Gli studenti a Bertinotti: "Vergogna"
All’Università di Roma accolto
da cori e cartelloni: "Sei
un guerrafondaio, arruolati"
di FLAVIA AMABILE (La Stampa,27/3/2007)
ROMA. Lo schieramento fa una certa impressione. Striscioni, cartelli, e nome e cognome di Fausto Bertinotti vivisezionati per estrarne ogni presa in giro possibile. Dietro la prima grande contestazione del «subcomandante Fausto», il più popolare leader dell’estrema sinistra degli ultimi quindici anni, una sessantina di studenti universitari. Di sinistra anche loro. Che ieri, in una manciata di secondi, hanno fatto capire ai rifondaroli qual è il loro posto nel pantheon della politica italiana: accanto a Clemente Mastella. Quando Fausto Bertinotti - nelle sue neo-vesti di presidente della Camera, completo di scorta e auto blu - si è materializzato ai piedi della Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma per partecipare a un convegno, a cartelli e striscioni si sono aggiunti gli slogan. «Assassino, assassino» tanto per incominciare. E poi: «Vergogna, guerrafondaio e buffone». E’ stato lì che Bertinotti non ci ha visto più. «Buffone? Buffone sei tu, se dici così. Chiedetemi scusa!». Nel frattempo, implacabile, una telecamera riprendeva la rabbia dell’ormai definitivamente «ex subcomandante» e potete giurarci che tra oggi e domani il video sarà postato su You Tube o sito equivalente.
In serata al Tg Uno il presidente della Camera avrebbe pronunciato la sua condanna senza appello: «Per le forze della sinistra pacifista non c’è solo il terreno della lotta culturale contro il moderatismo, ma anche contro quelle schegge dell’estrema sinistra che rifiutano la politica e la non violenza». Ieri mattina si è limitato a entrare in facoltà, seguito da un codazzo di spintoni e insulti tra i manifestanti e gli addetti alla sicurezza ma anche da una serie di sfottò ben visibili sui cartelli. «Arruolati, la non-violenza va in guerra. No Berty No war». Oppure: «W la base di Vicenza». Molto più dietro c’era anche: «A Fausto... Da Kabul a Vicenza, ma ‘ndo sta la non-violenza?».
Seppellire sotto cartelli e striscioni l’ex subcomandante non è stato facile per tutti, però. «Abbiamo discusso e valutato - racconta Dario -. E abbiamo scelto di usare l’arma dell’ironia». E c’è chi, come Aurora, ammette: «Non mi fa piacere contestare Bertinotti, ma qui non abbiamo amici o non amici. C’è soltanto chi è sulle nostre posizioni e chi non lo è». E Bertinotti in questo momento è lontano anni-luce dagli studenti dell’estrema sinistra, quelli dei collettivi e quelli della «Rete per l’autoformazione», le due sigle che stanno dietro alla protesta. «Questo è un governo che preferisce finanziare la guerra e non l’Università», sintetizza Aurora.
Quando poi Bertinotti ha provato a chiedere un incontro con una delegazione degli studenti, la risposta è stata durissima. «Vogliamo risposte politiche, non dialogare con lui», chiarisce Dario.
A quel punto era mezzogiorno. Gli studenti si sono diretti verso la Facoltà di Giurisprudenza dove era previsto l’arrivo di Mastella intorno all’una. Lì la contestazione è stata sui Dico. I ragazzi hanno chiesto l’appoggio del ministro sui diritti alle coppie di fatto. La risposta è stata netta e i ragazzi si sono beccati anche un «intolleranti». La giornata ha fatto registrare anche un’altra contestazione, questa volta da parte di giovani di An e di Fi che hanno accolto all’Università di Firenze il ministro degli Esteri Massimo D’Alema ribattezzandolo «D’Alemullah».
Il mondo politico ha espresso solidarietà a Bertinotti e agli altri contestati. Dal Brasile il premier Romano Prodi ha ricordato che le contestazioni ci sono sempre state ««l’importante è che la democrazia non si lasci influenzare da espressioni, legittime, ma di pochi». Qualcuno non ha potuto fare a meno di ironizzare. Lo diceva Pietro Nenni, ricordano Roberto Villetti della Rosa nel Pugno e Maurizio Sacconi di Fi: «C’è sempre un puro più puro che ti epura». Oppure Maurizio Gasparri di An: «Non si è mai abbastanza talebani per qualcuno» e quindi «chi di pacifismo ferisce, di pacifismo perisce».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
E al segretario Giordano dice: "Non sono iscritto al Prc, non vedo come posso essere -incompatibile. Disponibile a discutere della mia presenza nel gruppo"
Caruso: "Biagi un povero Cristo Mi spiace, ma anche lui sfruttato"
L’ex Disobbediente aveva detto che "Biagi e Treu con le loro leggi sono degli assassini"
Poi la correzione: "Le loro norme impropriamente usate per rendere precarie le condizioni di lavoro"
di CLAUDIA FUSANI *
ROMA - Alla fine, dopo dodici ore di polemiche e di attacchi per quelle parole assurde contro i giuslavoristi Biagi e Treu, l’onorevole disobbediente Francesco Caruso trova la frase che corregge fino a smentire quello che aveva detto in mattinata. "No ho mai accusato nessuno di essere un assassino - precisa - Non volevo offendere chi ha sofferto e ancora soffre. Penso che sarebbe giusto però abrogare le leggi dei due giuslavoristi che hanno reso assai più precarie le condizioni di lavoro. Fare questo può essere una forma di risarcimento e di rispetto per i morti sui posti di lavoro. Abrogare questo impianto normativo e ridare dignità e diritti ai precari è uno dei punti del programma di centrosinistra. Lavorare perchè ciò avvenga è un mio preciso dovere etico, prima ancora che politico".
Onorevole Caruso, il suo segretario Franco Giordano dice che le sue parole su Biagi e su Treu sono "incompatibili con Rifondazione". Cosa risponde?
"Mi spiace che Giordano pensi questo. Comunque io non sono iscritto a Rifondazione e non vedo come possa essere incompatibile con qualcosa di cui non faccio parte".
Non la possono espellere, come è già successo a un suo collega senatore?
"Non possono espellermi da un partito a cui non sono iscritto. Posso mettermi fuori dal gruppo: se la mia presenza dentro Rifondazione è un problema, se ne potrà discutere nella prima riunione alla riapertura dei lavori parlamentari".
Le sue parole sui due illustri giuslavoristi sono inaccettabili. Lei ha detto che "Biagi e Treu, con le loro leggi, sono degli assassini". Biagi è stato assassinato dalle Br nel 2002, sotto casa. La reazione di Giordano non è così insolita.
"Una delle caratteristiche di Rifondazione è proprio la pluralità di pensiero e di esperienze. Finora sono state una ricchezza e non un limite. Comunque spiego meglio quello che volevo dire...".
Ecco, lei ha detto "Biagi e Treu assassini".
"Sta venendo fuori un polverone assurdo. Mi rendo conto che quello che ho detto non è politically correct. Volevo dire è che quel povero uomo di Biagi, il pacchetto di norme sulla flessibilità e sulla riforma del lavoro che portano il suo nome, tutto questo è stato strumentalizzato dalla destra per creare condizioni di lavoro assurdo, precario, instabile, incerto".
Onorevole, cosa c’entra la riforma del lavoro di Marco Biagi con le morti bianche nei posti di lavoro?
"Quelle leggi sono state usate per armare le mani dei padroni e permettere loro di precarizzare e sfruttare con maggiore intensità la forza-lavoro e incrementare i profitti. Mille e duecento morti sui posti di lavoro in un anno, una media di quattro morti al giorno: questo è inaccettabile; questo deve far vergognare. Allora però succede che nessuno si sente responsabile per questi morti, così, sono morti per caso. E invece no: ci sono responsabilità politiche precise. Sono sconcertato".
Da cosa?
"Da questo moto isterico e collettivo di autoassoluzione che parte dalla casta, dalla classe politica. Qualcuno si vuol prendere la responsabilità politica di queste morti?".
Quali sono le "responsabilità politiche precise"?
"Quelle di uno Stato e di un governo che accettano - tanto da definirle per legge - condizioni di lavoro precarie, instabili e incerte. Ecco: io questo volevo dire. Mi spiace per Biagi, lui è solo un povero cristo che è stato usato. Anzi, sfruttato".
Caruso, dove si trova adesso?
"A Serra d’Ajello, provincia di Cosenza. Ci sono trecento persone, i dipendenti dell’istituto Papa Giovanni che rischiano di perdere il posto di lavoro dopo gli sperperi e le ruberie dei responsabili dell’istituto su cui indaga la procura".
La piattaforma di Rosy Bindi: "Diamo risposte alla protesta
o emergeranno personaggi pericolosi". "Non possiamo fare finta di niente"
"Tagliamo costi e privilegi
o la democrazia è a rischio"
di CLAUDIO TITO *
ROMA - "Il problema non è solo la manifestazione di Bologna. Ma le tante firme, la gente che ha fatto la coda per aderire. E se uniamo il tutto alle copie vendute dal libro "La casta", allora bisogna capire che siamo di fronte ad una ribellione contro la politica che va presa sul serio. Non possiamo far finta di niente". Beppe Grillo, il Vaffa-day, i privilegi della politica, gli stipendi dei parlamentari. Rosy Bindi li mette tutti in fila come anelli di un’unica catena che rischia di stritolare nella culla il nascente partito Democratico.
Per questo "dobbiamo dare una risposta". Non si può tacciare quel che accade come "qualunquista e demagogico". "Quando vado ai dibattiti, alla fine le domande della gente sono sempre le stesse: "perché noi non arriviamo alla fine del mese e voi vi arricchite?". E me lo chiedono anche alle Feste dell’Unità, perché il messaggio di austerità di Berlinguer è ancora vissuto sulla pelle da una parte del popolo della sinistra. E certe cose non vengono digerite". La sua risposta, allora, il ministro della famiglia già ce l’ha: abolizione del Senato, Camera con 450 deputati, dimissioni dei condannati, stop agli aumenti degli stipendi dei parlamentari, rimborsi spese sottoposti al controllo di una agenzia indipendente.
Ma perché la protesta di Grillo va presa così tanto sul serio? E soprattutto perché adesso?
"Perché o diventa una seria occasione di rinnovamento della politica o è chiaro che sarà l’anticamera dell’antipolitica".
Non lo è già?
"Non voglio usare toni apocalittici. Io ho vissuto in prima linea la stagione di tangentopoli. C’era una grande rabbia contro i corrotti, la rabbia ora è nei confronti di tutta la politica. So che nelle parole di Grillo ci sono venature qualunquiste e anche un po’ di volgarità, ma prima di liquidarle come ribellione antipolitica forse è il caso di chiederci se non sia una domanda di buona politica".
Eppure i suoi colleghi dell’Unione tengono a distanza il fenomeno Grillo.
"C’è sempre la tentazione di rimuovere".
E invece?
"E invece credo che il nostro 14 ottobre debba essere una straordinaria occasione per chiamare le persone a firmare per la buona politica e non contro la politica. Altrimenti - dopo aver suscitato attese - l’effetto non potrà che essere devastante".
Se vuole rispondere alla piazza bolognese, dovrà allora recepire le sue istanze.
"Siamo ancora in tempo a non legittimare il passato. Il governo, ad esempio, ha cominciato a ridurre le indennità dei ministri. Ma bisogna imprimere un forte cambiamento".
Nel concreto che vuol dire?
"Ecco le mie proposte: i parlamentari del Partito Democratico si dovranno impegnare a modificare la legge elettorale fino a dichiarare che non si candideranno con quella attuale. Immediata attuazione del nuovo titolo V della costituzione con la soppressione del Senato e l’istituzione di una Camera delle regioni. E così avremo 315 parlamentari in meno".
Ma ci saranno i membri di questa nuova Camera?
"Sì, ma si tratta di un’assemblea di secondo livello. E comunque ci dovremmo impegnare a ridurre del 30% anche i componenti della Camera dei Deputati. Ma non mi fermo qui".
Cioè?
"Dimissioni di chiunque abbia avuto problemi con la giustizia e quindi massima trasparenza per le liste elettorali del futuro. Interruzione immediata dell’indicizzazione delle nostre indennità. Solo noi e i magistrati abbiamo questo privilegio. Separazione netta tra indennità personale e rimborsi spese. Uno stipendio di 5000 euro va bene, i rimborsi vanno affidati ad una agenzia indipendente che valuti le finalità della spesa, verifichi se risponde ad un’attività politica o meno. Stesso discorso per la gratuità dei mezzi pubblici: vale per l’attività politica e non per i viaggi privati. Bisogna anche limitare i mandati e prevedere le primarie per tutti gli incarichi politici".
I suoi "colleghi" non saranno tanto contenti. Anche perché per fare la riforma elettorale serve un consenso che va oltre il Pd.
"Veniamo considerati dei privilegiati e quasi inutili per la comunità. Per questo ci chiedono quanto costa la politica. Dobbiamo spogliarci dei nostri privilegi. Il vitalizio, ad esempio, va dato a 65 anni e deve essere un’assicurazione privata. Va rivista anche la legge sui rimborsi elettorali e sui giornali di partito. Anche la vita "finanziaria" dei partiti andrebbe controllata di una agenzia indipendente. E sa perché faccio queste proposte? Perché ritengo che il finanziamento pubblico della politica sia necessario".
Sembrava il contrario.
"Per difendere il finanziamento pubblico bisogna correggere le distorsioni. Lo difendo perché altrimenti faranno politica solo i ricchi o quanti trovano dei finanziatori che però, prima o poi, presentano il conto".
Sembra quasi che lei voglia dire: attenzione se non sarò io il leader del Pd, tutto questo non accadrà.
"Mi auguro che nel Pd saremo in molti a pensarla così".
E se il Pd non seguirà questa linea?
"Guardi, Grillo può anche essere un provocatore, ma se ottiene questo consenso, seppure con accenti di qualunquismo, non si può pensare che tutto resti come prima. Io farò la mia battaglia su questo, in ogni caso".
Però anche nel Pd potrebbero risponderle che è facile richiamare la gente con il qualunquismo e la demagogia.
"Senza una politica autorevole la vita democratica di un Paese può correre dei rischi. La nostra sfida è quella di restituire dignità alla politica costruendo un partito nuovo. Un grande partito popolare e nazionale che non sia emanazione solo di una persona. Per questo va approvata una legga sulla regolamentazione dei partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione".
Lei chiede le dimissioni di chi ha avuto problemi con la giustizia. Ce ne sono anche nel centrosinistra. Vincenzo Visco è stato condannato per abuso edilizio. Dovrebbe dimettersi per questo?
"Io parlavo di corruzione e concussione. Il giustizialismo per me non è un valore, ma nel ’92-’94 quando la politica si rifiutò di autoriformarsi e si affidò alle aule dei tribunali, il risultato fu che arrivò Berlusconi. Come allora sono convinta che debba essere la politica a riformarsi".
Questa dunque dovrebbe essere la piattaforma del PD?
"Io penso che su questo si fonda il nostro futuro".
* la Repubblica, 10 settembre 2007.
Il giorno dopo è polemica sul successo della manifestazione di Grillo
Incertezza sulle frasi ingiuriose al giuslavorista. Mancuso le ha sentite in un clip
V-Day, Casini attacca: "Vergogna su Biagi"
Sott’accusa un video sui lavoratori
Bossi: "Un’esagerazione. Io, ad esempio, condannato per un reato di poca importanza"
Bindi, Violante, Monaco: in quella piazza anche cose giuste. Guai a mettere la testa sotto la sabbia *
di CLAUDIA FUSANI *
ROMA - E il giorno dopo, che succede dei 50 mila di Bologna, dei 300 mila che hanno firmato la proposta di legge, e dei "vaffa" strillati in più di duecento piazze italiane e in una trentina di capitali straniere?
Una faccenda politicamente "ingombrante" questa di Grillo e del suo evento - il V-day - organizzato solo sul web, successo molto poco virtuale e assai fisico. Una faccenda che imbarazza la maggioranza a cui - anche - è destinato il messaggio delle piazze dell’antipolitica. E poi due ministri, Di Pietro e Pecoraro Scanio, hanno aderito mentre gli altri sono stati pubblicamente sbeffeggiati dal comico-blogger. Una faccenda in cui l’opposizione può sguazzare a piacimento. E attaccare.
"Attaccato Marco Biagi" - Il primo è Pier Ferdinando Casini, che definisce il V-day "la più grande delle mistificazioni", una manifestazione "di cui dovremmo tutti vergognarci". Per il presidente dell’Udc, in realtà, il motivo della vergogna non è tanto il rischio del populismo e di una deriva qualunquista quanto un fatto accaduto a Bologna che ha ancora contorni poco chiari e che riguardarebbe il giuslavorista ucciso dalle Br Marco Biagi. "E’ stato attaccato Biagi che invece andrebbe santificato" dice Casini. Che aggiunge: "Dovrebbero vergognarsi i politici che pur di stare sull’onda del consenso popolare hanno mandato messaggi di adesione a Grillo".
Ora, l’assenza di dirette tv e radiofoniche - ad esclusione di Ecotv e Radio Radicale - e probabilmente la portata di un evento che ha superato la copertura di cronaca, ha fatto sì che in realtà non è ben chiaro in che modo e quando sia stato evocato Biagi. E’ certo che l’assessore Libero Mancuso, ex giudice ed ex presidente della Corte d’Assise che ha condannato gli assassini di Biagi, a un certo punto del pomeriggio ha lasciato la piazza Maggiore per colpa di una frase ingiuriosa contro Biagi. Grillo, dal palco, ha invocato l’abolizione delle leggi Treu e Biagi. "La frase è comparsa in un video" ha spiegato Mancuso.
Un video su "Il precariato nell’Italia delle meraviglie" - Il giallo si snebbia intorno all’ora di pranzo quando sul sito di Grillo i simpatizzanti del V-day mettono a disposizione i video con cui è possibile ricostruire la giornata in piazza Maggiore. E’ accertato che Grillo dal palco, a voce, ha fatto solo un riferimento alla legge Biagi e alle nuove forme di precariato. Lo sdegno di Mancuso nascerebbe invece da un video che è stato trasmesso sui maxi schermo della piazza nell’attesa tra un intervento e l’altro. Il video, curato da Grillo, s’intitola: "Il precario nell’Italia delle meraviglie", è accompagnato da una struggente colonna sonora e animato con due piccole scimmiette. Più che di un filmato si tratta di una video-story che racconta come "la legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato, moderna peste bubbonica che colpisce i lavoratori soprattutto in giovane età (...) Tutto è diventato progetto per poter applicare la legge Biagi e creare i nuovi schiavi moderni (...). Questo libro è la storia collettiva di una generazione senza niente, neppure la dignità, neppure la speranza, che sta pagando tutti i debiti delle generazioni precedenti, tutti gli errori, tutte le mafie, tutti gli scandali (...)".
Bossi: "Che esagerazione" - Il nome del senatùr è stato scandito sul palco dal comico genovese come uno dei 25 deputati condannati che dovrebbero lasciare il posto in Parlamento perchè sia più "pulito". "E’ un’esagerazione - dice Bossi - io sono stato condannato ma cosa vuol dire?". In fondo il suo era un reato (vilipendio alla bandiera) "non troppo grave e non troppo vicino al cuore della gente". Attenzione, avvisa il fondatore della Lega, "se esageriamo viene avanti l’antipolitica". Severo anche il giudizio di Giulio Tremonti: "Non condivido nè Grillo nè i tanti grilli ben vestiti che sono in giro. Certamente il comico genovese è più simpatico di tanti moralisti" taglia corto il presidente di Forza Italia.
A sinistra cautela e imbarazzo - E dire che una volta, anni fa, Grillo era un figlio della sinistra più illuminata e dissacrante. Il giorno dopo nella maggioranza, pur prendendo le distanze dai modi populisti e qualunquisti, si riflette sul fatto che a quella piazza va data una risposta. E che con quella gente va cercato un dialogo prima di perderla del tutto. Rosy Bindi dice che va "rilanciata la dignità della politica". Il ministro Bersani ammette che "in effetti c’era tanta gente. E però non è che ogni volta che c’è la febbre la colpa è del termometro che è rotto". Il prodiano Monaco mette in guardia i colleghi: "Attenzione, non nascondiamo la testa sotto la sabbia". Guai a liquidare tutto con la storia dell’antipolitica, "a questo malessere va data una risposta". Luciano Violante ammette che nel V-day "ci sono tante componenti e, oltre all’insoddisfazione per la politica, anche cose giuste".
Mentre la politica riflette sul dà farsi, il popolo di Grillo impazza sul web e sul blog del comico. Chiedono "una replica dell’8 settembre". Chiedono di "insistere". Di "continuare la raccolta delle firme". Non ci stanno a passare per qualunquisti o per l’incarnazione dell’antipolitica. E’ solo che vogliono "un’altra politica".
Politica - Dibattito
BOICOTTIAMO LE PRIMARIE DEL PARTITO DEMOCRATICO!!
di Pietro Ancona *
Il Partito dei Sindaci Sceriffi, dei sostenitori della legge Trenta (Sacconi-Maroni), del monetarismo più spinto e della traslazione in Italia di tutti gli stili di vita della destra americana a cominciare delle politiche carcerarie per i poveri, è in costruzione e trova il suo più importante sostenitore in Veltroni che, con i suoi dieci punti, ne delinea la natura postdemocratica, xenofoba e totalitaria.
E’ allarmante il crescendo di attacchi alle condizioni dei lavoratori. Dopo la Biagi e la controriforma delle pensioni si profila l’abolizione dei ccnl di lavoro (unica garanzia per milioni di lavoratori che non hanno alcun potere aziendale), la riduzione delle tutele in caso di infortunio e di malattia (campagna dei fannulloni), la limitazione degli accessi e del diritto allo studio mentre i costi della Oligarchia diventano assai pesanti e soltanto per consulenze si bruciano tre miliardi di euro l’anno.
Tutta la politica è diventata un business ed è tutta a pagamento a cominciare dai Sindaci che sono i più pagati al mondo mentre le Regioni si sono trasformate in grande parte in officine legislative per i parenti, i figli, le clientele delle Oligarchie politiche., Di costruire case popolari non se ne parla. La sanità è destinata a subire processi di privatizzazione come quelli dei servizi locali a cominciare dall’acqua che creeranno posti per nuovi consigli di amministrazione a carico delle utenze.
Gli inceneritori diventeranno la scelta centrale imposta alle popolazioni come la cessione delle basi militari agli USA senza alcun riguardo dei diritti delle nostre città.
Veltroni non nasconde l’obiettivo del partito maggioritario che non contratta con nessuna forza sociale e politica il suo programma e detiene il monopolio del Potere.
Per questo è importante BOICOTTARE le primarie del 14 Ottobre!!
Um minore afflusso alle urne come primo segnale di condanna di una scelta reazionaria e liberticida!!
Invitiamo l’elettorato democratico e di sinistra a non andare a votare!!
Andare a votare contro Veltroni per altre candidature è sbagliato dal momento che la caratterizzazione del nuovo Partito già assai profilata è il problema più importante!!
Rivolgiamo un appello agli intellettuali che hanno sorretto in tutti questi anni le lotte dei lavoratori e la civiltà democratica dell’Italia a mobilitarsi!!
Chi è d’accordo con questo messaggio, ne scriva di simili per la propria cerchia di conoscenze!!
Pietro Ancona
Presidente Circolo Riccardo LOmbardi
www.spazioamico.it
Il ministro degli esteri: "Chi governa non fa i cortei contro il governo ma governa"
Per il leader della Quercia non ci saranno elezioni anticipate: "Solo propaganda"
Ministri in piazza, D’Alema
"Contraddizione insostenibile"
Mastella: "Anche se sfilano segretari di partito si apre un problema politico"
La Bindi: "Evitare ultimatum pretestuosi e fare ogni sforzo per tenere unita la coalizione"
TELESE TERME - I ministri non possono scendere in piazza e se lo fanno mettono in scena una incompatibilità insanabile. Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema interviene, alla festa dell’Udeur a Telese Terme, sulla polemica in merito alla partecipazione di esponenti dell’esecutivo alla manifestazione del 20 ottobre contro il protocollo del Welfare promossa dalla sinistra radicale: "Se i ministri manifestano contro il governo questo pone dei problemi al governo. E’ una contraddizione insostenibile". E il ministro della Giustizia Clemente Mastella, sposando la tesi del leghista Calderoli, insiste: "Sarebbe un problema politico anche se i segretari di partiti della maggioranza andassero in piazza".
