CONSULTA: FLICK ELETTO PRESIDENTE *
ROMA - E’ Giovanni Maria Flick il nuovo presidente della Corte Costituzionale. Succede a Franco Bile, il cui mandato è scaduto lo scorso 8 novembre. Ad eleggerlo sono stati, a scrutinio segreto, i quindici della Consulta. Sessantotto anni, nato a Cirié (Torino), Flick è il trentaduesimo presidente della Corte Costituzionale e resterà in carica fino al 18 febbraio 2009. In tutto novantasei giorni, un giorno in più rispetto alla presidenza di Giuliano Vassalli e quasi il doppio rispetto a quella ’lampo’ di Vincenzo Caianiello (45 giorni, un record). Noto avvocato penalista ed ex ministro della Giustizia durante il primo governo Prodi, Flick é stato nominato giudice costituzionale nel febbraio del 2000 dall’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi.
Primo atto del neo presidente e’ stato nominare Francesco Amirante vicepresidente, rispettando il criterio dell’anzianita’: Amirante e’ infatti, dopo Flick, il giudice costituzionale piu’ anni di anzianita’ di carica.
La Corte Costituzionale ’’ha un solo padrone: la Costituzione della Repubblica che nel 2008 abbiamo particolarmente celebrato per i suoi 60 anni’’. Cosi’ il neo eletto presidente della Consulta, Giovanni Maria Flick, saluta i giornalisti subito dopo essere stato nominato.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Giovanni Maria Flick: "Voltare pagina al Csm senza dimenticare"
Intervista all’ex Presidente della Consulta: "Ma non vorrei se ne approfittasse per limare le unghie ai giudici"
di Stefano Baldolini (The Huffington Post, 21.06.2019)
“Adesso voltare pagina davvero, ma senza cancellare tutto subito. Questa vicenda è stata una ferita molto grave, attenti ai propositi di “vendetta” contro i giudici indeboliti”. Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, già giurista e ministro, interviene sul caos nomine nella giornata in cui il presidente Mattarella, in un plenum straordinario del Csm, parla di “quadro sconcertante e inaccettabile”.
“Non si può non essere d’accordo con l’impostazione del Presidente. Ciò che è emerso è sconcertante. Soprattutto è sconcertante l’indifferenza, l’abitudine a un malcostume praticato abitualmente. Tendo a pensare che si praticasse anche in passato, magari non in modo così impudico”.
“Oggi si volta pagina”, ha detto il capo dello Stato al Palazzo dei Marescialli.
“Sì, adesso voltare pagina, ma che non vuol dire dimenticare”.
“Quanto avvenuto - ha aggiunto Mattarella - ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario”
“E’ stata una ferita molto grave alla credibilità e alla fiducia della magistratura, che può legittimare propositi di “vendetta” verso i giudici che hanno messo troppe volte il naso in affari di corruzione e commistione della politica. Non vorrei se ne approfittasse per limare le unghie ai giudici”
Secondo il vicepresidente del Csm Ermini “la ferita non ha colpito le fondamenta del Csm”.
Non mi intendo di architettura, ma, come detto, il Csm esce abbastanza sfregiato da questa vicenda.
Veniamo così al tema della riforma del Csm. Ermini la definisce “necessaria”, ma di competenza del Parlamento.
Assolutamente. E chi altro la deve fare? Io non credo all’autoriforma, come non credo all’autosospensione.
Per il vicepremier Salvini il Csm “va riformato tutto” e va fatta una “seria riforma della magistratura”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato le riforme del Csm, del processo penale e civile “entro l’anno”. Fattibile?
Distinguiamo le riforme del processo penale e civile con gli interventi che vanno fatti al più presto. Sono cose diverse, metterle insieme confonde le acque e si rischia che non si faccia nessun passo concreto, lasciando spazio solo alla stigmatizzazione e all’ipocrisia, ma ripeto, senza che ne conseguano passi concreti.
E quali sono i passi concreti possibili?
Occorre intervenire al più presto sui due punti deboli evidenziati da questa vicenda. L’elezione dei membri del Csm e la designazione dei capi ufficio per garantire il corretto funzionamento del Consiglio. Ma non basta, bisogna dire con forza che è vietato infrangere le norme disciplinari e deontologiche della categoria. Tenere distinto il tema dei reati dal tema dell’illecito disciplinare. Sui primi, se ce ne sono, indagheranno le procure. Ma d’altro canto non ha senso dire “cosa ho fatto di male se non c’è reato...” se comunque si sono infrante tutte le regole etiche.
Molti hanno puntato il dito contro l’associazionismo e il correntismo nella magistratura.
Anche qui, distinguiamo i problemi. L’associazionismo può avere una funzione positiva, sviluppare una vita sociale. Il correntismo, come abbiamo visto, invece può essere fonte di possibili degenerazioni. Ho contato ben 4 riforme del Csm, con altrettanti disastri. Ora cambiare registro davvero, interrompere il legame incestuoso che finisce per crearsi tra politica e correnti. Ho sentito di soluzioni come il sorteggio, che comporterebbero cambiamenti nella Costituzione, mi limiterei a eliminare le liste e a proporre la presentazione di candidature individuali. Ogni magistrato che vuole essere eletto al Csm, si presenti da solo.
Ce ne sono state di degenerazioni? Oppure come oggi ha detto uno degli intercettati, il deputato Cosimo Ferri, il confronto tra politica e giudici è cosa abituale e in questa vicenda c’è stata molta ipocrisia?
Premettendo che commento quello che ho letto sui giornali, non mi sembra che la scelta a tavolino, in una stanza d’albergo, di magistrati graditi possa essere ammessa. Mi sembra che non abbia nulla a che vedere con il fisiologico confronto tra magistrati e politici. Poi, ma a tempo debito, ci sarebbe da dire qualcosa sull’utilizzabilità di uno strumento investigativo potente come il trojan, che rischia di travolgere i limiti propri delle intercettazioni, minando il diritto inviolabile alla segretezza e alla libertà delle proprie comunicazioni, come prescritto dall’art.15 della Costituzione. Ma ripeto, ora non è il momento di preoccuparsene. Come priorità c’è la questione della riforma del Consiglio.
E dunque questa politica è in grado di fare una riforma giusta ed efficace? Non potrebbe approfittare della debolezza dei giudici e, come da Lei detto, prendersi le sue rivincite?
Questo discorso va fatto esclusivamente dal Parlamento. Nella misura in cui la politica “alta” dovrebbe decidere le linee fondanti della riforma del Csm. Con trasparenza, con concretezza, senza riscrivere la storia d’Italia.
Salvini chiede anche che i magistrati che entrano in politica “si dimettano per sempre”.
Occorre bloccare definitivamente le porte girevoli. Chi fa una scelta politica non deve poter rientrare nel modo più assoluto.
L’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick
“Sbagliato ribellarsi così.
