Il Vaticano smentisce l’Osservatore
"Posizione su trapianti non cambia"
Nessun ripensamento. "Restiamo fedeli all’intuizione di Pio XII di quarant’anni fa"
CITTA’ DEL VATICANO - "La posizione della Chiesa sui trapianti d’organi non cambia, rimane la stessa di quarant anni fa secondo l’intuizione che fu di Pio XII". Lo dichiara il Pontificio consiglio per la pastorale della salute, dopo l’articolo di ieri dell’Osservatore Romano che metteva in dubbio la validità della "morte celebrale" e di conseguenza dubitando del trapianto degli organi.
Il Pontificio consiglio prosegue: "Non è cambiato niente nella dottrina su questo punto. Donare gli organi è una cosa buonissima e la Chiesa lo ha sempre sostenuto. Certo la questione è delicata perchè come si sa gli organi devono avere ancora dei segni di vita per essere espiantati".
Sull’editoriale pubblicato dall’Osservatore Romano, firmato da Lucetta Scaraffia, la posizione della Santa Sede rimane la stessa emersa nella giornata di ieri: "E’ un’opinione personale della signora Scaraffia. Anche se è utile che un certo dibattito prosegua su questi temi, la scienza va avanti, ci sono dei progressi, si discute".
L’Osservatore. La smentita della Santa Sede non preoccupa la redazione del quotidiano. "Abbiamo aperto un dibattito importante, si e’ aperta una discussione - dichiara il direttore del giornale Maria Van - Non è la prima volta e lo stiamo facendo in tanti campi. Questa estate abbiamo parlato anche di rianimazione".
* la Repubblica, 3 settembre 2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Quando muore il cervello
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 14/9/2008)
L’articolo di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano del 3 settembre ha suscitato scandalo e proprio per questo aiuta a pensare profondamente due esperienze di frontiera dell’esistenza umana: il coma irreversibile, e la fine della vita che una commissione di scienziati a Harvard ha deciso, quarant’anni fa, di far coincidere con la morte cerebrale, senza attendere che nel paziente sopraggiunga anche l’arresto cardiocircolatorio. È vero che quella decisione, oggi parametro indiscusso, non cessa di turbare e ha cambiato il nostro rapporto con la morte.
E’difficile non pensare che essa sia stata anticipata non solo grazie a più accurate conoscenze, ma anche per render possibili - sul piano etico, giuridico - i prelievi di organi. I trapianti infatti avvengono in presenza di elettroencefalogramma piatto, ma riescono pienamente solo se cuore e respiro restano attivi grazie a apparecchi esterni: è uno dei motivi per cui il paziente con elettroencefalogramma piatto, incamminato sicuramente verso la morte, vien dichiarato a questo punto trapassato e del suo corpo - tenuto in vita artificialmente - si parla come di cadavere a cuor battente. L’articolo sull’Osservatore introduce in tutte queste certezze la spina dell’angoscia: parole come cadavere a cuor battente resuscitano archetipi impaurenti (morti-viventi, zombie) e per questo la spina d’angoscia aiuta a pensare, su quel che si fa col corpo dell’uomo. I molti testi apparsi ultimamente, di medici e scienziati come Umberto Veronesi o Giuseppe Remuzzi, non sarebbero stati scritti con lo stesso sforzo pedagogico se non avessero dovuto reagire a inquietudini rilevanti.
Cosa accadde esattamente nel ’68, quando la commissione della Medical School di Harvard decretò che la fine delle funzioni cerebrali era morte, anche se il malato continuava a esser attaccato a macchine di respirazione e circolazione sanguigna? Aveva a cuore il paziente, o era mossa anche da altri interessi, di persone disperate e però estranee al morente? Scaraffia cita Hans Jonas, il filosofo tedesco che dal ’69 combatté la definizione di Harvard, proseguendo la battaglia fino a metà degli Anni 80. Sconfortato, scrisse poi che la guerra era perduta. In un post-scriptum dell’85 al testo pubblicato nel ’74 (Controcorrente, in Tecnica, medicina ed etica, Einaudi ’97) constatò: «La mia è stata un’esercitazione in inutilità». L’articolo sull’Osservatore gli rende omaggio: l’esercitazione non è stata vana. Vale dunque la pena rievocare quel che disse precisamente su morte cerebrale e vocazione medica, per estendere la discussione e ricordare alcune sue idee di fondo, lasciate in ombra dall’articolo.
Jonas non era affatto contrario ai trapianti, ne capiva profondamente il dramma, l’urgenza, la natura di dono. Non è vero, insomma, che «consentendo al trapianto si accetta implicitamente la definizione della morte data a Harvard». Quel che il filosofo chiedeva era di dare priorità assoluta al morente, temendo che il suo corpo venisse trasformato innanzi tempo in cadavere e che a questo passo ne seguissero altri ben più scabrosi: i cadaveri potevano esser tenuti artificialmente in vita a tempo indefinito, e trasformati in banche semi-permanenti di organi, sangue, ormoni. Voleva regole più rigide sui prelievi, sperando che essi iniziassero immediatamente dopo lo stacco del respiratore. Dare priorità al morente significava per lui una cosa soltanto: non essendo quest’ultimo più una persona a tutti gli effetti, ed essendo la morte imminente e sicura, ogni tubo o macchina dovevano essere staccati. In maniera chiara, Jonas fa capire che se la nuova definizione della morte avesse avuto come scopo primario quello di consentire il distacco del tubo, sarebbe stata da lui benvenuta.
Jonas era contro l’eutanasia ma favorevole al lasciar morire, in caso di coma irreversibile e se il paziente lo voleva. Anche se incosciente, il moribondo ha infatti diritti inalienabili, e «il diritto di morire è inalienabile come il diritto alla vita». È anzi parte del diritto alla vita («l’essere è un’avventura della mortalità»). Scaraffia sostiene che secondo la dottrina cattolica e le direttive della Chiesa il comatoso irreversibile è persona completa, non identificandosi quest’ultima con le sole attività cerebrali. Jonas era convinto che l’opinione della Chiesa fosse un’altra, vicina alla sua: in particolare la voce di Pio XII, i cui discorsi del ’57 - su rianimazione e analgesia - sono più volte citati nei suoi testi (nel sito Vaticano appaiono solo in spagnolo). Nei due discorsi il Papa considera leciti sia l’interruzione della terapia artificiale in caso di coma irreversibile, sia il ricorso a analgesici che sollevino dal dolore pur accorciando la vita. La definizione della morte, per Pio XII, non appartiene a Dio o alla natura: «Spetta al medico e all’anestesista dare una definizione chiara e precisa della “morte” e del “momento della morte” di un paziente in stato di incoscienza» (24-11-57).
