[...] Per la teoria dominante, la gratuità è una patologia che deriva da costrizioni naturali o tecniche; è un’eccezione alla buona regola. In linea di massima colui che vuole acquisire un bene o usufruirne deve pagarne il prezzo. E poco importa che il denaro diventi la condizione di accesso a tutto. Ugualmente poco importa per i beni che, per loro natura o funzione, non devono avere prezzo, come la salute o l’educazione [...]
di José Castro Caldas, economista, ricercatore presso il Centro Studi Sociali dell’Università di Coimbra (Portogallo)
(traduzione dal francese di José F. Padova) *
«Nella vita niente è gratuito». Questo adagio, che sembra espressione del buon senso, in realtà riflette il pensiero economico dominante. Distillato dai teorici alla moda e da una quantità di manuali universitari, fa parte di una visione sociale nella quale tutto inevitabilmente è commerciale. Ma da dove viene questa idea che opera un amalgama fra le nozioni di costo, di prezzo e di valore, allo scopo di facilitare l’estensione del mercato a detrimento dei beni pubblici e comuni?
Travestito da indigente
Nel 1975 l’economista americano Milton Friedman pubblicava There ’s No Such Thing as a Free Lunch («Un pasto gratuito? Non esiste!»), ma l’espressione circolava già da tempo. Si racconta un aneddoto edificante a proposito di Vilfredo Pareto, teorico liberale della scuola di Losanna, che sosteneva l’esistenza di leggi economiche simili a quelle della fisica. Pareto si sarebbe travestito da poveraccio per domandare al suo contraddittore, l’economista tedesco Gustav von Schmoller, dove trovare un ristorante che servisse un pasto gratuito. Quest’ultimo avrebbe risposto che non esisteva alcun posto simile, fornendo così la prova che tutto si compra.
Ma questo aneddoto, diventato un precetto insegnato agli studenti, ha qualche fondamento storico? Si sa, per esempio, che nel XIX secolo i saloon del nordamericani offrivano pasti gratuiti. I clienti avrebbero soltanto dovuto pagare le bevande che accompagnavano i piatti, in generale abbondantemente salati.
Più tardi, nel corso dei dibattiti sullo Stato previdenziale negli Stati Uniti, l’aneddoto è stato utilizzato dagli avversari del presidente Franklin Delano Roosevelt e di tutti i partigiani del Welfare State. Nel 1942 il giornalista Paul Mallon reagiva così alla proposta del vicepresidente Henry Wallace di garantire un minimo di cibo, di vestiti e di alloggio a tutti gli americani: «Il signor Wallace dimentica che non è mai esistito un pasto gratuito. A meno che l’umanità non acquisisca poteri magici, qualcuno dovrà sempre pagare per il pasto gratuito concesso a un altro». Molto rapidamente la formula «non vi sono pasti gratuiti» è divenuta il ritornello della teoria della scelta razionale. Quando gli individui o la società vogliono ottenere qualcosa, la quantità limitata per definizione delle risorse li obbliga a rinunciare a un’altra cosa.
Il mancato funzionamento del mercato
Secondo questa teoria, in una « ideale economia di mercato » ogni cosa ha un prezzo e chi vuole ottenerla deve pagare. Non si tratta qui di morale, bensì di logica. Fissato dalla legge dell’offerta e della domanda, il prezzo di un bene determina (e riflette) l’efficienza economica. Ogni altra situazione rivela una «lacuna del mercato», un problema da regolamentare e non una realtà alla quale occorre adattarsi.
Prendiamo il caso dei «beni pubblici» (1), il cui classico esempio è il faro che orienta le navi lungo le coste. La luce che diffonde è gratuita. D’altra parte sarebbe difficile immaginare un sistema di pagamento a carico dei naviganti, i quali, per definizione, non fanno altro che passare e sparire senza lasciare tracce.
