Teologi italiani, riprendete la parola, senza paura e senza reticenze. Appello di preti e religiosi
di Luca Kocci (“Adista”, n. 1, 7 gennaio 2012)
Il “dio denaro” governa il mondo, la guerra è tornata ad essere «continuazione della politica», i cambiamenti climatici sconvolgono il pianeta, i poveri aumentano, eppure i teologi tacciono, forse perché sono convinti che la teologia viva fuori dal mondo e non debba avere rapporti con la storia.
Ma non è così, anzi è compito della teologia e dei teologi «fare sogni» incarnati nella realtà e «diventare profeti» nel nostro tempo. Lo dicono, con forza e passione, in una “lettera aperta” a tutti i teologi e le teologhe italiane, alcuni parroci, preti e religiosi:
Alessandro Santoro (prete della Comunità delle Piagge di Firenze), la teologa domenicana Antonietta Potente, Andrea Bigalli (prete di S. Andrea in Percussina, Firenze), Pasquale Gentili (parroco di Sorrivoli, Cesena), Benito Fusco (frate dei Servi di Maria), Pier Luigi Di Piazza del Centro Balducci di Zugliano (Udine) e Paolo Tofani (parroco di Agliana, Pistoia).
Chiedono loro di riprendere la parola e li invitano il prossimo 20 gennaio (dalle 17.30) alla Comunità delle Piagge di Firenze, per un «incontro aperto» su tali questioni. Occasione forse unica - e comunque la prima da diversi anni a questa parte - per rompere il silenzio, per riscoprire la «Bibbia e il giornale», come affermava il teologo evangelico Karl Barth («È necessario che tra la Bibbia e il giornale, come tra due poli di un arco elettrico, comincino ad accendersi lampi di luce per rischiarare la terra») o la lezione della Teologia della liberazione capace di coniugare Parola di Dio e realtà sociale di oppressione.
Di seguito Il testo integrale della lettera.
«Dove stai tu quando si soffrono cambiamenti climatici e cambiamenti di umore?
Dove stai tu mentre il nostro pianeta va al collasso e le multinazionali e le banche, vendute al dio profitto e al dio denaro, governano il mondo?
Dove stai tu quando si deve decidere se intervenire per sostenere un intervento armato della Nato nella terra degli altri?
Dove stai tu quando si riducono tutte le spese per il sociale, la sanità e la scuola, mentre continuano ad aumentare i bilanci della difesa e si spendono cifre folli per le armi?
Dove stai tu quando la gente dei Sud del mondo si sospinge fino alle spiagge di Lampedusa e viene ricacciata indietro o chiusa nei Cie, colpevoli soltanto di immigrazione?
Dove stai tu quando qualcuno dice che l’ex primo ministro è meglio che un politico dichiarato gay, perché il primo è “secondo natura”?
Dove stai tu quando il bilancio familiare è insufficiente e si vive una precarietà che riduce a brandelli sogni e progetti?
Dove stai tu quando gli indignados scendono in piazza o fanno rete virtuale su internet?
E ancora... perché accettiamo solamente che qualcuno tenga le chiavi del Regno e decida chi farci entrare? Forse tu ci sei? E se ci sei, ci sei clandestinamente perché la tua teologia non appartiene a questi ambiti?
Quando il profeta Gioele (3,1-2) dice che tutti diventeranno profeti e gli anziani faranno sogni e i giovani avranno visioni, a chi si rivolge? Forse non parla a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo? E allora, se fare sogni e interpretarli e diventare profeti è proprio della teologia, non è forse vero che tutti i credenti sono teologi? E perché non glielo diciamo più?».
Alessandro Santoro (prete della Comunità delle Piagge di Firenze),
Antonietta Potente (teologa domenicana),
Andrea Bigalli (prete di S. Andrea in Percussina, Firenze),
Pasquale Gentili (parroco di Sorrivoli, Cesena),
Benito Fusco (frate dei Servi di Maria),
Pier Luigi Di Piazza del Centro Balducci di Zugliano (Udine),
Paolo Tofani (parroco di Agliana, Pistoia)
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST", 2006). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia (...) Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo (...)
La Chiesa non «collusa» si ribella
di Luca Kocci
in “il manifesto” del 26 febbraio 2012
La Chiesa è spesso alleata del potere, invece dovrebbe schierarsi sempre con gli ultimi e con i senza potere. Lo chiedono in una «Lettera aperta alla Chiesa italiana» - rilanciata ieri dall’agenzia di informazioni Adista - 7 parroci e religiosi, fra cui don Alessandro Santoro della Comunità delle Piagge di Firenze e la teologa domenicana Antonietta Potente, insieme ad oltre 250 cattolici che l’hanno sottoscritta. Il malessere e l’insofferenza verso le strutture gerarchiche e i comportamenti di un’istituzione ecclesiastica che sembra assai distante dal Vangelo sono evidenti: «L’esempio che abbiamo dalla Chiesa ufficiale è, la maggior parte delle volte, quello di pretendere riconoscimenti e difendere i propri interessi, immischiandosi in politica solo per salvaguardare i propri privilegi», si legge nella Lettera aperta .
