SCOPERTE. I monumenti egizi sarebbero posti in un grande cerchio; ed esistono tracce di un’altra Sfinge. Parla l’egittologo Baratono
Il girotondo delle Piramidi
di ARISTIDE MALNATI (Avvenire, 07.08.2010)
«Ne sono assolutamente certo: le tre piramidi Gizah, alla periferia ovest del Cairo, la Sfinge e in generale i più importanti monumenti vicini ad esse sono stati costruiti seguendo una coerenza geometrica, disponendoli in base a precise figure circolari e a enormi triangoli equilateri». A fare un’affermazione destinata ad aggiungere elementi decisivi alla comprensione della piana di Gizah, l’area archeologica più famosa al mondo, è Diego Baratono, egittologo «fuori contesto», dalle posizioni a volte non in linea con l’ortodossia egittologica, ma già in passato apripista per studi e conclusioni condivisi anche da luminari del settore.
Baratono, fornito di robusta preparazione accademica e supportato da cattedratici di livello quali Paolo Trivero (Università di Alessandria) e Maurizio Gomez (Politecnico di Torino), da anni esplora con regolari prospezioni la zona di Gizah e completa le proprie ricerche con l’ausilio di foto satellitari, a disposizione da parte dell’Esa (l’Agenzia Spaziale Europea).
Professor Baratono, cosa ha notato esattamente dall’analisi capillare di questo abbondante materiale?
«Ho passato al setaccio foto e planimetrie topografiche della zona con sofisticati programmi informatici e una cosa è risultata evidente: i punti di alcuni angoli delle piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, insieme a uno degli angoli della Sfinge e ad altri punti-cardine di monumenti ancora conservati, se uniti, risultano appartenere alla circonferenza di un cerchio. Si tratta dell’evidenza di un rigore geometrico, rispettato man mano che nuovi monumenti venivano eretti».
Oltre all’esame di materiale fotografico e di planimetrie ci sono elementi ancora più dirimenti, vero?
«Certamente. Abbiamo riscontrato sul terreno e su foto a infrarossi la presenza di tracce, quasi di solchi circolari che coincidono con la circonferenza, lungo la quale erano disposti piramide e Sfinge. Inoltre sono rimaste ben visibili qua e là tracce di lati di triangoli equilateri e di esagoni, ad indicare una capillare attenzione geometrica, che ha regolato l’area sepolcrale e sacra di Gizah in ogni sua costruzione e che è rimasta in vigore per parecchie dinastie. Ma c’è di più».
Ci dica.
«Se prolunghiamo la linea della circonferenza ricavata a occidente, dalla parte opposta della Sfinge conservata, andiamo a raggiungere una zona dove ci sono resti di impiantiti e basamenti di quella che fu un’altra enorme statua. Tutto lascia pensare a una seconda Sfinge, diametralmente opposta a quella visibile e in perfetta coerenza con il sapere mitologico degli egizi, che parlano di due leoni, Duau e Sef, guardiani, guarda caso, del cerchio solare».
A proposito di mito, la disposizione circolare dei monumenti di un’area importante in fondo riflette la centralità che aveva il cerchio nella fantasia mitografica degli egizi. Non è così?
«Certo. Basta pensare al Testo dei sarcofagi n. 6000: ’Fui colui che nacque come cerchio...’; è un’affermazione riferita alla dea Maat, la Giustizia, che dunque viene pensata come un cerchio. Anche questo è un elemento che ben si combina con le capacità di architetti ed ingegneri egizi di riprodurre figure geometriche nell’edificare imponenti monumenti, come templi, tombe o statue colossali; o con la fantasia dei pittori, che hanno affrescato questi edifici con figure dall’evidente schematizzazione geometrica. Ecco perché la paleogeometria risulta fondamentale per capire la ’ratio’ della disposizione delle costruzioni nel Paese del Nilo».
E come conciliare questi risultati con la teoria, abbracciata da molti, che gli egizi costruirono piramidi e templi orientandoli secondo costellazioni astronomiche, di cui erano insuperabili conoscitori?