In particolare D’Alema sottolinea l’incoerenza di un eventuale simile gesto. "Il cittadino che va alla manifestazione chiederebbe a quel punto al ministro che è in piazza con lui: ’Allora ora perché non ti dimetti?’. E’ la loro posizione, della sinistra estrema, che diverrebbe contraddittoria e insostenibile".
La presenza dei ministri in un contesto di protesta, per D’Alema, "sarebbe un segno di debolezza e non di forza. Chi governa non fa i cortei contro il governo ma governa". Quanto alla possibilità di crisi di governo paventata ieri da Mastella, D’Alema ha precisato di non usare "l’espressione ’crisi di governo’ anche per ragioni scaramantiche".
"Elezioni anticipate? Propaganda". Il titolare della Farnesina scansa poi con decisione l’ipotesi di elezioni anticipate. "Non ci sarà nessuna elezione in primavera - ha precisato D’Alema - Ho l’impressione che gli annunci di Berlusconi siano come quelli delle sette religiose che fanno annunci che non si avverano mai. Insomma, è solo propaganda". Per il resto, il ministro precisa invece che "che la legislatura si va stabilizzando".
Mastella insiste. Se anche dunque fossero soltanto i segretari di partito a scendere in piazza "resta il problema politico, cioè l’idea di un partito di lotta e di governo. I partiti attuali possono scegliere la forma di governo, ma quando si è al governo si è al governo: si va in campo assieme per governare. Che i segretari di partito - continua Mastella - invochino la forca politica rispetto a noi o ai loro ministri è ancora peggio. Mi pare una sorta di ipocrisia spaventosa". Il leader dell’Udeur sostiene di comprendere le ragioni per cui i segretari dei partiti della sinistra radicale tentano di eliminare la distanza rispetto ai movimenti, ma - aggiunge - "i movimenti sono minoritari nella vita politica di un Paese. Seguirli non mi pare una cosa politicamente apprezzabile. Il governo della comunità è molto più importante rispetto a elementi minoritari, e a volte anche anarcoidi che esistono in alcune manifestazioni della sinistra cosiddetta antagonista".
Bindi: "Essere uniti ed evitare ultimatum". Per il ministro della Famiglia Rosy Bindi è meglio non utilizzare aut-aut pretestuosi e fare ogni sforzo per tenere unita la coalizione. facendo riferimento alle dichiarazioni di Mastella, Bindi ha detto: "Io penso che questa volta abbia ragione il ministro Ferrero a dire che il pulpito da cui viene la predica non è proprio il più adeguato. Però mi piacciono gli inviti e non le minacce e gli ultimatum, come quello che ho sentito ieri, perchè mi sembrano pretestuosi". Bindi ha quindi invitato i ministri delle sinistra radicale a "non andare in piazza" e a "tenere un comportamento di coalizione e di lealtà. Qui i temi sono due: non solo i ministri che vanno in piazza ma anche quanta voglia c’è in giro di fare del male al governo".
* la Repubblica, 1 settembre 2007.
ANSA » 2007-08-11 20:37
MONS. PAGLIA: SPEZZIAMO CATENA DI MORTE SUL LAVORO
TERNI - "Basta con queste morti! Basta con i lutti sul luogo di lavoro!". Ha invocato più volte un "rinnovato impegno a spezzare questa catena di morte, perché la violenza del male non ci trovi suoi complici", il vescovo di Terni, monsignor Vincenzo Paglia, nell’omelia della messa funebre di oggi pomeriggio per Mauro Zannori, l’operaio morto nei giorni scorsi in un incidente all’interno dell’Ast. "La morte di Mauro non sia vana per tutti coloro che lavorano", ha ribadito il presule ternano, sottolineando che "é un problema di civiltà, prima ancora che di rispetto e di amore. Più volte nei mesi passati abbiamo parlato dell’urgenza di una cultura nuova anche sul lavoro che deve coinvolgere tutti, l’intera società". Ma ora, oltre allo "sdegno per quanto continua ad accadere", serve - per monsignor Paglia - un "rinnovato impegno perché il lavoro non sia più una fabbrica di morte, ma luogo di vita e di speranza".
Secondo il vescovo, "il luogo di lavoro non può essere trasformato in una sorta di fabbrica di morti, di vedove e di orfani. Certo può esserci talora qualche tragedia che avviene casualmente. Ma se abbiamo, come abbiamo, una catena ininterrotta di vittime, tutto ciò non avviene certo per caso. Essa è il frutto amaro di una cultura di morte che continua a sacrificare vittime sull’altare del profitto, sul primato assoluto del guadagno e dell’interesse a qualsiasi costo anche a scapito della vita umana e della dignità delle persone". Da qui la sua sollecitazione ad un "sussulto spirituale e morale che porti ad una nuova attenzione, ad una nuova responsabilità. Tutti dobbiamo rendercene conto. Non possiamo ritrovarci assieme solo quando celebriamo un funerale". E’ necessaria dunque "un’attenzione più vigile anche là dove tutto può apparire regolare. Erano anni che nelle acciaierie non accadevano incidenti di questa gravità. Ma nel giro di due giorni due gravissimi incidenti, di cui uno mortale". Così, per monsignor Paglia, "mentre ci si avvia verso rinnovati investimenti è necessario un esame ancor più attento, ancor più vigile perché siano prese più adeguate e forse più sofisticate misure di sicurezza. Dobbiamo riscoprire una nuova cultura del lavoro che ponga l’uomo al vertice dell’attenzione", è stata la conclusione del presule.
Il parlamentare comunica la sua decisione e dice "Spero di mettere un freno a questo linciaggio politico"
Caruso: "Mi autosospendo
dal gruppo di Rifondazione"
Treu: "Una prima misura minima, mi aspetto che i suoi compagni la smettano di attaccare leggi che non sono responsabili del precariato"
di ANDREA DI NICOLA *
ROMA - "Mi autosospendo dal gruppo Prc-Se". Dopo le polemiche seguite alle sue parole su Tiziano Treu e Marco Biagi il parlamentare di Rifondazione prova così a mettere fine a quello che definisce un "linciaggio politico". Un comunicato di poche righe in cui rende nota la sua decisione dopo giorni di richieste di dimissioni, di scuse.
Parlando dell’ex ministro e del giuslavorista ucciso dalle Br Caruso aveva detto: "Le loro leggi hanno armato le mani dei padroni, per permettere loro di precarizzare e sfruttare con maggior intensità la forza-lavoro e incrementare in tal modo i loro profitti, a discapito della qualità e della sicurezza del lavoro". Un po’ meno di quell’"assassini" che era la primissima accusa lanciata ma comunque troppo poco per frenare le polemiche.
Parole "devastanti" ammetterà poi lo stesso deputato di Rifondazione che chiederà anche scusa. Ma intanto la palla di neve è diventata valanga portando sconcerto e divisione anche all’interno di Rifondazione comunista. I vertici sono coesi: "Parole indegne ma i processi non si fanno sui giornali, a settembre riuniremo il gruppo parlamentare e decideremo", dice il capogruppo Gennaro Migliore dopo la dura condanna del segretario Franco Giordano e il malumore fatto trapelare dallo stesso Fausto Bertinotti in una telefonata a Treu. Ma la base non è tutta contro il parlamentare e fa giungere via web la solidarietà al disobbediente campano. Il tutto mentre la destra attacca lancia in resta e gli alleati nell’Unione chiedono a Rifondazione di "chiarire la propria posizione".
Insomma una bufera che ha esposto il partito a bordate di ogni tipo. E così oggi Caruso decide per l’autosospensione e specifica: "E’ una scelta individuale e personale fatta senza alcuna sollecitazione. Voglio provare a mettere un freno a questo linciaggio politico". Una scelta che Migliore apprezza: "Credo che Caruso si sia reso conto della difficoltà in cui il suo gruppo si è trovato dunque questa scelta mi pare un segno di rispetto".
Ma, Treu, il bersaglio della polemica di Caruso non si accontenta. "E’ una prima misura minima - dice - ma non credo sia sufficiente, aspettiamo cose più politicamente significative, soprattutto da parte del Prc. C’è un problema politico generale, perché le sue affermazioni non sono state smentite da alcuni altri suoi colleghi, dalla Menapace a Cento, che anche se con altri toni, hanno continuato un attacco sbagliato contro leggi che non sono colpevoli del precariato. Semmai hanno cercato di regolare e migliorare il sistema, e i dati lo confermano. A settembre mi aspetto una presa di posizione più significativa".
Tensione in Rifondazione comunista attorno al deputato no global
E a settembre il gruppo parlamentare valuterà se espellerlo
"Bravo Francesco, falli indignare"
Sul web i militanti approvano Caruso
di ALESSANDRA LONGO *
ROMA - Un filo diretto, costante, al limite della nevrosi. Cellulari occupati, messaggi registrati, fax d’albergo. Rifondazione affronta la grana Caruso dalle vacanze. Il segretario Franco Giordano, notoriamente geloso della sua privacy e, per giunta in viaggio di nozze, deve affrontare dall’estero l’ondata che monta ed è furibondo. Russo Spena, capogruppo al Senato, dichiara dalla montagna, il rumore di una segheria in sottofondo. Cerca di contenere i danni, di far dimenticare "il grave errore di Francesco", quella frase, inutilmente smentita, su "Biagi e Treu assassini" e tornare al cuore della battaglia contro il precariato.
Si chiamano, si consultano. Espellerlo? Come si fa, è un indipendente, non iscritto. E poi "isolarlo - dice Russo Spena - vorrebbe dire portarlo alla disperazione, produrre in lui, che ha partecipato tanto ai movimenti, che si è speso, il definitivo distacco dalla politica vera".
Arriva il malumore dei compagni, della base, di molte segreterie regionali. Però arrivano anche, soprattutto via internet, i "forza Francesco", i "Forza Masaniello che ci fai sentire meno soli", i "Viva Caruso, continua così, falli indignare". E allora capisci che, nonostante l’anatema ufficiale di Bertinotti, il tunnel è stretto. Sì, ha offeso Biagi, è stato un ragazzaccio, ma... Ma ha detto, sulla legge 30, "ciò che tanti pensano, anche molti di coloro che in queste ore si sono dissociati".
A settembre, il Disobbediente verrà chiamato, redarguito, ammonito. "Gli faremo un discorso chiaro e collettivo - sceneggia Russo Spena - Gli diremo: "Guarda che ci hai messo in difficoltà grave, sappi che se cadrai ancora nel protagonismo, non andrai avanti tu e danneggerai noi"". Parola d’ordine: "Aiutarlo a crescere", come dice un dirigente che sembra parli del figlio ripetente. A chi evoca l’ipotesi alternativa, quella di accompagnare Caruso alla porta e suggerirgli l’iscrizione al gruppo misto viene risposto con un no: "Farebbe ancora più danni, diventerebbe incontrollabile".
C’è fastidio per questa grana non prevista, per tutto il lavoro fatto sulle morti bianche, sulla precarietà, che rischia di essere affogato nel mare mediatico di questi giorni, nell’offensiva della destra. Affiora anche un dubbio. Giusto prendersi in casa un tipo così? Giacomo Conti, segretario ligure di Rc: "C’è una distanza abissale tra quello che sostiene lui e quello che sente la nostra gente. Forse è il momento di fare un ragionamento sul meccanismo delle candidature. Bisogna aprire le liste, ma anche pensar bene a chi saranno, alla fine, gli eletti".
Daniele Farina, ex leader del Leoncavallo, oggi deputato, è avvilito, preoccupato: "Questa vicenda si commenta da sé". E persino Luxuria, certo non per perbenismo, prende le distanze: "Francesco non ha contato fino a dieci. In politica, l’impulsività non è una dote. Si deve dare una regolata, gli va fatto un ultimatum". Il vecchio Sandro Curzi liquida: "Non mi è mai piaciuto. I cretini di Ferragosto esistono a destra e sinistra".
Il cellulare, al mare, funziona poco. Michele De Palma, già leader dei Giovani Comunisti, ora nella segreteria nazionale, racconta che "non ci voleva credere", quando glielo hanno raccontato: "Caruso ha detto cose sconvolgenti e politicamente sbagliate. Mi mette ansia pensare che, di fronte all’ennesima morte di due ragazzi sul lavoro, non si parli che di lui. Tutto è diventato spettacolo, baraccone. A settembre dovremo ragionare a fondo su questa vicenda".
Niente espulsione, niente Gruppo Misto, ma c’è chi suggerisce a Caruso "di avere il coraggio, l’umiltà, di scrivere una lettera ufficiale di scuse a Rifondazione, alla famiglia Biagi, anche ai precari". Lo farà? Se legge i messaggi su www. sxnet. it, gli verrà il dubbio di essere nel giusto. Ecco un anonimo militante: "Personalmente non mi sento scandalizzato dalle parole di Caruso. In Italia, fino a prova contraria, esiste l’omicidio colposo e, volendo proseguire l’infelice metafora carusiana, si potrebbe invitare qualcuno ad assumersi la responsabilità politica e prendere atto di essere co-responsabile di più di 1200 morti all’anno".
E ancora: "La mia serenità e laicità mi spingono fino al punto di non poter sospendere il giudizio politico su Marco Biagi, barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse, colpevolmente lasciato senza scorta dallo Stato, ma comunque elemento di snodo di una riforma del lavoro che precarizza, non garantisce e non previene le morti bianche". Non è l’unico messaggio così. Ma ce ne sono anche altri. Quello di Franco, per esempio: "Quando apro i giornali e leggo parole su Biagi come quelle di Caruso mi vergogno di far parte di Rifondazione".
* la Repubblica, 11 agosto 2007
Caruso: «Biagi e Treu assassini» Il deputato no global di Rifondazione comunista attacca precarietà e legge 30. Il partito prende le distanze. Il Quirinale: «Parole indegne»
di Stefano Milani (il maniesto, 10.08.2007)
Roma. «Tiziano Treu e Marco Biagi sono gli assassini» dei due giovani morti l’altro ieri sul lavoro a Mugnano e Bolzano. «Le loro leggi hanno armato le mani dei padroni, per permettere loro di precarizzare e sfruttare con maggior intensità la forza-lavoro e incrementare in tal modo i loro profitti, a discapito della qualità e della sicurezza del lavoro». Il parlamentare no global di Rifondazione comunista Francesco
Caruso ci va giù pesante. Nulla di nuovo sui contenuti. Sono anni che il deputato devoto a San Precario punta il dito contro il pacchetto Treu e la legge Biagi, norme che secondo Caruso sono la causa dell’attuale instabilità del lavoro in Italia. Stavolta però il suo dare degli «assassini» agli autori dei due diversi provvedimenti legislativi sulla flessibilità è sembrato troppo anche a chi quelle leggi non le ha mai condivise.
E a nulla sono valse le successive rettifiche dello stesso Caruso, che poi tanto rettifiche non sono («Io non volevo dire che Treu e Biagi sono assassini. Piuttosto, sono quelli che, con le loro leggi, hanno fornito le armi agli assassini, e cioè agli imprenditori senza scrupoli che, per aumentare i loro profitti hanno abbassato la sicurezza, la qualità del lavoro e i salari...»), le scuse («Dispiace aver tirato in ballo Biagi, barbaramente ucciso e alla sua famiglia va la mia solidarietà»), le precisazioni («Mille e duecento morti sui posti di lavoro in un anno, una media di quattro morti al giorno: questo è inaccettabile. Nessuno si sente responsabile per questi morti, così, sono morti per caso»), e ancora le puntualizzazioni di tarda serata («Non ho mai accusato nessuno di essere un assassino. Ho detto che di fronte all’impressionante numero di morti sul lavoro è necessario individuare delle responsabilità»).
Il polverone è ormai alto, la condanna mediatica già partita. Dal Quirinale la presa di posizione è netta, e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, parla di «indegno vaneggiamento». In serata interviene anche il premier Prodi, si accoda alle critiche e telefona in segno di solidarietà a Treu, il quale risponde alle accuse di Caruso definendole «irresponsabili e deliranti» atte solo ad «avvelenare il clima»). E’ poi tutto lo stato maggiore di rifondazione comunista a prendere le distanze dalle affermazioni del suo deputato. A cominciare da Franco Giordano: «Le parole di Caruso sono culturalmente incompatibili con l’impostazione da sempre adottata dal Prc. Sono parole in libertà di cui il solo responsabile è il deputato Caruso». Dichiarazioni «sconcertanti» di una «cultura politica barbara» chiosa il ministro Ferrero. Ma tutta la giornata è un susseguirsi di dichiarazioni, è il tono è sempre lo stesso: di condanna.
L’attuale ministro del Lavoro, Cesare Damiano, definisce «demenziali» le dichiarazioni di Caruso: «Sono usate con irresponsabilità e leggerezza - accusa - che segnalano purtroppo la rottura del meccanismo della normale dialettica politica, con un linguaggio da bandire che fomenta l’odio e disconosce l’impegno del governo e del Parlamento con la recente legge a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. Una legge tesa a contrastare la tragedia delle morti bianche».
Anche per Olga D’Antona, vedova del giurista assassinato dalle Br come Biagi e oggi deputata di Sinistra democratica, è particolarmente colpita dall’assalto verbale del collega del Prc. «Parole offensive - dice - che ledono la dignità e la memoria di persone che legittimamente si sono impegnate in progetti di riforma del lavoro, che possono essere più o meno condivisi ma che sono comunque frutto di legittime convinzioni».
Per la destra le parole di Caruso sono una manna caduta dal cielo. E gli aggettivi si sprecano. Farneticanti, pazze, aberranti, folli, irresponsabili, superficiali, solo per citare i più teneri. Il leghista Maroni, collaboratore di Biagi nel 2001, chiede che Caruso sia «cacciato dal Parlamento».
Unipol, il gip Forleo sotto tiro
Sale la tensione con il Parlamento
Bertinotti e Marini irritati, Violante attacca: «E’ l’ora di capire cosa accade a Milano»
di ANTONELLA RAMPINO (La Stampa, 22/7/2007 - 7:15)
ROMA Non si entra nel merito della perentorietà con la quale il gip Valentina Forleo ha chiamato in causa in un «disegno criminoso» gli alti vertici dei diesse nella tentata scalata di Unipol a Bnl, ma di certo i presidenti di Camera e Senato non hanno gradito di ritrovarsi sui giornali atti che chiamano in causa il Parlamento.
Franco Marini e Fausto Bertinotti si sono sentiti più volte ieri al telefono, e poi hanno deciso di lasciar trapelare il loro disappunto. Da Palazzo Madama si fa notare che a quarantott’ore dalle notizie riportate da tutti i media ancora non è giunto dal Tribunale di Milano un atto ufficiale che consenta l’avvio della procedura prevista. Bertinotti ha fatto dettare una nota piuttosto dura, «costituisce un problema la diffusione di notizie riguardanti il rapporto tra magistratura e Parlamento». «Non esprimo valutazioni finché non avrò visto gli atti», dice irritato Carlo Giovanardi, il presidente della Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio.
In casa diessina c’è un’ovvia tensione. Che potrebbe salire, e di quanto dipenderà dall’atteggiamento degli alleati. Arturo Parisi, che per primo attaccò la commistione tra politica e affari, ieri valutava che, per carità, «guardare dal buco della serratura delle intercettazioni è scorretto e inutile», anche perché «quel che c’è da vedere era già sotto gli occhi di tutti». E però «la malattia che dobbiamo combattere non è esclusiva dell’Italia e neppure della politica, ma nella politica italiana: si chiama berlusconismo. Una malattia che in emulazione con l’azione di Berlusconi, con l’alibi di difendersi da lui, e talvolta addirittura in cooperazione con lui, ha aggredito la nostra democrazia».
Non dice di più il ministro della Difesa, ma a chi si riferisce è chiaro: a D’Alema e ai «dalemoni». Quando invece i diesse si sono al momento chiusi nel recinto della difesa «tecnica», Anna Finocchiaro nota che «c’è un esercizio abusivo del potere perché Clementina Forleo è un gip e non un pm, dunque non può esercitare l’azione penale», non può sostenere che c’è «un disegno criminoso». E tuttavia, c’è da notare, Clementina Forleo ha motivato la richiesta di poter mantenere agli atti, e non distruggere come prevede la legge Boato del 2003, il testo di intercettazioni che ritiene penalmente rilevanti. E questo, secondo Ignazio La Russa di An, che da presidente della Giunta per le autorizzazioni si è occupato in precedenti legislature dei casi Previti e Dell’Utri, «non è di per sé uno scandalo». Il fatto, dice, è che «ci si chiede una cosa ridicola: il danno alla reputazione dei politici è già fatto, e il gip vuole dal Parlamento il permesso di non distruggere intercettazioni ormai pubbliche e che resteranno negli archivi dei media». Quanto al ritardo con cui gli atti arriveranno in Parlamento, «è una cosa normale, accaduta tante volte».
Anche per Luciano Violante, ex presidente della Camera, «il ritardo ha una sua fisiologia». Ma «siamo di fronte a una fuga di notizie per finalità politiche, un fatto inaccettabile: non è la prima volta che succede, e non è la prima volta a Milano, dove pure ci sono magistrati di altissima professionalità, forse sarebbe il momento che qualcuno si occupasse di vedere cosa accade in quel tribunale». Una presa di posizione che non mancherà di suscitare polemiche e che suona, dopo l’irritazione manifestata da Mastella contro la Forleo, come un invito al ministro di Giustizia ad avviare un’ispezione. Proprio questo è il punto anche se si ascolta l’altro campo dello schieramento politico. «Se le cose stanno per come le abbiamo lette sui giornali, non ci sono estremi di reato» dice il coordinatore di Forza Italia Fabrizio Cicchitto. Per il quale il punto però è lo stesso sollevato da Marini e Bertinotti: «Forleo ha creato il caso prima ancora di inviare le carte al Parlamento. Un attacco pregiudiziale, molto pericoloso».
Notizie vere, notizie false
di Furio Colombo *
La notizia di una ipotesi di reato a carico dei due esponenti di vertice dei Ds D’Alema e Fassino, e del senatore Latorre giunge ai giornali e al pubblico con una originale deformazione che non dovrebbe passare sotto silenzio. Si fa credere che solo la scalata bancaria Bnl-Unipol sia al vaglio del giudice di Milano per le indagini preliminari Forleo. E che solo questa scalata sia oggetto di indagine e di annunci di ulteriori atti o inchieste della magistratura.
Molti ricorderanno benissimo - a differenza di alcuni grandi giornali - che, dopo le tentate scalate bancarie ed editoriali della scorsa estate a cui si riferisce la giudice Forleo, sono rimaste sul tavolo di quel giudice, tre diversi eventi, di cui uno riguardante la Rcs e la possibilità di catturare il Corriere della Sera, appare di particolare delicatezza politica. Tanto più che l’ombra di Berlusconi si vede distintamente alle spalle di alcune di quelle scalate, anche se, adesso, stranamente, non se ne parla. Evidentemente occorre essere certi che tutta la spinta negativa dell’opinione pubblica abbia tempo e spazio per investire D’Alema, Fassino e Latorre e che si crei uno spazio mediatico non stop esclusivamente per loro. Tanto più quando le notizie che li riguardano giungono misteriosamente prima ai giornali che alla presidenza delle Camere.
Credo sia molto importante notare che tutto ciò accade mentre sulla copertina di Panorama - proprietà Berlusconi - appare il volto debitamente turbato di Romano Prodi.
Il quale - a quanto pare (ma manca qualunque riscontro) - è stato iscritto sul registro degli indagati di una Procura, atto dovuto di un magistrato a causa dell’uso, per un evento sotto indagine, di un telefono cellulare di Prodi. Questo atto non significa incriminazione, non comporta l’avviso di garanzia (che è pubblico e che non c’è stato) ed è rigorosamente segreto. Il segreto non è mai stato un ostacolo per gli affiliati al clan Berlusconi. Ed ecco, in tutto il suo clamoroso e suggestivo atto di disinformazione, la copertina del maggiore settimanale politico italiano (e di Berlusconi) che in modo pesante comunica: Prodi indagato.
