Il discorso di Veltroni confrontato da un esperto con quelli "omologhi" di Berlusconi e Prodi
La lunghezza del testo alleggerita da citazioni. Due soli "peccati": flat tax e housing sociale
La media di parole per periodo è stata di 21, ancora meno delle 28 del leader forzista
Frasi brevi e pochi "io" ecco i jolly del Lingotto
di TULLIO DE MAURO (la Repubblica, 29 GIUGNO 2007)
La vita politica ha bisogno delle parole. Lo sappiamo da tempi remoti. Meno noto è che la parola fiorisce dove più intensa è la vita democratica. Tale era la tesi, ben argomentata, del poco noto antico Anonimo autore del "Sublime". Guardare alle parole usate in momenti decisivi della nostra vicenda politica può non essere solo un esercizio di analisi linguistica fine a se stessa. All’indomani del discorso di Walter Veltroni, è opportuno metterlo a confronto con i discorsi fatti in occasioni analoghe da chi lo ha preceduto sulla strada della leadership.
«Ho scelto di scendere in campo»: così il 26 gennaio 1994 Silvio Berlusconi annunziò il suo ingresso nella vita politica e la formazione di un "Polo delle libertà" e del movimento di Forza Italia. Fu un discorso breve, circa 1300 parole, nemmeno tre cartelle. Non vi si trovano citazioni di nomi propri, di persone precise, con l’eccezione del richiamo al padre e al suo insegnamento. Pochissime le parole che possano risultare mal comprensibili a una parte della popolazione, forse "retaggio" e "cartello delle sinistre", forse "liberaldemocratico" e la distinzione tra "liberale" e "liberista". I 45 periodi sono generalmente assai brevi, la media è di 28 parole per periodo, poco oltre le soglia di 25 parole, considerata ottima per la comprensibilità. Proprio nei periodi più lunghi si concentra l’espressione del "sogno" politico dell’autore. Su 45 periodi 20 contengono un autoriferimento, esibiscono la prima persona (talvolta plurale, "di maestà"). Parole più di altre frequenti sono "famiglia", "libertà" e "libero", "ragionevole" e "comunismo".
Tra i discorsi di Romano Prodi, specialmente significativo è quello pronunziato a Napoli il 17 giugno 1995, durante il "viaggio delle cento città". Si citano alcuni nomi in positivo (De Gasperi, Adenauer, Schuman) e in negativo si cita Berlusconi. Il testo è più lungo del precedente: 170 periodi. Sono numerosi i periodi brevi, brevissimi: "La politica è scelta", "Bisogna voltare pagina", "La civiltà televisiva vive alla giornata", "In Italia siamo oppressi dallo Stato", "Lo possiamo fare". La prima persona è meno frequente che nel testo di Berlusconi: si trova tuttavia in circa un sesto dei periodi. Prevalgono parole di base e comuni, ma c’è qualche vocabolo più specifico della politica: "localismo", "parodia del thatcherismo". Domanda irriverente: quest’ultima, questa "parodia del thatcherismo", che sarà stata per i due terzi di popolazione che non leggono giornali? Parrebbe una cosa brutta, secondo l’autore, perché la "offre la destra". Ma più esattamente?
Il discorso pronunciato da Walter Veltroni mercoledì a Torino è dei tre il più lungo: 11400 parole circa e 534 periodi. Nonostante non manchino periodi ampi, la media di parole per periodo è assai bassa: circa 21, dunque molto sotto la soglia di 25 parole per periodo. Come gli altri due oratori, anche Veltroni cerca di dare incisività al suo discorso e, stando ai numeri, pare riuscirci di più. Sono numerosi i riferimenti positivi a persone e guide politiche. Due autorevoli commentatori su La7 hanno detto a caldo che Veltroni aveva lasciato da parte il ricordo di nomi propri. Non sembra esatto. Le persone rammentate in positivo con nome e cognome sono, se ho ben contato, diciotto, e alcune ricorrono più volte (Prodi, Napolitano, Draghi). Vanno aggiunti alcuni riferimenti non nominativi, ma precisi: alla nostra Costituzione, al Partito democratico Usa, al Partito del Congresso indiano, ai sindacati confederali. Mancano riferimenti nominativi in negativo, scelta non casuale, ma ragionata. Le citazioni portanti sono diverse, da Vittorio Foa a Gustavo Zagrebelsky, alla bella lettera della giovane romana, la generosa "nuova italiana". C’è anche qualche citazione nascosta: "farsi carico" tra virgolette è senza dubbio una corretta evocazione dell’"I care" dei giovani nordamericani riportato su un muro dell’aula di don Milani a Barbiana.