«Le due cose vanno insieme: in fondo anche le costellazioni celesti riproducono linee rette e figure geometriche, che cambiano continuamente secondo l’orbita. Proprio le costellazioni degli astri funsero da modello per gli architetti dei faraoni: con prossimi studi cercherò di indicare quali costellazioni hanno ispirato l’erezione dei singoli monumenti e che figure geometriche riproducevano».
Sul tema, nel sito, si cfr.
MAAT (Wikipedia)
MAAT (Scheda).
ERUZIONI SOLARI: UN RISVEGLIO DEL SOLE, ALLA GRANDE!!!
NEFERTITI. CHE LA REGINA POSSA TORNARE A CASA E RIVEDERE IL SUO SPOSO - AKHENATON!!!
SULL’IDEOLOGIA "FARAONICA" DI IERI E DI OGGI: L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura".
FLS
Internazionale
Il sogno dell’Etiopia è l’incubo di El Sisi, «Il Nilo è l’Egitto»
Gerd. Il riempimento della diga etiope del Gran Rinascimento fa crollare al Cairo le più antiche certezze sul fiume che qui è sinonimo di vita
di Michele Giorgio (il manifesto, 17.07.2020)
La tv di stato etiope ieri si è scusata: un malinteso, ha spiegato, è all’origine dell’annuncio (due giorni fa) dell’avvio unilaterale del riempimento del bacino Gerd, la Diga etiope del Gran Rinascimento sul Nilo Azzurro. E il ministro delle risorse idriche, dell’irrigazione e dell’energia Sileshi Bekele ha ribadito che la via del negoziato con Egitto e Sudan resta fondamentale per risolvere le divergenze tra i tre paesi. Addis Abeba getta acqua sul fuoco, vuole placare la rabbia di egiziani e sudanesi già forte dopo gli ulteriori colloqui trilaterali privi di esito. Riempire la diga senza un accordo, ha avvertito il ministro degli esteri egiziano, Sameh Shoukry, «aumenterebbe le tensioni e potrebbe provocare crisi e conflitti che destabilizzano ulteriormente una regione già in difficoltà».
Un giro di parole per dire che il Cairo non esclude una guerra pur di difendere il suo accesso all’acqua del Nilo. Khartoum preferisce la diplomazia ma è schierata con l’Egitto, a maggior ragione dopo la caduta di Omar al Bashir che ha posto il Sudan nell’orbita di Arabia saudita ed Emirati arabi, alleati del Cairo. Ma il fronte comune Egitto-Sudan non ha prodotto risultati. Addis Abeba, forte anche della protezione silenziosa di un alleato potente, Israele, ha continuato per la sua strada mentre resta impalpabile la mediazione dell’Unione africana. E a gettare un’ombra sulla sincerità delle rassicurazioni degli etiopi ci sono le recenti immagini satellitari che mostrano un incremento dell’acqua nel bacino della Gerd.
Nel 2011, approfittando delle fasi caotiche seguite alla rivoluzione anti-Mubarak in Egitto, l’Etiopia annunciò che avrebbe costruito sul Nilo, non lontano dal confine con il Sudan, la più grande diga dell’Africa - copre un’area di 1700 kmq ed è costata quasi 5 miliardi di dollari, ai lavori ha partecipato anche il gruppo industriale italiano Salini Impregilo - cruciale per il proprio sviluppo economico e per le forniture di elettricità a decine di milioni di cittadini. La Gerd aggiungerà 6500 megawatt di energia ai circa 4000 disponibili al momento e farà dell’Etiopia un paese esportatore di energia. Invece per gli egiziani, che hanno sollecitato invano pressioni statunitensi su Addis Abeba, la diga è un incubo.
Il Nilo è l’Egitto, lo pensano i vertici del potere e i semplici cittadini. Da millenni, dai Faraoni ai nostri giorni. E hanno un po’ ragione a pensarlo visto che nell’immaginario globale e nelle scuole di ogni parte del mondo, quel fiume che scorre da sud verso nord, è visto come la salvezza e la ricchezza dell’Egitto, paese quasi tutto desertico dove in un anno cadono mediamente 18 mm di pioggia (848 in Etiopia) e dove 100 milioni di esseri umani vivono in appena il 7% del territorio, lungo le rive del Nilo e nel fertile Delta.
