontà dei soggetti. Anche questo è un fenomeno di liquefazione che si risolve in perdita di controllo sociale (vedi le crisi suscitate dai calcoli dei calcolatori).
Last, not least, la mercatizzazione del credito. La così detta cartolarizzazione, liquefa un rapporto umano di fiducia trasformandolo in una compra-vendita: un aspetto significativo della crisi generata in America.
Chi è che certifica che cosa? Non è più il credito che certifica il certificato (credito, da credo) ma è il certificato che certifica il credito (i certificates): il massimo dell’alienazione. Analogamente: i derivati non derivano il loro valore dalla creazione “politica” della moneta, ma è la moneta a derivare valore dai derivatives. Un bell’esempio di liquefazione.
Secondo tema: l’aspetto sociale della liquefazione. Qui emerge, non la speculazione, ma la mercatizzazione dell’economia. È il grande tema introdotto da Karl Polanyi che sulla scorta di Marx denunciava la “liquefazione” dei rapporti umani insiti nei fattori di produzione naturali (lavoro, terra) e della moneta (un’istituzione sociale) trasformandoli in merci. Questa è la “grande trasformazione” generata dal capitalismo. Questa trasformazione ha avuto il suo coronamento storico nella “rivoluzione capitalistica” dei nostri tempi: la liberalizzazione dei movimenti mondiali del capitale.
Un grande economista liberale, Davide Ricardo, sconsigliava vivamente la libera esportazione dei capitali. I capitali, diceva, portano con sé la storia e i sentimenti umani di un paese insomma, diremmo noi, non sono una valigia.
La liberalizzazione mondiale dei movimenti internazionali dei capitali introdotta da Thatcher e Reagan negli anni ottanta ha rovesciato brutalmente, con la creazione del mercato finanziario mondiale integrato (capitalisti di tutti i paesi unitevi!) i rapporti tra capitale e lavoro e quelli tra capitalismo e democrazia. Ciò che il proletariato non è stato capace di realizzare l’Internazionale il capitalismo lo ha fatto.
Liquefacendo i movimenti mondiali del capitale, li si è sottratti a ogni forma di controllo politico. Il modo più pratico di nientificare i poteri dei governi e dei lavoratori è quello di abbandonarli. La più efficace minaccia non è quella di contrastarli con le armi, ma quella di partire con la valigia.
Il capitale, insomma, fluisce liberamente dovunque, incontrando dovunque sé stesso. Diceva Edoardo De Filippo: milione chiama milione. Si crea quindi l’internazionale dei capitalisti: una nuova plutocrazia mondiale che gestisce i suoi capitali nelle sue capitali (Londra, Wall Street) e attraverso la rete delle Multinazionali. E orienta i loro flussi. Questi flussi si dispongono secondo la logica del massimo profitto nel minimo tempo. Non seguendo le indicazioni dei bisogni ma quelle del guadagno. Accade così che il flusso dei risparmi sia diretto là dove alimenta i consumi dei ricchi, non i bisogni dei poveri: per esempio, tra la Cina e l’America.
Un aspetto centrale di questo quadro sta nel ruolo assunto dalla moneta. Essa ha perduto il ruolo, conquistato attraverso la storia, di istituzione politica, creata gestita e controllata dalle Banche Centrali. È generata dai mercati attraverso il credito, incontrollato e deregolato, dal quale non si distingue ormai più. Il flusso della moneta privata, incontrollabile, aveva generato alla vigilia della grande crisi, nel 2007, una massa di liquidità pari a dodici volte il prodotto lordo mondiale.
Il segreto molto poco segreto della crisi sta tutto in questa gigantesca inflazione finanziaria. Che non è affatto finita, ma si è spostata dall’indebitamento privato all’indebitamento pubblico, gravando sui contribuenti per l’aumento delle tasse e sui lavoratori per la contrazione della spesa sociale. Insomma,la liquefazione ha inondato il mondo. E, ritirandosi, lo ha lasciato impoverito.
Il terzo aspetto riguarda la crisi della coesione sociale. La liquefazione, oltre a speculazione e mercificazione, genera spersonalizzazione. Il perseguimento generalizzato dell’avere produce non persone ma individui, Non soggetti differenziati articolati e specializzati che irraggiano in più direzioni le loro articolazioni ricercandosi reciprocamente fino a formare una rete (società) ma unità omogenee e chiuse: come palline che si urtano e si respingono. La metafora più adatta è quella di grani di polvere che i venti del populismo sollevano e travolgono. È chiaro che un processo alternativo, di sviluppo della personalità, non può essere il risultato di un’analisi individuale, ma solo di una passione politica. Il suo luogo è l’agorà.
"WALL STREET HA AIUTATO ATENE A TRUCCARE I CONTI PUBBLICI"
Inchiesta del New York Times sul ruolo giocato da Goldman e JP Morgan.
Ombre anche sull’Italia
di FEDERICO RAMPINI (la Repubblica, 15.02.2010)
La Grecia ha truccato i conti pubblici e ha ingannato per anni l’Europa con l’aiuto dei "soliti noti": Goldman Sachs e altri colossi di Wall Street. Lo rivela il New York Times in un’ampia inchiesta che getta nuove ombre sulla credibilità della Grecia, proprio mentre l’Eurozona è alle prese con i piani per il suo salvataggio. L’inchiesta dimostra che gli stessi metodi usati da Wall Street per creare la bolla speculativa dei mutui subprime sono stati replicati con le finanze pubbliche della Grecia e di altri paesi europei, Italia inclusa.