Veltroni non si sottrae all’onere di usare la prima persona, spesso, però, per sottolineare un dubbio. Ma gli autoriferimenti, se ho ben contato, si trovano in meno di un decimo dei periodi. Assai meno, dunque, che negli altri due testi. Veltroni è portato a parlare delle cose e di altre persone e di sé dice meno degli altri due oratori. Parlando di cose in modo circostanziato, anche di cose controverse e spinose, come Veltroni fa, è inevitabile usare parole tecniche, assai specifiche. In generale queste vengono sì introdotte, ma subito spiegate, per esempio nei paragrafi sull’ambiente o in quelli sul fisco. C’è qualche eccezione negativa. Qualcuno, anche nel popolo ulivista, si chiederà che cosa siano la "flat tax" (che a Veltroni non piace) e lo "housing sociale" (che Veltroni auspica). I vocabolari per ora non aiutano. Altre parole tecniche, invece, nel contesto sono ben chiarite, da "soggettività femminile" o "mobilità sociale" a "delocalizzazione". Ci sono parole che ricorrono con rilievo: "pari opportunità", "equità", "eguaglianza", "sobrio" e "sobrietà", "ascolto", "scelta", "decisione". Sono parole che tutti capiscono e cui il discorso affida il suo senso.
IL DISCORSO INTEGRALE
"Un’Italia unita, moderna e giusta"
di WALTER VELTRONI
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Il Partito democratico e il mercato
di Giorgio Ruffolo *
Anche chi, come il sottoscritto, ha espresso riserve sulla scelta politica del partito democratico deve riconoscere oggi che la candidatura di Walter Veltroni conferisce a quella scelta una innegabile credibilità. Messaggi e programmi marciano sulle gambe degli uomini. E la sinistra riformista ha un bisogno disperato di leadership. Quella di Walter Veltroni è una scelta felice.
Resta il problema dell’identità del nuovo partito. Non parlo di programmi. Che tocca ai governi e non ai manifesti degli intellettuali, di formulare e di gestire. Parlo dell’identità politica. La quale si riassume nella collocazione rispetto alle grandi forze politiche esistenti in Europa. E in una chiara indicazione sulla posizione che il nuovo partito assumerà rispetto al grande confronto tra la destra e la sinistra. Non è affatto vero, come è diventato di moda affermare, che quella distinzione abbia perso significato. Mai come oggi, in tutta Europa, quella contrapposizione è stata così evidente e serrata. E così ideologica, se con questa parola si intende non un travestimento - come la intendeva Marx - ma una antitesi tra visioni opposte della realtà sociale, come la intendeva Bobbio. Certo, non si tratta più della rappresentazione della sinistra come cambiamento e della destra come conservazione. Per più di un verso questa distinzione si è rovesciata. Si tratta della contrapposizione tra chi accetta i rapporti di forza che risultano dal conflitto sociale e chi pretende di correggerli e di orientarli secondo valori e obiettivi di sostenibilità e di equità. Da questo punto di vista, la questione del rapporto tra economia e politica, tra mercato e democrazia è centrale e vitale.
Il partito democratico dovrebbe assumere una posizione non equivoca sul contrasto di fondo tra una società fondata sui rapporti di forza o su valori di solidarietà. E quindi, sulla questione cruciale del posto che il mercato deve assumere nella società.