L’impero coloniale britannico aveva riconosciuto il sigillo egiziano sul Nilo. E così è stato con gli accordi del 1959 che assegnarono all’Egitto 55,5 miliardi di metri cubi d’acqua (al Sudan 18,5). Una quota all’epoca enorme ma oggi insufficiente. Ne servono 80 per dissetare la popolazione egiziana e garantire livelli adeguati di produzione agricola.
Le intese del 2015 tra Egitto, Sudan ed Etiopia non hanno risolto nulla.
Mai come ora appare ridimensionato il progetto nasseriano della diga di Aswan che rese celebre l’Egitto nel mondo. Il Nilo non è più solo egiziano. Appartiene a una decina di paesi che, in misura e modi diversi, hanno bisogno delle sue acque. E alcuni di questi, Etiopia in testa, ora fanno valere la loro forza e quella delle loro alleanze.
Per il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi la Gerd è una sfida eccezionale, che minaccia la stabilità del suo potere fondato sulla repressione di ogni voce dissidente e l’odio diffuso per i Fratelli musulmani. El Sisi ha promesso che «nessun egiziano soffrirà la sete». Le previsioni scientifiche non lo rassicurano.
La trattativa con l’Etiopia ruota intorno ai tempi di riempimento della diga. Addis Abeba ha fretta, vorrebbe farlo in due anni. Egitto e Sudan respingono totalmente questa idea. I calcoli fatti da esperti intervistati dalla tv satellitare al Jazeera dicono che se la Gerd sarà riempita in dieci anni, l’Egitto perderà il 14% dell’acqua il 18% dei terreni coltivabili. Se il riempimento avverrà in sette anni perderà rispettivamente il 22% e 33%. Se il riempimento avverrà in cinque anni sparirà il 50% delle terre agricole. Svaniranno anche un 1,2 milioni di posti di lavoro in agricoltura e il tasso di disoccupazione salirà pericolosamente. Previsioni troppo pessimistiche, sostiene qualcuno. Realistiche per altri.
«Numeri a parte El Sisi e l’Egitto arrivano a questo appuntamento impreparati e senza aver programmato contromisure adeguate» spiega al manifesto l’analista arabo Mouin Rabbani. «Il Cairo deve rendersi conto che non è più come un tempo» aggiunge Rabbani «quando alzava la voce e il resto del mondo arabo e buona parte dell’Africa chinavano il capo. Quell’era è finita e oggi l’Egitto deve impegnarsi a fondo per far valere il suo peso con esiti che non sono scontati».
Più si riempirà la diga etiope e più aumenteranno le difficoltà dell’Egitto che già ora importa circa il 50% del grano e non ha avviato una riparazione seria della rete idrica nazionale, notoriamente un colabrodo. I segnali di ripresa economica - inflazione dal 33% del 2017 al 7,5% attuale, aumento delle riserve in valuta estera da 12 miliardi di dollari nel 2011 a 45 miliardi, riduzione del deficit di bilancio dall’11,4 % all’8,5 % - non devono trarre in inganno. Circa il 30% degli egiziani vive al di sotto della soglia di povertà e ad essi si aggiungerà un altro 30% in conseguenza della crisi che innescherà la Gerd. -«Non dimentichiamo - conclude Mouin Rabbani - che El Sisi oltre alla questione della diga etiope deve fronteggiare in questa fase anche (il leader turco) Erdogan, suo nemico, deciso a creare roccaforti in Libia, alla porta occidentale dell’Egitto, con l’appoggio di formazioni islamiste (libiche) vicine alla Fratellanza. Una tenaglia che rischia di schiacciare El Sisi e l’Egitto».