Particolare curioso. Proprio in questo numero di Panorama, proprio sotto questa copertina falsa, il senatore della Margherita Antonio Polito, mi rimprovera di credere ancora nella militanza antiberlusconiana. L’argomento di Polito, tra i più curiosi nella storia della democrazia, è: «Non vedete quanti ancora (e, anzi, di più) sono con Berlusconi?». Ho già risposto, e ripeto, che una simile vacua obiezione (più leggera di una piuma di colombo che Polito mi attribuisce come peso politico) in America non ha fermato i pochi democratici come Barak Obama, che si sono opposti alla guerra in Iraq contro due terzi dell’opinione Usa. Invece di usare lo stravagante argomento: «Non vedete che sono tutti dalla parte di Bush?», hanno insistito nella loro critica appassionata. E adesso sono la stragrande maggioranza.
Insisto sull’ombra letale di Berlusconi perché ha molta importanza in quello che sto per dire. Riguarda il nostro futuro, non solo i leader Ds, non solo la sinistra o l’Unione o la maggioranza. Riguarda l’integrità dell’Italia. Cercherò di spiegarmi, sapendo che non rappresento i Ds, non sono la voce di questo giornale, ma solo un punto di vista.
1 - Chiedo con passione e convinzione di stare in guardia dal rischio di qualunque alleanza anti-giudici cosiddetta “trasversale”. Il partito degli indagati, la casa madre di Dell’Utri e di Previti, ha molto da guadagnare in una simile alleanza. I Ds, la sinistra, l’Ulivo, l’Unione, la maggioranza no. Meno che mai il nascente Partito democratico.
2 - Chiedo, con lo stesso spirito e la stessa convinzione di stare alla larga dall’idea che il segreto sia meglio della diffusione di notizie anche sgradevoli. Il segreto, come dimostra la copertina del numero di Panorama in edicola, è un vantaggio prezioso per casa Berlusconi. Diffondono quando vogliono quello che vogliono e sottraggono quando vogliono ciò che preferiscono oscurare. Il ricatto diventerebbe il loro strumento abituale. Adesso lo usano prevalentemente tra le loro mura. Il segreto su notizie giudiziarie e intercettazioni diventerebbe la loro arma di intimidazione di massa.
Controprova: il conoscere già da tempo i passaggi ritenuti cruciali delle intercettazioni su D’Alema, Fassino, Latorre consente adesso, anche ai non esperti, di distinguere le ipotesi della giudice Forleo dalla natura e portata delle frasi in questione. Proprio a causa della mancanza di segreto manca, nonostante la forzatura di alcuni titoli di giornale, la deflagrazione desiderata. Quello che è accaduto ieri non è una bomba ma solo una notizia.
3 - Il rispetto per il terzo potere su cui si fonda la democrazia, il potere giudiziario (che non è come voleva l’ingegner Castelli una turbolenta corporazione di impiegati statali presuntuosi), è essenziale per l’Italia estranea al malaffare, come l’attacco continuo ai giudici è stata il carattere distintivo più tipico dell’Italia di Berlusconi. Quell’Italia è viva e attivissima, con buona pace di Polito. Affrontare un momento difficile che espone a ogni tipo di denigrazione mantenendo fermamente i riferimenti di accettazione, fiducia e rispetto in base ai quali la maggioranza dei cittadini ha votato il centrosinistra, vuol dire dimostrare che anche in un momento sfavorevole, i valori non cambiano. Vuol dire che ci si guarda bene dal fare causa comune con chi ha ben altri motivi per la lotta ai giudici, ben altre ragioni di circondarsi di segreto e molto di più da guadagnare nel diffondere l’idea che i giudici sono mentecatti.
4 - È proprio perché i fatti sono in chiaro e non sono mai stati oscurati che i cittadini conoscono l’ambito e i limiti della vicenda D’Alema, Fassino, Latorre. Sanno di potersi aspettare, altrettanto in chiaro, risposte civili di persone che non smuovono poteri e non giocano funzioni di governo per loro interessi di qualsiasi genere. Dunque la storia si evolverà come in ogni Paese democratico, rispettando tutte le regole per far valere le legittime ragioni. Non è poco nel Paese in cui Berlusconi ha tentato di sottrarsi a tutti i giudizi. Ma di meno, a chi ci ha votato, non si può dare.
Vorrei ricordare l’esempio di Bill Clinton che durante gli otto anni della sua presidenza (definita “comunista” dal suo avversario conservatore Jesse Helms per avere tentato di cambiare l’assicurazione sanitaria a favore dei poveri) ha dovuto affrontare diverse investigazioni e processi, tutti (meno uno) opera bene organizzata ma falsa della sua opposizione. Li ha attraversati senza alcuna distrazione dagli impegni di governo, senza alcun ritardo o posticipo o esenzione giudiziaria. Non ha mai neppure chiesto un rinvio. Ed è uscito integro da ciascuna prova.
I cittadini americani né allora né adesso si sono mai scostati da lui. Il suo rispetto, da capo dell’esecutivo, per le altre due parti del governo (il legislativo e il giudiziario) ha fermato per lui, e in quel Paese, l’onda pericolosa dell’antipolitica.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 22.07.07, Modificato il: 22.07.07 alle ore 17.36
Quei 425 milioni della Fininvest che macchiano anche Berlusconi
di Giuseppe D’Avanzo ( la Repubblica, 14 luglio 2007)
La sentenza che permise a Silvio Berlusconi di sottrarre la Mondadori al Gruppo Espresso-la Repubblica fu comprata con 425 milioni di lire forniti dal conto All Iberian di Fininvest a Cesare Previti e poi, dall’avvocato di fiducia di Silvio Berlusconi, consegnati al giudice Vittorio Metta. La Cassazione condanna definitivamente Cesare Previti, il giudice corrotto e, quel che soprattutto conta, rimuove una patacca che è in pubblica circolazione da due decenni.
L’uomo del fare, Silvio Berlusconi, è l’uomo del sopraffare, del gioco sottobanco, della baratteria illegale. La sentenza dimostra la forma fraudolenta e storta della sua fortuna imprenditoriale. Mortifica la koiné originaria con cui Berlusconi si è presentato al Paese ricavandone fiducia e consenso, entusiasmandolo con la sua energica immagine di imprenditore purissimo capace di rimettere in sesto il Paese - e rimodellarne il futuro - con la stessa sapienza e determinazione con cui egli aveva costruito il suo successo, conquistato aziende e quote di mercato, sbaragliato i competitori.
Berlusconi, se non sapeva delle manovre di Previti (e non si può dire il contrario), è stato un gonzo e, nella sua formidabile ingenuità, ha trascinato il Paese e le sue regole verso la crisi per difendere un mascalzone che soltanto agli occhi del Candido di Arcore appariva un maestro del diritto e un martire della giustizia.
La sentenza della Cassazione scolpisce dunque un’altra biografia di Berlusconi. Ci dice che non è oro quel che riluce nella sua storia imprenditoriale. Sapesse o non sapesse quali erano i metodi criminali del suo avvocato, il profilo di imprenditore dell’uomo di Arcore ne esce irrimediabilmente ammaccato, deformato. La sua Fininvest ha barato. Il suo avvocato giocava con carte truccate.
I fatti sono noti.
Il lodo arbitrale Mondadori risale al 21 giugno 1990. Riguarda il contratto Cir-Formenton. La decisione è assunta dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis, Natalino Irti e Pietro Rescigno, incaricati di dirimere la controversia tra Carlo De Benedetti e la famiglia Formenton per la vendita alla Cir da parte dei Formenton di 13 milioni 700 mila azioni Amef (il 25,7% della finanziaria che controlla la Mondadori) contro 6 milioni 350 mila azioni ordinarie Mondadori. Il lodo è favorevole alla Cir e dà a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate. Berlusconi perde la presidenza che va pro tempore al commercialista Giacinto Spizzico, uno dei quattro consiglieri espressi dal Tribunale, gestore delle azioni contestate.
Il 24 gennaio 1991, la Corte d’Appello di Roma presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini dichiara che una parte dei patti dell’accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir è in contrasto con la disciplina delle società per azioni. Quindi, è da considerarsi nullo l’intero accordo e anche il lodo arbitrale. Berlusconi riconquista la Mondadori.
Vittorio Metta è il giudice corrotto da Cesare Previti, dice ora la Cassazione. Delle due, l’una. Se sapeva, Silvio Berlusconi è un complice che si è salvato soltanto perché, per le sue pubbliche responsabilità politiche, è parso meritevole delle "attenuanti generiche" così accorciando i tempi di prescrizione e uscendo dal processo qualche anno fa. Se non sapeva, l’esito non è che sia più gratificante. Perché bisogna concludere che l’ex-presidente del Consiglio non è poi l’aquila reale che ama dipingersi. Ha accanto un lestofante. Non se ne accorge. Ne è beffato, ingrullito per anni, per decenni, nella sua totale insipienza. Gli affida «un mandato professionale molto ampio per rappresentare la persona fisica come il gruppo Berlusconi». Lo ha raccontato lo stesso Previti: «Io rappresentavo il dominus per le questioni legali, sceglievo gli avvocati, esaminavo nei dettagli tutti gli argomenti che avremmo usato e anche le persone e le operazioni da organizzare nelle varie situazioni».
E’ un ruolo occulto, segretissimo e non se ne comprende la ragione (l’evasione fiscale non può spiegare tutto). Non c’è (né Previti lo ha mostrato in anni di processi) un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste neppure (né è stata mostrata) una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest, un qualsivoglia documento che attesti la causale dei pagamenti effettuati da Finnvest a favore di Cesare Previti.
Berlusconi poteva non sapere di essersi tenuto in casa per decenni quel mascalzone. Meglio, gettiamo una buona volta ogni sospetto o incredulità e diciamolo chiaro. Silvio Berlusconi non sapeva, non ha mai saputo né immaginato per un attimo che ceffo fosse Previti e quali i suoi metodi di lavoro. L’uomo di Arcore era così accecato dal suo candore, dall’amicizia per il suo fedele sodale, che quando ne ha la possibilità, 1994, propone addirittura quel corruttore di giudici come ministro di Giustizia. Il Paese si salva per l’ostinazione di Oscar Luigi Scalfaro che dirotta il malfattore alla Difesa. E, nonostante il segnale e la documentazione offerta dalla magistratura, nemmeno allora Silvio Berlusconi nella sua assoluta dabbenaggine si scuote. Si può dire che una volta ritornato al governo - per salvare se stesso, è vero, ma anche e soprattutto il suo complice, che è più esposto per le indagini e per le prove raccolte - assegna a se stesso la missione di gettare per aria codici, procedure, tribunali, ordinamenti, accordi internazionali al fine di evitare guai all’avvocato che credeva immacolato. Il Parlamento che Berlusconi governa con una prepotente maggioranza non lascia intoccato nulla. Cambia le prove, se minacciose. Il reato, se provato. Prova a cacciare i giudici, a eliminare lo stesso processo. Non ci riesce per l’opposizione di un’opinione pubblica vigile, per l’intervento della Corte Costituzionale che protegge le regole elementari dello Stato di diritto e il sacrosanto principio della legge uguale per tutti. Meno male, ma il respiro di sollievo non può riguardare Silvio Berlusconi. Per anni ha spaccato il Paese usando come cuneo il processo all’avvocato-barattiere che egli riteneva un "figlio di Maria". Ora qualcosa l’uomo di Arcore dovrà pur dire perché purtroppo qualcosa, questa sentenza, dice di lui. Nella sua credulità, Silvio Berlusconi ha procurato un danno a se stesso, e tant’è, ma nella cieca fiducia che ha avuto per un avvocato fraudolento egli ha arrecato danno alla politica, alle istituzioni. Forse è una buona idea che dica in pubblico che è stato preso in giro e se ne dispiace.
Il miasma di Weimar
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 15/07/2007)
Difficile dire come mai quel che ultimamente vediamo sui telegiornali pubblici e privati non ci impressioni più di tanto. Accade ogni sera, ed è ormai pane quotidiano della politica, dell’informazione.
Il capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, gesticola su un pulpito nel mezzo d’una piazza e dichiara morto il governo definendolo illegittimo, figlio di brogli, erede di criminose ideologie defunte. Fa un comizio dopo l’altro davanti a folle enormi che lo osannano, come se fossimo nel cuore infiammato di una campagna elettorale. Probabilmente l’evento non ci impressiona perché siamo abituati al controsenso eretto a sistema. Perché la cultura dell’instabilità che avevamo riguardo a inflazione e moneta s’è trasferita nella politica. Perché la storia a noi dice poco, e le instabilità nostre non ci ricordano instabilità - come quella di Weimar - che altrove rimangono un’ossessione.
Se fossimo visitatori stranieri, quel che succede ci riempirebbe di stupore, d’incredulità. Infatti non siamo in mezzo a una competizione elettorale, il Parlamento non è sciolto, il governo sta governando a fatica ma governa. Berlusconi è solo, a gesticolare sui podi di Napoli o Lucca. Non ha rivali, come usa nelle campagne elettorali: oggi per i rivali è tempo di governo, non di comizi e conquista del potere. Lo straniero avrebbe non poche ragioni per domandarsi se per caso l’Italia non stia deragliando. Se non stia scostandosi da quel principio essenziale della ragione che è il principio di non contraddizione. Non si può al tempo stesso dire che l’uomo è animale bipede e il contrario: «niente simultaneamente può essere e non essere», insegna Aristotele.
Invece da noi no. C’è chi governa da oltre un anno e c’è chi fa finta che no, e agisce come se al comando non ci fossero che ombre usurpatrici o immaginarie. È menzogna illusionista, ma Berlusconi ha il talento di trasformare le menzogne in verità condivise dai più. Con tale dote suscita poteri opposti a quelli legali sino a farli apparire e renderli reali: poteri delle piazze, dei sondaggi, dei media, di corpi separati dallo Stato appunto come a Weimar. Per capire come fa, bisogna mettersi nelle vesti dell’osservatore straniero - condividere la sua capacità di stupirsi, d’interrogarsi - e cercare di penetrare lo speciale potere di persuasione esercitato dal leader dell’opposizione.
È un potere ben conosciuto da chi ha studiato la potenza delle masse, della pubblicità, della propaganda. Già nel 1895, quando scrisse la Psicologia delle folle, Gustave Le Bon - medico di formazione - indicò i tre ingredienti del fascino sprigionato dal meneur des foules, dal trascinatore di folle: l’affermazione che non tollera confutazioni anche se falsa; la ripetizione ininterrotta dell’affermazione; il contagio. Tutti ingredienti presenti nell’agire di Berlusconi, che per prosperare non possono fare a meno di una permanente campagna elettorale, fondata su un vuoto o un passaggio di poteri ingannevoli. Dice Le Bon: i trascinatori «tendono a rimpiazzare progressivamente i poteri pubblici a misura che questi sono messi in discussione e s’indeboliscono». I poteri pubblici non sono solo indeboliti: Berlusconi li dà per morti.
Ma il controsenso non nasce solo dalla discordanza fra governo e conquista del potere. Anche se fossimo in campagna elettorale, l’osservatore straniero si stupirebbe parecchio. Innanzitutto per la violenza, inaudita, che emana dalle folle aizzate (venerdì, a Napoli, Berlusconi ha incitato ad agire un «esercito delle libertà»). Poi per offese che altrove son tabù. Se la folla urla oscenità contro Prodi, Berlusconi non la frena ma la sprona: «Siete lievemente rozzi ma efficaci». Come in Elias Canetti, la ferocia distruttiva degenera in muta animale, se lusingata.
Le Bon spiega come il trascinatore sia a sua volta un trascinato: può esserlo da un’idea fissa e da dottrine nazionaliste, socialiste, o da entrambi. Nel caso di Berlusconi accade l’inedito: la folla, solitamente non mossa da interesse privato (è il singolo ad avere interessi personali) innalza la rivendicazione particolare a interesse collettivo. Nella Psicologia delle folle questa possibilità è contemplata: il capopopolo può essere motivato da privati interessi.
La piazza che un tempo era cruciale per l’ipnotizzatore delle masse è oggi la televisione, oltre alla stampa. Anche su di loro, dunque, s’esercita la triplice potenza dell’affermazione, della ripetizione, del contagio. Anch’esse scambiano per verità l’immagine incantatoria d’una competizione elettorale incessante, d’un governo inesistente, comportandosi spesso come poteri che dall’esterno indeboliscono l’autorità pubblica. Più di un anno è passato dalle legislative, e i notiziari tv non son cambiati. In teoria c’è differenza tra Rai e reti private, di Berlusconi. In realtà, il leader di mercato è tuttora Mediaset e Mediaset dà lo standard, come se non ci fosse stata alternanza: in televisione come in altri corpi dello Stato il governo è di Prodi ma il potere resta di Berlusconi (non pochi suoi uomini d’altronde sono oggi consiglieri ministeriali). Se il governo passa una legge con il voto di un senatore a vita, la televisione lo presenta come patologia (inutile ricordare che anche Berlusconi s’avvalse dei senatori non eletti: il 18 maggio ’94 il suo governo ottenne la fiducia per un solo voto, grazie ai senatori a vita Agnelli, Cossiga, Leone).
Vorremmo citare il Tg1, e in particolare il notiziario di venerdì sul voto al Senato della riforma della giustizia. La cosiddetta pratica del panino resta immutata: il tg apre con dichiarazioni di Castelli della Lega, di Fini e Matteoli di An, di Schifani di Forza Italia (12,47 minuti). Seguono Finocchiaro, Salvi e Mastella, della maggioranza (38 secondi). Chiude il comizio di Berlusconi a Lucca (1 minuto). È la normalità, non un’eccezione: la Rai si ritiene obbligata a offrire lo stesso prodotto del concorrente. Obbligata da chi? Da un istinto fortemente legato al contagio. Nulla è più contagioso della menzogna e dell’immagine chimerica, conclude Le Bon: «Le folle non hanno mai sete di verità. Deificano l’errore. Chiunque le disillude tende a divenire loro vittima».
Il contagio per definizione trasmette l’infezione a tutti, compresi i sani e la città intera: infetta l’opposizione e i suoi tifosi, ma anche sindacati e esponenti della maggioranza. Esponenti d’estrema sinistra che impediscono al governo di decidere. Esponenti di centro che prospettano - come Rutelli - coalizioni alternative senza dire che qualsiasi alternativa, per necessità numerica, includerà i berlusconiani. È l’imperio del miasma, che nella Grecia antica è una misteriosa esalazione che s’espande a causa d’una colpa o un male banalizzato. Il male è quell’interesse personale trasfigurato in interesse collettivo, unito alla convinzione che il governo legale abbia tradito la nazione con pugnalate alla schiena e di conseguenza non sia legittimo.
Esattamente come a Weimar sono tanti a esserne contaminati, nonostante l’oggi non sia mai identico a ieri. Ma il presente può somigliargli, anche se i colpevoli non sono quelli evocati da Ostellino sul Corriere di ieri. Non furono i socialdemocratici a sovvertire Weimar ma i comunisti e i corpi separati (esercito, Freikorps). Oggi come allora, comunisti e destre rivoluzionarie sono di fatto alleate, prigioniere del medesimo miasma. A Weimar l’alleanza fu evidente. A partire dal ’28 i comunisti seguono Stalin, scelgono i socialdemocratici come nemico primario, e nonostante cronici scontri con milizie hitleriane concordano azioni eversive con i nazional-socialisti: referendum contro il governo socialdemocratico in Prussia (1931); comuni mozioni di censura (1932 contro von Papen); sciopero di trasporti e picchettaggi congiunti (autunno ’32); mozione comunista, appoggiata da Hitler, contro il rilancio economico di von Papen (dicembre ’32); mozione che scioglie il Parlamento nel ’32.
L’abitudine al controsenso minaccia anche il rimedio alla distruttività delle folle, che Le Bon individua nell’esperienza. Ma l’esperienza agisce assai lentamente: «Solo se vien fatta su larga scala e ripetutamente». Non ne basta una, come credeva Montanelli, e sovente l’esperienza d’una generazione non vale per le successive. Non basta sapere che Berlusconi ha esorbitanti conflitti d’interesse ed è stato indagato più volte, se c’è miasma e il privato interesse viene deificato. Se c’è miasma Berlusconi appare come vittima immacolata, anche se assolta con formule dubitative e colpevole di numerosi reati prescritti. Effetto del miasma è che non se ne tiene conto. Che i fatti vengono sottratti alla vista, come scrive Marco Travaglio. L’impunità è quel che consente alla folla di inferocirsi senza rischiar nulla, osserva Le Bon. Mimetizzandosi con essa, Berlusconi molto freddamente ne profitta.
Il blackout sul referendum
di Giovanni Valentini (“la Repubblica”, 27 maggio 2007)
L’ingenuità è una predisposizione dell’animo. Un impulso spontaneo ad agire secondo natura, senza lasciarsi paralizzare dallo scetticismo né condizionare dalle disillusioni. (da "Ci salveranno gli ingenui" di Massimo Granellini - Longanesi, 2007 -pag. 8)
È fuori dubbio che il centro-sinistra, rappresentando la maggioranza parlamentare e guidando il governo del Paese, ha oggi la maggiore responsabilità nella crisi di sfiducia che colpisce la politica, l’intera classe politica, nel rapporto con l’opinione pubblica. Da qui deriva, appunto, quel "disincanto democratico" - come l’ha chiamato il direttore di Repubblica nel suo ultimo editoriale - da cui è affetto ormai il popolo di sinistra. E cui corrisponde, sul fronte opposto, un risentimento più o meno antidemocratico nei confronti del Palazzo, di chi detiene e gestisce il potere.
Non c’è da meravigliarsi, perciò, che cresca ogni giorno di più la marea dell’antipolitica, contro le disfunzioni, i ritardi e le inefficienze del sistema, contro i privilegi, gli abusi e gli sprechi. Sappiamo bene che si tratta di un’onda lunga, originata da cause remote e profonde: la fine delle grandi ideologie del Novecento; la caduta dei valori; la prevaricazione dell’economia sulla politica, con lo strascico di affarismo, di lobbismo e darwinismo sociale che si porta dietro. Eppure, l’accelerazione degli ultimi mesi va ben al di là degli errori o demeriti del governo in carica: errori di comunicazione, come ha ammesso lo stesso presidente del Consiglio; demeriti suoi o dei suoi ministri, nella confusione delle idee e delle posizioni che appanna la compagine governativa.
Non si può negare il fatto che quest’ultima fase della degenerazione politica è il prodotto di una legge elettorale mostruosa, di una colossale "porcata", per ripetere la definizione del suo stesso artefice, l’ex ministro leghista Roberto Calderoli, approvata fra l’altro anche dalla Confindustria adulta contro la posizione di quella giovanile. Vale a dire, un meccanismo di rappresentanza che ha destabilizzato il Parlamento, da una parte favorendo la frammentazione dello schieramento politico e dall’altra alimentando un’ulteriore dilatazione della partitocrazia. Come si fa, allora, a trascurare le responsabilità ancora più gravi che pesano per questo sul centrodestra?
Nella babele mediatica dell’Italia contemporanea, il "Porcellum" rischia di essere dimenticato, accantonato, rimosso dalla coscienza collettiva, come se fosse un incidente di percorso o un fattore marginale. E proprio da questo vizio risulta ingenuo riproporre il referendum elettorale -il primo non appoggiato ufficialmente dagli industriali - come un antidoto immediato e praticabile. E’ vero: non basta, non risolve il problema, non è un rimedio definitivo. Ma intanto è il primo strumento o la prima occasione a portata di mano per contenere la deriva o quantomeno per sperare d’innescare, se non proprio un’inversione di tendenza, un "ravvedimento operoso" da parte della classe politica. Altrimenti, chi o che cosa potrà indurre il Parlamento ad autoriformarsi, ad abolire una delle due Camere, a ridurre le spese, a rinunciare ai propri privilegi di casta, vitalizi, pensioni d’oro, auto blu, biglietti aerei, tessere ferroviarie, del teatro o del cinema?