La storia dei rapporti tra il mercato e la politica (ambedue fondati sui rapporti di forza) si è alternata, nella modernità, tra condizioni di prevalenza dell’uno o e dell’altra. Non v’ha dubbio che verso la fine del compromesso socialdemocratico la politica fosse giunta, in gran parte dell’Europa, a comprimere il mercato in una morsa tra invadenza amministrativa e pressione sindacale. E non v’è altrettanto dubbio che, tra globalizzazione e finanziarizzazione, il mercato ha ribaltato violentemente, a partire dagli anni ottanta, questo rapporto. La domanda di fondo è questa. Il partito democratico asseconderà queste tendenze alla mercatizzazione, non solo dell’economia ma della società, o si impegnerà a ristabilire un equilibrio democratico tra economia e politica, tra potenza economica e potere democratico?
Questo equilibrio non comporta affatto un recupero di invadenza dello Stato rispetto al mercato. Ci sono due terreni sui quali quel rapporto dovrebbe essere riqualificato. Il primo è che lo Stato sappia programmare, anziché gestire. Su questa linea dovrebbe essere perseguita la riforma della spesa pubblica, ispirandosi ai criteri di pianificazione strategica introdotti in Francia e negli Stati Uniti. Un’amministrazione moderna deve essere informatizzata, trasparente e fortemente finalizzata. Non si tratta di meno, ma di meglio. Il secondo è che lo Stato del benessere sia trasformato in una società del benessere (la definizione è di Gunnar Myrdal), nella quale una grande parte dei bisogni sociali sia assicurata non dalla burocrazia, ma dall’autogoverno dei cittadini organizzati in associazioni autonome.
Perché questo equilibrio sia ristabilito in queste nuove forme, il partito democratico non dovrebbe tradire il progetto democratico dell’Ottantanove, costruito sui tre fiammeggianti messaggi (libertà, eguaglianza, fratellanza) ma declinati in una tonalità ben temperata (responsabilità, merito, solidarietà) evitando che si rovescino, come è avvenuto, nel loro contrario.
Quanto al mercato, resto a quello che mi sembra uno slogan persuasivo: economia di mercato sì, società di mercato, no.
E a proposito di mercato, voglio chiudere queste note con due citazioni di due grandi uomini della Destra, insospettabili di simpatie per la Sinistra.
La prima, di un liberale autentico, Luigi Einaudi: «Il meccanismo del mercato è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani: sul mercato si soddisfano domande, non bisogni».
La seconda è di un altro grande economista reazionario, Joseph Schumpeter: «Questo sistema di idee sviluppato nel diciottesimo secolo (parla dell’utilitarismo) non riconosce altro principio normativo dell’interesse individuale...Il fatto essenziale è questo: che sia una causa o un effetto, questa filosofia esprime fin troppo bene lo spirito di irresponsabilità sociale che caratterizzava la passione e lo stato secolare, o meglio secolarizzato, del diciannovesimo secolo. Nel mezzo di questa confusione morale il successo economico serve solo a rendere più grave la situazione sociale e politica che è la naturale conseguenza di un secolo di liberalismo economico».
L’homo novus
di Barbara Spinelli (La Stampa, 28/6/2007)
Walter Veltroni è riuscito in un’impresa difficile, ieri al Lingotto. Candidandosi alla guida del Partito democratico, è riuscito ad apparire come homo novus e al tempo stesso come uomo che non segue le mode, che non lusinga chi è attratto dall’antipolitica, che non si compiace nella denigrazione di chi governa. Homo novus lo è senz’altro: da anni si tiene lontano da apparati, da correnti. Il suo mal d’Africa è stato espressione di questo prudente interiore distanziarsi. In questo somiglia molto ai dirigenti che hanno conquistato ultimamente il favore popolare, in Europa.
A uomini nuovi come Sarkozy e Angela Merkel, Zapatero e Gordon Brown che proprio ieri ha sostituito Blair in Inghilterra. A differenza di alcuni di questi personaggi, tuttavia, Veltroni non si è presentato come politico che vitupera i predecessori, che edifica la popolarità sui frantumi della famiglia cui appartiene. Non tradisce la maggioranza che sta governando, come fece Sarkozy con Chirac: non ha ucciso nessun padre, nessun fratello. Ha espresso solidarietà nei confronti dello scabrosissimo cammino di Prodi, cui ha riconosciuto il primo felice innovamento che è stato l’Ulivo. È stato molto esplicito, quando ha detto che primo compito del Partito democratico sarà il sostegno «deciso e coerente» del governo. Coniugando discontinuità e lealtà si è imbarcato in un’impresa ardua e anche coraggiosa, considerata l’impopolarità del centrosinistra.