Bella scoperta
La Piramide di Cheope: ecco le carte
Eccezionale ritrovamento della Missione francese sulla costa di Suez: una caverna restituisce papiri che raccontano il colossale cantiere attraverso date, organizzazione del lavoro e trasporto dei materiali
di Paolo Matthiae (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.03.2015)
È stato il più gigantesco cantiere architettonico di tutti i tempi per l’intera durata dell’Antichità e del Medioevo, fino agli albori dell’Età moderna. Considerata in età ellenistica una delle sette meraviglie del mondo, la Piramide di Cheope, eretta negli anni attorno al 2600 a.C., impegnò migliaia di operai e artigiani di altissima specializzazione. È probabile che il suo architetto sia stato il principe Hemiunu, figlio del vizir Nefermaat e della sua sposa Itet e nipote di Snofru, fondatore della IV Dinastia, vizir anch’egli e «sovrintendente dei lavori del re», che fu sepolto in una delle tombe a mastaba localizzata su uno dei lati del gigantesco sepolcro di Cheope. La sua immagine ci è conservata in un’impressionante scultura del Pelizaeus Museum di Hildesheim.
Inattese testimonianze sulla complessa organizzazione dei lavori che permisero la realizzazione della straordinaria ultima dimora del faraone che una tradizione assai antica, ancora viva all’inizio del III secolo a.C (quando il sacerdote Manetone scrisse per i nuovi signori dell’Egitto di stirpe macedone dopo la conquista di Alessandro) dipingeva come un inflessibile tiranno, vengono dalle scoperte recenti di una Missione archeologica francese dell’Università di Paris-Sorbonne e dell’Institut Français d’Archéologie Orientale, guidata da Pierre Tallet, allo Wadi el-Jarf sulla costa occidentale del Golfo di Suez.
In questa località sono venute alla luce installazioni marittime, che sono state definite a ragione le più antiche del mondo, databili tra la fine della III e gli inizi della IV Dinastia del regno faraonico: un molo composto di due segmenti ortogonali lunghi 160 e 120 metri, proteggeva un bacino d’ancoraggio di più di due ettari di superficie dove sono ancora più di una ventina di ancore disperse sul fondo del mare. A circa 200 metri di distanza sono state identificate cellette disposte a pettine in due campi, dove sono state trovate un centinaio di ancore in calcare, alcune iscritte in caratteri geroglifici corsivi con i nomi di battelli o di equipaggi. A una distanza di circa 6 chilometri sono stati identificati i resti di accampamenti faraonici con serie di gallerie scavate nella roccia che dovevano servire per custodire materiali appartenuti a equipaggi di piccole imbarcazioni dei primi decenni dell’antico Regno.
All’ingresso di una di queste gallerie, bloccate da grossi massi squadrati che dovevano sigillare questi apprestamenti quando furono abbandonati, sono stati trovati un’ampia serie di resti di papiri nei quali compare ripetutamente il nome di Cheope. In una cinquantina di frammenti di papiro, che costituiscono la più antica documentazione papirologica finora scoperta in Egitto, si trovano inattese informazioni sui lavori preparatori della costruzione della Grande Piramide, risultanti da due serie distinte di documenti, che possono essere definiti, da un lato, contabilità e, dall’altro, veri e propri giornali di bordo.
Uno dei documenti contiene una data che corrisponde al 26° o 27° anno di regno di Cheope, mentre i testi fanno riferimento alle equipe impegnate nella costruzione dell’immenso sepolcro, che raccoglievano un migliaio di lavoratori e che erano suddivise in manipoli, detti “tribù”, di 200 operai, di cui sono riportati i nomi: la «Grande», l’«Asiatica», la «Prospera», la «Piccola». Una perfetta macchina organizzativa era prevista: nei documenti sono registrati, per ciascun manipolo, l’ammontare della dotazione prevista, quello di quanto realmente consegnato e, infine, il residuo presente nell’accampamento, mentre tra le registrazioni appaiono i nomi dei nòmoi, le provincie dell’antico Egitto, con quanto avevano versato in granaglie per il mantenimento dei lavoratori.
Per quanto concerne, invece, i giornali di bordo, questi, in maniera del tutto inaspettata, fanno riferimento proprio al trasporto per via fluviale verso Giza delle gigantesche lastre della pregiata pietra di Turah che venne utilizzata per il rivestimento della Grande Piramide, il cui nome antico era «Orizzonte di Cheope»: i papiri citano il transito delle pietre verso la «Porta dello Stagno di Cheope», che doveva essere la sede del distretto amministrativo creato per il coordinamento dei lavori di realizzazione del gigantesco progetto.