Faccia ricorso a un giudice”
di A. C. (La Stampa, 03.01.2019)
«L’articolo del decreto Salvini che nega la possibilità di ottenere la residenza ai richiedenti asilo presenta rilevanti dubbi di costituzionalità. Ma la strada per verificare se quella norma rispetti la nostra Costituzione non è quella intrapresa dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando», spiega l’ex presidente della Consulta ed ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. «Il Comune, così come il singolo , possono rivolgersi al giudice ordinario, anche con procedura d’urgenza, per accertare se il primo ha il dovere di rilasciare e il secondo ha il diritto di ottenere il certificato di residenza. Sarà il giudice che, eventualmente, solleverà la questione di legittimità davanti alla Corte se riterrà che la norma violi dei diritti fondamentali».
1 Dunque Orlando ha torto?
«Condivido i suoi dubbi sulla costituzionalità di quelle norme e il suo coraggio civile: la nostra Carta prevede un principio di accoglienza soprattutto per i richiedenti asilo. Vedo un filo comune tra le parole del Capo dello Stato a Capodanno e l’azione di Orlando».
2 Salvini fa notare che quella legge è stata firmata dal Quirinale.
«Il Colle fa un esame globale delle leggi, non entra nei dettagli tecnico-giuridici. Quel tipo di esame spetta alla Corte».
3 Un sindaco può disobbedire?
«No, un sindaco non può disapplicare le leggi dello Stato, altrimenti se ogni Comune si muove a modo suo si crea il caos».
4 I migranti non residenti rischiano di non ricevere cure negli ospedali?
«La mancata concessione della residenza non crea rischi per il diritto alla salute che resta garantito anche per chi ha solo un domicilio, anche se è facile immaginare che la mancata iscrizione all’anagrafe creerà gravi disfunzioni di fatto. Semmai vedo la possibilità di lesione di altri diritti come quelli al lavoro e alle prestazioni sociali. Chi non ha una residenza ha un obiettiva penalizzazione nella ricerca del lavoro e anche nell’ottenimento di prestazioni sociali. E la pari dignità sociale è uno dei cardini della nostra Costituzione». a. c.
Orlando apre lo scontro: “Stop al decreto Salvini”
A Palermo “residenza anche agli irregolari”. Sindaci in trincea da Napoli a Milano
di Sandra Amurri e Giuseppe Lo Bianco (Il Fatto, 03.01.2019)
Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando lo definisce “disumano e criminogeno’’ e con una nota al dirigente dell’ufficio anagrafe sospende l’applicazione del “decreto sicurezza” nella parte in cui, “ma non solo’’, impedisce l’iscrizione all’anagrafe dei migranti non più in regola con il permesso di soggiorno. Gli replica Salvini a stretto giro: “Con tutti i problemi che ci sono a Palermo, il sindaco sinistro pensa a fare ‘disobbedienza’ sugli immigrati”. E annuncia una visita in Sicilia. Ma per Orlando il decreto “puzza di razziale’’, e la sua, dice, non è “disobbedienza civile’’, ma l’applicazione dei diritti costituzionali “perché non posso essere complice di una violazione palese dei diritti umani’’.
Sono quattro gli articoli della Costituzione (e una sentenza della Consulta) citati dal primo cittadino nella nota inviata al capo area Servizi per il cittadino in cui “impartisce la decisione di sospendere qualunque procedura che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare riferimento, ma non esclusivo, all’iscrizione anagrafica’’, e tra questi l’art. 32 che garantisce il diritto all’assistenza sanitaria, messo a rischio dalla negazione della residenza anagrafica.
La nota invita anche “ad approfondire tutti i profili giuridici anagrafici derivanti dall’applicazione del decreto sicurezza’’, che il Comune di Palermo ha in realtà già approfondito, come fa notare Igor Gelarda, responsabile cittadino della Lega, che ha scoperto come il 2 novembre scorso lo stesso capo area investito da Orlando, Maurizio Pedicone, insieme all’assessore Gaspare Nicotri, avevano risposto ad una interrogazione di Sinistra Comune sul rifiuto di sei istanze di “prima iscrizione anagrafica’’ di migranti, sostenendo che “il permesso di soggiorno non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica’’ e distinguendo i già iscritti (e richiedenti quindi un cambio di residenza) per i qualiè sufficiente “una semplice ricevuta di domanda di permesso’’.
Il fronte dei sindaci è ampio. L’Anci, l’associazione dei Comuni, aveva già espresso la sua contrarietà al decreto Salvini, in particolare per il rischio di un’uscita massiccia di stranieri dai centri di accoglienza. Ieri Decaro, presidente dell’Anci, ieri ha assunto una posizione più morbida di Orlando: “Occorre istituire un tavolo di confronto in sede ministeriale per definire le modalità di attuazione e i necessari correttivi a una norma che così com’è non tutela i diritti delle persone”.
È la stessa linea di Federico Pizzarotti, sindaco ex M5s di Parma, oggi leader di “Italia in Comune” e vicepresidente Anci: “Quella di Orlando è una forzatura che non risolve il problema. L’ufficio anagrafe deve applicare la legge. Concordo con la necessità di un tavolo.
“La mancata applicazione della legge Sicurezza è un atto politico - osserva il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli -. I Comuni sono tenuti a uniformarsi alle leggi. La pubblica amministrazione non può sollevare questioni di legittimità costituzionale. A meno che non si tratti di norme con carattere discrezionale”. Se il sindaco la disapplica “interviene il prefetto o un’altra autorità, sorge un contenzioso e allora potrebbe essere sollevata una questione di legittimità costituzionale”.
Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, la mette così: “Non si tratta di sospendere una legge che, in quanto tale, non si può sospendere”, ma “le leggi si applicano solo in maniera conforme alla Costituzione”. Concorda con Orlando l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino: “Legge o non legge, non abbiamo nessuna intenzione di togliere l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo che l’hanno già fatta, stiamo accogliendo nei centri per senzatetto italiani anche gli stranieri senza porci il problema se siano regolari o meno”. Assicura di “studiare la decisione di Orlando” il sindaco di Pescara, Marco Alessandrini che oggi ospiterà Salvini. Intanto il ministro twitta: “Certi sindaci hanno mangiato pesante, ne risponderanno”.
Il caso italiano
Una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi: ma che conferma che la nostra Costituzione è ben presidiata
Il presidente garante
di Enzo Cheli (Il Mulino, 28.05.2018)
Nell’arco della nostra storia repubblicana nessun capo dello Stato si è trovato a dover gestire una vicenda istituzionale così difficile e complessa come quella che il presidente Mattarella ha dovuto affrontare nel corso dell’ultima settimana, conclusasi con la rinuncia da parte di Giuseppe Conte all’incarico di formare il nuovo governo. Una vicenda che sta suscitando polemiche e contrasti, ma che il Quirinale ha gestito con grande equilibrio e una forte attenzione al rispetto dei confini delle proprie prerogative costituzionali.