L’ingenuità di Mario Segni e compagni è tale da superare anche lo scetticismo, le delusioni e le disillusioni del passato. Avrà pure vinto la lotteria e poi perso il biglietto, il leader del fronte referendario, ma almeno ha portato una ventata d’aria pulita in una camera a gas, inquinata dai veleni del potere e del sottopotere, dalla decomposizione dei partiti, dalla putrefazione di un sistema che già non reggeva più all’inizio degli anni Novanta. E oggi, dopo l’incerta transizione dalla prima alla seconda Repubblica, il prossimo referendum può servire ancora una volta a incanalare la protesta della società civile verso uno sbocco utile e costruttivo.
Si, la forma non fa la sostanza, l’ingegneria istituzionale non supplisce alla crisi della politica, la legge elettorale non è sufficiente a contrastare l’antipolitica. Tutto giusto e tutto vero. Ma la consultazione popolare, nel vuoto pneumatico di ideali e di slanci che deprime la vita nazionale, rappresenta comunque un motivo di mobilitazione, una risposta sicuramente democratica e costituzionale alla politica dell’antipolitica: cioè alla demagogia, al populismo, al qualunquismo che in molti tentano di cavalcare a rischio dell’ingovernabilità, per difendere i propri interessi di parte o di bottega. O magari per prefigurare un "governo degli ottimati", come quelli che nelle antiche città-stato e nei comuni medievali erano composti dai cittadini più influenti per censo o posizione sociale: questa volta ha ragione Berlusconi a dire che conta il popolo non la Confindustria.
«Gli innocenti - scriveva il filosofo Bertrand Russell - non sapevano che la cosa era impossibile e per questo la fecero». Oltre all’ingenuità, occorrerebbe però anche una buona dose di generosità politica per far decollare il referendum contro il "Porcellum": a cominciare proprio dal centrosinistra e dai soci fondatori del Partito democratico. Con un tale deterrente, forse potrà cambiare qualcosa nella politica italiana; senza, non cambierà verosimilmente nulla. Ma il blackout mediatico, e in particolare quello del duopolio televisivo, fa solo il gioco dell’antipolitica.
sabato@repubblica.it
Previti, l’incapacità di decidere
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 05.07.2007)
Ieri La Stampa ha pubblicato, in un breve trafiletto, una notizia di cronaca apparentemente marginale, sulla quale è invece opportuno riflettere con attenzione. Qualche giorno fa il comico Beppe Grillo aveva accusato (sul suo blog) il presidente della Camera di non fare nulla per espellere dalla Camera l’on. Previti, nei cui confronti è stata pronunciata una sentenza definitiva di condanna penale che comporta, per la sua tipologia e la sua gravità, l’interdizione dai pubblici uffici e pertanto la decadenza dal mandato parlamentare.
Bertinotti ha risposto che «la Camera dei Deputati non è organizzata come una monarchia assoluta ma secondo il modello dello stato di diritto» e che «la questione dell’ineleggibilità e della decadenza è regolata dalla legge, e non è il presidente a decidere», ed ha soggiunto che «nei confronti di Previti è, comunque, aperto un procedimento, e sarà l’aula a decidere».
Questa risposta, formalmente, è ineccepibile. Peccato, però, che eluda i termini reali della questione che Grillo intendeva, evidentemente, sollevare con la sua accusa un po’ provocatoria di inerzia presidenziale. Perché è vero che il presidente della Camera poco o nulla può fare, specificamente, contro le lungaggini della Commissione parlamentare che sta occupandosi del caso Previti. Ma è altrettanto vero che, stato di diritto alla mano, se le regole devono essere rispettate, devono essere rispettate a trecentosessanta gradi.
Non si comprende infatti per quale ragione, ad oltre un anno di distanza dalla pronuncia giudiziale che ha sancito l’interdizione dalla funzione pubblica, il Parlamento non si sia ancora pronunciato sulla decadenza. Consentendo che un parlamentare, che secondo le regole stabilite dalla legge penale avrebbe già dovuto abbandonare da tempo il suo incarico, continui invece, imperterrito, a ricoprirlo. Capisco quanto il caso Previti sia complesso, quanto le garanzie difensive debbano essere salvaguardate e quanto la competente Commissione parlamentare, presieduta da un deputato di Forza Italia, possa avere trovato intoppi nel procedere con speditezza nel suo lavoro. Sono d’altronde convinto che più d’un parlamentare, regolamenti alla mano, a questo punto mi spiegherà che la trattazione della pratica è comunque proceduta nel rispetto della legalità e dell’efficienza. Per carità, avrà senz’altro ragione. Ciò non toglie che a noi cittadini comuni riesca un po’ difficile apprezzare che una questione così delicata, ma nello stesso tempo così urgente, come la decadenza di un parlamentare condannato, impieghi tanto tempo ad essere risolta. Se esiste una norma penale che stabilisce l’interdizione dai pubblici uffici per chi è condannato per determinati reati, logica vorrebbe che si decidesse in fretta, evitando la protrazione abnorme di una situazione d’incertezza sulla condizione soggettiva del parlamentare sottoposto a procedura di decadenza.
E’ pertanto comprensibile che Grillo non sia stato soddisfatto dalla risposta un po’ pilatesca di Bertinotti ed abbia reagito a muso duro, scrivendo nel suo blog che, se nessuna autorità è in grado d’impedire che chi non ne ha più diritto continui ad essere deputato, «allora, caro Fausto, le istituzioni hanno fallito». Si potrebbe soggiungere: ma allora, caro presidente, perché, per il rispetto sostanziale di quel principio di legalità al quale lei stesso fa riferimento nella sua risposta a Grillo, invece di limitarsi a menzionare le regole esistenti non si attiva per modificare i regolamenti e le prassi che consentono indebite lungaggini nell’istruttoria di pratiche come quella che concerne il condannato Previti? Se lo facesse, rafforzerebbe lo stato di diritto ed eviterebbe incomprensioni della gente nei confronti del lavoro del Parlamento e del funzionamento delle istituzioni.
Nella storia repubblicana del nostro Paese vi sono stati, sicuramente, periodi più difficili di quello che stiamo vivendo. Guerra fredda, terrorismo, servizi deviati, depistaggi, stragi, spionaggi, corruzione. Oggi c’è tuttavia un tarlo che corrode. La perdita di fiducia diffusa della gente nei confronti della politica e delle istituzioni. Il rifiuto. Il distacco. La noia per le solite facce, i soliti riti, i soliti discorsi. La rabbia nei confronti della casta e dei suoi privilegi veri o presunti. L’irrisione per l’incapacità di decidere. L’antipolitica che avanza. Se non si disinnesca la rabbia, se non si supera il rifiuto, se non si colma il distacco, le conseguenze potrebbero essere a loro volta esiziali.
Ecco perché, nel piccolo episodio di cronaca dal quale si è tratto spunto per queste brevi riflessioni, la politica, ancora una volta, sembra mostrare di non essersi accorta di ciò che sta accadendo. Grillo, ideologicamente impegnato, intelligente e giustamente irridente come si conviene ai comici, facendo riferimento ad un’ipotesi emblematica di ritardo peloso nell’espletamento di un’incombenza parlamentare chiede al presidente della Camera: ma che cosa aspetti ad intervenire? Il presidente, eludendo il problema, risponde: rispetto le regole date dello stato di diritto. Molta gente, ho l’impressione, a questo punto continuerà a pensare che la politica costituisce davvero una casa separata e avrà un po’ di fiducia in meno nell’istituzione parlamentare.
La ricerca delle «Alternative» e l’autocoscienza del leader
In edicola la nuova rivista teorica di Bertinotti «per una società liberata è aperta». Battezzata questa mattina da Massimo Fagioli. Scoppia la scintilla tra i militanti senza identità e una politica narcisista?
di Ida Dominijanni (il manifesto, 01.06.2007)
Alternative, ovvero «ciò che è maturato nel nuovo secolo nella critica della globalizzazione capitalistica; la trasformazione (e l’autotrasformazione) delle soggettività come leva di ’un altro mondo possibile’». Per il socialismo, ovvero «per una società liberata e aperta: liberata dallo sfruttamento e dall’alienazione capitalistica, aperta nella possibilità che offre a ciascuno e ciascuna di vivere la libertà e la propria irriducibile differenza». Il programma del nuovo bimestrale di Fausto Bertinotti, Alternative per il socialismo appunto, che esce oggi edito da Editori riuniti e distribuito in edicola da Left, si riassume in queste righe tratte dagli «Appunti» che in coda al primo numero restituiscono lo schema di base su cui la rivista è stata progettata e discussa con un gruppo di collaboratori (in questo primo numero scrivono fra gli altri Rina Gagliardi, Tiziano Rinaldini, Riccardo Bellofiore, Ali Rashid, Ritanna Armeni, Lea Melandri, Anubi D’Avossa Lussurgiu, Lea Melandri, Sandro Portelli, Domenico Jervolino, Giuseppe Prestipino).
Un progetto iperpolitico, anche se è lo stesso Bertinotti, nell’editoriale di presentazione anticipato ieri da Liberazione, a insistere sulla necessità prioritaria di una «grande opera culturale» rivolta non solo a un’avanguardia politica ma «all’intera società che vogliamo trasformare», investita com’è da una crisi che non si presenta più solo come crisi della democrazia, della politica, del capitalismo, della classe omai precarizzata, ma come «crisi di civiltà». L’opera culturale è finalizzata tuttavia a uno scopo preciso, riaprire «una linea di ricerca per la rivoluzione in Occidente», giacché «la vocazione totalizzante del capitalismo, cioè la sua aspirazione a sussumere, dentro di sé, l’intera vita della specie e il suo rapporto con la natura» riporta all’ordine del giorno «il tema del socialismo oltre il Novecento». Tema che tuttavia - e qui torniamo agli «Appunti» - ha bisogno di una coraggiosa sferzata di revisionismo culturale, di segno opposto rispetto a quello egemone dall’89 in poi nella sinistra moderata.
Alla chiave marxiana - che «resta fondativa ma non è esaustiva» - la traccia di lavoro per la rivista ne affianca perciò altre, prima fra tutte un’ispirazione benjaminiana, dalla quale Alternative trae per un verso la critica dell’idea di progresso, per l’altro la riproposizione del «balzo di tigre» nella storia: ovvero, come ripensare il salto rivoluzionario, sia pure all’interno di un processo di trasformazione disteso nel tempo. Va da sé che sia per ingranare la marcia della trasformazione sia per aprirla al salto rivoluzionario serve una buona analisi del capitalismo globale, del lavoro salariato e del nuovo proletariato postindustriale, della crisi della democrazia, nonché un fertile intreccio fra storie generazionali diverse e fra contraddizioni e soggettività diverse, queste ultime purtroppo ancora rubricate come «vecchie» (la classe) e «nuove» (genere, generazione, etnie) mentre la storia ce le presenta già intrecciate da decenni se non da sempre. Va da sé, infine, che il lavoro di Alternative dovrà nutrire la costruzione di quella sinistra di alternativa cui Bertinotti affida il compito di riempire «il vuoto politico» che c’è a sinistra, facendo leva sulla «risorsa» del movimento altermondialista e degli altri movimenti; quanto alla pratica, la stella polare, senza o con il balzo di tigre, resta la non violenza e di più non si dice.
E a proposito di pratica, non dev’essere senza significato che Alternative per il socialismo venga battezzata questa mattina alla Sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma in un incontro fra il presidente della camera e l’«Analisi Collettiva» di Massimo Fagioli, il terzo solenne incontro dopo quello che il 5 novembre 2004 lanciò la «svolta» della non violenza a Villa Piccolomini e quello che il 26 luglio 2005 lanciò il programma di Bertinotti per le primarie alla Libreria «Amore e psiche» di Roma. Infatti non senza significato lo giudica per l’Analisi Collettiva Federico Masini, preside della facoltà di Studi orientali alla Sapienza, che officerà il battesimo e a buon diritto incassa la «novità storica» dell’incontro fra la ricerca di Bertinotti su «una democrazia socialista che non c’è mai stata» e «la ricerca sulla realtà inconscia» che non un secolo di psicoanalisi, ma «35 anni di Analisi Collettiva hanno dimostrato conoscibile».
E non lo giudicherà d’altro canto senza significato chiunque conosca il percorso dell’Analisi Collettiva di Fagioli, la sua fascinazione sulla crisi dei gruppi dell’estrema sinistra alla fine degli anni Settanta, la sua pratica terapeutica basata sul culto della personalità, la sua politica di autopromozione, così come oggi vengono del resto raccontate nei blog frequentati da chi quell’esperienza l’ha fatta e l’ha poi messa in questione. Per la cultura della sinistra italiana, che ad un confronto serio con la psicoanalisi e «la realtà inconscia» non è mai stata sensibile, l’incontro dell’Auditorium non pare la migliore occasione di recupero. E comporta almeno una domanda, questa: se alla fine degli anni Settanta la fascinazione dell’Analisi Collettiva sugli ex militanti della nuova sinistra poteva far leva sulla promessa del ritrovamento di un’identità di gruppo perduta nella sconfitta e nella delusione politica, non è che sui militanti senza identità di oggi rischia di far presa solo grazie al collante del narcisismo del leader?
Apprendisti stregoni della governabilità
di Alberto Burgio (il manifesto, 1 giugno 2007)
Il primo atto ha visto la collisione tra il presidente del Consiglio Romano Prodi e il presidente della Camera Fausto Bertinotti, un botta e risposta di inusitata asprezza. «Il parlamento è improduttivo». « È un giudizio che rivela scarsa dimestichezza con le aule parlamentari». Il secondo atto ha avuto luogo sulle pagine del Corriere della sera, con una pesante, pesantissima intervista al vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D’Alema. Tema: la «crisi di credibilità della politica» che rischia di «travolgere il Paese» come già accadde all’inizio degli anni Novanta. Svolgimento: critiche sferzanti al sindacato e invocazione di drastici mutamenti istituzionali e costituzionali, a cominciare da una riforma elettorale che riduca il «potere di ricatto delle forze minori» e accresca il potere dell’esecutivo imprimendo al sistema una decisa svolta presidenzialistica.
Così nelle scorse settimane è andata in scena la formale messa all’ordine del giorno della questione delle questioni. Ormai è ufficiale: la «politica» è in crisi, il paese reale non si riconosce più nel paese legale. Sebbene nessuno lo dica a chiare lettere, molti sembrano paventarlo: sullo sfondo torna ad agitarsi lo spettro della repubblica di Weimar. Non è cosa da poco, comunque la si pensi. Quello della crisi istituzionale è un argomento pericoloso, soprattutto quando approda alle pagine dei grandi quotidiani. Allora, indipendentemente dalla fondatezza degli allarmi e delle interpretazioni, diviene un problema serio, specie in un paese nel quale le istituzioni democratiche non vantano una storia secolare e non godono di indiscusso prestigio. Ma l’allarme di per sé non basta. Se non si accompagna a un’analisi corretta delle cause, può persino portare al peggio. Risposte sbagliate potrebbero generare effetti controproducenti e aggravare il male che si vorrebbe guarire.
Razza padrona
La «politica» è sotto un attacco concentrico nel quale si mescolano due differenti imputazioni. Le si rinfacciano privilegi e costi spropositati. E le si imputa di non sapere risolvere i problemi della società.
Sui costi e i privilegi c’è poco da dire, se non che è un problema vero, come hanno ben documentato Cesare Salvi e Massimo Villone. La loro denuncia è stata accantonata con fastidio dagli addetti ai lavori, che ora probabilmente se ne dolgono, spaventati dalla collera popolare. Non è decisivo se sia collera spontanea o il frutto di campagne orchestrate. Conta che, agli occhi di quanti incontrano ogni sorta di ostacoli nel far valere i propri diritti, l’ansia, le difficoltà, le frustrazioni hanno una causa molto semplice: l’incapacità della «politica». Dietro la quale si intravede subito dell’altro: il privilegio, tanto più odioso; la corruzione; l’indifferenza di chi dovrebbe rispondere a una società dolente e sembra invece badare soltanto a rendite e poteri.
Com’è stato scritto, se non vuole essere travolta la classe politica deve fare un bagno di umiltà. Recuperare la dimensione del servizio e, se questo non riesce proprio a tutti, quantomeno rinunciare a vantaggi e comportamenti da «razza padrona». Per ragioni etiche o anche solo per egoismo razionale. Si guardi dunque al parlamento. E si guardi con pari severità - per limitarci al pubblico - al governo e al sottogoverno; alla miriade di organi rappresentativi privi di effettive funzioni; agli enti locali e alle pubbliche amministrazioni; alle authorities e alla pletora degli enti inutili; all’esercito dei consulenti e agli strapagati vertici delle aziende pubbliche e partecipate. Si colpiscano sinecure, si riducano costi esorbitanti, si eliminino sprechi e privilegi.
È un tema per la sinistra, poiché il discredito delle istituzioni democratiche è una manna per la reazione populista o tecnocratica. Occorre agire subito, con mano decisa e senza indulgenza. Ma è necessario anche aver presente il contesto nel quale ci si muove e il risultato che si intende conseguire. Questo ci porta dritti all’altra questione - l’inadeguatezza e inoperosità della politica - che rivela altri e ben più gravi presupposti.. Inadeguatezza e inoperosità: a ben guardare, questi addebiti non coinvolgono la sfera politica nel suo insieme, ma il parlamento. È la sua presunta inerzia ad apparire - ad essere indicata come - impedimento alle decisioni del governo. Avallando una rappresentazione classica, Prodi ha contrapposto la rigogliosa produttività dell’esecutivo alla sterilità delle Camere. Da un lato - ha dichiarato - la bellezza di 124 disegni di legge; dall’altro, appena dieci provvedimenti varati. È forte qui l’eco delle recriminazioni che nel primo dopoguerra accompagnarono l’inabissarsi dello Stato liberale. Una classe politica attardata in discussioni esasperanti mentre l’incalzare degli eventi avrebbe richiesto decisioni rapide: l’insistita riproposizione di questo quadro propiziò allora l’avvento dell’«Uomo della Provvidenza». È un quadro che si attaglia all’oggi?
Teologia politica
Cominciamo col rilevare un’omissione. Nella legislatura in corso le Camere sono in sofferenza perché il governo non ha una maggioranza stabile al Senato. La consapevolezza di questo fatto influisce gravemente sui lavori della Camera bassa, condizionando calendari, ritmi di lavoro, e ovviamente la produttività del parlamento. Ma solo nel senso che essa ne viene frustrata e impedita.
E come risponde il fecondo governo a questa impasse che con mirabile equanimità il presidente del Consiglio rinfaccia al parlamento? Molto semplicemente, cercando di sostituirglisi nell’esercizio della funzione legislativa. O formalmente, sfornando e reiterando decreti-legge (al punto di costringere il capo dello Stato a richiamare i principi costituzionali di «necessità e urgenza») e pretendendo deleghe (perdipiù general-generiche, con buona pace dei vincoli temporali e materiali stabiliti in Costituzione). O informalmente, arrogandosi la potestà decisionale in materie di competenza parlamentare (come la ratifica dei trattati internazionali) o ponendo la fiducia sui propri disegni di legge, e così blindandoli.
Di questo stato di cose bisognerebbe parlare, piuttosto che strizzare l’occhio all’onda limacciosa dell’antipolitica che si finge di voler contrastare. Su questa profonda mutazione dell’architettura istituzionale e sui suoi presupposti occorrerebbe interrogarsi, invece di mimare rituali omaggi al simulacro della «centralità del parlamento». Senonché, ove lo si riconoscesse, come si potrebbe ricominciare con la litania della «governabilità»? E come sarebbe possibile ritornare alla carica - derubricando il referendum costituzionale dello scorso giugno a irrilevante equivoco - con la richiesta di nuove riforme e nuove Costituenti che cancellino i partiti minori e conferiscano al governo più ampi poteri?
E siamo così al dunque. Un bilancio onesto di questo stato di cose imporrebbe di sfidare i dogmi cardinali della teologia politica che ci affligge da vent’anni a questa parte: da quando una stirpe di politologi provinciali e saccenti ha dato impulso a una stagione di riforme che - colpendo a morte i partiti con basi di massa e imbragando il sistema della rappresentanza in un bipolarismo che fa violenza alla reale composizione politica del Paese - hanno devastato la macchina istituzionale e decretato la sostanziale messa in mora della Costituzione repubblicana.
«Riforme» per un’oligarchia
Il disastro di un parlamento spaccato in due e della contrapposizione tra fazioni quantitativamente equivalenti e quindi capaci di interdirsi a vicenda discende dalle sciagurate riforme dei primi anni Novanta. Che oggi forzature sino a ieri ritenute a ragione illegittime - dallo sbarramento al premio di maggioranza, all’elezione diretta di un premier munito di maggiori poteri - appaiano farmaci miracolosi è solo il segno di una regressione che tuttavia trova ancora rarissimi e troppo timidi oppositori.
Leggendo la recente intervista del Corriere a Massimo D’Alema si rimane allibiti. Gli anni Novanta vi figurano solo come inquietante precedente della crisi odierna. Ma quegli anni furono anche il tempo di riforme che lo stesso D’Alema propugnò e in gran parte promosse, e il cui senso nemmeno una folgorante amnesia potrebbe cancellare.
L’introduzione del maggioritario e del presidenzialismo negli enti locali ha accentuato la frammentazione della rappresentanza e scatenato la crisi delle assemblee elettive. Di qui, a cascata, si è prodotta la stravolgimento dell’ordine costituzionale (la supplenza legislativa del governo e la negazione di fatto dell’autonomia del parlamento; la proliferazione di poteri tecnocratici «indipendenti»; il cortocircuito tra governi tecnici e leaderismo plebiscitario che ha regalato al Paese le avventure del ’94 e del 2001) con la quale siamo ancora costretti a fare i conti.
Un nuovo americanismo
È l’ora di dire con chiarezza che gli anni Novanta in Italia sono stati il tempo di una gigantesca rivoluzione passiva che ha prodotto un drastico restringimento degli spazi di partecipazione democratica, la riduzione del ventaglio degli interessi sociali rappresentati (quella che Angelo Panebianco chiama graziosamente «costituzionalizzazione delle estreme») e la traduzione decisionistica della politica in gestione amministrativa. Questa è stata ed è la ratio oligarchica di una «normalità» che gran parte della classe dirigente italiana ha pervicacemente perseguito nell’ultimo quindicennio.
Ma il problema non è esclusivamente italiano e non riguarda soltanto gli ultimi quindici anni. Come mostrano la repubblica monarchica di Bush jr. e l’intera vicenda dell’Unione europea, la deriva oligarchico-tecnocratica è una malattia di tutto l’Occidente, radicata in processi strutturali. Per capire di che cosa stiamo parlando, dovremmo riconsiderare la risposta del capitale al protagonismo di massa - le lotte operaie, i movimenti contro la guerra, il femminismo, le rivolte studentesche - che nel lontano 1975 la Trilateral bollò come «crisi della democrazia», inaugurando la stagione della «governabilità» e delle «compatibilità». Fu questa risposta l’anima della «rivoluzione conservatrice» reaganiano-thatcheriana che si abbatté sull’Europa a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Siamo ancora dentro fino al collo in quella storia, che chiamiamo «neoliberismo» spesso dimenticandoci che essa non ha inciso solo sulla produzione e sulla vita delle persone delocalizzando, precarizzando, privatizzando e finanziarizzando. Ha investito pesantemente anche la sfera pubblica e il politico, determinando una possente regressione a forme premoderne. Come suggeriscono diverse analisi (Giorgio Agamben, Luciano Canfora, Danilo Zolo), la privatizzazione delle istituzioni e della sovranità è il nocciolo duro dell’americanizzazione delle nostre società.
Quando diciamo che i mercati votano, dovremmo sapere che non impieghiamo una metafora. Descriviamo fedelmente un processo in atto, che configura lo spossessamento delle prerogative democratiche delle collettività travolgendo vite, identità, sistemi istituzionali. E alimentando una insostenibile carica di violenza. Prevedere dove tutto ciò condurrà è impossibile, ma certo non si può escludere che generi contraccolpi formidabili, simili a quella «grande trasformazione» che si verificò tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: allorché la devastazione sociale prodotta dal liberismo provocò il ritorno del politico in forme autoritarie e contribuì alla nascita di regimi reazionari sostenuti da un vasto consenso popolare.