Non stupisce questa scelta doppia, almeno per il momento fatta propria: questo somigliare a Sarkozy o Brown e questo desiderio di non identificarsi con loro interamente. Nel primo governo Prodi, tra il ‘96 e il ‘98, Veltroni fu vice primo ministro e diede prova di grande lealtà. Il suo nome non è coinvolto nell’avventura ancora opaca che portò alla defenestrazione del presidente del Consiglio e anche oggi l’intenzione non sembra questa. La lealtà è un ingrediente importante della sua popolarità ed è fatta di intelligente pazienza, di calma, di fiducia. Sono doti che mancano a molta parte della sinistra e del centro.
Eppure Veltroni è stato duro quando ha parlato delle malattie del centrosinistra. L’ha descritto come una coalizione che stenta a decidere, a cominciare dalla legge elettorale. Ha detto che governare è impossibile, quando basta un senatore per paralizzare ogni cosa. Ha denunciato vizi che sono della destra italiana ma anche della sinistra: i corporativismi, lo spirito conservatore, il primato dato non all’interesse generale ma al particolare. «Fare un’Italia nuova» significa superare questi vizi e l’invito era rivolto al governo ma in special modo a sinistra radicale e sindacato. Invocando un patto più solidale fra generazioni in materia pensionistica, ha detto che l’innalzamento dell’età anagrafica «non è una disgrazia» e ha aggiunto che «il sindacato non può e non deve solo tutelare chi ha un posto di lavoro o i pensionati. Deve tutelare i giovani che faticano a entrare nel mondo del lavoro». Di Marco Biagi e Massimo D’Antona ha evocato «il senso dello Stato e l’impegno civile».
I critici diranno che la lealtà nasce dal suo buonismo: questa orribile parola spesso associata al sindaco di Roma. È un epiteto inventato quando era di moda criticare il politicamente corretto. Ma forse la moda è sfinita, non essendo stata efficace e avendo diviso il Paese anziché unificarlo. Anche sui contenuti Veltroni è stato fedele alla storia della sinistra riformatrice. Ha auspicato la sintesi tra cattolici e laici, e al tempo stesso ha difeso i Dico. Ha elogiato l’uguaglianza, pur auspicando l’uguaglianza del punto di partenza e non quella del punto d’arrivo. Ha compreso la questione settentrionale, ma ha scelto Torino come emblema di un «Nord mai contrapposto allo Stato».
Non mancano i rischi: Veltroni, che fin qui è stato paziente, può spazientirsi. Può temere anche - non senza ragione - di esser trascinato verso il basso da vizi e difficoltà del governo. Alcuni suoi gesti, più o meno recenti, son parsi più impazienti del solito. Affascinato dalle prime mosse di Sarkozy, qualche giorno fa, ha detto che sarebbe bello un governo con Gianni Letta, che da decenni è l’uomo fidato di Berlusconi: come se Letta potesse esser equiparato alla personalità, del tutto indipendente, che è il ministro degli Esteri francese Kouchner. E prima delle elezioni del 2006 si scambiò biglietti strani con Casini, durante una conferenza, in cui fece capire che quelli non erano bei tempi: «È il momento di scelte alte, coraggiose. Ma non mi sembra questo lo spirito del tempo».
Denunciare lo spirito del tempo è cosa buona, quasi sempre. È la nota distintiva dell’homo novus. Ma a volte è un modo leggermente narcisista di vivere e commentare la politica, giudicata sempre un po’ noiosa e bassa quando non è fatta da noi.