L’obiezione di Jonas alla morte cerebrale resta tuttavia intatta, da meditare sempre. È vero ad esempio che i requisiti che consentono di certificare la morte sono severi, in Italia («La nostra legge è molto più attenta al donatore che all’attività di trapianto. I requisiti \ sono ad abundantiam», scrive Remuzzi sul Sole-24 Ore del 6 settembre). Ma altrove le pratiche sono più disinvolte. Il rischio, scrive Jonas, è che il trapianto diventi soverchiante, e la trasformazione del paziente in cadavere venga sempre più anticipata. Memore dell’uso che il nazismo fece della scienza, Jonas mette in guardia contro questo sperimentare attorno al corpo umano sulla soglia della morte, in nome di entità astratte come la razza, la società, o anche l’umanità. Il rapporto di Harvard creava pericolosi equivoci, minacciando il rapporto di fiducia tra malato e medico: «Il paziente deve esser totalmente sicuro che il medico non sarà il suo boia, e che nessuna definizione della morte gli darà il potere di divenirlo. \ Nessuno ha il diritto al corpo d’un altro».
Il diritto a morire è essenziale in Jonas, e fonda la sua obiezione al rapporto Harvard. La tecnica che simula vita è il suo avversario, e non la convinzione che la persona resti integra con elettroencefalogramma piatto («Non è umanamente giusto prolungare artificialmente la vita di un uomo privato di cervello» - Il paziente immobile o comatoso «non ha meno diritti di chi sceglie di morire rifiutando la dialisi»). Il pericolo non è lo stacco del tubo ma il riattacco del tubo, che simulando vita facilita trapianti. Tracciare confini evidenti tra vita e morte è difficilissimo, aggiunge, e di una cosa è persuaso: l’arresto cerebrale è l’anticamera della morte - è uno «stadio intermedio», una «soglia» - e non la morte (tra la morte del tronco del cervello e l’arresto del cuore passano 48-72 ore, scrive Remuzzi, e tuttavia per il certificato di morte e il trapianto le ore requisite sono 6 per l’adulto e 12 per i bambini, in Italia). Il dubbio di Jonas si riassume così: «In realtà, abbiamo tutti i vantaggi del donatore vivo senza gli svantaggi, che nascono dai diritti e dagli interessi del donatore stesso, che non ha più diritti essendo un cadavere».
Giungiamo così a quella che per Jonas è l’urgenza vera: una ridefinizione della medicina, più che della morte. Il medico deve seguire il comandamento fondatore (primo, non nuocere) ma imparare ad accordare tale comandamento con l’etica. In presenza di atroce dolore non potrà non somministrare medicine che alleviano il dolore, pur accorciando o interrompendo la vita. In ogni momento, si guarderà dal mutare l’uomo in cosa, in mezzo. Lo si tramuta in cosa in ambedue i casi: se non si rispetta il suo diritto a morire, e se gli si antepongono interessi della Società. La morte appartiene all’uomo, non all’umanità.
l’Unità, 04.09.2008
Mussi: «Da trapiantato dico che l’Osservatore non mostra carità cristiana»
di Roberto Monteforte
«Avrei voluto farle vedere i bambini appena nati trapiantati di cuore. La cura e l’amore con cui le mamme se li cullavano. Bambini vivi, non morti, perché c’era qualcuno che gli ha donato il cuore». Così Fabio Mussi, già parlamentare di lungo corso, 60 anni e un doppio trapianto di reni, risponde all’autrice dell’articolo dell’Osservatore Romano che contestando la morte cerebrale metteva in discussione i trapianti. Che invece per Mussi sono un esempio altissimo del concetto di carità cristiana.
«Nel portafoglio ho la tessera dei donatori di organi. Sono tra quelli che hanno firmato l’autorizzazione per l’espianto degli organi. L’ho presa subito. Quando nella legislatura 1996-2001 il Parlamento ha approvato la legge che regolamenta i trapianti. Chi lo avrebbe mai detto che poi sarei stato, invece, un “ricevitore” di organi. Uno che il trapianto lo ha subito». Parla Fabio Mussi, politico di lungo corso, presidente del consiglio nazionale di Sinistra democratica, sessant’anni tondi tondi e un doppio trapianto ai reni subito lo scorso febbraio che lo ha fatto rivivere. «Quando arrivi sull’orlo della dialisi quello che ti scorre nelle vene solo per convenzione lo chiami sangue: è veleno».
Mussi ha tante buone ragioni per essere un convinto difensore del trapianto di organi. «Penso sia una cosa di altissima civiltà. La donazione di organi è una delle più alte manifestazioni di simpatia verso il prossimo. Io sono grato a quella persona che non ho mai conosciuto e che terminando la sua vita ha consentito alla mia di poter continuare».
Per questo non riesce proprio a trattenere la critica per l’articolo dell’Osservatore Romano che mettendo in discussione il concetto di morte celebrale finisce per bloccare il trapianto degli organi. «Senza trapianto sarei andato in dialisi e poi avrei atteso anni prima di avere una possibilità. Già ora la gente aspetta tempi lunghissimi, perché i donatori sono meno del fabbisogno». All’autrice dell’articolo lo dice chiaro: «Avrei voluto farle vedere i bambini appena nati trapiantati di cuore. La cura e l’amore con cui le mamme se li cullavano. Bambini vivi, non morti, perché c’era qualcuno che gli ha donato il cuore». «Quell’articolo - insiste - è uno dei segni di regressione che si affollano di questi tempi».
Storia di un trapiantato. Era ministro dell’Università e della Ricerca scientifica. Ma per lui nessuna corsia preferenziale. Ha fatto riferimento ad un programma particolare e lo scorso 11 febbraio è stato operato all’ospedale di Bergamo, struttura pubblica e centro di grande eccellenza. «Struttura pubblica e centro di eccellenza internazionale - ci tiene a sottolineare -. In Italia è nel pubblico che si concentra l’eccellenza». Attende poco, quattro mesi, per il doppio trapianto. «È perché sono entrato in un programma preventive list”, una lista preventiva, che consente di sottoporsi ad un trapianto prima di entrare in dialisi se si sono superati i 60 anni. Invece di ricevere un rene da una persona giovane - spiega - si ricevono due organi da una persona anziana, quindi più usurati».
Le liste sono molto più corte. «Quando mi sono iscritto a questa lista eravamo in otto in attesa. Ho aspettato quattro mesi. L’intervento è più complesso. C’è il doppio dell’anestesia. È tutto doppio: due i tagli, due gli organi. I reni sono più usurati perché di persone più anziane. Prima venivano scartati. Non tutti azzardano, anche se i dati statistici rassicurano. Dicono che hanno un rendimento pressoché analogo ai reni più giovani e più efficienti. Questa scelta mi ha consentito il trapianto prima di entrare in dialisi». Un dato lo allarma: «Gli organi disponibili sono solo un terzo di quelli necessari per i trapianti. Già da diversi anni si registra un calo nelle donazioni». Commenta: «È un brutto segno dei tempi, di quando torna ad essere in voga “il mio è mio e il tuo è tuo”, l’egoismo sociale. Questo si riflette in tutti gli ambiti. C’è meno disponibilità verso il prossimo e meno generosità».