La biscia e il ciarlatano
Questo scenario ribolle sotto la superficie della discussione sulla crisi della «politica». È questa la vera partita quando si parla della transizione italiana deprecandone l’incompiutezza. Non coglierlo - cavalcando il connotato antipolitico della crisi - sarebbe l’ultimo e il più devastante degli errori.
Pretendere interventi di bonifica è indispensabile ma è tutt’altra cosa dal delegittimare. E invece proprio questo sembra il senso di un attacco sferrato contro tutto ciò che è pubblico e in particolare contro le istituzioni della rappresentanza e della partecipazione. A questo proposito è in atto una divisione del lavoro che non può non colpire. Da un lato, poteri imprenditoriali diretti da una indiscutibile razionalità allo scopo. Dall’altro, settori del mondo politico mossi da malintese smanie «modernizzatrici» e da una inesausta ansia di legittimazione.
Tutti, certo, cooperano nella stessa impresa. Ma i primi - come ha ben chiarito Montezemolo all’Assemblea della Confindustria - sanno bene quel che vogliono: una società disciplinata, incardinata in salde gerarchie, comandata da pochi e forti centri di potere «indipendenti». I secondi si illudono di saperlo. Lavorano in realtà per conto terzi. Promuovono trasformazioni che negheranno ogni loro residua autonomia. E rischiano, a danno di noi tutti, di fare la fine di quel ciarlatano di cui Gramsci dice nei Quaderni, raccontando di come venne morso dalla biscia che aveva incautamente stuzzicato.
L’odio per i politici
di Pietro Citati (la Repubblica, 6 maggio 2007)
Noi crediamo che si odino. Quando li vediamo alla televisione, Berlusconi insulta i comunisti: D’Alema disprezza con sarcasmo Berlusconi: l’immensa, abbagliante scatola cranica di Rizzo copre d’offese i democratici, Prodi e Forza Italia: Calderoli dileggia i meridionali e gli emigranti: Diliberto, con la sua aria da faina, denigra gli assassini americani e i loro lacchè italiani (così parlava Stalin): Maurizio Gasparri, con gli sguardi da bambino vizioso, insulta Rutelli, Dini, Fassino, D’Alema, Prodi, Diliberto, Bertinotti; mentre, in un angolo della scena, con le maniere e la voce untuosa di un Monsignore dell’Ottocento, Bondi deplora la malafede degli avversari. E così via, ogni sera, negli innumerevoli, insopportabili talk-show televisivi, assordandoci di chiacchiere tediose, al punto da far rimpiangere i racconti sulle madri che assassinano i figli e sulle figlie che assassinano le madri.
Non credete alle vostre orecchie. Tutto questo è falso. Dietro le quinte del nostro teatrino nazionale, i nemici si sono messi d’accordo: Gasparri ha concordato la battuta con Rizzo; Diliberto con Bondi. Ormai, in Italia, non esistono più partiti, coalizioni, governo e opposizione. Una sola, immensa colata lavica, della quale fanno parte tutti gli uomini politici, sta ricoprendo l’intero paese, nascondendo le città, i laghi, i fiumi, gli alberi, le colline, le montagne, la possibilità stessa di scorgere il cielo.
Questa colata lavica obbedisce ad una sola legge: quella di moltiplicarsi. La presidenza del Consiglio e il Quirinale occupano un numero di impiegati quasi maggiore di quello degli operai della Fiat. Il Senato e la Camera dei Deputati sono prigionieri nelle loro misere carceri di Montecitorio e di Palazzo Madama; e quindi sono costretti ad acquistare preziosi edifici storici nel centro di Roma. In uno vengono collocati i barbieri, che ogni mattina rasano le guance ispide dei nostri onorevoli, tagliano i peli del naso e delle orecchie, disegnano con arte la basetta alta o la basetta bassa, spargono l’acqua di colonia, l’antiforfora e il gel. In un secondo edificio, molto più civettuolo, le parrucchiere maneggiano caschi, fon, creme, mezze tinte, forbici, forbicette quasi invisibili, lozioni, rossetti, profumi francesi, mentre le pedicure estirpano calli che offendono l’onore del popolo italiano. In un terzo edificio insonorizzato, centinaia di camerette, decorate con amorini correggeschi, accolgono le membra illanguidite dei deputati e senatori, divorati dalla tortura del pensiero.
Poi ci sono i ministeri e gli uffici delle regioni e dei comuni, dove ogni funzionario o assessore, esausto dalla fatica, viene sorretto fino al tavolo di lavoro da cinque consulenti. Ma esiste un problema ancora più grave. La regione Lombardia, o Toscana, o Molise, debbono sviluppare una vigorosa politica estera. D’Alema non può essere lasciato solo. Così bisogna acquistare palazzi e appartamenti a New York, Reykjavik, Londra, Sofia, Tallinn, Mosca, Pechino, Giacarta, Samoa, Parigi, l’isola di Pasqua, le Maldive, e l’atollo vulcanico appena sbocciato, come un fiore fumoso, sulle coste islandesi, così da sviluppare armoniose relazioni con l’universo.
Come si usa dire, Berlusconi e Prodi inseguono un "grande sogno". Le altre decine di milioni di italiani non possono venire abbandonati a loro stessi. Tutti, o quasi tutti, debbono entrare a far parte della grande e generosa colata lavica che copre e difende il paese. Nemmeno un buco deve restare vuoto: nemmeno un angolo abbandonato dall’occhio amoroso del governo e delle regioni. In primo luogo, si tratta di difendere l’Onore della Nazione italiana. "Non è possibile- sostiene l’onorevole Rizzo - abbandonare la nobile arte del parrucchiere in mani straniere: tagliare i capelli, i baffi e la basetta a regola d’arte fa parte delle essenziali esigenze strategiche di Questo Paese? Non possiamo permettere che Bush si occupi delle nostre teste. Sarebbero in pericolo i nostri cervelli e la democrazia". E i panettieri? E i falegnami? E gli psicoanalisti? E i commercialisti? E i romanzieri? Così la colata lavica si estende a dismisura.
Tutti sappiamo che costa moltissimo. Non importa. Qualcuno, alla fine, pagherà. Oggi, in Italia, gli uomini politici sono circondati dal disprezzo, dal rancore, dall’ostilità, dall’avversione, che non salva nemmeno i non molti dignitosi tra loro. Essi, temo, non se ne accorgono, poiché passano il tempo dentro il ventre della televisione. Gli italiani continuano a votare per abitudine, e inconscia obbedienza. Ma non sopportano più le facce degli uomini politici, le piccole miserie, le bugie, le ipocrisie, i discorsi, i trucchi, i gesti, la consapevole o inconsapevole corruzione. Stiamo attraversando un momento pericolosissimo per la vita democratica italiana: come la Francia nel 1936-1939 e l’Italia nel 1920-22, quando la classe politica era egualmente squalificata. Per fortuna, non c’è nessun Mussolini alle porte. Umberto Bossi non fa paura nemmeno a un poppante. Quanto a Berlusconi, contro il quale sono stati scritti cinquecento libri in cinque anni, da pochi giorni è diventato per la sinistra un baluardo della democrazia.
Non vedo rimedio. O forse ce n’è uno. Emma Bonino potrebbe proporre un referendum, che vieti ai politici italiani di apparire a Porta a porta, Ballarò, Otto e mezzo, Anno Zero, L’infedele. Allora Pannella annuncerà un digiuno, astenendosi dalla bresaola valtellinese e dal porto bianco. Il referendum - ne sono certo - verrà approvato con larghissimo consenso. Capisco che almeno cento tra deputati e senatori, allontanati dal luogo del cuore, moriranno di infarto. Qualcuno si suiciderà. Sopporteremo stoicamente la loro perdita. Ma i sopravvissuti si consoleranno. Avranno sempre a disposizione, nei nobili palazzi del centro di Roma, il barbiere, la parrucchiera, la manicure, la pedicure: la basetta bassa e la mèche viola; e, come dèi greci, vivranno avvolti dalla nube giallo-rosa di Chanel numero 5 e di Clive Christian numero 1.
Il partito unico
di Furio Colombo *
Alzi lo sguardo e noti con disagio, come in una sequenza stroboscobica (la luce abbaglia e si spegne), che ci sono soprassalti e incongruenze tra una scena e l’altra.
In una inquadratura vedi Berlusconi (Berlusconi) festeggiato ai congressi Ds e Margherita. Mormora, in ognuna delle due occasioni: «Per il 95 per cento sono d’accordo». Applausi.
In un’altra inquadratura (negli stessi giorni) Berlusconi grida al colpo di Stato e al regicidio per una legge sul conflitto di interessi che lo stesso primo ministro Prodi ha giustamente definito “blanda” (e infatti due proposte di legge sullo stesso argomento, una della sinistra detta “radicale” alla Camera, una a mia firma al Senato, sono molto più “americane”, dunque molto più esigenti). E c’è chi manifesta stupore sia per la legge («Ma proprio adesso che stavamo andando verso valori condivisi?») sia per la scenata di Berlusconi («Una così brava persona»).
Però è inutile fare i polemici. Ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera, 5 maggio) quando dice che «l’anomalia italiana è una anomalia doppia». Un giorno si punta l’indice e il giorno dopo tutto è perdonato.
Ma se la memoria si aggiunge alla cronaca dei fatti, le dissonanze sono degne di un concerto di John Cage. All’improvviso vedi il tuo Primo ministro che si reca da Bossi come da uno statista, il Bossi di Borghezio, di Gentilini, della schiena da raddrizzare al magistrato disabile, dei proiettili che costano poco, del tricolore al cesso. Rende omaggio alla sua saggezza. Dove siamo finiti noi elettori?
Noi non abbiamo, né avremmo mai potuto avere valori condivisi con chi suggeriva di aprire la stagione della caccia usando gli immigrati come lepri. Certo, governare è un mestiere difficile, ma c’e un filo che non si deve mai rompere, quello con chi ti ha eletto, che continua ad avere fiducia, che guarda volentieri alle cose nuove. Ma chiede di capire. E chiede che il suo voto, quel voto per un’Italia che non assomigli in niente a Berlusconi e a Bossi, continui ad avere un senso e un peso. Vediamo.
I due congressi, Ds e Margherita, sono andati bene, con nobili discorsi, commozione, ricordi, celebrazione e - fra i Ds - separazioni sofferte che fanno pensare ad amicizie più grandi degli eventi e a eventi che chiedono, come accade nella storia, sacrifici personali e decisioni non facili. Strade diverse ma non lontane, lo stesso impegno di non voltarsi a rimpiangere, anche se il percorso e il punto sognato (progettato) di arrivo viene descritto in modo diverso da diverse colonne in marcia da sinistra.
Una è la “Sinistra democratica per il socialismo europeo” riunita in affollata assemblea al Palazzo dei Congressi dell’Eur ieri, sabato 5 maggio. Altre si organizzeranno.
Il Pd che sta per nascere dai due capolinea Ds e Margherita sarà il partito di Prodi. Questa affermazione risponde alle due domande di tanti: perché un’operazione così dolorosa (almeno per i Ds)? e chi sarà il leader?
Romano Prodi a cui si deve questa Italia affaticata e difficile però senza Berlusconi, non poteva essere il capo di un governo e di una coalizione senza un partito. Dunque il capo del governo sarà, anche in linea con chi lo ha votato sia alle primarie del 2005 che alle elezioni politiche del 2006, il leader del nuovo partito. Uno dei due grandi partiti italiani.
Tutto chiaro, tutto bene. Perché allora il senso di vuoto e di disorientamento (Chi sono, adesso? Cosa vogliono da me? Lealtà a che cosa? Dove sto andando?) e anche di solitudine che constati fra deputati, senatori, quadri, e nelle storiche sezioni Ds? Perché hai l’impressione - proprio mentre ferve tanta attività politica - che la distanza dai cittadini sia diventata immensa?
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Provo a confrontarmi con tre spunti (a cui non sono sicuro di sapere dare risposta) che mi giungono da tante mail, da tanti incontri e conversazioni ansiose.
La prima è la questione del Pse, ovvero della collocazione del nuovo nato in Europa. Non è una questione di forma. L’Europa è divisa in due grandi schieramenti popolari, e non concepisce ambivalenze e sospensioni. L’Europa è divisa in due parti, come dimostrano in modo efficace le elezioni francesi: il Pse, con tutto ciò che resta (non poco) del socialismo europeo; e il partito popolare, che è l’altro volto. Comprende Angela Merkel, ma anche Silvio Berlusconi. Rappresenta grandi frenate conservatrici ma anche modi nuovi e diversi di immaginare il futuro. Sono due schieramenti vasti e importanti. Ma non compatibili. Poi ci sono diversi altri interessanti raggruppamenti, ma nessuno può ospitare l’una o l’altra delle anime italiane del nascendo Pd.
La seconda domanda è più pressante, anche se si può affrontare meglio caso per caso che in modo astratto e generale. La domanda è questa: il centro, che è l’area più contigua a una sinistra che voglia essere cauta e moderata, è già saldamente occupato, è tutto un cantiere di lavori in corso, un incrociarsi di gru e di scavi che fanno prevedere fitte costruzioni, dunque un muro limitrofo, una barriera di contenimento.
Ma poiché la direzione di marcia non prevede rivisitazioni a sinistra (o almeno nell’area di progetti, attese e speranze, tradizionalmente definita tale), ecco una terza domanda (o riflessione): quanto moderati si può essere? E dov’è la linea di confine che distinguerà i militanti del Pd dagli altri “moderati”?
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Per rispondere a queste domande (o per approfondire la riflessione sul nascituro Pd) mi sembra utile riferirmi a una espressione che ricorre sempre più spesso. L’espressione è «valori condivisi». Questa affermazione viene di volta in volta enunciata come segno di buona volontà (dunque di tendenza, di sforzo a cercare)o come prova di vera democrazia.
Chiedo attenzione su questo punto: buona volontà (o ricerca ostinata di possibili accordi), sì. Prova di vera democrazia, no. Infatti non c’è limite al volenteroso tentare di andare d’accordo. Ma la democrazia è esattamente la buona gestione del non accordo. È il set di regole per affrontare situazioni complesse, gravi, urgenti, in cui due o più parti hanno visioni, speranze, attese, obiettivi profondamente diversi.
È possibile che mediazioni intelligenti e pazienti portino a soluzioni ravvicinate. Ma se in luogo di un esito condiviso si giunge a una decisione A che nega e respinge la decisione B , la prova della democrazia è nel rispetto delle regole per far prevalere l’una o l’altra decisione, non nello sciogliere una visione nell’altra.
La questione si complica quando si aggiunge l’esortazione, anzi il proposito, di raggiungere, come viene spesso detto, una "sintesi" fra posizioni contrapposte.
Ovvio che questa affermazione indica mitezza e buona volontà che, in sé, sono buone virtù democratiche. Ma nessuna situazione di confronto umano si risolve in una sintesi. Non un processo. Non un dibattito. Non una gara. Non una equazione aperta o una partita a scacchi. E certo non una competizione elettorale.
Naturalmente ogni democrazia è fondata su valori comuni. Ma quando anche su di essi scoppia il contrasto (è stato il caso delle profonde e selvagge modifiche tentate ai tempi di Berlusconi contro la Costituzione italiana), la risposta non è una sintesi tra vandalismo costituzionale e difesa della Costituzione. La risposta è il voto. Nel caso delle tentate alterazioni alla nostra Costituzione, gli elettori italiani hanno detto no, punto e basta. Ecco perché è un errore, un vistoso e curioso errore, affermare, da parte di Prodi, che la legge proposta dal governo sul conflitto di interessi è blanda e mite, come se tali qualità avvicinassero la controparte (Berlusconi, titolare di uno dei più grandi conflitti di interessi del mondo) e rendessero più facile individuare un “valore condiviso”. Infatti - incoraggiato dall’atteggiamento mite del presidente del Consiglio - il capo dell’opposizione ha reagito con furore. Ha definito la “legge blanda” di Prodi un atto di killeraggio (ovvero di assassinio) presentando una tesi unica nel mondo democratico ed enunciata con estrema chiarezza: «I ricchi devono governare perché hanno una marcia in più. Hanno creato ricchezza per sé dimostrando di essere più bravi, più dotati di talento degli altri». E ha reagito - unico nel mondo democratico, ma ben sostenuto dai suoi avvocati, inclusi quelli poi diventati giudizi costituzionali dimissionari, e dal suo partito di proprietà - con sincera repulsione verso l’idea di separare il potere privato da quello pubblico.
* * *
La vicenda esemplare del Family Day è un’altra buona occasione per esplorare il territorio infido dei “valori condivisi”. Viva la faccia di Pezzotta, l’ex sindacalista diventato predicatore, che annuncia: «Venga chi vuole. Ma sia chiaro che questa è una manifestazione contro i Dico». Che vuol dire: siamo contro ogni tentativo, anche mite, anche blando, di dare una mano alle coppie di fatto.
Ma è ancora più clamorosa la vicenda del presidente della Cei, monsignor Bagnasco, se posta a confronto con quella del giovane presentatore del concerto del Primo maggio Andrea Rivera.
«Non lasceremo solo l’arcivescovo Bagnasco», è stato detto dopo le scritte insultanti a lui dedicate. È stata una formulazione un po’ curiosa. È difficile che un uomo di punta della Chiesa più grande del mondo possa essere lasciato solo. Ma è apparsa giusta come simbolo di solidarietà contro il pericolo. Giusto anche ignorare del tutto le affermazioni pesanti e gravi dedicate da monsignor Bagnasco a chi non condivide i suoi “valori condivisi” parlando persino (prima delle scritte) di terrorismo. Il vescovo non parlava del terrorismo dei terroristi, ma di quello di coloro che, sulla libera scelta delle donne e sui modi di amarsi e di vivere insieme, non condividono i valori della Chiesa cattolica.
Tutta l’Italia dunque ha fatto finta di niente e ha dato - giustamente - tutta la sua solidarietà al prelato. Non uno, neppure un sindacalista, ha detto, sul momento, una sola parola in difesa di Andrea Rivera. Che cosa aveva fatto Rivera, chiamato poi terrorista (è una mania) dall’Osservatore Romano?
Aveva ricordato che Pinochet, Franco e una celebrità della banda della Magliana avevano avuto il funerale e sepoltura in chiesa, mentre il povero corpo di Welby era stato lasciato fuori. Che bello se Rivera avesse mentito e fosse stato sgridato per avere detto una bugia.
Ma ciò che ha detto Andrea Rivera è la narrazione di uno dei fatti più tristi della vita italiana: il corpo di Piergiorgio Welby è stato effettivamente lasciato in strada, fuori dalla chiesa, per essere morto di troppa, insopportabile sofferenza. Ecco dunque il punto finale di questa riflessione. Per esistere, per vivere, per generare senso e calore e dunque attrazione, il Pd deve tracciare una linea di confine, segnare i propri punti fermi e irrinunciabili, dire di che cosa è alternativa, novità, cambiamento. Non vi sembra che le centinaia di migliaia di ragazzi del Primo maggio, mentre cantavano ancora e ancora «Bella ciao» con allegria e con passione, proprio questo stessero aspettando, la riposta alla domanda «adesso chi siamo»?
Sono giovani, avventurosi e poco inclini a ritornare verso il passato. Però guardandoli si capiva che ai loro occhi (ma questo vale anche per chi scrive) non tutti i valori sono valori, non tutti i valori sono “condivisi”. E non vorrebbero (non vorremmo) - tutti quei ragazzi del Primo maggio italiano - essere folla di un partito unico. Cercano (cerchiamo), netta e chiara, come in ogni democrazia, la linea di confine.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.05.07, Modificato il: 06.05.07 alle ore 16.42
La lezione del 25 aprile
di Gabriele Polo (il manifesto, 26.04.2007)
Che il paese sia avviato verso la riconciliazione lo può dire solo un presidente del consiglio che si trova al centro di un sistema politico sempre più indifferenziato. Che la libertà sia un dono e non una conquista lo può dire solo un sindaco di Milano che appartiene a un grande e ricca famiglia meneghina. Tra l’uno e l’altra, piazze sempre meno piene, ma non per questo più tranquille, in un avvitamento della partecipazione al ricordo della Resistenza che la riduce a celebrazione di un solo giorno l’anno. O a semplice palcoscenico per esternazioni d’occasione.
Se oggi il 25 aprile è ridotto a questo dipende dalla sua mummificazione a opera del sistema politico, dal non volerne più cogliere la lezione innovativa di una lotta di massa (pur fatta da minoranze) che non separava la cultura politica dalla condizione materiale: l’anticorpo dell’antifascismo contro l’autobiografia nazionale rappresentata dal regime mussoliniano, insieme alla ribellione contro guerra, povertà e illibertà. Quest’unione permise la nascita della repubblica e la rinascita della rappresentanza politica, nel sogno di una democrazia partecipata: niente più caste dirigenti da un lato e plebe indistinsta (muta o inutilmente rivoltosa) dall’altro: cos’altro erano quei lavoratori che uscivano da fabbriche o cantieri per salire insieme - insieme - in montagna? Questo abbiamo chiamato «politica» per decenni.
Oggi, se fatichiamo a trovare un nome alla partecipazione pubblica è perché alla grande narrazione collettiva dei ribelli di 60 anni fa non se ne è sostituita un’altra altrettanto forte e adeguata al presente. Perché non c’è uno sforzo, ad esempio, di fare i conti con la più recente autobiografia della nazione, il berlusconismo, che è entrata nelle viscere del sistema politico riducendolo ad amministrazione dell’esistente e nel corpo dell’assetto sociale frantumandolo in milioni di individualità, magari rinchiuse in piccoli feudi comunitari. Anzi. I predemocratici che intendono costituirsi in partito accettano lo stato dell’arte fino al punto di concepirsi come moderni demiurghi in grado di risolvere i tanti conflitti del presente con un semplice buon governo che rimuova l’antipolitica berlusconiana; e coloro che non si rassegnano alla gestione illuminata dell’esistente non riescono ad «essere sinistra» individuando un’agenda diversa dalla nostalgia o dal ribattere colpo su colpo all’ossessione governista della deriva centrista.
Eppure - anche a tanti anni di distanza - la Resistenza insegna che il campo d’azione non si può restringere ai ceti dirigenti (reali o presunti); altrimenti ha sì ragione Prodi che solo quelli guarda. E finisce per aver ragione persino la Moratti, la cui libertà è un «dono» del mercato, unico dio condiviso al mondo. Chiunque vorrà ridare senso e pratiche alla parola sinistra dovrà guardare all’insegnamento dei ribelli di 60 anni fa, cercare il filo di una cultura comune nelle diversità che compongono la contraddizione sociale del nostro tempo. Solo così il 25 aprile potrà ancora essere una data fondativa.
A VIVA RADIODUE / Il presidente della Camera ospite di Fiorello che gli fa leggere il testo della canzone azzurra spacciandolo per una poesia
Bertinotti recita l’inno di Silvio e premia Veronica *
MILANO - «La "Coppa Marx"? In fondo è un dispettuccio a Berlusconi: la assegnerei a Veronica Lario». Un bel match quello che ieri ha impegnato Fausto Bertinotti, ospite di Fiorello a Viva Radio2: attribuire il trofeo al «personaggio più comunista». E il presidente della Camera è stato al gioco.
Prima della finale vinta dalla moglie del leader della Casa delle Libertà su Valeria Marini, Bertinotti si è dovuto esprimere su altri nomi. Il gioco della premiata coppia Fiorello & Baldini prevedeva l’eliminazione diretta tra personaggi. Così l’ex segretario di Rifondazione, non senza ritrosia («Marx mi impicca, mi disereda), ha definito addirittura Silvio Berlusconi più comunista di Confalonieri perché questi «detiene l’azienda» e Giulio Tremonti come più rosso di Sandro Bondi e Lele Mora. Francesco Totti ha vinto su Valentino Rossi mentre Bruno Vespa su Emilio Fede. Un po’ di diplomatica esitazione, invece, di fronte alla scelta tra Benedetto XVI e il cardinale Ruini: «Non posso pronunciarmi, se do del comunista al Papa cosa mi succede? - ha commentato Bertinotti -. Ma poiché il comunismo è un’idea alta e più alto del Papa non c’è nulla, scelgo Ratzinger». Però tra Lady Veronica e il Papa l’ha spuntata la prima: «Siccome nelle gerarchie ecclesiastiche le donne sono poco premiate...».