Erodoto, più di 2000 anni dopo la costruzione, afferma che per la costruzione della Grande Piramide lavorarono 100mila uomini per 20 anni. Nelle ricostruzioni moderne si ritiene verosimile che furono in realtà impiegati tra 20mila e 30mila uomini divisi in gruppi di 2mila lavoratori per l’estrazione, il trasporto e la messa in opera di blocchi di pietra del peso, solo in media, di circa 2 tonnellate e mezza.
Le recenti straordinarie scoperte della Missione francese permettono oggi di controllare queste teorie, per verificare le quali nella stessa Giza negli anni passati fu costruita una piccola piramide moderna chiamata la piramide «Nova» secondo le tipiche e suggestive procedure dell’archeologia sperimentale.
Ma nessuno poteva immaginare che stupefacenti documentazioni epigrafiche contemporanee del grande faraone potessero confermare gli audaci calcoli degli egittologi di oggi.
Iside, la dea cosmopolita
Mostre. Al museo egizio di Torino, la rassegna «Il Nilo a Pompei» rovescia la prospettiva e sono le antichità romane che si richiamano al mondo dei faraoni a diventare del tutto esotiche
di Valentina Porcheddu (il manifesto, 11.03.2016)
TORINO Nell’alveo del Nilo è impressa l’origine di un popolo splendente, che sulle acque del grande fiume cullava vita e morte. «L’Egitto fu il dono del Nilo», scrisse Erodoto nel V secolo a.C. e non stupisce che gli antichi egizi posero il fiume sotto la protezione di Api, dio dalla pelle azzurra e fiori di loto svettanti sul capo. Degli influssi che la terra d’Egitto ebbe nel pensiero e nell’arte del mondo greco-romano, ci parla Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano, rassegna promossa dalla Fondazione museo delle antichità egizie di Torino con la soprintendenza Pompei e il Museo archeologico nazionale di Napoli, prima tappa del progetto Egitto-Pompei che proseguirà tra la primavera e l’autunno nelle sedi campane. Visitabile fino al 4 settembre nel nuovo spazio espositivo di seicento metri quadri al terzo piano del rinnovato museo egizio, la mostra - a cura di Alessia Fassone, Christian Greco e Federico Poole - illustra la diffusione della cultura egizia nell’area del Mediterraneo, tema che potrebbe sembrare nient’affatto originale ma che acquista valore per l’approccio contrastivo adottato dai curatori, egittologi e non specialisti di archeologia classica.
Un potere globale
Nel quadro di un museo dedicato alla civiltà dei faraoni, la prospettiva viene dunque rovesciata e sono le antichità romane di soggetto egizio a diventare esotiche. L’allestimento, ideato dall’architetto Lorenzo Greppi, non è particolarmente suggestivo ma ha il pregio di disporre le opere in un percorso senza fronzoli, che esalta l’estetica dei trecento oggetti - provenienti da venti musei italiani e stranieri - nella loro semplice e pregnante bellezza. È il Nilo ad accogliere da subito il pubblico, che si ritrova a navigarci sopra calpestando un pavimento «cartografato». Anche la parete sinistra del corridoio d’ingresso alle sale si trasforma, grazie a una video proiezione, in riva accarezzata dal vento. Sulla stessa «sponda» si distingue una targa in memoria di Khaled Al-Asaad, storico direttore del sito archeologico di Palmira e d’ora in poi custode delle esposizioni temporanee che si avvicenderanno al museo egizio, per ricordare che alla barbarie dell’Isis si risponde coltivando il sapere e l’incanto. Dalla greca Alessandria a Pozzuoli passando per l’isola di Delo, le Visioni d’Egitto si articolano in nove sezioni, sullo sfondo di un mar Mediterraneo già globalizzato in cui transitavano uomini, merci e dèi. Il cammino di Osiride collega inoltre le collezioni permanenti alla mostra, incentrata sul culto di Iside. Secondo la narrazione del mito nei Moralia di Plutarco, fu lei a ricomporre le membra del consorte Osiride, fatto a pezzi e gettato nel Nilo dal fratello Seth per la contesa del trono. Emblema della trasmissione del potere regale durante la monarchia dei faraoni e detentrice di prerogative salvifiche, al tempo dei sovrani Tolomei Iside divenne una dea cosmopolita, il cui potere magico finì per prevalere sul resto.