L’effetto di tutto questo? Si fanno sempre più lunghi i tempi di attesa per un trapianto. È per questo che condivide la critica di Ignazio Marino: «L’articolo pubblicato dall’Osservatore Romano è irresponsabile». «È vero - riconosce - che il Vaticano ha fatto una mezza marcia indietro, ma tuttavia dal quotidiano ufficiale della Santa Sede è stato lanciato un bel sasso nello stagno. È un segnale grave perché la Chiesa ha faticato a maturare una posizione sul tema dei trapianti. È arrivata ad una posizione nitida, favorevole solo con un famoso discorso di Giovanni Paolo II nel 2000».
Non ha dubbi Mussi: «Se si mette in discussione il concetto di morte come morte celebrale, praticamente si dà lo stop ai trapianti. Si toglie la speranza ad un numero crescente di persone». Questo è inaccettabile. «Cristo di Galilea lanciò al mondo il più straordinario messaggio di tutti i tempi: ama il prossimo tuo, amalo come te stesso. È una delle formule più rivoluzionarie nelle formule di società che mai siano state pensate. Una Chiesa che sottomette questo straordinario principio ad altri pregiudizi - conclude - mi preoccupa». Spera che sia solo un incidente.
Tra qualche giorno il «trapiantato» Mussi si sottoporrà alla sua verifica semestrale. Il suo organismo comincia a convivere sempre meglio con questo «nuovo filtro». Può riprendere la vita di sempre. «Il corpo funziona. Sono già andato a pescare, in barca a vela, al mare. Mi sono occupato delle mie nipotine». Ne parla con gioia. È una felicità che non vuole tenersi per sé. Vuole che sia possibile anche per chi è in lista e attende con speranza un cuore, un fegato, un rene nuovi.
l’Unità 3.8.08
Morte cerebrale, per l’Osservatore non basta
Il quotidiano della Santa Sede: l’encefalogramma piatto non stabilisce il decesso.
Poi il Vaticano smentisce
di Roberto Monteforte
LA DICHIARAZIONE di «morte cerebrale» non può sancire più la fine di una vita. Affermazione secca e perentoria che appare in bella evidenza sulla prima pagina del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano. L’articolo a firma della storica e filo sofa Lucetta Scaraffia è dedicato ai 40 anni del «Rapporto Harvard» con il quale si modificò la definizione di morte, passando da quella basata sull’arresto cardiocircolatorio a quella determinata dall’encefalogramma piatto. Una definizione sulla quale studiosi di formazione cattolica, la stessa Chiesa e la cultura scientifica laica avevano finito per convenire. Ora la Scaraffia che è anche membro del Comitato per la bioetica ed è stata vice presidente dell’Associazione Scienza e Vita la mette seriamente in discussione: «Quella definizione - afferma - va rivista in nome delle nuove ricerche scientifiche», per le quali - insiste citando studi recenti - «va messo in dubbio che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo».
Visto che la Chiesa è tenuta a muoversi in coerenza con la sua stessa dottrina a proposito del concetto di persona, comprese «le sue stesse direttive nei confronti dei casi di coma persistenti», allora dovrebbe rivedere la sua posizione sui trapianti di organo. Un esplicito stop ai trapianti. Questa sarebbe la sua conclusione. Infatti ricorda come proprio il fatto di accettare la definizione di morte celebrale abbia avuto per la Chiesa quella di proclamarsi favorevole al prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti. «L’accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri». Ora, visto che i risultati più recenti della ricerca scientifica avrebbero acclarato che «la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano» e messo in dubbio «il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo» - è la sua conclusione - tutto andrebbe ridiscusso. Insomma, non basterebbe più l’encefalogramma piatto per espiantare un organo, quando altri organi darebbero segni di vita. Si finirebbe così per «identificare la persona con le sole attività celebrali» e questo - assicura - «sarebbe in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente».
L’articolo dell’Osservatore lancia più di una provocazione. Si ipotizza anche che «forse aveva ragione chi sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall’interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare». Lo fa richiamando le preoccupazioni espresse nel lontano 1991 in un concistoro speciale dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Sulla frontiera delicatissima della bioetica si vuole aprire un nuovo fronte polemico con il mondo laico, con la comunità scientifica, oltre che interno alla Chiesa? È una preoccupazione legittima visto che le teorie espresse sono più di un sasso lanciato nello stagno del confronto scientifico. Finiscono per avere un peso politico, tanto più che alle Camere è in discussione il tema del testamento biologico, delicato anche per il mondo cattolico con settori della Chiesa nettamente contrari perché temono si scivoli verso l’eutanasia ed altri impegnati a definire il limite tra accanimento terapeutico e le necessarie pratiche di mantenimento dei malati terminali.
Prima che la polemica monti eccessivamente la Santa Sede si è affrettata a chiarire che la dottrina della Chiesa sull’espianto degli organi non cambia. «Le riflessioni pubblicate dall’Osservatore Romano in un articolo sul tema sono ascrivibili all’autrice del testo e non impegnano la Santa Sede», ha precisato il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi. «L’articolo in questione - ha sottolineato - non è un atto magisteriale nè un documento di un organismo pontificio». «Non dico nulla sul contenuto dell’articolo - ha aggiunto -, che non è un’editoriale, se non che è firmato da una persona e che dunque porta l’autorevolezza della testata e di quella persona». Sul punto eticamente sensibile dei trapianti di organi, almeno per ora, la Chiesa non cambia linea.
l’Unità 3.8.08
Dove comincia la morte
di Carlo Defanti, Primario neurologo emerito
Il quarantennale del documento con cui una Commissione dell’Università di Harvard propose di considerare quello che al tempo veniva denominato «coma irreversibile» come un nuovo criterio di morte (e che da allora chiamiamo «morte cerebrale»), promette di essere foriero di tempeste nel già tormentato terreno della bioetica italiana. L’ultima l’ha sollevata ieri un articolo de l’Osservatore Romano (non un «editoriale» come ha precisato in serata il capo della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi, nel prendere le distanze da quanto scritto) a firma di Lucetta Scaraffia.
L’autrice argomenta la difficoltà di mantenere oggi questo concetto, le cui basi sono state minate da una serie di nuovi dati, fra i quali spicca il fatto che una donna incinta in morte cerebrale può essere mantenuta biologicamente viva anche per diverse settimane in modo da permettere la maturazione del feto e la nascita di un bambino sano. Gli oppositori del concetto di morte cerebrale, di cui il filosofo Hans Jonas è stato il precursore, sostengono che tale definizione fu concepita al solo scopo di rendere possibile il prelievo di organi. La conclusione , è che sia stato un errore voler “risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, cioè ridefinendo la morte, mentre sarebbe stato più corretto “elaborare criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili” per l’attività di trapianto. L’autrice prosegue chiedendosi se allo stato dell’arte la Chiesa possa continuare a sostenere il concetto di morte cerebrale, come sostanzialmente ha fatto finora, e cita un vecchio intervento del cardinale Ratzinger (1992) in cui si criticava la “messa a morte” dei malati in coma allo scopo di prelevarne gli organi.