Ai sensi dell’articolo 92 della nostra Costituzione, tali prerogative affidano, com’è noto, al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri su sua proposta (una proposta che la prassi non ha mai ritenuta vincolante) i ministri. Nella dichiarazione rilasciata dinanzi alle telecamere dopo la rinuncia del professor Conte, il presidente Mattarella ha ricostruito puntualmente i passaggi essenziali di questa vicenda che, dopo le elezioni del 4 marzo, ha preso l’avvio con il fallimento dei primi tentativi di trovare una maggioranza in grado di sostenere in Parlamento un governo politico; con l’incarico con riserva conferito a Giuseppe Conte su indicazione del Movimento 5 Stelle e della Lega che avevano raggiunto un accordo intorno a un inedito “contratto di governo”; con la condivisione da parte del presidente Mattarella di tutte le proposte per gli incarichi ministeriali formulata dal professor Conte, ad eccezione della proposta avanzata per il ministero dell’Economia, che veniva a investire un tecnico di sicura competenza e anche di antica fede europeista, ma oggi apertamente schierato a favore di una possibile uscita dall’euro del nostro Paese. Proposta che, trapelata nel corso delle trattative, non aveva mancato di allarmare i mercati europei e mondiali determinando una rischiosa e crescente pressione negativa sia sui titoli del debito pubblico sia sui titoli delle imprese quotate in borsa. Poteva il presidente Mattarella opporsi a questa designazione fino a determinare la rinuncia di Conte all’incarico ricevuto? È questo l’interrogativo che viene oggi a dividere l’opinione pubblica del nostro Paese.
A mio avviso è certo che, nell’opporsi alla proposta ricevuta, il capo dello Stato non ha invaso - come taluni affermano - la sfera dell’indirizzo politico di maggioranza, ma ha soltanto esercitato una competenza connessa alla sfera dei suoi poteri di controllo costituzionale su tale indirizzo, poteri che entrano in gioco - e che il capo dello Stato non solo è legittimato, ma anche tenuto a esercitare - ogni qualvolta l’azione del governo possa aprire la strada alla lesione di interessi di rilevanza costituzionale attinenti alla sfera dell’unità nazionale, come quelli afferenti, in particolare, alla politica estera, alla politica europea e alla politica della difesa, nonché alla politica di bilancio; tutte materie rispetto alle quali le competenze del capo dello Stato, ai sensi della Carta costituzionale, assumono un contenuto non solo formale, ma di sostanza.
Né va sottovalutato il fatto che il presidente Mattarella nel rifiutare la candidatura che gli veniva proposta non ha formulato una propria proposta, ma si è limitato a sollecitare le forze politiche impegnate nella definizione del nostro governo ad avanzare - attraverso il presidente del Consiglio incaricato - proposte alternative.
Cosa che non è avvenuta per l’irrigidimento di una delle forze in campo, particolarmente interessata a passare al più presto a nuove elezioni. Passaggio che viene, peraltro, anch’esso a collegarsi a una prerogativa fondamentale del presidente della Repubblica qual è lo scioglimento delle Camere e che il presidente Mattarella almeno sinora - e fino alla verifica parlamentare sull’assenza di qualunque maggioranza - non ha dato per scontato.
Siamo di fronte a una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi. Ma che ha dato la conferma che la nostra Costituzione risulta ancora oggi ben presidiata.
LA LEZIONE DI DANTE. Nella Commedia i primi principi della Costituzione
... e l’Italia uscì a riveder le stelle
Nella Divina Commedia le indicazioni per la Costituzione nata dalla Resistenza
di Giovanni Maria Flick (La Stampa, 27.05.2018)
Per aprire la mia riflessione sulla Costituzione, nel ricordo e nella celebrazione di Dante, ho preso in prestito dalla Divina Commedia una delle espressioni che più mi hanno affascinato e mi sono rimaste impresse nelle letture liceali di essa. Non saprei trovarne altra più adatta - per ricordare il percorso del nostro Paese dalla guerra perduta a quella civile, alla Resistenza e alla Liberazione, alla Repubblica e alla Costituzione - della descrizione del passaggio anche fisico del poeta dall’emisfero boreale a quello australe.
Lasciare la voragine dell’Inferno pietrificato dall’odio, dalla disperazione, dalla solitudine nella folla, dal frastuono caotico, dal gelo luciferino, dalle tenebre, per giungere alla serenità e alla luce nell’ascesa alla montagna del Purgatorio, ai suoi cieli azzurri preludio alla luminosità del Paradiso, all’erba e ai fiori, al «chiaro mondo» e a «le cose belle», alla solidarietà e all’amicizia, alla pena come strumento per la beatitudine e non come costrizione. Tale è - a differenza delle tradizioni dell’epoca, secondo cui il Purgatorio è un Inferno a termine - l’immagine del Purgatorio che ci propone Dante: una comunità in un paesaggio terrestre ma governato da leggi non terrestri; una realtà che è espressa dal poeta in modo più musicale, meno figurativo dell’Inferno e richiama i ritmi naturali dell’esistenza, il ciclo delle stagioni.
La sequenza dalla dichiarazione stolta della guerra nel 1940 (per sedere con qualche migliaio di morti al tavolo della pace) alla disfatta nel 1943; alla lotta fratricida oltre che contro il nazista invasore; alla Resistenza nel 1943 e alla Liberazione nel 1945; alla scelta repubblicana e alla scrittura della Costituzione con il referendum del 1946; alla ricostruzione delle pietre e dei valori del nostro Paese (dopo lo smarrimento della «diritta via» nella «selva oscura» del Ventennio fascista, culminato nel 1938 con la imitazione servile delle leggi razziali naziste). Forse non sono esattamente la stessa cosa dell’Inferno e del Purgatorio danteschi; ma certo vi si avvicinano molto.
Perciò è giusto rendere omaggio a Dante per questo contributo - profetico e preciso, quanto di necessità inconsapevole - alla ricostruzione di quel particolare periodo del nostro passato e alla riflessione odierna sulla Costituzione italiana, a settant’anni dalla sua nascita e a poca distanza dalla sua riconferma nel 2016, con il No a larga maggioranza in occasione dell’ultima proposta di referendum per una sua riforma radicale.
Beninteso, le indicazioni «costituzionali» che possono trarsi dalla lettura della Divina Commedia sono anche altre, sia di carattere generale sia specifico.
Basta pensare, ad esempio, alla definizione primitiva ma attuale dei beni comuni: «com’esser puote ch’un bene, distribuito in più posseditor, faccia più ricchi di sé, che se da pochi è posseduto?». Se il significato di bene comune è stato colto così bene da Dante nel 1300, «com’esser puote» che incontri difficoltà di comprensione nel 2018 di fronte a una serie sempre più estesa (e sempre più minacciata nella sua esistenza) di beni comuni (destinati cioè alla fruizione da parte di tutti e non solo da parte del loro proprietario pubblico e privato o di chi paga un biglietto?).
Basta pensare alle perle di saggezza - che in realtà racchiudono e sintetizzano interi commentari sull’arte di legiferare, da troppo tempo dimenticata - proposte del poeta: «le leggi son ma chi pon mano ad esse?» (Purgatorio, canto XVI, 97); o ancora, a proposito della dichiarazione di Giustiniano imperatore «per voler del primo amore ch’i sento, d’entro le leggi trassi il troppo e il vano» (Paradiso, canto VI, 12), che dovrebbe costituire l’ambizione e l’impegno di qualsiasi aspirante legislatore sia costituente sia ordinario.