Non vogliamo «essere collusi e complici», scrivono i religiosi che chiedono che la Chiesa «ripensi la propria struttura gerarchica e i rapporti con la società. Vorremmo che si rifiutasse ogni privilegio economico e soprattutto vorremmo che l’economia delle strutture ecclesiali non fosse complice della finanza e delle banche che speculano con il denaro a scapito del sudore e del sangue di individui e intere comunità, praticando un indebito sfruttamento, non solo delle risorse umane, ma anche di quelle naturali». Fardelli, ma per altri
I credenti, denunciano, non sono considerati e trattati nel rispetto della loro autonomia e libertà - quel «popolo di Dio in cammino» proclamato da un Concilio Vaticano II sempre più soffocato e riportato nel solco della tradizione, da papa Wojtyla prima e da Ratzinger adesso -, bensì gregge obbediente da condurre: «La struttura ecclesiale sembra più preoccupata a guidarci che a farci partecipare», si legge nella Lettera , «le comunità cristiane appaiono più tese a difendere una tradizione che a vivere una esperienza di fede», «ci sentiamo trattati come persone immature, come se non fossimo responsabili delle nostre comunità, ma solo destinatari chiamati a obbedire a ciò che pochi decidono ed esprimono per noi».
Infatti molto spesso la Chiesa interviene «attraverso analisi, sentenze e a volte giudizi, che non ascoltano e non rispettano le ricerche e i tentativi che comunque la società fa per essere più autentica e giusta. Ci sembrano sempre più vere le parole di Gesù nel Vangelo: legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito».
Quello espresso dalla Lettera aperta è un disagio che emerge sempre di più. Dall’interno della stessa Chiesa - assai meno monolitica di quanto viene proclamato dalle gerarchie e dai media istituzionali -, spesso si levano voci critiche non di isolati "battitori liberi" ma di gruppi consistenti di preti, religiosi e religiose che non possono essere etichettati con la categoria del «dissenso», in voga qualche decennio fa, ma che sono pienamente inseriti nel tessuto ecclesiale e che chiedono riforme, anche radicali.
Come quella di un gruppo di preti del Triveneto, fra i quali Albino Bizzotto dei Beati i costruttori di pace, che ad inizio anno fecero un elenco: la Chiesa rinunci ai patrimoni, elimini i cappellani militari e l’ora di religione cattolica, dia spazio alle donne e si apra alla democrazia. Insomma sia più evangelica.
Lettera aperta alla Chiesa italiana
di Alessandro Santoro, Antonietta Potente, Benito Fusco, Pasquale Gentili, Pier Luigi Di Piazza, Paolo Tofani, Andrea Bigalli.
in “Adista” n. 8 del 3 marzo 2012
«Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2, 19)
Questa lettera nasce dopo l’incontro-invito con alcuni teologi e teologhe che abbiamo avuto nella comunità delle Piagge a Firenze il 20 gennaio scorso e al quale hanno partecipato tante persone credenti e non. Rifacendoci alla tradizione più antica della comunità credente, che per comunicare usava lo stile epistolare, anche noi abbiamo pensato di scrivere una lettera aperta alla chiesa italiana. Vorremmo fare una breve sintesi delle tante inquietudini e dei tanti desideri ed aspettative raccolte in quel contesto La trama principale delle nostre inquietudini, è espressa proprio dal testo della lettera alla Chiesa di Efeso: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio».
Abbiamo sempre pensato che questo fosse vero; abbiamo sempre pensato che la nostra condizione di donne e uomini credenti ci rendesse concittadini nella storia di tutti e familiari con il Mistero.
Abbiamo sempre pensato che la nostra fede ci facesse responsabili nei confronti della vita di ogni creatura e dei difficili parti storici, sociali, economici, culturali e spirituali che la comunità umana vive da sempre.
Abbiamo sempre pensato anche, che proprio perché siamo familiari di Dio, non siamo esenti dal vivere sulla nostra pelle le fatiche che ogni popolo fa per poter essere popolo degno e libero.
Ma oramai, da molto tempo, ci sembra che questo non sia tanto vero, e soprattutto , con tristezza diciamo che forse nessuno ci chiede ed esige questa familiarità con il Mistero e questa solidarietà con la storia.
La struttura ecclesiale infatti sembra più preoccupata a guidarci che a farci partecipare e soprattutto a farci crescere. Le nostre comunità cristiane appaiono più tese a difendere una tradizione che a vivere una esperienza di fede. Noi sappiamo come diceva Paolo alla sua comunità di Corinto,che abbiamo il diritto di essere alimentati con parole spirituali e con un «nutrimento solido» (1Cor 3, 1-2), e invece ci sentiamo trattati come persone immature, come se non fossimo responsabili delle nostre comunità, ma solo destinatari chiamati a obbedire a ciò che pochi decidono ed esprimono per noi.