Che cosa pensare a questo punto? Rifletto su questo tema da oltre vent’anni e ho scritto su questo un libro (Soglie, Bollati Boringhieri 2007) nel quale ho esposto in modo approfondito la storia e il concetto della morte cerebrale e ho concluso auspicando una ridiscussione pubblica di questo tema che sembrava fin qui “assestato”. Tuttavia non prevedevo che la Chiesa volesse sollevare la questione in questo momento, anche se conoscevo le perplessità espresse da studiosi cattolici in seno alla Pontificia Accademia delle Scienze. In effetti se questo intervento desse il via a un nuovo dibattito sul tema e se si dovesse raggiungere la conclusione (da me condivisa) che il concetto di morte cerebrale non è scientificamente inattaccabile, ne discenderebbe per il Magistero, da sempre fautore della assoluta sacralità della vita, la non liceità dei prelievi di organo dai “cadaveri a cuore battente” e un danno incalcolabile per l’importantissima attività dei trapianto di organi (alla quale io sono invece del tutto favorevole). Credo che l’articolo in oggetto dimostri come l’intero argomento della fine della vita sia in piena evoluzione (e la precisazione in serata del portavoce della Santa Sede ne è, per altri aspetti, una ulteriore conferma). Il fatto fondamentale è che oggi, nelle nostre società la morte non è quasi mai un evento istantaneo, ma un processo più o meno lungo che viene profondamente influenzato dall’intervento medico. Si creano in questo processo diverse “soglie”, una delle quali è appunto la “morte cerebrale”; essa non coincide con la morte dell’organismo come un tutto (che si verifica solo dopo l’arresto cardiocircolatorio), ma è certamente un “punto di non ritorno” al di là del quale è superfluo continuare le terapie rianimatorie e al di là del quale è possibile, col previo consenso del malato o dei suoi familiari intesi come suoi portavoce, prelevare gli organi a scopo di trapianto.
l’Unità 3.8.08
Marino: quando il cervello si spegne l’individuo muore
di Natalia Lombardo
«Affermazioni di questo tipo possono causare gravi conseguenze su attività cliniche che ogni giorno salvano centinaia di vite umane», avverte Ignazio Marino, senatore del Pd, chirurgo e docente universitario specializzato in trapianti d’organo, capogruppo Pd in commissione Sanità.
Secondo lei mettere in discussione la morte cerebrale come fine della vita vuol essere una indicazione ai legislatori? «Credo sia la posizione personale espressa da Lucetta Scaraffia, una persona che si occupa di bioetica e non una teologa; del resto la Santa Sede ha chiarito che non è una posizione ufficiale. Se così fosse, da domani non si potrebbero più prelevare degli organi da persone la cui morte cerebrale è stata accertata con criteri che derivano dal lavoro svolto nel ‘68 dall’Ad Hoc Committee di Harvard».
Criteri superati, per l’articolo dell’Osservatore Romano. «Sono principi usati fino ad ora. Fino al ‘68 la morte era stata identificata con l’arresto del cuore e i conseguenti segni biologici, fino alla putrefazione. Nel ‘68, con i primi interventi di bypass, si fermava il cuore, si operava e lo si faceva ripartire; allora si è capito che la fine della vita non corrispondeva all’arresto del cuore, bensì al danno irreversibile al cervello, la morte cerebrale. Per accertare questa intuizione è stato riunito un comitato con medici e scienziati, uomini di legge e teologi. Ne uscì un lavoro molto rigoroso, una pietra miliare che da quarant’anni ha cambiato la definizione della morte e il modo di lavorare in ospedale. Da studente di medicina all’inizio degli anni ‘70 ricordo che si faceva un elettrocardiogramma di venti minuti prima di stabilire la morte. Oggi farebbe sorridere. I criteri di Harvard hanno cambiato anche la cultura: nell’arte e nella letteratura si è considerata la morte dell’uomo come la morte del cuore, spaccato dal dolore o fermato di colpo».
Nell’articolo si sospetta un interesse del comitato di Harvard, una sorta di fabbrica di trapianti. Un’offesa? «Be’ sarebbe riduttivo pensarlo. Come se gli scienziati, insieme a teologi e avvocati, si riunissero per trovare una giustificazione a quello che vogliono fare. Questa visione di una scienza che agisce nell’interesse di se stessa e non dell’uomo non è giusta».
Quante sono le vite salvate grazie ai trapianti? «Siamo quasi al milione di vite salvate dal 23 dicembre 1954, con il primo trapianto di rene avvenuto con successo. Poi sono diventati una terapia corrente a fine anni ‘70». Una dichiarazione del genere può essere pericolosa in un’epoca in cui si vuole rivedere tutto? «Prendiamola come una provocazione, un’indicazione intellettuale e non morale. Se fosse morale io stesso, che ho dedicato venticinque anni della mia vita al trapianto di fegato, e tanti chirurghi nel mondo, dovremmo porci subito un quesito : se non fosse più valido l’accertamento di morte con l’elettroencefalogramma piatto ripetuto dopo sei ore, più una visita specialistica, vorrebbe dire fermare i trapianti e assumersi la responsabilità morale di migliaia di vite che morirebbero, senza più speranza».
E quello sì che sarebbe contrario a una logica cristiana... «La Chiesa infatti ha sottolineato più volte l’importanza della solidarietà e della carità cristiana con la donazione degli organi. Far tornare a sorridere un bambino nato con un fegato malato è uno dei più straordinari passi fatti dalla scienza negli ultimi cento anni. Lucetta Scaraffia cita la donna alla quale è stata protratta la vita biologica per portare avanti la gravidanza: una scelta drammatica, ma quella donna era morta, il suo cervello si era spento e non si è risvegliato».
Un’attività biologica prolungata con la tecnica, mentre i trapianti restituiscono la vita. Non è una contraddizione per un cattolico? «Io sono un credente, ho lavorato con i maggiori esperti di trapianti nella storia, come Thomas Starzl, anche atei, ma la definizione di morte cerebrale è solo scientifica: se il cervello è morto, lo è l’individuo».