Basta pensare infine alla differenza, sottolineata da Dante, tra la giustizia umana distributiva e quella divina: alla «lagrimetta» di Buonconte da Montefeltro (Purgatorio, canto V, 91-129) grazie alla quale l’angelo di Dio priva il diavolo della sua preda, da lui attesa per i trascorsi di vita del morente, che vengono superati e annullati dal pentimento finale di quest’ultimo.
La molteplicità degli aspetti posti in evidenza da Dante, nel descrivere il suo percorso poetico e umano, non consente ulteriori richiami in questa sede, oltre ai pochi accennati dianzi. Questi ultimi, ma in realtà tutto il resto, suggeriscono un filo rosso e una guida nella lettura della nostra Costituzione, di fronte alla vicenda di un grandissimo personaggio, che propone all’attenzione del giurista e del politico nella Divina Commedia un poema non solo autobiografico (il suo conservatorismo, la sua dignità e la sua rigidità, la sua posizione di protagonista e di vittima in quello scontro tra Guelfi e Ghibellini e tra Bianchi e Neri, che ripropone in miniatura temi tuttora presenti nella quotidianità e lotta politica del nostro paese). È soprattutto un poema civile ed etico.
È un poema di denunzia e di protesta contro l’ingiustizia, la corruzione, la degenerazione del potere che non conosce e rifiuta qualsiasi limite, le deviazioni della finanza e del mercato, l’avidità del guadagno, l’orgoglio e l’ostentazione della ricchezza conquistata, l’ipocrisia; quest’ultima considerata da Dante il peccato più grave, l’espressione della malvagità sotto apparenza di bontà, il parlare in modo reticente.
È emblematica in questo senso l’enciclopedia delle passioni umane descritte attraverso l’elencazione e l’esemplificazione dei sette vizi capitali, nel Purgatorio: la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la gola, la lussuria. V’è ben più di quanto basta per agevolare, seguendo questo filo rosso e questa guida, una riflessione e un bilancio sulla nostra Costituzione nei suoi primi settant’anni di vita.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". Un invito alla lettura
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
NUOVO REALISMO (E "GAIA SCIENZA"): LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
1948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 10.04.2018)
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione - non più di un triennio -, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7?
Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)?
Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma - forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento - si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
Una costituzione da rispettare
di Giovanni Maria Flick
Presidente emerito della Corte costituzionale *
Caro direttore,
nessuno può ritenere intangibile la seconda parte della Costituzione. Bisogna superare gli inconvenienti del bicameralismo paritario; conciliare governabilità e rappresentatività, unità dello Stato e autonomia territoriale. In una parola, riorganizzare i pubblici poteri. Ma il modo in cui viene fatto può riflettersi in modo positivo o negativo sui diritti garantiti nella prima parte. Per questo se ne discute, su opposti versanti; ma con toni spesso aberranti, che mortificano i rispettivi argomenti.
Il nuovo Senato, per le modalità elettive e il doppio incarico; per le competenze attribuite e i rapporti con la Camera, non ha sufficiente rappresentatività, né poteri effettivi nel dialogo Stato-Regioni. I procedimenti legislativi tra i due rami, tutt’altro che semplificati, sono complessi e produrranno incertezze e conflitti. Il superamento delle competenze legislative «concorrenti», introdotte dalla infelice riforma del 2001, non risolve i potenziali conflitti a causa della clausola sulle «disposizioni generali e comuni» attribuite allo Stato in molte materie di sua competenza esclusiva. I privilegi delle regioni a statuto speciale, di cui sono in gran parte venute meno le ragioni storiche, non sono stati intaccati. Anzi, è stata rafforzata la diseguaglianza rispetto alle regioni ordinarie.
Non siamo chiamati a valutare le singole modifiche «tecniche» (difficili da conoscere e comprendere) quanto a scegliere tra il cambiamento a tutti i costi, «ora e subito», inclusi gli errori ammessi anche dai sostenitori del Sì; e il rifiuto di un tale cambiamento, per cercarne subito dopo uno più corretto, nel quale recuperare gli aspetti positivi di cui la riforma non è priva: l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia; i limiti alla decretazione d’urgenza e i tempi certi sui disegni di legge del governo; l’abolizione del Cnel.
Io ho optato per il No; l’ho motivato pubblicamente in più occasioni, per contribuire al confronto delle idee e alla scelta di ciascuno. Ma questo discernimento è stato reso faticoso dalla personalizzazione del voto e dal radicalismo, dalla contrapposizione tra infondate e reciproche profezie di sventura: caos sui mercati, spread, ingovernabilità, involuzione autoritaria, pregiudizio del ruolo di garanzia del presidente della Repubblica.
Bisogna leggere la riforma serenamente, direi laicamente, guardando al contenuto delle modifiche e disinteressandosi della propaganda enfatica e fastidiosa. Ognuno si faccia un’idea propria, leggendo, ascoltando e parlando, senza lasciarsi intimidire o scoraggiare dai dettagli tecnici e senza doversi improvvisare uomo politico. Basta essere cittadino elettore e scegliere ciò che appare più giusto e appropriato nell’interesse del Paese e anche delle proprie aspettative.
Il Sì o il No di ciascuno rappresentano una scelta comunque opinabile. Ma sarà sempre una scelta legittima, meritevole di rispetto da parte di tutti; in ogni caso una scelta «giusta», perché rende effettivo il principio fondamentale della sovranità esercitata dal popolo, da ogni suo componente, nel rispetto della Costituzione (su questo immutabile).
Tra le forme di partecipazione diretta del popolo sovrano, il referendum costituzionale è certo la più alta. Se si svolge in modo responsabile, civile e democratico, il risultato è perfino meno importante. I governi non dovrebbero andare a casa per il risultato di un referendum costituzionale; ma neppure dovrebbero restare in carica a motivo di un referendum costituzionale. Hanno il diritto e il dovere di restare fino a quando godono della fiducia del Parlamento o fino al termine della legislatura. Aver alterato questo rapporto tra politica, istituzioni e Costituzione è l’errore imperdonabile commesso dal governo.
Mi auguro che la partecipazione (benché non sia necessario alcun quorum) sia numerosa ed esprima «solo» un giudizio sulla parziale (ma fin troppo ampia) modifica della Costituzione del 1948. Scelta non facile, ma non più difficile di quella che seppero compiere i nostri padri e nonni il 2 giugno 1946. La Repubblica seppe unire il Paese; speriamo che le contrapposizioni su una riforma sbagliata non riescano a dividerlo.
* Corriere della Sera, 30.11.2016
Referendum, Giovanni Maria Flick: "Renzi ha sbagliato a personalizzare il voto, ora non basta la scolorina"
di Barbara Acquaviti (L’Huffington Post, 17/08/2016)
Molte cose da dire in punta di diritto costituzionale, qualche reticenza in più se la si butta in politica. Quando parla del ddl Boschi, e del referendum di novembre, Giovanni Maria Flick preferisce più vestire i panni del giudice della Consulta indossati per nove anni che quelli di ministro della Giustizia del governo Prodi, carica ricoperta dal ’96 al ’98. "Questa riforma - sostiene - è sbagliata nel metodo e nel merito".