Grecia e Italia vengono citate fra quei Paesi i cui governi hanno fatto ricorso alla consulenza delle grandi banche americane (Goldman Sachs e JP Morgan Chase) per delle operazioni di "chirurgia estetica" che hanno dissimulato la vera entità dei deficit pubblici. Un ruolo perverso spetta ai titoli derivati: quanto hanno nascosto, e quanto nascondono tuttora, dell’indebitamento di alcuni Stati sovrani? Il caso greco domina le rivelazioni, creando un serio imbarazzo al governo di Georgios Papandreou ma anche ai suoi interlocutori di Bruxelles, Berlino e Parigi alle prese col rischio di crac sovrano di uno Stato membro dell’Eurozona. Decine di interviste documentano un inganno andato avanti a lungo, "dieci anni di menzogne della Grecia" che hanno gettato fumo negli occhi della Commissione europea e hanno consentito ad Atene di aggirare il Patto di stabilità. Uno dei "montaggi finanziari" escogitati da Goldman Sachs "ha nascosto alle autorità di Bruxelles miliardi di debiti". Fino all’ultimo, poco prima che le convulsioni della crisi greca esplodessero alla luce del sole, sull’asse Atene-Wall Street si è tentato di barare.
A novembre una delegazione di altro livello della banca americana è arrivata ad Atene per discutere una nuova possibilità di guadagnare tempo. La missione era guidata da Gary Cohn, presidente di Goldman Sachs. I maghi della finanza avevano in mente un nuovo dispositivo per far scivolare i costi attuali della sanità pubblica greca "sui bilanci di anni molto lontani". Un po’ come, in America, le banche rifilavano dei nuovi mutui ai proprietari di case sommersi dai debiti. Il trucco aveva funzionato in precedenza. Nel 2001, subito dopo l’ammissione della Grecia nell’Unione monetaria, la stessa Goldman Sachs aveva assistito il governo di Atene nel reperire miliardi sui mercati. Quel finanziamento del debito pubblico fu nascosto nei bilanci, grazie a un montaggio che la trasformava in un’operazione sui cambi anziché un prestito. Nel novembre 2009 il tentativo fallì: troppo tardi, forse. L’attenzione dei mercati e della Commissione europea deve aver sconsigliato l’ennesimo trucco. Il New York Times specifica che i derivati hanno svolto un ruolo chiave in questa vicenda. Scrive che "gli strumenti finanziari elaborati da Goldman Sachs, JP Morgan Chase e altre banche, hanno consentito ai leader politici di mascherare l’indebitamento aggiuntivo in Grecia". E con "l’aiuto della JP Morgan l’Italia ha fatto di più. Nonostante persistenti alti deficit, un derivato del 1996 ha aiutato l’Italia a portare il bilancio in linea".
In decine di montaggi finanziari, rivela l’inchiesta, "le banche fornivano liquidità immediata ai governi in cambio di rimborsi futuri, e questi debiti venivano omessi dai bilanci pubblici". Un esempio: la Grecia rinunciò ai proventi della lotteria nazionale e delle tasse aeroportuali per anni a venire, in cambio di una liquidità immediata. Questo genere di operazioni non sono state contabilizzate come dei prestiti. Ingannando così sia le autorità di Bruxelles, sia gli investitori in titoli del debito pubblico greco, che ignoravano la vera dimensione dell’indebitamento e quindi il rischio d’insolvenza. Come un tocco di ironia alcuni dei montaggi finanziari furono battezzati coi nomi di dèi dell’Olimpo, come Eolo. Secondo l’economista Gikas Hardouvelic "i politici vogliono passare la patata bollente a qualcuno, se un banchiere gli dimostra come farlo, lo fanno". Sulla stessa lunghezza d’onda Garry Schinasi, esperto della task force di vigilanza sui mercati all’Fmi: "Se un governo vuole imbrogliare, ci riuscirà". Le banche hanno fornito il know how, e si sono fatte compensare: per il montaggio del 2001 Goldman Sachs ricevette una commissione di 200 milioni di dollari dalla Grecia. Quell’operazione fu un "swap sui tassi d’interesse": uno strumento che può servire a coprirsi da un rischio di variazione dei tassi, ma può anche essere usata a fini speculativi.
Essa consente a un investitore o a uno Stato di convertire un debito a tasso variabile in uno a tasso fisso, o viceversa. Analogo è lo "swap di valute" che serve a proteggersi contro una variazione nei tassi di cambio, oppure a speculare su futuri scossoni tra le monete. Infine la "chirurgia estetica" sui conti greci ha ipotecato aeroporti e autostrade, mettendo i loro proventi nelle mani dei creditori per molti anni futuri. Il problema che emerge dalle rivelazioni del New York Times riguarda i danni alla trasparenza dei bilanci pubblici. "Il peccato originale dell’Unione monetaria - conclude l’inchiesta - è che Italia e Grecia vi entrarono con deficit superiori ai livelli consentiti dal Trattato di Maastricht. Anziché ridurre la spesa, però, i governi tagliarono artificialmente i deficit con l’uso di derivati. E i derivati, in quanto non appaiono ufficialmente nei bilanci, creano un’ulteriore incertezza". I campanelli d’allarme non sono mancati. Già nel 2008 Eurostat, l’istituto statistico di Bruxelles, aveva attirato l’attenzione sulle operazioni di "cartolarizzazione" dei debiti pubblici "montate ad arte per ottenere un certo risultato sui conti pubblici". Ancora prima, nel 2005, l’allora ministro delle Finanze greco Georgios Alogoskoufis, avvertì che l’operazione fatta con l’assistenza di Goldman Sachs avrebbe "appesantito i conti pubblici con pagamenti fino al 2019". In un giro perverso di transazioni, alcuni di quei titoli sono stati perfino usati dalla Grecia come "garanzie" in deposito alla Bce. Per il contribuente tedesco, che adesso dovrebbe finanziare il salvataggio, la diffidenza è più giustificata che mai.