Questo ripropone il problema del testamento biologico sul quale ha ripresentato la proposta di legge. «Sì, firmata da 101 senatori, anche di centrodestra. Il fatto che esista una tecnologia non vuol dire che la si debba usare per forza. Se io posso dire che voglio spegnermi in modo naturale nel letto di casa mia, circondato dagli affetti, piuttosto che prolungare la mia agonia con una macchina, ecco, non credo che alcuna categoria morale possa impormi l’uso di una tecnologia. L’esaltazione della tecnica può diventare un’idolatria della scienza e, forse, una rinuncia all’umanesimo e alla carità cristiana».
l’Unità 3.8.08
Creare panico
di Maurizio Mori
La Consulta di Bioetica condivide che si debba ridiscutere la definizione di morte, come molti altri presupposti della tradizionale etica medica ippocratica. Ad esempio, si deve riconoscere che l’alimentazione e idratazione artificiali sono terapie mediche e possono essere sospese nei casi di SVP come Eluana Englaro. Forse si deve anche riconoscere che l’esatto confine del concetto di morte dipende da decisioni etiche più che da osservazioni fattuali - come osservato dal neurologo Carlo Defanti nel volume Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, 2007).
Riteniamo che la bioetica comporti un ampio dibattito per rivedere proprio il tradizionale paradigma ippocratico, che non funziona più e va sostituito. Pertanto auspichiamo una più approfondita riflessione su tutte le questioni, avendo di mira l’ampliamento delle libertà individuali e la tutela delle persone.
Ma riteniamo altresì che l’articolo pubblicato da l’Osservatore Romano riveli la situazione di sbando della chiesa cattolica romana: non sapendo più come gestire le nuove tecniche e trovandosi in serissime difficoltà sul caso Englaro, preferisce gettare discredito su tutte le nuove tecnologie, venendo anche a rimettere in discussione i trapianti d’organo. Piuttosto che cedere su un punto, meglio distruggere tutto: muoia Sansone con tutti i filistei! Una tecnica antica per creare panico e favorire svolte conservatrici. L’obiettivo ultimo è chiaro: bloccare il caso Englaro e fissare delle barriere alla possibile legge sul testamento biologico, che sarà tanto restrittiva da essere inutilizzabile. In breve qualcosa di peggio della legge 40/2004.
La Consulta di Bioetica ritiene che ormai la chiesa cattolica stessa si ponga contro il progresso civile: è positivo che emerga lO spirito conservatore promosso dalle gerarchie ecclesiastiche, ed invita a difendere i nuovi valori di libertà che vanno affermandosi nella società.
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus
A rischio 3000 trapianti l’anno se passa il Verbo della Chiesa
di Cristiana Pulcineli
Nel 2001 Adriano Celentano dichiarò, durante una trasmissione televisiva, di non credere al criterio di morte cerebrale. Nei giorni successivi i medici dei reparti di terapia intensiva degli ospedali di tutta Italia dovettero constatare una brusca caduta nella donazione degli organi. La cosa fu talmente clamorosa che è rimasta nella memoria degli addetti ai lavori con il nome di «effetto Celentano».
«Nei giorni successivo alla trasmissione - ricorda Mario Riccio, l’anestesista medico di Welby - mi trovai a chiedere al parente di un paziente l’autorizzazione per l’espianto degli organi. Il parente rifiutò dicendomi: ma ha sentito Celentano? L’effetto Celentano produsse nel giro di una settimana un crollo nelle donazioni che si tradusse nella morte di molte persone». Per ovviare al problema dovettero scendere in campo Umberto Veronesi, Renato Dulbecco e altri nomi della scienza italiana spiegando, dagli schermi televisivi, che la morte cerebrale è un criterio condiviso dai medici di tutto il mondo.
«Un effetto simile potrebbe essere prodotto dall’editoriale dell’Osservatore Romano», aggiunge Riccio. «Bisogna considerare che c’è moltissima gente che ha bisogno di un organo, e molti di essi non possono aspettare».
Ci sono due tipi di trapianti: quelli per i quali si può aspettare e quelli d’urgenza. Tra i primi c’è il trapianto di reni: il paziente può aspettare anche anni perché nel frattempo fa la dialisi. Tra i secondi ci sono una buona parte dei trapianti di cuore e di fegato. Ad esempio, un paziente con un’epatite fulminante che aspetta un trapianto di fegato non può aspettare oltre 48 ore. Un paziente con alcune patologie cardiache ha una settimana di tempo prima che il suo cuore ceda. In tutti questi casi un tentennamento dell’opinione pubblica che duri anche solo qualche giorno può essere fatale.
Come tutti sanno, del resto, la domanda di organi supera di molto l’offerta. In Italia si fanno oltre 3000 trapianti l’anno. La metà sono trapianti di rene, circa 1000 di fegato, 300 di cuore, 100 di polmone e solo una cifra esigua di pancreas e intestino.
Ma i trapianti dovrebbero essere molti di più: le liste d’attesa sono lunghe. Secondo i dati più recenti, 9400 pazienti italiani oggi aspettano un organo. Quelli che hanno bisogno di un rene sono 6813 e aspettano in media 3,1 anni. Per il fegato sono il lista d’attesa 1469 pazienti e attendono in media 1,9 anni. Per il cuore ci sono 864 pazienti e la loro attesa è di 2,5 anni. Eppure, il criterio di morte cerebrale è stato stabilito quarant’anni fa e da allora non è stato messo in discussione. «Anche la Chiesa ha sposato il criterio di morte cerebrale», continua Riccio. Prima di quello spartiacque che fu il «rapporto di Harvard», la morte veniva diagnosticata quando il cuore smetteva di battere. Il 5 agosto 1968 la rivista scientifica JAMA pubblicò una ricerca della Harvard Medical School nella quale si riconosceva come alcuni casi di coma, la perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale e l’impossibilità di una respirazione autonoma fossero i nuovi criteri in grado di spostare il concetto di morte dal cuore al cervello. Un evento che ebbe un’importanza storica per i trapianti d’organo. Gli organi, infatti, possono essere prelevati solo da un cadavere «a cuore battente»: se l’organo, che sia cuore, polmone o fegato, non viene irrorato dal sangue, muore e diventa inservibile. «Del resto, la morte cerebrale è uno stato transitorio che dura un periodo di tempo limitato e si conclude inevitabilmente con l’arresto cardiaco», spiega Riccio. A differenza dalla morte corticale, la morte cerebrale comporta il fatto che la persona non respira più autonomamente e perché il suo cuore batta è spesso necessario l’apporto dei farmaci. «Oggi le regole in Italia per l’accertamento di morte cerebrale sono molto rigide. Ad esempio, dobbiamo tenere il soggetto adulto in osservazione per 6 ore prima di dichiararne la morte cerebrale. In altri paesi, ad esempio l’Inghilterra, i criteri sono meno stretti».
Le linee guida del resto sono in continua evoluzione: nell’aprile scorso un decreto ha aggiornato i criteri per l’accertamento della morte cerebrale. Tra i nuovi obiettivi c’è quello di rendere possibile l’esecuzione di tecniche strumentali diagnostiche permesse dell’odierno sviluppo tecnologico, inesistenti all’epoca del decreto originale.