Ma ci sono un paio di cose, meno tecniche e più politiche, che proprio non gli vanno giù. La prima, spiega, è stato il tentativo di Renzi di "trasformare in plebiscito" la consultazione: fatto che ormai ha condizionato il dibattito nonostante - dice - la "scolorina" che in un secondo tempo il presidente del Consiglio ha usato.
E poi, c’è la posizione assunta da alcuni giornali economici internazionali "espressione del mercato" che considerano l’eventuale vittoria del no peggiore della Brexit: "Sconcertante", è l’aggettivo che sceglie. Ma se gli si chiede se questa non può essere considerata una "riforma dell’Ulivo", Flick torna subito molto istituzionale: "quello che esprimo - ci tiene a sottolineare - è il parere di un normale cittadino". Il che non gli impedisce di notare come Romano Prodi sia "tirato per la giacchetta".
Lei dice che questa riforma è sbagliata nel metodo e nel merito. Cominciamo dal metodo, cosa non va?
Questa è una riforma fatta in modo disorganico, con una maggioranza ’pur che sia’, con soluzioni work in progress, con eccessiva fretta. Stesso errore che fu commesso con la riforma del Titolo V nel 2001: alla fine era talmente sbagliata che è stato necessario un intervento correttivo, che alla fine si è rivelato eccessivo in senso opposto.
Passiamo alle questioni di merito. Non è vero che con questa riforma si semplifica il processo legislativo?
Ora anche taluni fautori del sì ammettono che alcune correzioni sono necessarie, ma dicono che si possono fare dopo. Io penso sia sbagliato. Se ci sono errori non capisco come si possa chiedere di votare prima per il sì. Quanto al procedimento legislativo, e alla presunta semplificazione che ne deriverebbe, dico solo una cosa: attualmente in Costituzione quel procedimento è spiegato in una riga e mezzo, nella nuova formulazione servono due colonne in gazzetta ufficiale per descrivere sette-otto procedimenti diversi.
Cos’altro non va?
La nuova struttura e identità del Senato è ambigua e confusa. Il meccanismo di designazione è affidato ai consigli regionali e a una indicazione popolare che non si sa bene come sarà regolata . Inoltre, se prima si è decentrato troppo oggi si riaccentra troppo sullo Stato. E’ facile prevedere molti conflitti al pari di quelli che vi saranno tra Camera e Senato sul nuovo procedimento legislativo.
C’è una parte della minoranza Pd che lega il suo sì alla riforma alle modifiche dell’Italicum. Secondo lei cambiare la legge elettorale è dirimente?
È indubbio che il collegamento con l’Italicum peggiora i problemi di una riforma che però è già sbagliata nel suo contenuto. Vedremo cosa dirà la Corte costituzionale sull’Italicum, se si eliminasse il nodo delle soglie troppo basse per il premio di maggioranza, dei capilista bloccati e della soglia per il ballottaggio, di certo si diminuirebbero i problemi di funzionamento. Ma i guasti della riforma rimarrebbero tutti. Riforma e legge elettorale sono due cose diverse, anche se reciprocamente funzionali.
L’opposizione, compresa quella interna al Pd, sostiene che ci sia anche una informazione, soprattutto quella della Rai, troppo schierata a favore del sì? E’ d’accordo?
Non ho il cronometro per contare i secondi. Posso dire che finora sono stato intervistato soltanto da Rainews24 e una volta da un Tg regionale. Ma certo, io sono un professore noioso, capisco che non mi chiamino. Per il resto, mi sembra che ci sia una preferenza per le ragioni del sì piuttosto che del no. Il problema davvero importante è che la gente non conosce il contenuto e il merito del referendum, l’accavallarsi della polemica politica impedisce un discorso serio.
Si riferisce a Matteo Renzi?
All’inizio il governo ha trasformato la consultazione in un plebiscito sulle sue sorti. Ora è stata fatta una marcia indietro e io dico meno male. Però gli strascichi restano. Anche perché ora la verve è quella di dire che se non passa il referendum è un cataclisma. Io dico che se la riforma non passa si può lavorare a una riforma che possa passare, come le altre trenta varate con successo nei 70 anni di vita della Costituzione.
Secondo i retroscena Renzi potrebbe annunciare le sue dimissioni prima, a prescindere dall’esito. Questo aiuterebbe a svelenire il clima?
Ben venga la spersonalizzazione. Ma una volta che il referendum è stato personalizzato non basta la scolorina. A me pare che continuare a legare la riforma alle sorti del governo, anche in questo modo, sia sbagliatissimo. Però mi lasci dire una cosa: leggere che alcuni giornali economici internazionali ci dicono che la vittoria del no sarebbe peggio della Brexit è singolarmente curioso. Io comprendo che gli altri Paesi siano interessati alla riforma della giustizia, della pubblica amministrazione o alle leggi contro la corruzione, ma che ci debbano dire come dobbiamo cambiare la Costituzione a me sembra sconcertante. Ed evito di dire offensivo.
In tutto questo dibattito, chi tace è Romano Prodi. Lei lo conosce da tempo. Che idea si è fatto?
Questo dovete chiederlo a lui. Io mi limito a constatare che lui non ha detto una parola, nè in un senso nè nell’altro, nonostante qualcuno lo tiri per la giacchetta e sebbene alcuni autorevoli esponenti dell’Ulivo, come Parisi, si siano schierati per il sì.
Insomma, per lei questa è o non è una riforma ’dell’Ulivo’?
Io sono stato ministro nel primo governo Prodi e poi per nove anni giudice della Corte costituzionale. Parlo in base all’esperienza che ho fatto in questi anni, ma parlo soprattutto da semplice cittadino. E voglio ribadire una cosa: la Costituzione prima di cambiarla, bisogna rileggerla. Qualcuno dovrebbe addirittura leggerla.
Colpevole di alto tradimento
di Roberta De Monticelli (“il Fatto Quotidiano”, 20 ottobre 2011)
Raccolgo la poca speranza residua che un riscatto morale e civile degli italiani sia ancora possibile, per scrivere questa lettera aperta agli esperti di Diritto costituzionale. Mi rivolgo a tutti loro e a chiunque, nelle istituzioni di questa Repubblica, abbia titolo a suggerire una via per sanare le profondissime ferite che sono in questi giorni inferte alla nostra coscienza civile. O sia, almeno, in grado di dare risposta allo sconcerto di molti semplici cittadini come me, dei quali mi faccio portavoce. Siamo noi che abbiamo perduto il senso della misura, o è l’opinione pubblica che ha perduto, per abitudine e rassegnazione, la capacità di percepire quando la misura è colma?