Veltroni e il comunista
di Alfredo Reichlin *
La novità e l’importanza di ciò che è avvenuto con la discesa in campo di Walter Veltroni consiste essenzialmente - mi pare - nel fatto che la costruzione di un partito davvero nuovo (cioè diverso da quelli attuali) ha compiuto un passo avanti serio. Non siamo più alla sommatoria di vecchi ceti politici. Veltroni ha cominciato a definire la fisionomia del nuovo partito. Una forza che si candida a governare una società moderna molto complessa e frammentata come quella italiana uscendo dai vecchi schemi dentro e indicando le condizioni possibili perché questo paese possa ricominciare a «stare insieme». Non c’entrano niente i buoni sentimenti. C’entra la consapevolezza di quali sfide stanno davanti alla nostra patria, e quindi, della necessità di un nuovo patto di cittadinanza.
Un patto «inclusivo» non solo tra generazioni e interessi diversi ma tale da far fronte a quella sorta di «secessione silenziosa» del Nord dal Mezzogiorno che si finge di non vedere. Veltroni non si è nascosto affatto la gravità della crisi e la drammaticità dei problemi irrisolti. È in risposta ad essi che ha delineato una idea del futuro del paese che non è astratto perché è sorretta dalle costruzione di una nuova soggettività politica e culturale: quel tipo di forza che qualcuno di noi si era azzardato (da tempo) a chiamare «un partito nazionale».
Perchè così - e solo così - si giustifica la nascita di un nuovo partito all’interno del quale la sinistra non cancelli la sua grande storia. Una forza nuova per una situazione storica nuova. Così come accadde, del resto, con la nascita dei partiti operai al passaggio dall’agricoltura all’industria oppure come si rispose al tramonto dell’età liberale e all’avvento della società di massa: da sinistra con Roosevelt e la socialdemocrazia e da destra con un partito totalitario di massa.
Insomma, io penso questo. E qui sta la ragione del mio giudizio così positivo su ciò che è avvenuto a Torino. Ma è proprio questo evento, proprio per il suo essere così carico di nuovi sviluppi e nuove aspettative, che non chiude ma apre nuove riflessioni. Esso chiama le culture politiche (a cominciare da quella da cui vengo) a confrontarsi non solo con le persone ma con la sostanza della crisi italiana, che è non solo economica e sociale ma si configura ormai come crisi della democrazia repubblicana. C’è, infatti, una ragione se la costruzione di un partito democratico è una impresa così difficile e niente affatto moderata. La ragione è che si scontra con forze molto potenti. Pietro Scoppola ha ragione quando ci invita a chiederci se (cito) «nella storia del paese non ci siano motivi profondi di resistenza se non di incompatibilità rispetto al progetto del partito democratico». E risponde che la formula dei «riformismi che si incontrano» è superficiale perché non dà conto del problema di fondo, tuttora irrisolto, che è la sostanziale incompiutezza (cito ancora) «del processo fondativo della democrazia nel nostro paese. Perché l’amara novità è questa: quel processo, del quale sono state poste le promesse con la Costituzione, non è stato compiuto né a livello etico, né a livello di cittadinanza; né a livello istituzionale». È evidente. Qui sta la missione del partito democratico. Una missione difficile sia per le ragioni accennate e che stanno dentro la storia italiana, ma che è resa più difficile per l’impatto che il processo reale della globalizzazione sta avendo su un sistema politico debole come quello italiano. È di questo che si parla troppo poco. E io continuo a stupirmi quando leggo che anche uomini di grande intelligenza sostengono che il problema del partito democratico consiste essenzialmente nella scelta tra i fautori del mercato (il filone liberal) e i fautori del vecchio intervento statale (il filone socialdemocratico). Ma dove vivono?