Ma il tema è ancora molto delicato tanto che la famosa legge del 2001 riguardo il consenso al prelievo (la famosa regola del silenzio assenso) è bloccata. I decreti attuativi non sono ancora operativi e oggi l’assenso al prelievo degli organi (o, per maggiore precisione, la dichiarazione di non opposizione al prelievo) può essere data solo da un parente di chi si trova nello stato di morte cerebrale.
la Repubblica, 04.09.2008
La tribuna dei teocon
di Umberto Veronesi
L’ultimo no a Eluana Englaro dalla Regione Lombardia contraddice la sentenza della magistratura, e l’editoriale dell’Osservatore Romano che avanza dubbi sulla morte cerebrale, riaprono il drammatico confronto su chi decide del nostro ultimo respiro.
A quanto pare, la Santa Sede che ne è la proprietaria lascia al direttore di turno la responsabilità delle sue scelte, né più né meno di quel che accade normalmente nella grande stampa di informazione. Del resto, nella nostra epoca di crisi delle ideologie è già accaduto di veder sbiadire in altri quotidiani le certezze precostituite di verità offerte come chiavi di lettura dei fatti del giorno. Ma sarebbe bene che le autorità vaticane lo spiegassero con chiarezza. Se il direttore di quel quotidiano decide di ospitare e di dare risalto all’opinione di chi, forte di una sua rispettabile convinzione religiosa più che di una specifica autorità in materia, revoca in dubbio il criterio fondamentale su cui opera la medicina dei trapianti, non per questo i medici, gli anestesisti e gli infermieri cattolici debbono correre a fare obbiezione di coscienza. È così?
Come ha ricordato su Repubblica il professor Ignazio Marino, la cosa è importante per chi ha la vita appesa al filo di un trapianto di organi. È qui che si svolgono quotidianamente drammi silenziosi e si combattono battaglie in difesa non della vita in generale - come quelle sulle questioni dell’aborto e dell’eutanasia - ma di precise esistenze individuali.
C’è, poi, un problema più generale di scelte della Chiesa che si è clamorosamente profilato in questo ultimo episodio ma che avevamo già intravisto nella precedente questione dei giudizi di Famiglia cristiana sulla politica del governo attuale: la contraddizione sempre più evidente tra l’alleanza strumentale della Chiesa con le truppe di sfondamento dei "teocon" nella battaglia coi valori della democrazia laica e quella che costituisce la sostanza civile e storica di tanta presenza cattolica nel nostro mondo. Bisognerà seguire con attenzione questa vicenda, aspetto inedito della situazione per certi aspetti grottesca dell’Italia politica attuale: un paese dove l’opposizione di sinistra è semplicemente scomparsa e valori della solidarietà sociale si affidano direttamente all’ispirazione dei singoli e al fiume sotterraneo del volontariato.
Tuttavia l’episodio mostra indirettamente l’urgenza di un problema che richiede l’attenzione del potere legislativo: quello del testamento biologico. Materia delicata, delicatissima. Il testamento è stato e resta un documento importante per quanto riguarda le disposizioni sui beni di fortuna: intere categorie professionali vivono in grazia di quel documento, per interpretarlo, contestarlo, attuarlo. L’esperienza quotidiana e la letteratura d’ogni paese insegnano che i testamenti si fanno e si disfano, che le ultime volontà possono sempre diventare le penultime. L’incertezza degli umori, la variabilità degli stati d’animo e degli affetti dominano nell’operazione del disporre dei propri beni.
Anche la vita è un bene: un bene supremo, si dice. Per tutti, si pretende. E questo non è vero. "A me la vita è male": parole di Giacomo Leopardi. Così vere e così suggestive che nemmeno il censore d’ufficio della Sacra Congregazione dell’Indice se la sentì di condannare quel suddito degli Stati Pontifici che aveva così radicalmente divorziato dalla religione obbligatoria. Quanti oggi nel mondo sottoscriverebbero quelle parole? meglio non saperlo. Ma in cambio gli ottimisti per professione, i credenti nel valore obbligatorio della vita anche a dispetto dei sentimenti e delle volontà dei viventi abbassino almeno la voce. Un fatto è certo: l’avanzata della legge tocca oggi l’ultimo dei beni disponibili, la vita L’inarrestabile processo di giuridicizzazione di ogni aspetto dell’esistenza bussa a questa ultima porta. Bisognerà che ci si decida ad aprirla.
Certo, qui si aprirà la lotta fra chi chiede una legge e chi non la vuole. Fino a non molto fa, la linea divisoria passava tra i credenti in un Dio provvidente e benevolo, erogatore di un’altra vita e chi non condivideva quella fede. Ai non credenti l’invito degli uomini della religione è stato fatto rovesciando l’atto di nascita della civiltà moderna e chiedendo di accettare in mancanza di meglio una regola di vita fondata sull’esistenza di Dio: come ipotesi, come scommessa. Ma da quella scommessa metafisica che piaceva a Pascal la struttura di potere che il clero cattolico ha costruito su fondamenta di diritto romano ha ricavato la conseguenza di imporre anche ai cittadini di uno Stato moderno la sudditanza alla loro legge. Da qui gli inviti alla disobbedienza alle leggi dello Stato, la difesa delle cosiddette obiezioni di coscienza di medici e farmacisti.
E tuttavia anche per la religione cattolica bisognerà avere presenti i lati positivi dell’opera sua e dell’influsso che esercita specialmente in Italia dove è radicata capillarmente e svolge compiti fondamentali di assistenza e di protezione: anche di cultura e di presenza civile, supplendo a istituzioni assenti e portando parole coraggiose e ricche di echi, come ha mostrato di saper fare di recente Famiglia cristiana. La resistenza alle sbrigative soluzioni legali di problemi delicatissimi di vita e di morte merita sicuramente attenzione. Anche per il "testamento biologico", come già per la legge sull’aborto terapeutico, si tratta di averne ben presenti i limiti.
Come ogni altro bene, più di ogni altro bene, la vita subisce le fluttuazioni del mercato ed è esposta alla legge della domanda e dell’offerta. Anche alla legge della propensione al rischio del padrone di quel bene: da giovani si è pronti a regalarlo o a disfarsene con levità di spirito, da vecchi lo si risparmia.
L’avarizia del vecchio che resiste alla natura con tutti i mezzi è stata raccontata in uno tra i più belli dei racconti di Cechov, "Una storia noiosa". Quando resta poco del giorno, ogni istante diventa prezioso; quando si sa che è il nostro turno di andarcene, si spia con ansia ogni goccia d’olio nella lampada. Se ne ricava una banalissima conclusione: che un testamento vale per il momento in cui lo si detta anche se è pensato per decidere qualcosa che avverrà in futuro. È molto probabile che l’ultimo fremito di vita del malato terminale sarà di rimpianto e di attaccamento estremo a quello che in piena salute aveva chiesto di essere aiutato ad abbandonare. Tenendo conto di questo, la legge non potrà andare oltre la sua funzione che è quella di essere fatta per gli individui: dunque per tutelarne i diritti, non per sottometterli ad altra e superiore potestà. Se questo è chiaro, allora si può certamente trovare una formula giuridica adeguata. Che vi si arrivi è necessario, anzi è gran tempo che lo si faccia. Lo impone la necessità di tutelare ciascuno di noi dalla prepotenza di regole che privano l’individuo della disponibilità di ciò che solo è suo, il tempo di vivere e di morire.