Mezz’ora ai microfoni di Viva Radio2 tra scherzi e riflessioni serie sulla politica («un’idea attraverso cui si può aiutare chi sta male a stare meglio, un’idea di liberazione degli uomini da tutte le forme di oppressione e un’emancipazione di me medesimo ») con un Fiorello ormai abituato ai politici ospiti in trasmissione. Del resto lo scorso anno aveva anche ricevuto la telefonata del vero Smemorato di Cologno, cioè l’ex premier Silvio Berlusconi, e dell’allora sfidante Romano Prodi ma anche dell’ex capo dello Stato Ciampi, «ospite» fisso della trasmissione radiofonica nell’imitazione di Fiorello, che ora invece fa Giorgio Napolitano dal Quirinale. L’esordio della puntata è dei più tradizionali, con i due conduttori che danno del Presidente a Bertinotti e gli chiedono cosa fa la terza carica dello Stato: «Presidente sarà lei - è la risposta scherzosa -. Suona la campanella, quello è fondamentale, il resto è sussidiario».
Quindi il primo gioco, un’intervista con risposta obbligata, sì o no, su personaggi e situazioni. Il presidente della Camera dice no a Putin, sì ad Ancelotti, sì ai cinesi «perché sono tanti», sì a Enzo Biagi in tv («lo rispetto »), no alla tv delle veline, alla moviola in campo (meglio metterla a Montecitorio: «magari si anima»), no a Berlusconi-statista ma sì a Berlusconi-presidente del Milan, no a Mike Bongiorno senatore a vita e no al tatuaggio di Che Guevara. Sì all’euro «purché ci siano alti salari», sì-pronunciato con entusiasmo-alla Juve in B, sì a Porta a Porta, sì «all’ora delle religioni», sì ai matrimoni gay. E sì anche ai fischi alla Sapienza «perché sono fisiologici: se uno si prende gli applausi deve prendersi anche i fischi. Ma erano pochi...»; sì ai benefit per i parlamentari «purché legati alle funzioni che svolgono», sì alla play station, sì a Emilio Fede sul satellite: «Per quale ragione - gioca-dovremmo toglierglielo?». No al calendario di Stefania Prestigiacomo («non ne sento il bisogno»). Infine la domanda più sibillina: Berlusconi come Berlusconi? «È troppo criptica questa domanda - svicola il presidente della Camera -. Qualunque cosa dicessi, potrei sbagliare. Mi avvalgo del famoso comandamento...». «Emendamento » lo corregge Fiorello.
Ma le forche caudine non sono ancora superate. Ad attendere Bertinotti c’è un tranello: gli fanno declamare l’inno di Forza Italia spacciandolo come un’antica poesia intitolata all’Italia. Di fronte alla verità, primalo stupore poi la battuta dell’ex segretario di Rifondazione: «Quanti in studio se ne erano accorti? Se invece avessi letto Bandiera Rossa... Comunque, una volta tolta la parola "Forza", ci teniamo l’Italia...».
Francesca Basso
* Corriere della Sera, 17 aprile 2007
Bonaiuti: la sinistra non ha fatto un bagno di umiltà nelle radici socialiste
Congressi, forse Berlusconi in prima fila
Offerto un posto in prima fila. La partecipazione eviterebbe il «monopolio» mediatico di Ds e Dl. A Roma attesi Fini e Casini *
ROMA - Se confermerà gli impegni che ha fatto scrivere in agenda Silvio Berlusconi domani pomeriggio si siederà in prima fila al congresso dei Ds a Firenze, quindi venerdì assisterà all’apertura delle assise della Margherita, negli studi di Cinecittà a Roma. Forse anche per contrastare mediaticamente due eventi che si apprestano a monopolizzare il fine settimana della politica, il Cavaliere è intenzionato a rispondere positivamente agli inviti che ha ricevuto su volere di Piero Fassino e Francesco Rutelli.
Cosa farà il leader di Forza Italia? La domanda è legittima visti i precedenti, le conseguenze delle sue apparizioni ai lavori congressuali altrui. La settimana scorsa, quasi senza parlare, ha monopolizzato l’attenzione dei media al primo giorno del congresso Udc. Più interessante che fra i Ds potrebbe essere la reazione che la sua presenza susciterà fra gli esponenti della Margherita, fra coloro che a detta dell’ex premier, e non da oggi, «sbagliano a stare dall’altra parte, dovrebbero piuttosto venire da noi, dove c’è il vero riformismo».
Argomenti che ha usato più volte, in pubblico e in privato, con Francesco Rutelli in primo luogo. O con tutti quegli ex dc che vivono con sofferenza il rapporto con la sinistra diessina. Lusinghe sempre cadute nel vuoto. Proprio Paolo Bonaiuti, il portavoce del leader di Forza Italia, giudica asfittico il progetto del Partito democratico, almeno per tanti ex dc: «L’aspetto positivo è che risolve il frazionamento del sistema politico, quello negativo la possibilità del formarsi di un compromesso storico fra la vecchia sinistra democristiana, che starebbe bene altrove, e quella sinistra che nonostante il crollo del Muro di Berlino non ha ancora fatto un reale bagno di umiltà nelle radici socialiste». Ai congressi sono attesi sia Pier Ferdinando Casini che Gianfranco Fini.
M.Gal.
* Corriere della Sera, 18 aprile 2007
BERLUSCONI ALL’UDC: IL GRANDE CENTRO C’E’ GIA’, E’ FORZA ITALIA *
ROMA -Mentre i parlamentari di Forza Italia, An e Lega si riunivano a Montecitorio per sancire lo strappo con l’Udc, Pier Ferdinando Casini saliva sull’aereo di Massimo D’Alema e volava, insieme a Piero Fassino e altri ministri, verso Bologna per i funerali di Beniamino Andreatta. Una coincidenza, ma è questa l’immagine che più di molte parole descrive i rapporti nell’opposizione due giorni dopo il voto del Senato sull’Afghanistan. La sentenza di separazione che certifica l’uscita di Casini dalla Cdl viene pronunciata dal socio di maggioranza del condominio nato sulle ceneri del Polo.
"Prendiamo atto che l’Udc, al momento, non ci consente di considerarla schierata al nostro fianco", sancisce Silvio Berlusconi davanti a deputati e senatori di Fi, An, Lega e Nuova Dc. Al tavolo, accanto a lui, annuiscono Gianfranco Fini, i capigruppo del Carroccio e i vertici degli altri partiti rimasti nella ’casa’. "Anche senza l’Udc - rassicura subito il Cavaliere - abbiamo una maggioranza di oltre il 52%".
E dopo aver chiarito le ragioni dell’astensione sull’Afghanistan ("Abbiamo interpretato i sentimenti degli elettori, ma sapevamo che il decreto sarebbe passato, altrimenti avremmo votato in modo differente"), l’ex premier attacca frontalmente il leader centrista. "Lo strappo di Pier Ferdinando è stato doloroso, ma ci ha anche danneggiato come immagine", è la premessa.
Poi l’affondo: "Casini immagina di costruire un nuovo grande centro e magari ha nostalgia della politica dei due forni o pensa di essere come Craxi e di fare l’ago della bilancia, ma si dimentica che il grande centro esiste già e si chiama Forza Italia e che la moralità della politica impone di rispettare gli impegni con gli elettori". Poi torna calmo e spiega: "Le abbiamo tentate tutte ma ora che siamo in regime di separazione, non per colpa nostra, andiamo avanti con la Cdl".
Insomma, il Cavaliere ci tiene a sottolineare che non si è trattato di uno sfratto, ma di abbandono del tetto dell’alleanza da parte di Casini. L’ex premier resuscita anche la federazione. Ricorda la disponibilità di Fini e annuncia a sorpresa che anche Umberto Bossi "lo ha autorizzato a muoversi in questa direzione". Poco importa se qualche ora dopo il Senatur bolla il progetto come una "stupidaggine". Berlusconi sottolinea poi che è "doveroso e urgente" mandare a casa il governo Prodi, ma è per i centristi il messaggio finale.
Ed è un tentativo di apertura: "Mettiamo in campo ancora tanta pazienza per cercare di convincerli a restare con noi", dice ai parlamentari. Ma le sue parole vengono interrotte dai brusii dei più. Tanto che il Cavaliere replica: "Per cortesia, non possiamo regalare un vantaggio così agli avversari".
E ricorda i 2 milioni e 400mila voti ottenuti dai centristi. Per questo, lasciando Montecitorio, non fa che precisare, ammorbidire, smussare. "Ci auguriamo che tornino sui loro passi", dice alle telecamere. "Non sono preoccupato per le amministrative, anche perché su questo l’alleanza con l’Udc tiene", sottolinea ai microfoni. Ma soprattutto, sono le sue ultime parole, "le porte sono sempre aperte se volessero rientrare".
Il tentativo è quello di confermare le intese locali per le elezioni del 27-28 maggio, anche se non c’é certezza sulla risposta della base della Cdl. Come dimostra, ad esempio, il caso di Frosinone, dove esponenti di An si dicono indisponibili a sostenere il candidato sindaco dell’Udc anche se fosse indicato dalla coalizione. Anche Fini, intanto, non lesina frecciate ai centristi.
"La Cdl c’é ed è ben determinata", dice il leader di An all’assemblea dei gruppi, sottolineando che "non ha neanche problemi di leadership". Sprona tutti a lavorare per "unire e non per dividere", ma sottolinea anche che "non si deve fare come il cane che rincorre la lepre, ma come la lepre che indica la strada". Come a dire: ora basta inseguire Casini. Il più secco con i centristi, comunque, è Roberto Maroni. Il capogruppo leghista evita accenti polemici, spiegando che così gli ha chiesto Bossi, ma chiede a Berlusconi di chiarire con l’Udc prima della chiusura delle liste per le amministrative.
ANSA » 2007-03-29 21:30
LO SCANDALO
«Il vero scandalo è che siano considerate scandalose le fotografie di un uomo politico a pochi metri da un tansessuale, in un Paese che non considera scandalosa la presenza in Parlamento di politici corrotti, inquisiti e anche già definitivamente condannati. Il moralismo sessuale va di pari passo con l’immoralità della vita pubblica, il voyeurismo volgare dell’opinione pubblica e dei media si sposa perfettamente con la cecità sui reati finanziari, sulla corruzione, sull’accumulo di denaro illecito, sulle marchette economiche.
Quando si dice che il gossip prospera quando non ci siano altri argomenti pregnanti in circolazione, si dice una evidente verità. Il gossip dilaga perché trova vuoti gli spazi che andrebbero consacrati alle conversazioni serie: chi ha altro da pensare, in genere, non dedica al pettegolezzo che qualche pausa leggera e inoffensiva. Il giovane manager Corona si è allargato ben oltre i normali limiti della sua professione perché ha colto il momento; il mercato delle paparazzate era fino a pochi anni fa una nicchia breve come una messimpiega, pochi rotocalchi specializzati per un’occhiata distratta. Ora, grazie all’orrore televisivo e alla degenerazione ruffiana di molti quotidiani, il gossip è un settore primario, e ha sfrattato da molti cervelli il rischio di pensare al sodo».
Di chi pensate sia questa lunga citazione?
Del Papa? Magari!
Di qualche vescovo? Volesse il cielo!
....
E’ semplicemente la riflessione di un laico che scrive quotidianamente su un giornale laico!
Si tratta di Michele Serra su La Repubblica del 22 marzo scorso.
Pensate: Potenza è stata promossa a "città turistica" tra le più gettonate. La radio di oggi ha detto che gli alberghi sono tutti pieni...Le radici cristiane?
Il papa e i vescovi sono ancora ammutinati nella trincea di difesa delle "Radici Cristiane" di questa società?
Ciechi! Preferiscono ficcare il capo nelle sabbie mobili di un passato ormai andato più che sporcarsi le mani con un presente che richiede loro un’altra presenza.
Come non essere d’accordo allora con quanto scrive Galeano a proposito della storia ufficiale e della storia reale?
Tanto più che, di ritorno da Pistoia ove ho partecipato all’interessante e ricco convegno sull’America Latina "L’alba...", ho avuto modo di toccare con mano come le lotte del "pueblo sin" stiano riscrivendo una nuova storia ed una nuova giografia...
"La storia ufficiale, memoria mutilata, è una lunga cerimonia autoelogiativa dei prepotenti che ci sono nel mondo. I suoi riflettori, che illuminano i vertici, lasciano la base nell’oscurità. Gli invisibili da sempre integrano, al massimo, la scenografia della storia, come le comparse di Hollywood. Ma sono loro, gli attori della storia reale, i negati, gli imbrogliati, i nascosti protagonisti della realtà passata e presente, coloro che incarnano lo splendido ventaglio di un’altra realtà possibile. Accecata dallo snobismo, dal razzismo, dal maschilismo e dal militarismo, l’America continua a ignorare la pienezza che contiene. E questo è doppiamente vero per il Sud: l’America Latina comprende le più favolose diversità umane e vegetali del pianeta. Là risiedono la sua fecondità e la sua promessa. Come dice l’antropologo Rodolfo Stavenhagen, «la diversità culturale sta alla specie umana come la diversità biologica sta alla ricchezza genetica del mondo». Affinché queste energie possano esprimere le potenziali meraviglie della gente e della terra, bisognerebbe iniziare a non confondere l’identità con l’archeologia, né la natura con il paesaggio. L’identità non sta tranquilla nei musei, e neppure l’ecologia si riduce al giardinaggio". (Eduardo Galeano: “A Testa in giù”; p.329)
Questo per oggi, con meno rabbia di ieri e un pò più di speranza.
Aldo [don Antonelli]
Telecom-Berlusconi, torna il conflitto di interessi
di Bianca Di Giovanni *
Doveroso sperare che «almeno un’impresa di telecomunicazioni rimanga italiana mi sembra un augurio doveroso, poi vinca il migliore». Così Romano Prodi apre la giornata delle polemiche intorno a Telecom. La ritirata degli americani dà la stura a un tornado di commenti. In campo politici e le corazzate dell’informazione, mentre riesplode il conflitto di interessi di Berlusconi che punta sulle telecomunicazioni.
Massimo D’Alema - chiamato in causa nonostante il quasi totale silenzio sulla vicenda - definisce «deprimenti» le ricostruzioni lette sui giornali. «Vorrei non aggiungere parole - ha dichiarato il vicepremier - Avendo io detto che ritengo che non si debba fare ora una legge sulle scatole cinesi e non bisogna dare l’ impressione di voler intervenire su una vicenda economica aperta, ma che, semmai dopo, discutendone con gli operatori economici, si possa ragionare su questo, un giornale (il Sole24Ore, ndr) ha scritto che voglio fare un blitz. Mi astengo dal commentare, altrimenti dovrei dire delle parole sconvenienti».
Anche la sorte toccata a Prodi da parte degli osservatori non lascia molto spazio all’ottimismo, per la verità. Le accuse di interventismo nel «recinto sacro» del mercato si sprecano. Da Tokyo il premier misura le parole. «La partita sarà ancora lunga; credo che avremo una pluralità di protagonisti in futuro - dichiara - Quindi l’uscita di At&T la giudico nè positiva nè negativa, ma solo un atto di una lunga commedia, o tragedia, o film. Ma solo un episodio che non è certo conclusivo».
Il premier non si dice sorpreso del ritiro americano: sembrava un’offerta più messicana, con un «appoggio esterno» americano. No comment di Prodi su un eventuale intervento di Intesa, mentre il premier considera positiva la tendenza del mercato di forte concentrazione nell’area europea. «Le fusioni che ci sono state dimostrano che si va verso un mercato europeo e parteciparvi sarà importante». Secondo alcuni osservatori bene informati, l’offerta Usa serviva più per fare il prezzo che per comprare.
E la reazione di Marco Tronchetti Provera la dice lunga al riguardo («Pirelli venderà al prezzo giusto»). Ma il centro-destra cavalca la propaganda della fuga di fronte alle interferenze politiche, mentre a sinistra tiene banco il «caso» Mediaset. Scende in campo il presidente della Camera Fausto Bertinotti «Non è che in Italia esista solo Berlusconi, ci sono altri imprenditori...- fa notare - Bisogna approvare presto una legge sul conflitto d’interessi». In appoggio si schiera Giovanna Melandri, che chiede di approvare subito una legge sul conflitto di interessi. Voce fuori dal coro, quella di Clemente Mastella: «Non vedo in maniera così disdicevole un ingresso di Mediaset», ha detto il ministro della Giustizia. In difesa del Cavaliere è sceso Sandro Bondi, definendo le parole di Bertinotti e del ministro Melandri «strabilianti».
Forza Italia è divisa tra chi si dice certo che l’ipotesi di uno «sbarco» nei telefoni si esclude, e chi invece crede che per farlo il leader sarebbe pronto a lasciare la politica. Mediaset non nasconde che l’operazione sarebbe interessante. Una sorta di interferenza della politica (straniera) nella vicenda per la verità c’è: è quella dell’ambasciatore americano Ronald Spogli il quale sottolinea «la forte presenza del governo negli affari dell’economia in Italia». Inutile ribattere che ben tre compagnie di telecomunicazioni in Italia sono straniere. «Alla politica spetta dettare le regole» dichiara in serata Vannino Chiti, riportando in prima linea la questione della rete. Un tema niente affatto nuovo: era aperto almeno dall’estate scorsa. Tutti ricordano il caso Rovati.
* l’Unità, Pubblicato il: 18.04.07, Modificato il: 18.04.07 alle ore 12.38
La conferma arriva da fonti di Forza Italia
Berlusconi sarà al congresso dei Ds
L’ex premier assisterà all’apertura dell’assise dei Democratici di Sinistra.
È accreditato anche al congresso della Margherita *
ROMA - Silvio Berlusconi sarà giovedì a Firenze per assistere all’apertura del congresso dei Democratici di Sinistra. Lo confermano fonti di Forza Italia.
MARGHERITA - L’ex premier è accreditato anche per il congresso della Margherita che sarà aperto venerdì mattina da Romano Prodi. In platea, tra gli altri, dovrebbero esserci quasi tutti i leader del centrodestra: Gianfranco Fini, Roberto Maroni, Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa.
* Corriere della Sera, 18 aprile 2007
ANSA » 2007-04-19 20:37
TELECOM: BERLUSCONI DISPONIBILE IN CORDATA, GELO SINISTRA
ROMA - Silvio Berlusconi va al congresso dei Ds a Firenze e non rinuncia a occupare la scena con una doppia uscita sulla vicenda Telecom-Mediaset. Il Cavaliere si dice in sostanza "disponibile" a intervenire con il suo gruppo per "mantenere l’italianità di un’azienda così importante" e in cordata, "a parità di intervento di altri imprenditori", ma questo "senza nessuna voglia di comandare". Parole che mettono subito in allarme la sinistra dell’Unione che torna a chiedere che si metta mano al più presto a una legge sul conflitto di interessi. L’Ulivo tace e sia il presidente della Quercia Massimo D’Alema che il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, a specifica domanda sulla questione, non commentano.
A chiarire il punto di vista del governo è il ministro dei Rapporti con il Parlamento Vannino Chiti, che osserva che "all’interno del mercato le regole le stabiliscono gli operatori in piena autonomia, responsabilità e libertà" mentre "i governi e le authority possono solo intervenire per verificare se le regole vengono rispettate o meno". E d’altra parte, il ministro delle Riforme evidenzia che "se nel mercato emerge una soluzione positiva per Telecom, nell’imprenditoria italiana, credo non possa dispiacere a nessuno". Posizione che però non sembra condivisa da tutti nel centrosinistra.
Berlusconi, lasciando il Pala Nelson Mandela, puntualizzerà che la sua disponibilità è solo "un atto di generosità patriottica", arriva dopo essere stati "richiesti" e "se ci fossero problemi mollo tutto". Ma tant’é. La sua uscita ha già suscitato una solida levata di scudi a sinistra. "Siamo contrari a questa ipotesi - taglia corto il segretario del Prc Franco Giordano - perché stiamo parlando di un’impresa strategica per il nostro Paese e sensibile democraticamente". Per il leader di Rifondazione il problema è la "perdurante assenza di una legge sul conflitto di interessi".
Sulla stessa linea anche Verdi e Pdci. L’ingresso di Mediaset nella proprietà di Telecom per il capogruppo del Sole che ride alla Camera Angelo Bonelli, "determinerebbe una concentrazione di potere nel campo della telefonia, della telecomunicazione e della televisione in capo a una sola persona, peraltro leader dell’opposizione, senza precedenti in tutto il pianeta". Mentre Oliviero Diliberto, all’ipotesi di un intervento del gruppo dell’ex premier nella proprietà di Telecom, si limita a mettersi le mani nei capelli: "Per carita!".
Contraria a un ingresso di Mediaset in Telecom anche l’Idv. Antonio Di Pietro si appella direttamente all’Authority delle telecomunicazioni perché "valuti attentamente la serietà di acquisto della Telecom e di chi si propone a quale acquirente".
Nel centrosinistra spicca invece la posizione del leader dello Sdi Enrico Boselli, che chiede che il governo "lasci fare al mercato". Mentre il radicale Daniele Capezzone osserva semplicemente che quella che c’é ora "non è una situazione seria, in primo luogo per responsabilità della maggioranza, l’unica cosa vera è che stiamo cacciando gli operatori stranieri e questa è una grande sconfitta per il Paese".
La butta invece sull’ironia il ministro Guardasigilli Clemente Mastella. Se Mediaset entrasse nella proprietà di Telecom, ironizza il leader dell’Udeur: "sarebbe perfetto così Berlusconi va a fare il presidente di Telecom e la politica italiana si libera della sua presenza...".
«Quando lascerò io il posto? Lo decideranno gli elettori»
Berlusconi rilancia le «grandi intese»
Con Partito Democratico è possibile, perchè «le idee espresse da Fassino e Rutelli non sono in contrasto con la nostra filosofia» *
ROMA - Ci sono «sempre più inviti rivolti a noi, come quello esplicito oggi di Rutelli della mano tesa, proprio perchè a certi problemi si possono dare delle soluzioni che non si riuscirebbero a dare con questa sinistra estrema ancora molto ideologizzata». Lo ha detto Silvio Berlusconi dopo il congresso Dl. Questi inviti secondo il leader di Forza Italia tradiscono «una necessità politica, perchè le due sinistre non riescono ad andare d’accordo su temi importanti, essendoci ancora una sinistra antagonista che è stata, come dicono le parole degli stessi protagonisti, abbandonata dalla stessa sinistra riformista che è molto più concreta e vicina agli interessi della gente e del mercato».
«DOBBIAMO COLLABORARE» - Non una nuova maggioranza ma, di nuovo, l’invito ai partiti del nascente Pd di convenire a «grandi intese» almeno con parte della Cdl, operazione che il Cavaliere non pronuncia esplicitamente, ma alla quale allude ricordando «l’offerta che io feci il giorno dopo le elezioni», quando «realisticamente avevo detto: dobbiamo collaborare».
CON PD «INTESA POSSIBILE» - Con il Partito democratico, quindi, per l’ex premier l’intesa è possibile, anche perchè «tutte le idee, ieri di Fassino oggi di Rutelli, appartengono all’ideologia liberale» e in questo «non c’è nulla che possa essere in contrasto con la nostra filosofia». Del resto l’ex-Premier aveva avuto parole di elogio per la relazione di Rutelli al congresso Dl, giudicandola: «buona, molto vivace apprezzata da tutti con qualche punto di continuità verso di noi: Rutelli ha scoperto il piano casa che faceva parte del nostro programma». «PRODI DELUDENTE» - Il Cavaliere, che dal palco Rutelli ha definito di «temperamento battagliero», ha anche commentato l’annuncio di Prodi di volersi ritirare dalla scena alla fine della legislatura per lasciare spazio a nuovi leader. «Francamente Prodi ci ha deluso - ha detto con una battuta l’ex premier -, speravo lasciasse prima...». E a chi gli chiedeva se anche lui intenda per caso lasciare spazio ad altri leader nella Cdl ha poi risposto: «Guardate che sono gli elettori che scelgono i leader io che sono democratico ne sono convinto».