È perfino ovvio e in sé non è affatto un male, (anzi, in sé, è un portato del progresso) il fatto che nel mondo globale lo Stato ha perso la sovranità assoluta e che quindi non è più il solo garante della vita sociale politica e culturale di un popolo-nazione. Ma il grande problema è che questo vuoto non è stato riempito. E non è stato riempito non perché i politici si intromettono troppo nelle «logiche» di mercato ma perché lo Stato ha perso anche il monopolio della politica. Non è poco. Significa che non è più lui il garante della sovranità popolare cioè dei diritti uguali di cittadinanza. E ciò perché sono entrati sulla scena (come sappiamo) altri poteri molto potenti, non solo economici e finanziari, ma anche scientifici, mediatici, culturali. Io non apprezzo affatto, e tanto meno giustifico le derive oligarchiche e autoreferenziali della politica, ma credo che dopotutto sta anche qui la ragione della sua crisi così profonda. Più la politica conta meno nel senso che non è in grado di prendere le «grandi decisioni», quelle che riguardano il destino della «polis», più la politica si attacca al sottopotere e al sottogoverno. E così la democrazia si svuota e aumenta il distacco dalla gente. E si crea quel circolo vizioso per cui a una elites auto referenziale e poco rappresentativa si contrappone una società che si frantuma e si ribella al comando politico.
Se questa analisi è corretta anche quei miei amici che rappresentano il filone «liberal» dovrebbero cominciare a pensare che la vecchia dicotomia tra Stato e mercato non ha più il significato di una volta. La socialdemocrazia non c’entra. È del tutto evidente (come è stato detto e stradetto) che lo squilibrio crescente tra il «cosmopolitismo» dell’economia e il «localismo» della politica ha travolto le basi del vecchio compromesso socialdemocratico. Ed è anche vero che il neo-liberismo non solo ha vinto, ha stravinto ed è diventato da anni la ideologia dominante. Ma posso cominciare a chiedermi se le cose, le cose del mondo nuovo, lo strapotere della finanza mondiale, il sommarsi di ingiustizie abissali con la formazione di una nuova oligarchia straricca, posso cominciare a ragionare senza tabù anche sul rapporto tra mercato e sfera pubblica e sociale? Attenzione, non sul mercato come strumento essenziale dello scambio economico, evidentemente, ma come pretesa di essere il presupposto di ogni sistema sociale e di rappresentare la risposta ai bisogni di senso, di nuove ragioni dello stare insieme a fronte del venir meno delle vecchie appartenenze Veltroni ha ragione nel sottolineare la necessità di creare nuove risorse se vogliamo produrre servizi e capitali sociale (la vera povertà italiana). E queste risorse non le produce lo Stato. Per cui diventa sacrosanto tutto il discorso contro le rendite, i parassitismi, i protezionismi, ecc. E quello sulle liberalizzazioni. Ma Veltroni ha collocato queste affermazioni in un quadro molto più ampio e molto più moderno. Ha reso evidente che se la crescita non si accompagna alla creazione di nuove istituzioni (politiche, sociali, nuove relazioni sociali, capitale sociale) capaci di consentire a una società di individui di diventare cittadini, persone, cioè non solo consumatori ma creatori di se stessi, capaci di esprimere nuove capacità, noi non riusciremo mai a evitare le nuove emarginazione e le nuove miserie. Così la società si disgrega. I dati sull’apprendimento scolastico al Nord e al Sud sono impressionanti. Non è questione di soldi. I soldi ci sono. Mancano fattori sociali e culturali (le cose che fanno diversa l’Emilia dalla Calabria) che non possiamo affidare alle sole logiche di mercato.
Spero che si capirà il senso di queste mie osservazioni. Esse nascono dall’assillo di chi da tempo è dominato dalla necessità di uscire da vecchie visioni, e pensa che il problema di una nuova politica economica è creare un circolo virtuoso tra crescita e coesione sociale, tra politica ed economia. Abbiamo bisogno di un nuovo pensiero e una rivoluzione culturale. E torna in me, vecchio comunista italiano, il senso profondo della eresia gramsciana, l’idea della rivoluzione italiana intesa prima di tutto come rivoluzione intellettuale e morale. Io sogno un nuovo partito il quale faccia leva con più decisione di quanto non abbia fatto la vecchia sinistra classista sul fatto che l’avvento della cosiddetta economia post-industriale e della società dell’informazione richiede e, al tempo stesso, esalta risorse di tipo nuovo, non solo materiali: risorse umane, saper fare, cultura, creatività, senza di che la tecnologia non serve a niente; risorse organizzative senza di che è impossibile gestire sistemi complessi; risorse ambientali e relative alla qualità sociale; e quindi - di conseguenza - beni cosiddetti «relazionali», cioè rapporti sociali e istituzioni capaci di produrre fiducia, cooperazione tra pubblico e privato. Insomma un nuovo ethos civile, essendo questo il solo modo per dare ai «poveri» la possibilità di non essere messi ai margini. Far emergere, in alternativa alla ricetta neo-liberista, l’altra possibilità insita nel post-industriale, e cioè il fatto che una nuova coesione sociale può diventare lo strumento più efficace per competere.