IO CREDO che il voto di scambio sia un reato, e che se non si procede a denunciarlo e a esigere che chi se ne è reso colpevole ne paghi le conseguenze, sia in generale perché è difficile trovare le prove che il mercato abbia avuto luogo. Ma nel caso che abbiamo sotto gli occhi, le prove ci sono. Il presidente del Consiglio ha ripetuto di aver "dovuto" ripagare con un posto di viceministro la signora Polidori per via di promesse già fatte, in cambio di favori pregressi, ha anche aggiunto che precedeva altri nella lista, e che c’era un documento scritto a provarlo. Lo ha detto, ed è stato riportato dai giornali di ieri e di sabato. In quelli di oggi, con le intercettazioni delle telefonate con Lavitola, emergono numerosi altri casi del genere, con personaggi che dicono "io sono prima di lui nella lista", eccetera.
Io credo che un capo di governo che dica "facciamo la rivoluzione vera... facciamo fuori il Palazzo di Giustizia di Milano" si renda semplicemente colpevole di tradimento nei confronti della Repubblica, e della sua Costituzione, sulla quale ha giurato. Credevo che, se fino ad ora non si è proceduto a denunciarlo e a procedere con una qualche - immagino prevista - forma di impeachment per alto tradimento, fosse perché non era dimostrabile che questo fosse il pensiero del capo del governo. Ora è dimostrato. Nero su bianco, voce e sua riproduzione scritta, comparsa sui giornali del 17 ottobre. Io credo che quando un presidente del Consiglio dichiara che nessuno che non sia un suo "pari" - cioè, immagino, un parlamentare, o un ministro - non ha il diritto di giudicarlo, fa una dichiarazione eversiva, in quanto lesiva dell’articolo 3 della Costituzione. E questa dichiarazione il suddetto presidente l’ha fatta in numerose occasioni, già molti anni fa. È oggi uno dei temi ricorrenti delle conversazioni con Lavitola, anche queste oggi di pubblico dominio .
IO CREDO che se un presidente del Consiglio dimostra di avere ogni genere di rapporti, che lo rendono ricattabile, con un indagato per reati di vario genere, peraltro dichiaratosi latitante; se addirittura ha istigato il suddetto latitante a restare tale; se infine pare all’origine del fatto che costui non viene arrestato, nonostante sia perfettamente reperibile, avendo concesso a una televisione nazionale una pubblica intervista: ebbene questo presidente del Consiglio si rende come sopra colpevole di eversione e tradimento della Costituzione su cui ha giurato, nonché di insulto alla coscienza morale e civile di tutti i suoi concittadini.
Se queste mie credenze sono fondate, allora mi chiedo e vi chiedo se le migliori intelligenze delle discipline giuridiche pertinenti non possano e non debbano farsi autrici di un documento di pubblica accusa, che se anche fosse destinato all’inefficacia pratica, avrebbe comunque una forte efficacia morale, come specchio e riferimento ideale di tutti i cittadini italiani che nella Costituzione si riconoscono, e che l’occupazione del potere da parte di chi la spregia ferisce nel fondamento stesso della loro coscienza e fedeltà alla Repubblica.
NON CI si obietti che questo capo di governo e la sua maggioranza sono al tramonto. Qualunque sia la maggioranza che gli succederà, considerare semplicemente “politica” la differenza fra la fedeltà alla Costituzione e il suo disprezzo, è rendersi complici del massacro, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della nostra dignità di cittadini, oltre che di quella delle istituzioni di questa Repubblica. Ed è soffocare per sempre la speranza di quel riscatto a partire dal quale soltanto una civiltà nazionale e politica può ricominciare a esistere.
LA NOMINA
Consulta, Quaranta eletto presidente
"Non si può bloccare referendum"
Napoletano, gradito al centrodestra, succede a De Siervo il cui mandato scadeva il 29 aprile. La Corte costituzionale sotto la sua presidenza si deve ora pronunciare sul quesito sul nucleare riformulato dalla Cassazione, che così motiva il suo via libera alla consultazione: "Col dl omnibus del governo si apre al nucleare nell’immediato". Il presidente Napolitano: "Sono un elettore che fa sempre il suo dovere" *
ROMA - La Consulta non può bloccare il referendum sul nucleare. E’ l’opinione espressa da Alfonso Quaranta, neo-presidente della Corte Costituzionale, che succede a Ugo De Siervo, il cui mandato è scaduto lo scorso 29 aprile. Quaranta ha parlato con i giornalisti subito dopo la sua elezione, affrontando il tema più caldo su cui si attende la pronuncia dei giudici costituzionali: "Personalmente ritengo che non sia nei poteri della Corte bloccare il referendum" sul nucleare, ha detto. La decisione arriverà comunque in tempi rapidi, con ogni probabilità già domani. Secca, la battuta di Giorgio Napolitano a che gli chiede se avrebbe votato ai referendum: "Sono un elettore che fa sempre il suo dovere".
Quaranta ha anche affermato di ritenere inopportune "le interferenze esterne sull’autonomia della Corte", dando un altolà a indebite pressioni che, spiega in seguito, sono da riferire alla scelta dei giudici in corsa per la presidenza. "Questa mia elezione - ha aggiunto - fa giustizia di ogni illazione sulla presunta politicizzazione della corte, che spero cessi". L’organo continuerà ad operare "nel pieno rispetto dei principi di collegialità, terzietà, imparzialità e indipendenza", assicura il presidente, auspicando che il Parlamento "provveda a nominare presto il quindicesimo giudice, per consentire alla corte di operare nella pienezza della sua composizione".
Ad eleggere Quaranta sono stati, a scrutinio segreto, 13 giudici della Consulta (assente per motivi di salute Maria Rita Saulle, mentre il quindicesimo giudice non è, appunto, stato ancora scelto dal Parlamento).
Settantacinque anni, napoletano, Quaranta è il 35/mo presidente della Corte e resterà in carica fino al 27 gennaio del 2013. La sua elezione è stata a larga maggioranza, con 10 voti su 13. Alla Corte è arrivato nel 2004, eletto giudice costituzionale dal Consiglio di Stato. Nella corsa alla presidenza non è stata dunque rispettata l’anzianità di carica e Quaranta ha avuto la meglio sia su Paolo Maddalena (giudice proveniente dalla Corte dei Conti che lascerà la Consulta il prossimo 30 luglio), sia su Alfio Finocchiaro (scelto dalla Cassazione e che andrà via il prossimo 5 dicembre).
Ritenuto più gradito al centrodestra, già lo scorso dicembre Quaranta aveva fatto traballare l’elezione di De Siervo per un solo voto di scarto. Nei giorni scorsi Maddalena, indicato come cattolico di area vicina al centrosinistra, ha fatto un passo indietro nella corsa alla presidenza inviando una lettera ai colleghi giudici con il dichiarato scopo di evitare "imbarazzi" e di rasserenare il clima della Corte.