Nessuna delega incontrollata a terzi, nessun diritto di mettere le mani sui nostri corpi ancora viventi giocando con le parole di una legge. Ma anche la fine di quegli osceni clamori che abbiamo tante volte ascoltato sui casi di chi lucidamente chiedeva di essere aiutato a concludere una vita intollerabile. E soprattutto si dovrà incoraggiare lo sviluppo di quelle forme di assistenza che esistono per rendere meno intollerabili le malattie che tolgono memoria e conoscenza, che rendono l’essere umano una minaccia per sé e per chi vive con lui; cure palliative, incremento dei luoghi dove si possa terminare in modo umano una vita che se ne va e andare incontro a una morte annunciata. Tutto questo significa spostare l’attenzione alla carenza vera dell’Italia: le istituzioni dell’assistenza. È alla medicina come sistema di tecniche e di culture che si rivolge oggi chi ha realmente bisogno di tutelare vita e morte sue e di chi da lui dipende. Gli altri parlano e gridano da pulpiti vistosi.
I medici sanno, operano, fanno le cose che possono e sanno fare. Ma con quali mezzi? E combattendo con quali pregiudizi, propri e altrui? In quali contesti? Perché è evidente che altro è l’ospedale locale altra è la grande clinica privata, altro è il Sud e altro il Nord del mondo, non della sola Italia, visto che i soli confini che l’emigrazione in cerca di ospedali oggi conosce sono quelli della ricchezza individuale e del mondo intero. Così come ogni altra forma di emigrazione.
la Repubblica 4.9.08
I padroni della vita
di Adriano Prosperi
"A ciascuno il suo": il motto dell’Osservatore Romano significa forse che ognuno può scegliere quello che preferisce nell’offerta di notizie e commenti del giornale vaticano? Così si direbbe, a giudicare dalla pubblicazione di un articolo che mette in discussione il criterio della morte cerebrale.
La gente ha paura della propria morte, ma allo stesso tempo la vuole, o meglio vuole sapere che quando il momento verrà, se ne andrà in pace. Io sono d’accordo con il filosofo Hans Jonas, che, riflettendo sul problema della morte cerebrale, scrive: «Non è necessaria una ridefinizione della morte, ma forse soltanto una revisione del presunto dovere del medico di prolungare la vita ad ogni costo». Di fronte a un paziente che ha lesioni così gravi da non avere alcuna prospettiva di recupero, la domanda non è "il paziente è morto?" ma: "Che fare di lui?".
A questa domanda non si può certo rispondere con una definizione di morte ma con una definizione dell’uomo e di cos’è una vita «umana». In altre parole, il problema della nostra morte si è spostato dalla scienza (che ha il ruolo di definire i criteri per determinare la morte in base alle sue conoscenze) alla bioetica (che ha il compito di stabilire un equilibrio fra applicazione delle conoscenze della scienza e vita dell’uomo). La scienza continua a spostare i limiti della morte, ma al di là di questi confini non c’è la nostra esistenza naturale, in cui noi amiamo, ci emozioniamo, pensiamo, soffriamo; quella che noi medici difendiamo con tutte le nostre energie, la nostra intelligenza e il nostro amore.
C’è un limbo opaco e inquietante a metà fra la non-morte e la non-vita. Va ricordato che la bioetica è nata nel 1970 con Von Potter che, nel suo "Bioethics: a bridge to the future", sostiene che l’etica deve ispirarsi alla biologia dell’uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell’esistenza umana. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l’introduzione della vita artificiale, cioè quando a metà del secolo scorso sono state introdotte nei reparti di rianimazione delle macchine in grado di mantenere l’ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche se le funzioni cerebrali sono cessate.
Nasce così l’incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia. Per millenni l’uomo ha avuto paura di morire per le guerre, le malattie, le carestie, invece negli ultimi decenni ha iniziato a sviluppare una nuova paura che è ancora agli esordi del suo manifestarsi: la paura di vivere oltre il limite naturale della biologia. Molti si stanno rendendo conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all’infinito. Ha ragione l’Osservatore Romano: i principi del rapporto di Harvard che ha introdotto i criteri neurologici nella definizione di morte (da allora basata non solo sull’arresto cardiocircolatorio, ma anche sull’encefalogramma piatto), se non superati, sono in evoluzione. Troveremo altri criteri più sofisticati forse, e tecnologie ancora più potenti, ma dovremo allora rinunciare alla morte? È una prospettiva agghiacciante, che si associa all’immagine di un esercito crescente di corpi vegetanti chiusi nelle loro prigioni. Come fare allora a ritrovare la nostra morte? Ritorniamo a Hans Jonas e riflettiamo sul concetto di vita. La svolta alla definizione di vita è venuta a fine ’900, quando è stata identificata la vita biologica con il pensiero: se l’elettroencefalogramma è piatto, non c’è attività cerebrale e dunque non c’è vita. In Italia l’introduzione dei criteri neurologici per accertare la morte (sulla base dei parametri di Harvard) avvenne nel 1969 e nel 1970, con due decreti che poi vennero incorporati in una legge relativa al prelievo e al trapianto d’organo nel 1975.
Se i parametri di Harvard fossero superati e se effettivamente, dal punto di vista fisiopatologico, la morte cerebrale non provocasse la disintegrazione del corpo, ciò che non viene né superato né messo in discussione è l’irreversibilità dello stato che la morte cerebrale provoca. Per fare un esempio concreto pensiamo a Terry Schiavo, il caso americano che ha infiammato le cronache internazionali perché, dopo grandi polemiche, la sua vita artificiale fu interrotta. Ebbene, all’autopsia il cervello di Terry è risultato completamente devastato per cui è dimostrato che la ragazza non vedeva, non sentiva, non provava né fame né sete, né null’altro. La ricerca scientifica ci offre dei parametri certi, come appunto la morte cerebrale, oltre i quali la vita irreversibilmente non sarà mai più quella che noi conosciamo e chiamiamo vita. Dovrebbe spettare ad ognuno di noi decidere che fare.
La Chiesa e i precetti dei teocon
di EZIO MAURO *
C’E’ PIU’ di un segno dei tempi, per chi abbia voglia di leggerlo, nella piccola crisi tra l’Osservatore Romano e il Vaticano che si è consumata in questi giorni, attorno al tema cruciale degli ultimi istanti della vita umana. I fatti sono chiari: il giornale della Santa Sede ha pubblicato un editoriale di Lucetta Scaraffia nel quale la storica - che fa parte del comitato nazionale di bioetica ed è vicepresidente dell’associazione Scienza e Vita - sosteneva che la morte cerebrale non può essere considerata la morte dell’essere umano, in quanto nuove ricerche "mettono in dubbio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo".