Forse non è una grande scoperta. Ma a me sembra il solo modo per la sinistra di dare un fondamento strategico alla sua iniziativa, intendendo la strategia come la capacità di spostare i rapporti di forza e di intervenire dentro i processi reali, volgendo a proprio vantaggio la dinamica oggettiva dei cambiamenti che si producono. Abbiamo bisogno di una nuova analisi politica per capire se nella realtà effettuale, e non nei nostri desideri, sono aperte delle contraddizioni e delle linee di conflitto sulle quali si possa innestare una grande iniziativa politica.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.07.07, Modificato il: 03.07.07 alle ore 9.03
La resa politica all’esistente
Marco Revelli: «Veltroni? E’ l’antitesi del dr House. Non vede le cause del male»
di Cinzia Gubbini *
Dietro Fassino niente? Per il sociologo Marco Revelli «questa è la prima impressione che può arrivare dal congresso dei Ds», che ha appena dato vita al partito Democratico. Ma in realtà «se scendiamo un po’ più a fondo e se ad esempio leggiamo in filigrana l’intervento di candidatura di Veltroni, scopriamo che idee ce ne sono poche. Ma un nucleo duro, di sostanza, c’è».
Quale?
Un messaggio di resa della politica allo stato di cose presenti, alla deriva che ha caratterizzato la società in questi ultimi quindici anni. Resa all’esistente significa accettazione della società così com’è stata plasmata in questi anni di trionfo del mercato come unica e possibile condizione sociale. Cioè come normalità. Lo stato patologico del corpo sociale viene assunto come fisiologico.
Il discorso di Veltroni sembrava disegnare un partito il cui ruolo non è provare a indirizzare i processi, ma accompagnarli.
Peggio. Se fosse così ci sarebbe qualcosa di virtuoso: il rifiuto del primato del demiurgo e del moderno principe su un sociale considerato inferiore. Qui, invece, il sociale viene assunto come un tutto indifferenziato, come una grande narrazione - la narrazione dei media, con il linguaggio dei media - da gestire così com’è, come si gestirebbe un’impresa. Senza rinunciare a un ruolo autoritario, ma senza selezionare gli aspetti virtuosi e gli aspetti viziosi. Per stare anche noi al gioco del linguaggio mediatico, Walter Veltroni è l’opposto simmetrico del dottor House (protagonista della serie televisiva Dr House-Medical Division, ndr). Il dottor House è il professionista che usa il proprio cattivo carattere per fare il bene. La sua diagnostica è basata sulla ricerca delle verità, anche le più scomode, sul rifiuto dell’ipocrisia, della verità tranquillizzante. Il male va guardato in faccia per essere curato. Viceversa, Veltroni fa il buono per convivere con il male. La sua diagnostica è basata sul racconto edificante del reale, in cui persino il negativo compare per rendere più fulgido il positivo. In cui anche la disgregazione sociale è in funzione dell’ostentazione dei buoni sentimenti. E, soprattutto, in cui il drammatico peso del negativo nell’assetto attuale della società non è riconosciuto come tale. Il male non ha più un’eziologia, non ha più né cause, né soggetti. Appartiene all’ordine delle cose e come tale deve essere gestito
Sembra non esistano più oppressori e oppressi. In questo quadro qual è lo spazio del conflitto?