FINI: BENE SILVIO - Nella platea di Cinecittà era presente anche il leader di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini: «Ho apprezzato Berlusconi - ha spiegato il presidente di An -, quando ha detto che quello che accade nel centrosinistra ha effetti di sistema nella Cdl. Chi parla è un bipolarista convinto, starà a noi valutare le cose più opportune da fare per prendere il bipolarismo irreversibile e per fare un’aggregazione più partecipata che calata dall’alto».
* Corriere della Sera, 20 aprile 2007
LA NOTA
di MASSIMO FRANCO (Corriere della Sera, 21 aprile 2007)
La rivendicazione è puntuta, e vagamente autolesionistica. Soprattutto, contraddice la voglia di mescolare le identità che il Partito democratico dovrebbe stimolare. Lo scontro fra Ds e Margherita sulla collocazione internazionale del Pd non si ferma neppure alla vigilia della fusione. E promette di esasperare una questione sulla quale né Piero Fassino né Francesco Rutelli vogliono cedere. Ha l’aria di una diatriba del passato che si allunga sul futuro. E non sono bastati a svelenirla i consigli di Romano Prodi, Giuliano Amato, Walter Veltroni. L’adesione al Pse, invocata da Fassino, sta diventando una questione dirimente.
È possibile che sia il riflesso difensivo di apparati sul punto di sciogliersi; oppure, un braccio di ferro preventivo per determinare un’identità tuttora nebulosa. Ma la politica estera si conferma una paradossale maledizione per i soci fondatori della nuova formazione. E non si litiga sulla missione in Afghanistan o sul Libano: l’irrigidimento scatta sulla collocazione nel Parlamento di Bruxelles. Si oppone «pantheon» a «pantheon». Ci si schiera nelle elezioni francesi: Fassino per la candidata socialista Ségolène Royal, Rutelli per il centrista François Bayrou.
Di certo non aiuta il discorso ai Ds del presidente del Pse, Poul Rasmussen, per il quale «la collocazione naturale» del Pd sarebbe nel suo gruppo. È il tono generale, però, a dare l’idea di una tensione esagerata. Prodi ha rispolverato «l’Ulivo mondiale». E il sindaco di Roma, Veltroni, leader virtuale del futuro, ha spiegato che «il problema non può essere affrontato sul piano degli orgogli reciproci». La sensazione, invece, è che un tema trascinatosi per mesi, riemerga irrisolto al momento di decidere: anche se come sintomo.
È la spia di paure e diffidenze residue, tipiche dei momenti in cui le vecchie identità sono condannate a morte: soprattutto quando la prospettiva è tutt’altro che chiara ed esaltante. In assenza di temi concreti, la tensione scivola su questioni certamente serie, ma astratte nel momento in cui il nuovo partito non è ancora nato. Il modo in cui Silvio Berlusconi finge di abbracciare il Pd; i suoi complimenti a Rutelli; l’incursione provocatoria per riproporre le «larghe intese» dopo che il capo della Margherita ha parlato di «mano tesa»: sono tutti tentativi di alimentare i sospetti nell’Unione.
Berlusconi martella sull’impopolarità di Prodi, perché cerca disperatamente di accorciare la vita del governo. Eppure, non è un’operazione facile. Nonostante i numeri avari e le critiche che piovono sul premier, alternative non se ne vedono. Non solo. Confermando che a fine legislatura getterà la spugna, Prodi chiede sostegno all’Unione, garantendo in cambio la successione. L’applauso acidulo che ha riscosso dalla Margherita all’annuncio che nel 2011 si farà da parte, misura una certa freddezza nei confronti di palazzo Chigi. Ma i destini di Prodi e degli alleati rimangono intrecciati: sebbene non sia chiaro fino a quando. La diatriba è un sintomo delle tensioni tra la Quercia e la Margherita
Conflitto d’interessi, il 14 maggio in aula la nuova legge
Da Bertinotti un calendario rigido e Forza Italia protesta: "Tempi ridicoli" *
ROMA - Il ministro Di Pietro fa una battuta ecclesiale: «Berlusconi», spiega, «deve decidere se essere prete oppure sacrestano, se fare il politico o l’imprenditore». Non sono parole causali. La questione del conflitto di interessi torna ai primi posti dell’agenda politica.
Dopo mesi di estenuante confronto nelle commissioni parlamentari, le nuove regole proposte dall’Unione arriveranno il 14 maggio all’esame dell’aula. Dario Franceschini, capogruppo dell’Ulivo, lascia capire che la vicenda Telecom, con il possibile ingresso di Fininvest in una cordata di compratori italiani, non permette altri rinvii. Franceschini vuole anche rassicurare forze minori dell’Unione come il Pdci preoccupate che Berlusconi accetti una riforma elettorale a patto di una ritirata del centrosinistra su conflitto d’interessi e legge tv. In questo scenario, Fausto Bertinotti, presidente della Camera, stringe i bulloni e fissa tempi certi per l’approvazione del testo sul conflitto: 10 ore potranno essere spese nella discussione generale ed altre 16 ore nell’esame dei singoli articoli. E’ un tempo abbastanza ampio, visto che le misure sulle intercettazioni hanno ricevuto solo 14 ore. Ma Elio Vito, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio, lo considera davvero troppo breve, anzi: «Ridicolo».
Bertinotti non gradisce, chiede a Vito di ritirare l’aggettivo e osserva che i tempi «sono ormai maturi per l’approdo in aula». Ma Forza Italia non arretra e avverte che alzerà alte barricate prima alla Camera e poi al Senato. Dice l’ex ministro La Loggia che l’Unione ha costruito un «testo illiberale, inquisitorio, lesivo degli interessi dei singoli e dei loro familiari, soprattutto concepito per colpire un solo uomo, Silvio Berlusconi». Larga parte dell’Udc è con Forza Italia. Spiega Maurizio Ronconi: «Il provvedimento non lascia scampo al Cavaliere, che dovrebbe cedere le sue aziende nel giro di poche settimane oppure affidarle ad un soggetto indipendente, a un "blind trust" che avrebbe pieni poteri, compreso quello della vendita».
* la Repubblica, 25 APRILE 2007
Fatti accertati. Misteri insoluti
di Marco Travaglio (l’Unità, 28 aprile 2007)
Naturalmente come si dice in questi casi, bisogna attendere le motivazioni della sentenza.Ma già dal dispositivo della II sezione della Corte d’appello di Milano nel processo Sme-Ariosto qualcosa si può arguire. DunqueSilvio Berlusconi «non ha commesso il fatto». O, meglio,non ci sono prove sufficienti che lo abbia commesso. Questo vuol dire infatti il comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale.
Il fatto però c’è, tant’è che gli altri imputati - gli avvocati Previti e Pacifico, e il giudice Squillante - furono condannati in primo e secondo grado per corruzione (semplice per i due legali, giudiziaria per l’ex magistrato), salvo poi salvarsi in corner grazie alla sentenza della Cassazione che l’anno scorso, smentendo se stessa, decise di spedire il processo a Perugia perché ricominciasse da capo. Anzi, non ricominciasse affatto perché, mentre le carte viaggiavano dal Palazzaccio verso Perugia, è scattata la prescrizione.
Qual è dunque il fatto? Il bonifico bancario di 434.404 dollari (500 milioni di lire tondi tondi) che il 5 marzo 1991 partì dal conto svizzero Ferrido della All Iberian (cassaforte estera di casa Fininvest, alimentata dalla Silvio Berlusconi Finanziaria) e in pochi minuti transitò sul conto svizzero Mercier di Previti e di lì al conto svizzero Rowena di Squillante. Un bonifico molto imbarazzante per Berlusconi, che di Squillante era amico (si telefonavano per gli auguri di Capodanno, Squillante lo inquisì e lo interrogò e poi lo prosciolse nel 1985 in un processo per antenne abusive, poi il Cavaliere tentò di nominarlo ministro della Giustizia e gli offrì pure un collegio sicuro al Senato). Tant’è che l’allora premier tentò di sbarazzarsi delle prove giunte per rogatoria dalla Svizzera (legge sulle rogatorie, 2001), poi del giudice Brambilla che lo stava giudicando in primo grado (trasferito nel gennaio 2002 dall’apposito ministro Castelli), poi direttamente del processo (lodo Maccanico-Schifani del 2003 sull’impunità per le alte cariche dello Stato). Fu tutto vano. Ottenuto lo stralcio che separava il suo processo da quello a carico dei coimputati, Berlusconi fu poi processato da un altro collegio e ritenuto colpevole per quel fatto. Ma si salvò per la prescrizione, grazie alla generosa concessione (per la settima volta) delle attenuanti generiche.
Contro quel grazioso omaggio, la Procura ricorse in appello affinché, spogliato delle attenuanti, il Cavaliere fosse condannato. A quel punto l’imputato, tramite il suo onorevole avvocato Pecorella, varò una legge che aboliva i processi d’appello dopo i proscioglimenti di primo grado: per esempio, il suo. La legge fu bocciata da Ciampi in quanto incostituzionale. Lui allora prorogò la legislatura per farla riapprovare tale e quale. Poi la Consulta la cancellò in quanto incostituzionale, e l’appello ripartì. Ieri s’è concluso con questa bella sentenza.
Insomma la condotta berlusconiana non somigliava proprio a quella di un imputato innocente. «Mai visto un innocente darsi tanto da fare per farla franca», commentò efficacemente Daniele Luttazzi. Tant’è che ieri, alla notizia dell’assoluzione (per quanto dubitativa e ancora soggetta a un possibile annullamento in Cassazione), il più sorpreso era proprio lui, il Cavaliere. Era innocente o quasi, ma non lo sapeva. O forse non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi.
In attesa delle motivazioni, che si annunciano avvincenti, la questione è molto semplice. Cesare Previti è stato definitivamente condannato a 6 anni per aver corrotto un giudice, Vittorio Metta, in cambio della sentenza Imi-Sir del 1990 (tra l’altro, la sentenza che lo dichiara pure interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, è del 4 maggio 2006, ma a un anno di distanza l’onorevole pregiudicato interdetto è ancora deputato a spese nostre).
Due mesi fa la Corte d’appello di Milano l’ha condannato a un altro anno e 8 mesi per aver corrotto lo stesso giudice Metta in cambio della sentenza che, due mesi dopo di quella Imi-Sir, toglieva la Mondadori a De Benedetti per regalarla a Berlusconi (che, processato come mandante di quella mazzetta, è uscito da quel processo grazie alle attenuanti generiche e alla conseguente prescrizione). Restava da definire il ruolo di Berlusconi in quel versamento estero su estero a Squillante, risalente a un mese dopo la sentenza Mondadori: marzo 1991. Tre tangenti giudiziarie in 5 mesi, tra la fine del 1990 e l’inizio del ’91. Se Previti, com’è irrevocabilmente accertato, pagò Metta per conto della famiglia Rovelli per vincere la causa (altrimenti persa) dell’Imi-Sir; se Previti pagò Metta per conto di Berlusconi per vincere la causa (altrimenti persa) del lodo Mondadori; ecco, se è vero tutto questo, per conto di chi Previti pagava Squillante? E perché Squillante, nel 1988, al termine della causa Sme vinta da Berlusconi e Barilla e persa da De Benedetti, ricevette 100 milioni estero su estero tramite Previti e Pacifico da Barilla, cioè dal socio di Berlusconi che non conosceva né Pacifico, né Previti, né Squillante? Questi erano i termini della questione che ieri i giudici dovevano risolvere. Hanno stabilito che, per i 100 milioni di Barilla a Squillante, «il fatto non sussiste»: sarà stato un omaggio a un giudice che stava particolarmente simpatico al re della pasta (che però non lo conosceva). Quanto ai 500 milioni della Fininvest a Squillante, Previti avrà fatto tutto da solo. Pur non essendo coinvolto personalmente in alcun processo (all’epoca, almeno), pagava il capo dell’ufficio Istruzione di Roma con soldi di Berlusconi, ma all’insaputa di Berlusconi, che non gli ha mai chiesto conto dei suoi quattrini (ma adesso lo farà, oh se lo farà: andrà da Previti, presso la comunità di recupero per tossicodipendenti dove sta scontando la pena, lo prenderà per il bavero e lo strapazzerà a dovere, per avergli causato tanti guai con la giustizia). O almeno non c’è la prova, nemmeno logica, che Berlusconi lo sapesse. Squillante, quando gli telefonava per gli auguri di Capodanno o negoziava il suo seggio al Senato, non gli parlò mai di quei generosi bonifici in Svizzera. Che so, per ringraziarlo. Invece niente, nemmeno una parola gentile. Che ingrato.
INTERVISTA
«Non siamo in un Paese normale. I magistrati? Li vorrei più coraggiosi»
di GERARDO D’AMBROSIO
MILANO - «Non siamo un paese normale». Gerardo D’Ambrosio, l’ex procuratore di Milano che dal 2006 è senatore dell’Ulivo, reagisce alla sentenza di ieri con parole analoghe, ma di opposto significato, rispetto ai commenti dei sostenitori di Silvio Berlusconi.
Tutta la Casa delle libertà tuona che l’assoluzione è la riprova dell’«uso politico della giustizia», del «vergognoso accanimento» dei magistrati di Milano.
«Vergognose sono le leggi ad personam che certi legislatori hanno approvato al solo fine di impedire i nostri processi, di evitare una sentenza quale che fosse. Se si può giudicare solo nel 2007 un fatto di corruzione commesso nel 1991 e scoperto nel 1995, lo si deve proprio a una norma ad hoc che è stata dichiarata incostituzionale! La legge sul falso in bilancio, la stessa che ha reso non più punibili le accuse più gravi all’imprenditore Berlusconi, perché nessuno lo ha mai processato per le sue idee politiche, quella è ancora in vigore. Per rimediare a errori veri o presunti, ci sono tre gradi di giudizio con mille garanzie. E’ il deformare le regole che crea un danno irrimediabile alla giustizia e alla credibilità del Parlamento».
Questa volta non sono i politici, ma i giudici d’appello di Milano a dire che Berlusconi è innocente.
«Le sentenze si rispettano sempre, ma si possono anche criticare. Prima delle motivazioni, non faccio commenti di merito. Dico solo che il dispositivo della sentenza mi sembra estremamente singolare. Parlo dei 434 mila dollari usciti dai conti della Fininvest, passati sul conto dell’avvocato Previti e finiti sul conto del giudice Squillante: neppure il presidente Castellano, in primo grado, se l’era sentita di assolvere Berlusconi. Il tribunale aveva concesso solo a lui le attenuanti che avevano fatto cadere il reato in prescrizione».
Ora invece il collegio del presidente Nese lo ha assolto «per non aver commesso il fatto» in base al «secondo comma» dell’articolo 530.
«Appunto, quindi la corruzione c’è stata. Anche questa sentenza dice che Previti ha corrotto Squillante, ma ritiene insufficiente la prova che Berlusconi sapesse che il suo avvocato pagava il capo dei gip di Roma... con i soldi della Fininvest! Mah... La procura generale aveva chiesto cinque anni di reclusione, è prevedibile che farà ricorso in Cassazione. Alla stessa Cassazione che ha reso definitive le condanne di Previti e del giudice Metta per la corruzione da mille miliardi di lire del caso Imi-Sir».
Alla stessa Cassazione che, proprio per questi 434.404 dollari, ha annullato le condanne inflitte in tribunale e confermate in appello per Previti e Squillante, ordinando di rifare a Perugia un processo ormai prescritto.
«Qualsiasi persone civile non può che restare profondamente amareggiata dall’andamento così tortuoso di un processo a un alto magistrato imputato di aver svenduto le proprie funzioni».
Ora che ha smesso la toga e non rischia più sanzioni, risponda con franchezza: dodici anni di attacchi hanno intimidito anche la magistratura? Lungo silenzio.
«Sono domande che si fanno tutti. Gli episodi ormai sono tanti e il dubbio s’insinua. Fare solo i processi alla criminalità comune è sicuramente più facile. Tra il ’92 e il ’94 siamo stati ingenui: pensavamo che ottenere 1408 condanne definitive per tangenti bastasse a dare un colpo decisivo alla corruzione. Invece quando abbiamo toccato interessi più forti, ci hanno cambiato le leggi. Contro questa criminalità superiore, in ogni periodo storico, ci vogliono magistrati eccezionalmente capaci, autorevoli e preparati. E anche più coraggiosi. Ora questa sentenza servirà a far credere che eravamo tutti toghe rosse compreso Davigo: Berlusconi lo ripete da 15 anni. Prima del Vajont, l’unica giornalista che denunciò la frana era bollata come comunista. Di me e Alessandrini lo dicevano già quando indagavamo sui terroristi di destra per la strage di piazza Fontana. Dopo 30 anni, la Cassazione ci ha dato ragione. Alla fine è la storia a giudicare la giustizia».
Paolo Biondani
*(Corriere della Sera, 28 aprile 2007)
Conflitto d’interessi: la legge
di Furio Colombo *
Rispondo a centinaia di e-mail che continuano ad arrivare nella mia posta elettronica e al giornale, e pubblico in questo editoriale la proposta di legge sul conflitto di interessi che ho depositato al Senato. Per ora reca solo la mia firma ma spero che altre, più autorevoli della mia, si aggiungeranno.
Come sapete un’altra legge è depositata alla Camera dalla maggioranza a cui appartengo e comincerà ad essere discussa in maggio.
Con la mia proposta di legge, profondamente diversa, spero di essere di aiuto sia perché penso di rappresentare, con gli intenti di questa legge, idee e sentimenti di coloro che ci hanno votato, sia perché, scrivendola, ho voluto evitare vuoti di memoria, e la inclinazione a pretendere che nei cinque anni del governo Berlusconi non sia successo niente, che a volte viene presentata come gesto necessario per riconoscerci tutti da una stessa parte.
Continuo a pensare che non siamo tutti da una stessa parte (altrimenti non esisterebbe la politica) e che visioni contrapposte e diverse siano i tratti essenziali della democrazia.
La visione espressa in questa legge considera pericolosa la commistione di vasti e potenti interessi privati di qualcuno con l’interesse pubblico di tutti. Il testo di legge che segue si propone di tracciare una netta linea di demarcazione che protegga il Paese dal grave pericolo che abbiamo già sperimentato.
* * *
Onorevoli colleghi, il problema del conflitto di interessi - ovvero di incompatibilità dei titolari di funzioni di governo che siano anche titolari di rilevanti attività aziendali - è lo scopo di questa proposta di legge. Con essa si vuole impedire la paralisi della normale vita politica di un paese che si verifica quando una persona, oltre che responsabile di attività di governo, è anche alla guida di rilevanti attività economiche. Questa proposta di legge tende a colmare due vuoti legislativi pericolosi e allarmanti. Il primo riguarda la portata e le dimensioni dell’attività privata che - facendo capo a una persona che svolge funzioni di governo - tende a creare il problema gravissimo di una sovrapposizione o aggancio fra responsabilità pubblica e interesse privato.
Il secondo vuoto riguarda l’attenzione scarsa o nulla finora prestata al delicatissimo settore imprenditoriale delle comunicazioni intese in tutte le possibili forme, modi e settori in cui tale attività si può svolgere, dalla Tv, alla radio, ai giornali, alla telefonia, all’informatica.
Il problema, in tutti e due i percorsi indicati, è materia così delicata e rilevante al fine di definire incompatibilità e separazione completa di responsabilità pubblica e interesse privato, che la sua regolamentazione non può essere rinviata ai criteri decisionali, che possono essere di volta diversi, di una autorità garante.
Nessuna autorità può essere messa in condizioni di decidere su un conflitto di interessi in assenza di una legge che stabilisca le modalità per risolverlo. Non è ragionevole chiamare qualcuno - per quanto autorevole - a decidere su un conflitto già in atto fra attività di governo e interessi privati. Infatti quando tale conflitto è insorto, si sono già stabilite le condizioni di pericolo per la legalità che possono rendere inagibile l’azione di una eventualità Autorità incaricata di risolvere il problema.
È persuasione di chi presenta questa proposta di legge che ogni aspetto della incompatibilità tra funzioni e interessi e ogni regola sul come identificare, impedire o fermare un conflitto di interessi debba essere definito e diventare legge della Repubblica prima che il conflitto insorga, così come avviene per ogni comportamento giudicato - da una comunità e dai suoi legislatori - pericoloso per la vita della repubblica e i rapporti fra i cittadini. Nel caso che stiamo discutendo, è in gioco la credibilità e rispettabilità di un governo e dei suoi membri, il rispetto per le norme e decisioni di quel governo, la certezza che in nessun caso e per nessuna ragione possa esservi dubbio sul completo disinteresse di ogni azione e decisione di governo, il costante rispetto di ogni norma vigente, l’armonia con i principi della carta costituzionale, prima fra tutte è la prescrizione, che è anche vincolo comune: «La legge è uguale per tutti».
Il conflitto di interessi in atto infrange, prima di tutto, tale fondamentale principio. Infatti attribuisce al titolare del conflitto la disponibilità di un doppio criterio decisionale: l’efficacia erga omnes di una determinata norma o decisione; ma anche la possibile convenienza privata di quella norma o decisione nell’ambito degli interessi personali di chi governa, se chi governa è titolare di conflitto. Ovvero è in grado di decidere sul proprio beneficio privato.
Questa legge indica le dimensioni, ovviamente cospicue, del tipo di interesse privato, finanziario, azionario, proprietario o manageriale cui si intende porre argine e stabilire impedimento.
L’esperienza, anche recente, insegna che esercitare funzioni di governo - mentre si rappresentano vasti interessi privati - è situazione in grado di travolgere l’autonomia di qualunque Autorità (per esempio attraverso insistenti ed efficaci campagne di intimidazione e delegittimazione mediatica, campagne facilmente orchestrabili con mezzi adeguati). La stessa esperienza dimostra la capacità di condizionare una assemblea legislativa (certo la parte di assemblea che sostiene il titolare di un vasto conflitto di interessi) sia attraverso il peso mediatico, sia attraverso la versatilità e varietà di interventi, premi e vantaggi in svariati settori e in luoghi diversi della vita pubblica e privata, in modo da rendere compatto il consenso ogni volta che esso riguardi una legge "ad personam".
Le leggi "ad personam", di cui è stata costellata la legislatura precedente, sono il capolavoro del conflitto di interessi, nel senso di manifestazione perfetta del danno nei confronti di un paese, delle sue leggi, dei suoi cittadini. Dimostrano che un potente titolare di conflitto di interessi tende a usare la condizione anomala esattamente nel senso per il quale tale condizione deve essere preventivamente proibita; ovvero, per il suo esclusivo, privato, personale interesse. E poiché, come si è visto e constatato di recente in Italia, è in grado di farlo usando l’obbedienza compatta di una maggioranza, si ha la dimostrazione che il conflitto di interessi - quando esiste in dimensioni abbastanza grandi - è in grado di rompere il patto fra lo stato e i cittadini, di relegare in posizione irrilevante il dettato della Costituzione e di usare un vasto consenso, creato dall’uso spregiudicato del conflitto di interessi, per favorire e sviluppare tutti i modi - che sono in sé l’opposto dell’interesse pubblico - in cui quel conflitto si può esprimere.
Ciò dimostra quanto sia arduo e irrealistico immaginare che una Autorità garante - che è parte delle istituzioni umiliate e vilipese dal conflitto - possa smantellare le difese di un potere pubblico-privato ormai insediato, mentre quel potere è già in grado di intimidire, disinformare e creare gogna per i propri avversari.
Questa proposta di legge indica dunque una definizione chiara, un intervento preventivo, e le norme che rendono impossibile l’instaurarsi di una condizione di conflitto in atto, nella persuasione - già provata da recente esperienza - che un conflitto in atto tende ad allargarsi e, con i frutti di convenienza illegale che ne ricava, è in grado di rendere vana ogni contestazione alla grave situazione di illegalità che il conflitto stesso produce.
L’impegno di questa proposta infatti non conta sul deterrente di multe sempre inefficaci, per quanto severe, verso le grandi ricchezze. Si propone invece di rendere impossibile l’instaurarsi, presso qualsiasi carica di governo, di una situazione di conflitto di interessi che è la peggiore infezione nella vita pubblica e nella moralità di una comunità e di un paese.