Per gli economisti dominanti questa situazione è problematica. Effettivamente, se la costruzione dei fari fosse stata affidata al mercato, non ne esisterebbe alcuno. È grazie all’intervento dei poteri pubblici, dotatisi delle risorse necessarie grazie alle imposte, che essi sono stati eretti. E il ragionamento può ampliarsi. Alla fine, l’illuminazione delle città è un bene pubblico, per lo stesso motivo per il quale lo è l’aria pulita, il sapere, o gli oceani. Per certi economisti (2) la proprietà privata ha precisamente per origine la necessità di regolamentare il «problema» dei beni pubblici. Vale a dire, di trovare un mezzo per imporre un prezzo all’utilizzatore di un bene. Così si potrebbe pensare che le strade devono logicamente avere uno status pubblico. Ebbene, si inventano i pedaggi, soluzione capitalista ispirata ai dazi del Medio Evo! Il medesimo principio vale per il sapere: è difficile la sua privatizzazione? Sarebbe nefasta? Non importa! Si inventano i diritti di proprietà intellettuale.
Principio di necessità
Per la teoria dominante, la gratuità è una patologia che deriva da costrizioni naturali o tecniche; è un’eccezione alla buona regola. In linea di massima colui che vuole acquisire un bene o usufruirne deve pagarne il prezzo. E poco importa che il denaro diventi la condizione di accesso a tutto. Ugualmente poco importa per i beni che, per loro natura o funzione, non devono avere prezzo, come la salute o l’educazione.
Tuttavia, la logica mercantile non sarebbe in grado di estendersi a tutto. Così esistono cose o esseri il rispetto dei quali è più importante della ricerca di una pretesa efficienza economica. È il caso delle persone o degli organi umani. D’altro canto, certi beni potrebbero avere un prezzo, ma non ne hanno, perché una parte del loro valore risulta dal loro utilizzo condiviso: una piazza pubblica, per esempio.
Infine, vi sono beni ai quali tutti devono avere accesso, indipendentemente dal loro potere d’acquisto, perché lo esige la necessità. In Portogallo si dice che «un bicchiere d’acqua non lo si rifiuta a nessuno» e anche negli esercizi commerciali si dà l’acqua a chi la chiede. Allo stesso modo il medico ha il dovere di prestare assistenza in caso di necessità.
Per lungo tempo spettava alle opere di carità distribuire i beni di base agli indigenti. Ma questa situazione non risponde che molto imperfettamente all’imperativo della necessità. È ciò che voleva dire Adam Smith - che spesso è stato male compreso - quando affermava che per il nostro pranzo non si deve sperare nella bontà del macellaio. La beneficenza ci rende debitori mentre si presume che il mercato ci liberi da qualsiasi legame di dipendenza: pagando il prezzo saremmo liberi. Per questo Smith auspicava che tutti potessero pagare i beni di prima necessità. Tuttavia il capitalismo, si sa, non ha soddisfatto questo auspicio, anche se, in certi casi, si è avvicinato all’ideale che Wallace evocava: la garanzia, da parte dei poteri pubblici, di un minimo di cibo, vestiti e alloggio.
Alla fine, la scelta di quello che deve, o non deve, essere oggetto di una transazione commerciale deriva innanzitutto dall’etica (3). Il mercato si basa su norme costruite storicamente e incrostate nella cultura, che sono spinte a evolversi. Infine, von Schmoller l’avrebbe avuta vinta su Pareto. Se in economia esistono «leggi», esse sono create dagli esseri umani; non risultano dalla natura. Quindi noi possiamo modificarle.
(1) Vedi Philippe Quéau, «A qui appartiennent les connaissances?», Le Monde diplomatique, janvier 2000.
(2) Cf. Armen A. Alchian et Harold Demsetz, «The property right paradigm», The Journal of Economic History, vol. 33, n°1, Cambridge, 1973.
(3) Elisabeth Anderson, «The ethical limitations of the market», Economics and Philosophy, n°6, Cambridge, 1990.
* Le Monde Diplomatique - ottobre 2012