Ricostruzioni immersive
Venerata in tutto il Mediterraneo orientale, entrò nel pantheon di Roma in epoca repubblicana, attraendo adepti di tutti gli strati sociali e assumendo quella connotazione misterica che Apuleio eternerà nell’Asino d’oro con l’iniziazione di Lucio. Numerose statuette esposte a Torino, alle quali si accompagnano le rappresentazioni di Horus, Api, Arpocrate, Bes e Serapide, riflettono questa doppia natura, egizia e greco-romana. Ma a immergere il visitatore nel fascinoso mondo dei culti orientali è soprattutto la ricostruzione delle ambientazioni di due importanti santuari, l’Iseo di Benevento e il Tempio di Iside a Pompei. Del primo - conosciuto solo attraverso fonti epigrafiche - viene presentato l’arredo scultoreo in stile faraonico, nel quale spicca una statua in diorite dell’imperatore Domiziano che indossa il nemes (copricapo del faraone) con il serpente ureo sulla fronte e il gonnellino schendyt. Più ricco il contesto pompeiano, di cui viene proposta una serie di splendidi affreschi con scene di culto che hanno per protagonisti - assieme a sacerdoti officianti - Arpocrate e Anubi, l’unico degli dèi a testa animale dell’antica religione faraonica a esser recepito fuori dall’Egitto.
Capolavoro pittorico capace di rapire lo sguardo per la raffinatezza dei tratti è un affresco che adornava il cosiddetto ekklesiasterion, l’ampia sala dell’Iseo pompeiano destinata a banchetti e riunioni. Il dipinto mostra l’arrivo di Io - la fanciulla mutata in giovenca da Era per aver avuto una relazione amorosa con Zeus - portata in spalla dalla personificazione del Nilo (o, secondo una recente interpretazione, del Mediterraneo) a Canopo, nel delta nilotico, accolta dalla Iside locale. In secondo piano, due sacerdoti agitano sistri, strumenti musicali sacri alla dea. Il tempio di Iside fu uno dei primi monumenti di Pompei - era il 1764 - a essere scoperto. Lo spoglio della decorazione parietale suscitò l’immediata disapprovazione di William Hamilton, ambasciatore inglese presso la corte napoletana. A provocare sconcerto presso i contemporanei fu anche il rinvenimento, fuori dal tempio, dei resti di sacerdoti fuggiaschi che, abbandonando il santuario, diedero prova della decadenza in cui gettava la pratica dei culti orientali. Malgrado ciò, nel XIX secolo il tempio di Iside continuò a sedurre artisti e scrittori, e trovò posto nel celebre romanzo di Bulwer-Lytton The Last Days of Pompeii (1834).
Lusso orientale
È ancora il principale sito campano sepolto dall’eruzione del 79 d.C., a svelare a Torino le storie emerse dai lapilli. Nella seconda parte dell’esposizione, dal titolo Il Nilo in Giardino, vengono offerti sia i favolosi affreschi della Casa del Bracciale d’oro, il cui orizzonte blu-egizio libera uccellini, maschere teatrali e faraoni mignons, sia una serie di aegyptiaca e statuette di marmo dalla casa di Octavius Quartio. A quest’ultimo gruppo appartiene una piccola sfinge maschile, la quale - sulla base di altri elementi d’ispirazione egizia rinvenuti nella domus - ha fatto credere ad alcuni studiosi che il proprietario fosse devoto a Iside o affetto da egittomania. In realtà, come scrive Eva Mol nel bel catalogo edito da Franco Cosimo Panini, «quello che colpisce soprattutto della cultura materiale di tipo egiziano presente nella decorazione dei giardini è (...) l’importanza del suo ruolo all’interno delle complesse dinamiche dell’ostentazione del lusso e dell’esibizione dello status sociale all’interno della casa romana».