Non c’è, perché non c’è lo spazio della verità. Tutto rimane a livello del racconto in cui, però, scompare il momento della tragedia, che è la verifica sociale dell’incomponibilità di alcune contraddizioni che imporrebbero di scegliere. L’ apocalisse culturale attuale è rimossa, e con essa la ricerca delle sue cause. Se la patologia viene assunta come normalità, non si ha il problema di rimuoverla, ma di gestirla momento per momento. E questo ceto politico logoro, ormai senza visione del mondo e senza passioni, trova la propria ragion d’essere in una funzione manageriale, trattando i soggetti sociali come clienti di servizi e spettatori della rappresentazione politica. E trattando se stessi come fornitori.
Sarà anche una politica senza passioni, ma non negherà che il partito degli amministratori sul piano locale stravince. Non crede che le persone chiedano proprio un’amministrazione efficiente?
Certamente nella costruzione del partito Democratico traspare un’idea di politica come amministrazione. Ma nel contesto locale, dove amministrati e amministratori si guardano, permane un legame. In quello spazio esploso, in crisi, che è lo spazio pubblico nazionale, invece, dietro l’illusione del governo come gestione di servizi si nasconde il governo come mediazione tra lobby, come coalizione di interessi. Questa logica dichiara esplicitamente di trasformare il cittadino in cliente e spettatore. Ma in realtà, poi, misura i processi di produzione dei servizi e la loro selezione nel rapporto con i poteri forti. Sono gli stessi cittadini a cui si dichiara di voler fornire servizi quelli a cui viene somministrata - quando occorre prendere decisioni forti - la Tav che gli passa in casa, la base americana che arriva a lambire il centro storico, la centrale a Turbogas nel Lazio, l’area di stoccaggio delle scorie nucleari. Questi sarebbero cittadini utenti? Quando devono essere prese le decisioni di fondo, si sbatte loro la porta in faccia. E’ una logica oligarchica. Allora cosa fa questa gente? Si candida a gestire lo spazio. E su questo terreno si apre un conflitto: tra chi quello spazio lo vuole abitare e chi quello spazio lo vuole gestire come luogo di attraversamento dei diversi flussi che strutturano il mondo contemporaneo: infrastrutture, energia, merci, traffico, capitale. La politica oggi come «governo della società così com’è» è la politica che si posiziona sui flussi e si contrappone ai luoghi.
Ma lei non salva nulla della modernità?
Sono d’accordo con le analisi di chi, come Pietro Barcellona, sostiene che debba essere dichiarato esplicitamente il fallimento del progetto moderno come applicazione sistematica della razionalità strumentale e della potenza produttiva della tecnica come risoluzione di tutti i problemi sociali. Oggi vediamo il meccanismo della modernizzazione economica divorare e disfare la società. Questa è la matrice delle contraddizioni e dei possibili conflitti. Rimossi i quali rimane una predica da parroci di campagna, che nasconde gli artigli d’acciaio dei manager dei flussi
Mai come oggi, però, c’è la capacità delle persone si autorganizzarsi anche al di fuori del cappello delle grandi ideologie
Certo, per fortuna c’è una reticolarità di autorganizzazione del territorio. Soprattutto laddove riesce a muoversi sotto il radar dei media e può sviluppare il proprio discorso senza l’innesto tossico di quella logica. Allora nasce un nuovo linguaggio e un nuovo discorso, spesso trasversale alle tradizionali divisioni della politica. Lì scatta una forma partecipata della democrazia che sta agli antipodi del discorso edificante.
A questo punto, qual è il ruolo di ciò che resta della sinistra?
La prima cosa riguarda la parola. Dirsi la verità anche quando questa è sgradevole. Occorre inventare un modo della politica che non ha precedenti nel Novecento, che deve essere inventato da zero, perché davvero tutto è cambiato. Non basta tirare fuori dal cassetto della nonna le vecchie ricette, anche questo è un racconto edificante. Bisogna accettare di sporcarsi le mani e i piedi nei territori dove i linguaggi e i processi sono spesso spiacevoli: è più facile discutere in una sezione di partito che in un comitato che si organizza contro gli immigrati o ai bordi di un campo nomadi o ai cancelli della Fiat dei miracoli di Marchionne, perché lì ci si prospettano dimensioni tragiche del sociale.
http://www.ilmanifesto.it - materialiresistenti (24/04/2007 - 16:02)