Domani, sotto la presidenza Quaranta, la Corte dovrà prendere in tempi rapidi l’importante decisione, se ammettere o meno il nuovo quesito referendario sul nucleare così come riformulato dalla Cassazione nei giorni scorsi. Ma ci sono altre date importanti: il prossimo 6 luglio toccherà all’ammissibilità del conflitto tra Camera e magistratura di Milano sul ’caso Ruby’ per il quale Berlusconi è imputato di prostituzione minorile e di concussione; il 5 ottobre sarà invece la volta del conflitto sul caso Mediatrade sollevato da Palazzo Chigi contro i giudici di Milano che stanno processando il premier per frode fiscale. Il 20 settembre, infine, è atteso il verdetto della Corte sulla legittimità di diversi punti della legge sulla fecondazione assistita.
La Cassazione, intanto, motiva il sì alla consultazione in programma il 12 e 13 giugno affermando che le nuove norme del decreto Omnibus convertito in legge a maggio aprono "nell’immediato al nucleare". Lo mette nero su bianco l’ufficio centrale elettorale della Corte di Cassazione nelle movitazioni con le quali spiega l’ammissione del quesito referendario. In particolare, la Cassazione spiega che "l’articolo 5 comma 1 non esprime solo programmi per il futuro ma detta regole aventi la forza e l’efficacia di una legge che apre nell’immediato al nucleare (solo apparentemente cancellato dalle dichiarate abrogazioni contenute in un provvedimento che completa le sue stesse revisioni abrogative con una nuova disciplina che conserva e anzi amplia le prospettive e i modi di ricorso alle fonti nucleare di produzione energetica)".
* la Repubblica, 06 giugno 2011
Le tensioni con la Consulta potrebbero costare caro
di Marcello Sorgi (La Stampa, 11.02.2011)
Non doveva proprio capitare anche questa a Berlusconi, di ricevere con qualche mese di ritardo, ma tutta insieme, la reazione dei giudici della Consulta agli attacchi a cui s’era lasciato andare un numero infinito di volte, da quando, ormai un anno e mezzo fa, la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il lodo Alfano, rimettendo in moto la macchina dei processi contro il Cavaliere.
Da allora in poi è stato un lento, ma neppure troppo, rotolamento verso la morsa in cui il presidente del consiglio s’è ritrovato stretto in questi giorni, tra il caso Ruby con le accuse di concussione e sfruttamento della prostituzione, e i tre processi che dal 28 febbraio lo attendono a Milano. La breve parentesi del legittimo impedimento, parzialmente annullato anche quello, è stata una specie di libertà provvisoria, per altro usata dal premier per rimettersi nuovamente nei guai.
D’altra parte il tono usato dal presidente De Siervo ieri lascia poche speranze: trattandoli da manutengoli della sinistra, Berlusconi ha offeso i giudici della Consulta, due terzi dei quali, come si sa, non provengono dal Parlamento, essendo scelti direttamente dal Capo dello Stato o tra i capi delle diverse magistrature. Ma anche per quelli di nomina politica i requisiti e le alte competenze giuridiche richiesti sono gli stessi e il sistema di elezione è tale da rendere indispensabile un accordo tra maggioranza e opposizione. Di qui l’irritazione dei supremi giudici a cui De Siervo ha dato voce ieri.
Il nuovo attrito istituzionale che ne è generato ha un prezzo particolarmente alto per Berlusconi. La Consulta infatti, nelle strategie dei difensori del premier, rappresenta l’ultima possibilità per cercare di evitare il processo con rito immediato chiesto dalla Procura di Milano e tentare di ricondurlo al Tribunale dei ministri, da dove, grazie a un nuovo voto parlamentare, potrebbe essere portato in una specie di limbo.
Anche se non c’è alcuna ragione per temere che i giudici costituzionali si lascino influenzare dagli attacchi ricevuti, l’uscita del presidente De Siervo lascia trapelare una non proprio felice disposizione a occuparsi dei frequenti problemi giudiziari del premier. E se la richiesta di investire il Tribunale dei ministri dovesse essere respinta dalla Corte, Berlusconi dovrebbe rassegnarsi a comparire a Milano, per rispondere delle accuse infamanti che il caso Ruby gli ha riversato addosso e per ricevere in poco tempo, data la proceduta abbreviata, una sentenza che non promette niente di buono.
CSM
Mancino: "P3? Cono d’ombra sulla magistratura
ma l’autonomia della toghe non si discute"
Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura torna sull’inchiesta: "L’interferenza nella libera attività del magistrato non è mai stata posta in discussione"
ROMA - "Gli ultimi avvenimenti relativi all’inchiesta sull’associazione segreta Loggia P3 gettano un cono d’ombra, ma non credo che possano incidere sulla sostanza dell’attività che abbiamo svolto al Csm". Il vicepresidente dell’organo di autogoverno della magistratura, Nicola Mancino, intervistato da Sky Tg24, torna sulla vicenda della cosidetta P3 e sui tentativi di interferire sugli orientamenti di alcuni consiglieri per favorire la nomina del presidente della Corte d’Appello di Milano, Alfonso Marra. Mancino fa peraltro notare che "è in corso un’inchiesta da parte della Prima commissione del Csm" e che "lo stesso Pg della Cassazione avverte la necessità di avviare un procedimento disciplinare. Vediamo cosa succederà".
Davanti al plenum, Mancino torna sulla richiesta di dibattito sulla deontologia dei consiglieri, avanzata da alcuni membri togati e rimandata alla prossima consiliatura dal capo dello Stato, ribadendo come il Csm abbia sempre garantito ai magistrati "la tutela del libero esercizio della giurisdizione".
"L’esperienza di questi quattro anni - dice Mancino - dimostra la validità di un impianto istituzionale che rende il giudice obbligato ad assumere la legge come guida nell’esercizio della sua attività. L’attività della sezione disciplinare dimostra con quanta attenzione ci siamo posti il problema di garantire autonomia e indipendenza della magistratura. L’interferenza nella libera attività del magistrato non è mai stata posta in discussione e le stesse modifiche sulle regole per le pratiche a tutela dimostrano che ciò che il consiglio vuole garantire al magistrato è proprio la tutela del libero esercizio della giurisdizione".
Mancino replica così al consigliere Ciro Riviezzo che prendendo la parola in aula aveva sottolineato come la stampa stia rappresentando una magistratura "fatta di faccendieri che si rivolgono ai loro amici per ottenere vantaggi, favori e raccomandazioni".
* la Repubblica, 21 luglio 2010
Polemica su un incontro a cena fra il membro della Consulta e il premier
alla vigilia della decisione sul Lodo Alfano. "La polizia fascista è ancora all’opera"
Il giudice Mazzella scrive a Berlusconi
"Siamo oggetto di barbarie"
Pd e Idv all’attacco in Parlamento: "Infangata la sacralità della Corte"
ROMA - "Caro Silvio, siamo oggetto di barbarie ma ti inviterò ancora a cena", firmato Luigi Mazzella. Il giudice costituzionale, dopo le polemiche, scioglie le riserve e sceglie la strada dello scontro aperto con i critici. Motivo del contendere una cena a casa del giudice costituzionale, cui hanno partecipato Silvio Berlusconi, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, insieme ad un altro giudice costituzionale, Paolo Maria Napolitano, e al senatore Carlo Vizzini che ha scatenato polemiche feroci sull’opportunità che due giudici dell’Alta Corte si incontrino alla viilia di una importante decisione sul Lodo Alfano che la Consulta dovrà giudicare a settembre. E la lettera arriva nel giorno dello scontro il Aula fra Antonio Di Pietro e il ministro Sandro Bondi a colpi di "vergogna".