* l’Unità, Pubblicato il: 29.04.07, Modificato il: 29.04.07 alle ore 8.17
Il Cavaliere spara a zero: "Quelle norme sono un atto di killeraggio politico"
ma il Professore insiste: "E’ prevista nel programma di governo, la faremo"
Conflitto di interessi, Berlusconi attacca
Prodi: "E’ una legge tipicamente americana"
La replica del leader della Cdl: "Ma noi siamo in Italia e le cose funzionano in modo diverso"
L’ex premier: "Gentiluomini anche a sinistra. Questo ddl non passerà" *
TRAPANI - "E’ un provvedimento di killeraggio nei confronti degli oppositori". Così Berlusconi, a Trapani in visita elettorale, commenta le parole del premier Romano Prodi che questa mattina a Radio Anch’io ha detto che "sul conflitto di interessi la maggioranza andrà avanti". "Questo ddl - continua Berlusconi - sarebbe l’ulteriore dimostrazione della volontà di eliminare il più pericoloso concorrente, cioè il leader dell’opposizione. Quindi credo che farà molto male alla sinistra questa volontà se attuata sino in fondo perché gli italiani si renderanno conto di come questa sinistra vuole agire per eliminare gli avversari politici".
In serata il Cavaliere torna sull’argomento e aggiunge: "Penso però che alla fine questo ddl non passerà. I gentiluomini esistono anche a sinistra".
"Hanno tentato - prosegue il Cavaliere - con la via giudiziaria e finora gli è andata male. Ci ritentano con questo provvedimento che impedisce a chiunque abbia un’impresa, e abbia perciò fatto bene nella vita, anche dando lavoro agli altri, di dedicarsi alla politica e di dare il suo apporto al governo del Paese".
Ma Prodi ricorda che il conflitto di interessi è una legge tipicamente americana. "Era un impegno del governo - ha ricordato il premier - è una legge più blanda che nelle altre democrazie e io credo che sia giusto che si vada avanti".
Quanto alla questione della ineleggibilità, Prodi ricorda che "c’è il blind trust". "Uno mica deve diventare San Francesco... - ironizza il premier - Il blind trust non è una roba strana, è tipicamente americano. E’ americano, americano, americano. E cioè, tu puoi rimanere ricco, ma non puoi amministrare direttamente la tua ricchezza quando hai potere politico, altrimenti la democrazia si indebolisce".
Ma anche sul blind trust Berlusconi replica: "Quello che loro mettono come soglia al di là della quale uno dovrebbe prendere tutto e affidarsi ad un signore che possa fare delle sue sostanze ciò che vuole è una cosa che non sta nè in cielo nè in terra". Al riferimento a come funziona in America, Berlusconi obietta: "Ma noi non siamo in America, siamo in Italia e le cose funzionano in modo diverso".
Le reazioni. Nettamente spaccati di due poli. Con il centrodestra che parla di tentativo di "distruggere" Berlusconi e il centrosinistra che richiama il rispetto delle regole. "Le parole di Berlusconi sono fuori misura - dice il segretario dei Ds Piero Fassino - Noi vogliamo fare una legge sul conflitto di interesse e non contro qualcuno". Ma l’opposizione non ci sta e attacca: "Il conflitto di interessi è un pretesto della sinistra per mettere fuori gioco il capo dell’ opposizione" scandisce il segretario della Democrazia cristiana, Gianfranco Rotondi. "E’ la fine della stagione del dialogo" tuona Sergio De Gregorio, eletto con Di Pietro e ora schierato con la Cdl. E se al comunista Olivero Diliberto il disegno di legge sempre persino "troppo blando", il verde Angelo Bonelli afferma sibillino: "Oggi la normativa sul conflitto d’interessi che il Parlamento approverà, varrà per il futuro, che certamente non vedrà Berlusconi leader dell’opposizione".
* la Repubblica, 4 maggio 2007
Eterni ritorni in parlamento
di Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 12 maggio 2007)
È dal 1994 che la disciplina del conflitto di interessi passa e ripassa in Parlamento sempre ripetendo gli stessi argomenti, e per lo più le stesse stupidaggini. In materia la dose di stupidaggini è particolarmente elevata perché questa è la battaglia che più preme a Berlusconi. Così qualsiasi argomento, non importa quanto sballato, viene gettato nella mischia. E tanto meglio se fa soltanto confusione.
L’esito è stato che il governo di centrosinistra non arrivò a nulla, mentre il successivo governo Berlusconi ha varato una legge Frattini che, vedi caso, rendeva praticamente intoccabile Sua Emittenza. Era pertanto inevitabile che i beffati dalla legge Frattini riaprissero il problema. Ed eccoci qua. Il disegno di legge che propone una nuova disciplina intesa a disciplinare davvero il conflitto di interessi è stata varata in Commissione ieri e andrà in Aula, alla Camera, il 15 maggio. Invece di commentare un testo ancora incerto e modificabile sarà più utile ricordare quali sono i nodi fondamentali del dibattito.
Il primo è se il blind trust, l’affidamento cieco del patrimonio a un gestore indipendente, risolva il problema. La risposta è indubbia: per i pesci piccoli e soprattutto per un portafoglio differenziato di titoli, sì; ma per le balene e i beni visibili, no. Persino Frattini lo riconosce: un affidamento «cieco» presuppone un patrimonio di titoli che il gestore può cambiare, e così rendere invisibili e ignoti al proprietario; ma non può accecare beni visibili che restino tali. Eppure, e stranamente, il progetto continua a puntare sul blind trust. A quanto pare i nostri legislatori non solo non hanno tempo di leggere libri e giornali, ma nemmeno di leggersi tra di loro.
Secondo nodo: se il conflitto di interessi sia meglio impedito dall’ineleggibilità o dall’incompatibilità. Stranamente l’ultima versione di questo dibattito è che la sanzione più grave, o più risolutiva, sia la non-eleggibilità. Sarebbe così se si precisasse ineleggibilità «a cariche di governo». Ma se non si precisa così, allora la privazione dell’elettorato passivo lascia il tempo che trova. Nel nostro ordinamento non occorre che un presidente del Consiglio o un ministro siano parlamentari. Vedi il caso del primo governo Amato e del governo Ciampi. Questa precisazione elementare è stata fatta centinaia di volte. Pertanto dovrebbe essere chiaro che il problema è di incompatibilità. Ma da noi si direbbe che non c’è mai nulla di chiaro su nulla.
Terzo nodo: se l’esempio da seguire sia il modello Usa, e quale sia questo modello. A questo proposito la tesi dei Berlusconi boys, Frattini in testa, è che nemmeno negli Stati Uniti nessuno è mai obbligato a vendere (se dichiarato in conflitto di interessi). Ma non è così. È vero che i vari ethics board americani incaricati di accertare i conflitti di interesse non impongono nessuna vendita, ma impongono che l’interessato faccia una scelta tra patrimonio e carica politica. Pertanto se un Berlusconcino americano sceglie la politica, allora deve vendere. Se non lo fa, allora è costretto a dimettersi.
Dicevo che il dibattito sul conflitto di interessi è monotono. Mi correggo, una novità c’è: è l’introduzione del mammismo (o forse dovrei dire del «babbismo»). L’altro giorno Berlusconi ha detto: «Vorrebbero che affidassi il mio patrimonio a uno sconosciuto. Nessuno lo può chiedere a una persona che come me ha cinque figli». Poverini. Quasi quasi mi commuovo anch’io.
L’ANALISI
La rete di dossier a uso del Palazzo
di GIUSEPPE D’AVANZO *
LA LINEA di difesa apprestata da Pio Pompa, Nicolò Pollari e, incautamente, sposata da Silvio Berlusconi è fragile. Si dice - lo dice Pollari nel "messaggio alla nazione" ospitato dal Tg5; lo sottoscrive Pio Pompa in una dichiarazione spontanea al pubblico ministero; lo conferma Berlusconi in una nota - le informazioni raccolte nell’ufficio riservato di via Nazionale non sono altro che una collazione di notizie reperibili da chiunque nei giornali e in Internet (Pollari).
Null’altro che "materiale elaborato sulla base di notizie tratte da fonti aperte" (Pompa). "Un tipico monitoraggio delle cosiddette "fonti aperte" che non ha in sé all’evidenza, alcunché di illecito" (Berlusconi). Il sentiero è molto sdrucciolevole. È una linea di difesa destinata a sgretolarsi contro i fatti. L’archivio, contrariamente a quanto si vuol far credere, raccoglie informative di "fonti" infiltrate dal Sismi - contro la legge - negli uffici giudiziari, nelle redazioni, nelle burocrazie dello Stato, nelle Forze Armate. Altro che "fonti aperte". Dimostrarlo è alquanto agevole. Come è comodo verificare se i dossier calunniosi raccolti da Pompa e Pollari precedono (e non seguono) le notizie di stampa. Tre magistrati italiani, giudicati "pericolosi" dal governo, vincono un concorso per lavorare nell’organismo europeo antifrode (Olaf). Un dossier raccoglie le loro storie, passa al setaccio famiglie, rete di relazioni, le loro opinioni e scritti. Lo spoglio di queste informazioni diventa materia per una campagna di aggressione giornalistica che consente all’esecutivo di non nominarli nel loro incarico.
È questo il metodo messo a punto da Pollari, deciso a servire il suo leader politico del momento. Tracce di questo programma di discredito - dossier e campagna di stampa di cui l’esecutivo si avvale per proteggere se stesso o eliminare coloro che crede "nemici" - si possono individuare senza affanno nell’archivio di Pompa e Pollari. Qualche "caso" è limpido e clamoroso. Nell’ufficio riservato del Sismi in via Nazionale si raccolgono fin dall’estate del 2001 (Pollari, vicedirettore del Cesis, si prepara a diventare direttore del Sismi) notizie e "appunti" (falsi) su una sorta di "internazionale delle toghe rosse", che si riunisce segretamente e coordina le sue iniziative per delegittimare, inquisire, arrestare Silvio Berlusconi. Ne fanno parte i pubblici ministeri di Milano, un paio di procuratori spagnoli, ex-magistrati diventati parlamentari europei. Questa fanfaluca prende corpo nei media qualche mese dopo, alla fine del 2001. Il momento non è irrilevante. In novembre Cesare Previti ricusa, per la prima volta, i giudici di Milano.
Qualche settimana dopo, Lino Jannuzzi, columnist di Panorama, ripreso con gran risalto dal Giornale, svela che "la settimana scorsa in un albergo di Lugano sono stati visti Elena Paciotti, parlamentare europeo dei Democratici di sinistra; Ilda Boccassini, il pubblico ministero che sostiene l’accusa contro Silvio Berlusconi e Cesare Previti; Carla Del Ponte, la procuratrice europea che sta processando Milosevic, e Carlos Castresana, procuratore anticorruzione di Madrid". "È scontato - riferisce Jannuzzi - che i quattro di Lugano "collaborano" per trovare il modo di arrestare Berlusconi".
È un falso. Quella riunione non c’è mai stata. La Boccassini non ha mai incontrato o conosciuto Castresana; non vede la Paciotti da anni; non incontra la Del Ponte da sette mesi. La Paciotti non va a Lugano da venti anni; ha incontrato soltanto una volta, e anni fa, Carla Del Ponte; non conosce Carlo Castresana. La Del Ponte, in quella settimana, non era a Lugano, Svizzera, ma ad Arusha, Tanzania, sede del Tribunale internazionale. Castresana "non ha mai partecipato a nessuna riunione di questo genere né a Lugano né altrove, né la scorsa settimana né mai".
Tuttavia la "bufala" costruita dal Sismi, veicolata dal settimanale della Mondadori, casa editrice del presidente del Consiglio, con la collaborazione del Giornale, quotidiano del fratello del presidente del Consiglio, con un articolo firmato da Lino Jannuzzi, senatore di Forza Italia, partito del presidente del Consiglio, apre la strada a nuove richieste di ricusazione e mostra la necessità della legge sulle rogatorie che vuole eliminare le fonti di prova raccolte all’estero contro Berlusconi e Previti. Altro che "fonti aperte".
Nel lavoro segreto e illegittimo dell’intelligence militare nascono e si coltivano le muffe che avvelenano poi il dibattito pubblico. Creano il clima "giusto" per iniziative legislative che poi il governo proporrà al Parlamento e la maggioranza approverà. Naturalmente questo non vuol dire che sia stato Berlusconi a ordinare al Sismi quel "lavoro sporco". Perché escludere che fosse in buona fede? Perché escludere che Pollari confezionasse dossier di notizie fasulle in grado di dare concretezza ai fantasmi e alle paure dell’allora capo del governo? Per il momento si può dire soltanto che Berlusconi si avvantaggia del lavoro illegittimo del Sismi.
Si comprende dunque perché oggi negando ogni responsabilità per "schedature e monitoraggi" abusivi, l’ex-presidente del Consiglio difenda la correttezza di Pollari. La sua sortita appare una risposta diretta alla richiesta di una commissione parlamentare d’inchiesta avanzata dal ministro della Giustizia. Clemente Mastella - non lo ha mai negato - è un buon amico di Pollari. I maligni sostengono che, dietro la richiesta del ministro, lo staff di Silvio Berlusconi abbia intravisto un’iniziativa minacciosa di Nicolò Pollari, intenzionato a non finire da solo nel tritacarne che lo attende (l’avvocato di Pollari, che è anche consigliere personale di Mastella, si è detto subito entusiasta della commissione d’inchiesta). E’ un buon motivo per prendere la parola; rassicurare il "capo delle spie" nei guai; escludere ogni personale responsabilità; chiarire addirittura che non c’è "alcunché di illecito" di cui sentirsi responsabili.
Quali che siano le ragioni che abbiano convinto Berlusconi a farsi avanti, e nonostante il via libera di molti (da D’Alema a Di Pietro), la commissione d’inchiesta appare oggi più un’arma brandita contro il sistema politico (o meglio contro quei segmenti di sistema politico che hanno intrattenuto rapporti non convenzionali con il Sismi di Pollari), che non lo strumento necessario per accertare fatti e responsabilità. Le commissioni parlamentari d’inchiesta, da Telekom Serbjia a Mitrokhin, sono state l’occasione per seppellire la verità, inquinare le storie, lanciarsi in operazioni di discredito degli avversari politici. Con l’inevitabile protagonismo che avrebbero nei lavori della nuova commissione gli uomini e gli archivi di un Nicolò Pollari con l’acqua alla gola (imputato a Milano e indagato a Roma, rischia condanne per una decina di anni), un mare di fango, di dossier fasulli, di "appunti" indecenti sommergerebbe il Parlamento allontanandolo da ogni possibilità di fare luce.
Le "carte" (vere, false) le distribuirebbero gli spioni e la politica sarebbe soltanto prigioniera del gioco. Più lineare, coerente e protetto appare oggi uno schema di lavoro che affidi l’accertamento delle responsabilità penali alla magistratura e la verifica delle responsabilità istituzionali e politiche alla commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). L’una e l’altra si potrebbero avvantaggiare della collaborazione del Sismi di Bruno Franciforte che, convocato dal ministro della Difesa, è stato invitato a "mettere a sua disposizione tutti gli elementi in possesso del Sismi". È questa la strada maestra per venire a capo dei giochi storti. Magistratura. Un ristretto comitato di controllo parlamentare regolato da norme di riservatezza. La collaborazione del governo e di un Sismi rinnovato che vuole cambiare finalmente aria alle stanze.
* la Repubblica, 7 luglio 2007
Pollari vorrebbe "chiarire" ma può dire la verità al processo di Milano, alla procura di Roma, al Copaco
I parlamentari della commissione d’inchiesta sarebbero alla mercè delle versioni di comodo
La Grande Spia tenta l’ultimo ricatto
Lo scontro esce dai "sotterranei"
di GIUSEPPE D’AVANZO *
ROMA - Nicolò Pollari, appena ieri lo spione più amato dalla politica italiana, si dice "pronto a raccontare i misteri d’Italia dagli anni Ottanta ad oggi, nonostante l’atmosfera di regime". Non si accontenta delle stanze chiuse della commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). Sono troppo protette, dice, e i commissari vincolati alla riservatezza per quel che ascoltano e accertano. Insomma, da quelle stanze lo spione non può parlare "ai cittadini", come si è messo in testa di fare.
Manco fosse un caudillo e non un funzionario dello Stato che, potentissimo agente segreto, ha lavorato nel "regime" e per "il regime". Curioso per uno spione, la segretezza è oggi un deficit per Pollari. Egli vuole che si sappia che cosa svela e insinua e manipola (è quel che solitamente gli riesce meglio). Attraverso un bizzarro "portavoce" (il senatore Sergio De Gregorio, che fa lo stesso mestiere per il generale Roberto Speciale) chiede allora la platea più visibile e sensibile, una illuminatissima commissione d’inchiesta parlamentare.
Lo spione sa che ogni iniziativa politica, se agitata nello spazio mediale e con la voce dei media, può fare a meno di autenticità e fondatezza (basta ripensare alle commissioni Telekom Srbija e Mitrokhin). Alle prese di venti deputati e venti senatori che, si possono immaginare, inesperti dei metodi e delle strategie di un’intelligence così controversa, e addirittura non consapevoli della cronologia degli avvenimenti, Pollari avrebbe l’opportunità in prima battuta di scrivere a mano libera il copione. Di graduare, secondo necessità, il potere di pressione e di condizionamento che si è assicurato nel tempo intrattenendo rapporti non convenzionali con entrambi gli schieramenti politici.
Che domande potrebbero fargli i quaranta parlamentari? Dovrebbero soltanto ascoltare la "sua" verità (a Pollari non piace avere contraddittori), le sue mezze verità e mezze menzogne e, in attesa di definire la fondatezza del suo racconto, un caos fangoso schiaccerebbe ogni possibilità di fare luce. E’ la condizione che, per il momento, sconsiglia la commissione d’inchiesta, strumento che offre molte opportunità a chi deve spiegare che cosa ha combinato e molte poche a chi deve accertarlo.
Appena l’altro giorno si diceva che il gioco sarebbe stato nelle mani degli spioni e non del Parlamento. E tuttavia chi poteva attendersi che le minacciose intenzioni di Pollari sarebbero venute allo scoperto, con tanta fretta, nell’allusiva forma del ricatto? L’iniziativa dell’amatissimo spione non è altro. E’ un chiassoso ricatto che ha il pregio, per così dire, di rendere chiara e concreta qualche circostanza, anche a chi per convenienza o spensieratezza o arroganza finora l’ha negata.
L’"agglomerato oscuro", legale e clandestino, nato nella connessione abusiva dello spionaggio militare (Sismi) con diverse branche dell’investigazione della Guardia di Finanza (soprattutto l’intelligence business) in raccordo con la Security di grandi aziende come Telecom e il sostegno di agenzie d’investigazione private che lavorano in outsourcing, si è "autonomizzato". Lavora per sé, secondo un proprio autoreferenziale interesse e non più, come nel passato, al servizio di questo o quell’utile politico, di questa o quella consorteria politica. La scandalosa deformità s’era già avvistata.
Si immaginava però che il ritorno sul "mercato della politica" dell’"agglomerato" con la sua massa critica di potenziali ricatti si sarebbe consumato, come di consueto, in quei sotterranei dove le fragili "power élite" italiane si proteggono, si rafforzano, si difendono, si accordano. L’eterogenesi dei fini ha rotto lo schema. Lo scontro Visco/Speciale ha costretto il governo di centro-sinistra a dubitare del patto di non-aggressione tacitamente sottoscritto con il network spionistico.
Il Consiglio superiore della magistratura, con il documento approvato con discrezione dal capo dello Stato, ha spinto il confine ancora più in là mettendo sotto gli occhi della società politica una minaccia per un democrazia ben regolata. Il ceto politico non ha potuto lasciar cadere, come d’abitudine, la questione e - pur nella diversità degli strumenti da usare - è stato costretto a impegnarsi a fare verità e chiarezza. Pollari, come ieri il fido Roberto Speciale, ha cominciato a vedere davanti a sé un tritacarne e la catastrofe.
Se Speciale ha pensato di salvarsi sollevando un’inchiesta giudiziaria e quindi "giudiziarizzando" il conflitto con il governo, Pollari è stato costretto a venire allo scoperto abbandonando il "sotterraneo" dove si trova più a suo agio. Imputato a Milano e indagato a Roma, è stato costretto a "politicizzare" la sua avventura e il suo destino. Sollecita così, per i canali politici che ancora gli restano, la nascita di una commissione d’inchiesta che gli permette o di far saltare il tavolo o di ridurre al silenzio i suoi critici di oggi (e magari amici di ieri).
Ora è evidente che il ricatto dello spione non può essere accettato. Deve essere accettata la sua disponibilità a testimoniare. Nicolò Pollari dica quel che sa, ma non gli sia consentito di farlo a ruota libera, senza alcuna regola, in un rapporto diretto con l’emotività dell’opinione pubblica, lontano da una pratica che sappia accertare fatti e responsabilità prima di giungere a un qualsiasi esito. Ci sono tre sedi in cui Pollari può liberare la sua ansia di verità (si fa per dire). Il Palazzo di Giustizia di Milano, dove è imputato per il sequestro di un cittadino egiziano. La procura di Roma che lo indaga per l’ufficio di disinformazione e dossieraggio di via Nazionale.
Dinanzi all’autorità giudiziaria Pollari (come chiede) può liberarsi del segreto di Stato senza alcuna autorizzazione governativa, perché la Costituzione privilegia il diritto di difesa dell’imputato rispetto al segreto di Stato. Pollari può farlo dunque da subito. Lo faccia. C’è una terza sede, politica, istituzionale. E’ il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Chieda di essere ascoltato. Non c’è dubbio che lo ascolteranno di buon grado e con i tempi adeguati. In quel contesto, e con le opportune norme di riservatezza, le sue parole possono essere tenute nel giusto conto, analizzate, verificate.
Il Copaco ha strumenti d’indagine limitati? Non ci vuole molto per rafforzarli (se il Parlamento vuole), ma per intanto il comitato ha competenza e la memoria (si vedrà se la voglia) per discernere, nel racconto di Pollari, il grano da loglio anche con il contributo della documentazione che saprà offrire l’ammiraglio Bruno Franciforte, oggi a capo del Sismi. Sempre che Pollari non si sia portato dietro l’archivio. Addirittura dagli anni Ottanta ad oggi.
* la Repubblica, 9 luglio 2007
Fede fa sequestrare il blog di Piero Ricca, il contestatore di Berlusconi*
"Cari amici, non posso aggiornare il blog". Con una e-mail Piero Ricca, l’uomo passato alla storia per aver avuto il coraggio di dire a Berlusconi: «Buffone, fatti processare», annuncia che il suo sito è stato posto sotto sequestro preventivo. Due agenti della Finanza di Roma si sono presentati a casa sua per notificare l’atto che segue una querela per diffamazione presentata da Emilio Fede. Il direttore del Tg4 era stato contestato da Ricca al circolo della stampa di Milano, in un filmato visibile su "Youtube". Nel video Ricca è appostato fuori dal circolo in attesa di Fede e lo apostrofa così: «Mi hai sputato addosso Emilio, mi hai sputato addosso dall’inizio». Fede si ferma e, come il suo datore di lavoro Berlusconi, chiede alle forze dell’ordine presenti di identificare l’uomo.
Ricca a quel punto reagisce e continua a prendere in giro Fede e il suo telegiornale. «Meteorine e un po’ di Viagra».
«Naturalmente farò immediata richiesta di dissequestro - annuncia nella mail Ricca - . Con Fede ce la vedremo in tribunale, magari davanti a uno dei magistrati diffamati e spiati negli anni del governo del suo datore di lavoro. Nessuno riuscirà a sequestrare la libertà di espressione». Ricca ha fondato l’associazione "Qui Milano Libera" mentre il suo blog pieroricca.org è molto seguito. Dopo l’episodio del 5 maggio 2003 al palazzo di giustizia di Milano, Berlusconi sporse denuncia, ma Ricca fu assolto dall’accusa di ingiurie.
Da sottolineare il fatto che il sito sia stato sequestrato per decisione del pubblico ministero, senza necessità di un’ordinanza del Tribunale così come previsto dalla legislazione sulla stampa.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.07.07, Modificato il: 10.07.07 alle ore 19.33