Sempre nel catalogo, un interessante saggio di Valentino Gasparini sul culto di Iside nelle dimore di Pompei e Ercolano, dà luce alle raffigurazioni di Iside kourotrophos o lactans, associate in una curiosa vetrina a una Madonna allattante il bambino del XV secolo. La rassegna - che si avvale anche della collaborazione dell’Istituto Ibam di Catania per le animazioni in 3d - si chiude con un focus sul sito piemontese di Industria, importante snodo commerciale dell’Italia del Nord noto per le officine di lavorazione del bronzo. Qui sono stati rinvenuti alcuni bronzetti che rappresentano dèi del pantheon egizio. Magnifica, di questo corredo, l’applique con testa di sacerdote cinta da turbante. Il Nilo fa dunque un lungo periplo, nello spazio e nel tempo, e si direbbe che non smetta di alimentare quell’immaginario che fu dei poeti e dei filosofi greci così come dei cittadini del multietnico impero romano. Potesse nuovamente unire le due sponde mediterranee un fiume benevolo, assieme a divinità scevre di guerre.
SCHEDA
Nato nel 1824, il museo egizio di Torino è il più antico museo dedicato alla civiltà sviluppatasi sulle rive del Nilo e vanta l’onore di custodire la seconda collezione di antichità egizie del mondo nonché la più importante al di fuori dell’Egitto. Nel 2015, l’istituzione torinese è riuscita a scalare le classifiche del Mibact, posizionandosi con quasi ottocentomila presenze a undici mesi dalla sua riapertura, in settima posizione fra le aree archeologiche e i musei italiani più visitati.
Un successo raggiunto grazie a un progetto quinquennale di rinnovamento da cinquanta milioni di euro, portato avanti dalla Fondazione museo delle antichità egizie di Torino insieme alla Regione Piemonte, alla Provincia di Torino, alla città di Torino, alla Compagnia di San Paolo e alla Fondazione Crt. Un esperimento, il primo nel nostro paese, di gestione museale col sussidio dei privati, ai quali lo Stato ha concesso in uso per trent’anni le collezioni. Ma tale traguardo è dovuto anche a un progetto scientifico di altissima qualità che, sotto la direzione di Christian Greco, ha posto la ricerca come motore per la valorizzazione dell’attuale allestimento, favorendo inoltre il ritorno del museo in Egitto con una missione congiunta italo-olandese nel sito di Saqqara.
L’attività svolta dal dipartimento scientifico del museo egizio e dal talentuoso ed efficiente staff del settore comunicazione si riflette in un’esposizione moderna, suggestiva, rivolta sia a un’utenza colta sia a coloro che - a partire dai più piccoli - vogliono avvicinarsi a un passato misterioso e da sempre ammaliante. Nei circa diecimila metri quadri di spazio distribuiti su cinque piani, sono esposti oltre tremila oggetti che raccontano non solo la storia di un popolo ma anche quella del museo e delle donne e degli uomini - come Erminia Caudana, Ernesto Schiaparelli e Bernardino Drovetti - che hanno reso possibile una straordinaria avventura.
L’attenzione per la ricostruzione dei contesti di rinvenimento - che ha il suo apice nella Tomba degli ignoti e in quella di Kha e Merit - è una delle cifre peculiari di un museo dove la dignità dei reperti e del lavoro degli archeologi è condizione imprescindibile. Dignità è anche una delle parole chiave utilizzate da Christian Greco mentre parla al suo pubblico attraverso l’audio-guida compresa nel prezzo del biglietto. Una sensibilità rara eppure necessaria. La stessa che ha permesso la dedica al ricercatore Giulio Regeni della sala di Deir el-Medina, in cui si conserva il «papiro dello sciopero». I musei non sono mondi a sé, ma del mondo - anche presente - sono parte integrante. «Vogliamo essere un luogo vivo», dice la presidente della Fondazione museo delle antichità egizie Evelina Christillin. Un sogno che è già realtà.