Poiché questa affermazione contraddice non soltanto le risultanze scientifiche comunemente accettate in ogni Paese moderno e la definizione di morte raggiunta quarant’anni fa ad Harvard da medici, giuristi ed esponenti delle religioni, ma la stessa dottrina ufficiale della Chiesa, abbiamo assistito ad un fatto inedito: per la prima volta nei 147 anni della sua storia l’Osservatore Romano è stato smentito dal portavoce del Papa, e il presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale della Salute, Cardinal Barragan, ha dovuto intervenire per spiegare che non c’è alcun mutamento nella linea della Chiesa: dopo sei ore di encefalogramma piatto, la dottrina cattolica accetta la dichiarazione di morte avvenuta e considera la donazione degli organi "un atto di grande carità verso il prossimo".
Fin qui la vicenda. Ma sarebbe sbagliato non riflettere su questo cortocircuito culturale e politico, sicuramente ridotto nelle sue dimensioni, e tuttavia fortemente simbolico per il significato e lo scenario in cui si compie. È probabilmente giunto il momento di dire che il grande ritorno della religione nel discorso pubblico e nello spazio politico (che fa parlare di una nuova stagione di post-secolarismo) non è avvenuto in Italia attraverso il "fatto" cristiano, e cioè il messaggio della rivelazione e del Credo, ma attraverso la precettistica e la dottrina sociale: nel presupposto che coincidano entrambe da un lato con la Verità (e dunque siano in grado di liberare potenziali di significato più profondi e duraturi delle verità laiche, tutte relative) e dall’altro con il diritto naturale, perché la Chiesa ha sempre sostenuto la sua competenza su tutta la legge morale, non solo quella evangelica ma anche quella naturale, in nome della connessione tra l’ordine della Creazione e l’ordine della Redenzione.
Il veicolo di questa riconquista è stato in realtà l’etica, cioè i precetti morali della Chiesa, trasformati quasi in una sovrastruttura della fede, capace di portare il cattolicesimo da religione delle persone a religione civile, come se le società democratiche non potessero ormai più bastare a se stesse per insufficienza di risorse morali, e dunque avessero bisogno di un supporto religioso alla stessa democrazia. In altri tempi e con altri significati, ma profeticamente, don Giussani aveva già parlato di "prevalenza dell’etica rispetto all’ontologia", con l’"avvenimento" cristiano messo in sottofondo. Il passo in più (proprio in questi ultimi anni, e più volte) è stato il tentativo di pretendere che la legge civile basasse la sua forza sulla coincidenza con la morale cattolica, con l’affermazione di fatto di una idea politica della religione cristiana, quasi un’ideologia, che non a caso è stata chiamata "cristianismo".
L’etica cristiana, la precettistica morale della Chiesa, sono dunque diventati in senso largo strumenti di azione politica, dando forma al disegno del Cardinal Ruini, quando sei anni fa vedeva il cristianesimo come seconda "natura" italiana, che proprio per questo può nella visione di sua Eminenza essere trasgredito solo da leggi in qualche modo contro natura, e perciò contestabili alla radice: senza più la distinzione classica tra la legge del creatore e la legge delle creature che è alla base della laicità di ogni Stato moderno.
Questa ideologizzazione morale del cristianesimo, dove la norma e il precetto parlano più del Credo e del Vangelo, ha recintato negli anni di potere del Cardinal Ruini un perimetro nuovo e vasto, inglobando gli atei devoti e la nuova destra paganizzante italiana: a cui la Chiesa ha fornito un deposito di tradizione profonda altrimenti inesistente e addirittura un fondamento di pensiero forte che la prassi vagamente idolatra del berlusconismo non era in grado di elaborare. Era la cornice di una moderna-antica cultura conservatrice per la post-modernità, ben oltre i confini del mondo democristiano ormai inabissato. Di più: era l’ipotesi di un Dio italiano che cammina nel Paese "naturalmente cristiano", che non aveva mai conosciuto una via nazionale al cattolicesimo.
Il ruinismo e la destra non hanno avuto bisogno di unioni pubbliche. Marciavano in parallelo, e la politica poteva permettersi di ignorare sia i comandamenti che la trascendenza accettando lo scambio concreto e terreno sui cinque punti indicati dal Cardinal Sodano nel suo personalissimo esame di maturità ai leader italiani: la vita, la famiglia, la gioventù, la scuola, la solidarietà. Il punto d’incontro è appunto l’etica dei precetti, l’idea che la legge morale della Chiesa tradotta in norma possa creare un’identità collettiva, superando l’idea del parlamento come luogo dove le leggi si fanno con l’unica regola della maggioranza, e ogni verità è relativa e parziale. Ma un altro punto d’intesa, che discende dall’accettazione di quella precettistica come regola naturale e civile, non soltanto religiosa, è il rifiuto comune della moderna religione europea del politicamente corretto, dell’adorazione "pagana" dei diritti, delle élite dell’Europa e della globalizzazione, del vecchio cuore socialdemocratico del Novecento, peraltro già in crisi per conto suo.
Oggi, in qualche modo, si rompono due anelli di questo mondo che tiene insieme vecchio e nuovo. Con Ruini è finita anche l’autonomia del ruinismo, questo potere disarmato ma costituente e fondativo di un’identità cristiano-conservatrice nazionale. Non soltanto la Cei ha cambiato il suo registro, insieme con la leadership. Ma soprattutto, la Segreteria di Stato ha ripreso in mano il rapporto con le istituzioni e con la politica italiana, restituendo l’Episcopato al suo compito tradizionale. Il sistema di relazioni con il mondo politico, l’elaborazione culturale della presenza cattolica nel nostro Paese - il "Dio italiano" - viene dunque riassorbito dal Vaticano, dove c’è oggi un Segretario di Stato, che con ogni evidenza non intende rilasciare deleghe.
Nemmeno - o forse sarebbe il caso di dire soprattutto - di tipo culturale, sul confine tra l’etica e la politica. Il richiamo all’Osservatore Romano lo conferma con chiarezza. L’etica è stata in questi anni un territorio di scorribanda, dove senza nemmeno mai pronunciare il nome di Dio la precettistica della Chiesa è stata usata come pretesto di lotta politica, via via estremizzandola oltre il limite: perché esiste pure un limite tra teologia e ideologia, tra dottrina e politica. Nell’ateo devoto, dopo aver incassato per anni la comoda devozione, la Chiesa riscopre l’ateo. Dunque, ancora una volta, vale il motto dell’Osservatore Romano: "Non praevalebunt". Ma forse oggi è lecito chiedersi: chi?
* la Repubblica, 05 settembre 2008