La lettera. "Caro Presidente, caro Silvio, ti scrivo una lettera aperta perché cominciando seriamente a dubitare del fatto che le pratiche dell’Ovra (la polizia segreta fascista, ndr) siano definitivamente cessate con la caduta del fascismo". "Ho sempre intrattenuto con te - scrive Mazzella - rapporti di grande civiltà e di reciproca e rispettosa stima. Vederti in compagnia di persone a me altrettanto care e conversare tutti assieme in tranquilla amicizia non mi era sembrato un misfatto. A casa mia, come tu sai per vecchia consuetudine, la cena è sempre curata da una domestica fidata (e basta!). Non vi sono cioè possibili ’spioni’, come li avrebbe definiti Totò. Chi abbia potuto raccontare un fantasioso contenuto delle nostre conversazioni a tavola inventandosi tutto di sana pianta - è sottolineato nella lettera - resta un mistero che i grandi inquisitori del nostro Paese dovrebbero approfondire prima di lanciare accuse e anatemi. La libertà di cronaca è una cosa, la licenza di raccontare frottole ad ignari lettori è ben altra! Soprattutto quando il fine non è proprio nobile".
"Caro Silvio, a parte il fatto che non era quella la prima volta che venivi a casa mia e che non sarà certo l’ultima fino al momento in cui un nuovo totalitarismo malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali, mi sembra doveroso dirti per correttezza che la prassi delle cene con persone di riguardo in casa di persone perbene non è stata certo inaugurata da me ma ha lunga data nella storia civile del nostro Paese. Molti miei attuali ed emeriti colleghi della Corte Costituzionale hanno sempre ricevuto nelle loro case, come è giusto che sia, alte personalità dello Stato e potrei fartene un elenco chilometrico".
"Caro presidente - conclude la lettera -, l’amore per la libertà e la fiducia nella intelligenza e nella grande civiltà degli italiani che entrambi nutriamo ci consente di guardare alla barbarie di cui siamo fatti oggetto in questi giorni con sereno distacco. L’Italia continuerà ad essere, ne sono sicuro, il Paese civile in cui una persona perbene potrà invitare alla sua tavola un amico stimato. Con questa fiducia, un caro saluto".
Lo scontro in Aula. "Non si è parlato di Lodo Alfano", ha detto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito, durante il question time alla Camera, rispondendo così ad un’interrogazione del presidente dell’Idv Antonio Di Pietro. "Tranquillizzo gli onorevoli interroganti: le iniziative del governo in materia di Giustizia - conclude Vito - saranno rispondenti al programma presentato al corpo elettorale e che gli elettori hanno premiato". La cena, continua Vito, non è stata organizzata dal Governo, ma "molte settimane prima" dallo stesso Mazzella e vi hanno partecipato anche le consorti degli invitati.
Eppure le polemiche non si placano e la spiegazione non convince l’opposizione, mentre crescono le adesioni - un migliaio di email sono arrivate a Repubblica - all’appello che circola su Internet per le dimissioni dei due giudici costituzionali. Il Pd continua a definire "gravissimo" l’incontro nella residenza privata del giudice Mazzella. "Può dire ciò che vuole, ma io trovo che decisamente non stia bene invitare qualcuno a casa propria, sul quale si è chiamati a decidere. Un magistrato, soprattutto se sta alla Corte Costituzionale, non dovrebbe mai farlo’’, dice Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Partito Democratico. E il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, illustrando alla Camera la sua interpellanza, parla di toghe spregiudicate che con la loro condotta hanno "infangato la sacralità della Corte Costituzionale" e giudica la risposta di Vito "insoddisfacente e inaccettabile". Toni forti, che il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, non gradisce. Ne segue un battibecco in aula, con Bondi che alle parole di Di Pietro grida più volte "Vergognati", inveendo contro gli scranni dell’Idv, e poi lascia l’aula.
* la Repubblica, 1 luglio 2009. (http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/politica/lodo-alfano-cena-giudici/parla-vito/parla-vito.html)
Consulta: eletto il nuovo presidente, è Francesco Amirante *
È Francesco Amirante il nuovo presidente della Corte Costituzionale. Succede a Giovanni Maria Flick, il cui mandato è scaduto lo scorso 18 febbraio. Amirante è stato eletto a scrutinio segreto dai 15 giudici della Consulta. Come primo atto, il neopresidente Francesco Amirante ha nominato come vicepresidente il giudice costituzionale Ugo De Siervo.
Settantacinque anni, di Napoli, Amirante è il 33/mo presidente della Corte Costituzionale e resterà in carica fino al dicembre del 2010. Dal 14 novembre 2008 era vicepresidente della Consulta. Sotto la sua presidenza la corte si dovrà occupare tra l’altro del lodo Alfano, del caso Abu Omar e della norma sulle intercettazioni illegali. Probabilmente se la cassazione dara il suo ok, la consulta sotto Amirante vaglierà anche il referendum sul lodo Alfano presentato da Di Pietro.
Il nuovo presidente è entrato in magistratura nel 1958. Nel 1980 è stato addetto all’ufficio del massimario e del ruolo della Cassazione ed è stato applicato alla sezione lavoro, di cui è diventato in seguito consigliere e presidente.
Dal 1987 è stato componente fisso delle Sezioni Unite della Suprema Corte. Eletto giudice costituzionale il 23 novembre 2001 dalla Corte di Cassazione ha giurato il 7 dicembre successivo nelle mani del Presidente della Repubblica.
* l’Unità, 25 febbraio 2009
Farsa all’Alta Corte
di LUIGI LA SPINA (La Stampa, 15/11/2008)
L’occasione è buona, proprio perché nessuno può mettere in dubbio i meriti del nuovo presidente della Corte Costituzionale e le sue attitudini a ricoprire l’alto incarico che gli è stato affidato. Giovanni Maria Flick, sia per le sue competenze scientifiche, sia per le qualità di indipendenza, equilibrio, capacità organizzativa, sia per aver sempre dimostrato di essere persona assolutamente per bene, sarà un presidente di massima garanzia per tutti.
Sgombrato il campo da qualsiasi dubbio sulla persona, si può esigere, senza rischi di alimentare sospetti ed equivoci, che questo malcostume di affidare, per pochi mesi, la guida della Consulta al giudice più anziano finisca al più presto. La convenienza ad allargare il più possibile il numero di coloro che possono fregiarsi del titolo di «emerito», con annessi vantaggi, è chiara. Ma è altrettanto chiaro il danno che questo espediente arreca alla autorevolezza, credibilità e prestigio dell’Alta Corte.
Questi giudici, chiedono, spesso, di essere difesi dagli attacchi strumentali nei loro confronti. Per pretenderlo dagli altri, dovrebbero prima difendersi da se stessi.