E proprio in questo odierno contesto storico di grande fatica ma anche di grande opportunità per tutti i popoli, e dunque anche per la nostra società italiana, sentiamo che la chiesa è lontana da questa fatica quotidiana dell’umanità. E che quando si fa presente, lo fa solo attraverso analisi, sentenze e a volte giudizi, che non ascoltano e non rispettano le ricerche e i tentativi che comunque la società fa per essere più autentica e giusta. Ci sembrano sempre più vere le parole di Gesù nel Vangelo: «Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23, 4).
Noi non vorremmo essere collusi e complici di questo stile di vita, perché come credenti concittadini dei santi e familiari di Dio, sappiamo quanto è difficile sospingere la storia verso la pienezza della vita. Sappiamo anche che è difficile essere coerenti, ma lo vorremmo essere perché la coerenza oggi, sarà possibilità di vita per tutti. Perché condividere quello che abbiamo e non il sovrappiù, curarci dalle nostre ferite interiori,separarci da tutti quegli stili di vita che invece di includere escludono e invece di far crescere recidono, non è semplice ma è possibile, soprattutto quando nasce da una ricerca comune, dove ciascuno può suggerire qualcosa, dove ciascuno può condividere la sua visione del mondo e soprattutto la sua esperienza di Dio. Ma noi non ci sentiamo sostenuti nel far questo e l’esempio che abbiamo dalla chiesa ufficiale è, la maggior parte delle volte, quello di pretendere riconoscimenti e i difendere propri interessi, immischiandosi in politica solo per salvaguardare i propri privilegi.
Vogliamo essere popolo che cerca davvero di fare esperienza di Gesù, di quel Gesù che ispirava sogni di vita, che ispirava desideri di cambiamento. Quel Gesù che riusciva a far sognare anche chi conosceva solo disprezzo, o chi comunque veniva giudicato peggio di altri ed emarginato Cidomandiamo come mai ci dicono di essere obbedienti al magistero senza chiederci di essere fedeli a questo sogno bellissimo di una umanità composta da «ogni lingua, razza, popolo, nazione» (Ap 7, 9). Perché ci viene chiesto di essere credenti che devono obbedire e difendere la verità e non ci dicono invece che la Verità è più grande di noi e per questo va ricercata costantemente, ovunque e con tutti? Allora è per questo che vorremmo offrirvi queste nostre riflessioni, vorremmo che la Chiesa ripensasse le sue strutture di comunità, e soprattutto la propria struttura gerarchica e i suoi rapporti con la società. Noi vorremmo che si rifiutasse ogni privilegio economico e soprattutto vorremmo che l’economia delle strutture ecclesiali non fosse complice della finanza e delle banche che speculano con il denaro a scapito del sudore e del sangue di individui e intere comunità, praticando un indebito sfruttamento, non solo delle risorse umane, ma anche di quelle naturali.
Queste, in breve, sono alcune delle nostre inquietudini che condividiamo con tutti i credenti, perché «la Vita si è manifestata e noi l’abbiamo contemplata, vista, udita, toccata con le nostre mani» (1Gv 1,1-4) e di questo vorremmo rendere testimonianza. Partendo da questo primo incontro, ci impegniamo a cominciare un processo di autocritica e critica costante, per aiutarci a vivere e crescere insieme, come comunità credenti ma anche come compagni e compagne di cammino di tutti coloro che - tra evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni- fanno di tutto per rendere la storia più bella, solidale e giusta.
Alessandro Santoro, Antonietta Potente, Benito Fusco, Pasquale Gentili, Pier Luigi Di Piazza, Paolo Tofani, Andrea Bigalli.
febbraio 2012
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Tempo di riforma
di Pierluigi Di Piazza (Adista - Segni Nuovi - n. 6 del 28 gennaio 2012)
Una sintonia anche cronologica, ma ben più profonda di sensibilità, di rivissuti, di idealità, di progetti, di sofferenze e di speranze è stata evidenziata di recente da tre lettere di cui Adista ha dato significativa comunicazione: una indirizzata alle teologhe e ai teologi italiani firmata da alcuni parroci, preti e religiosi (v. Adista n. 1/12); l’altra inviata da un gruppo di laici e preti delle diocesi di Treviso e Vicenza ai delegati che parteciperanno al secondo convegno ecclesiale delle Chiese del nord-est che si svolgerà ad Aquileia-Grado dal 13 al 15 aprile 2012 (v. Adista n. 2/12); la terza rivolta a tutta la comunità regionale del Friuli Venezia Giulia da un gruppo di preti che rilanciano questa loro proposta di riflessione da nove anni (v. Adista n. 1/12) e che assumono anche altre iniziative pubbliche con scritti e segni, fra cui la Via Crucis Pordenone-base Usaf di Aviano che sarà vissuta domenica 25 marzo 2012 nel suo 16.mo itinerario.
I contenuti di questi tre documenti, ma anche l’accoglienza e le reazioni positive di tante persone al libro a mia firma, Fuori dal tempio, la Chiesa a servizio dell’umanità (Laterza, 2011; v. Adista n. 49/11), mi inducono ad alcune constatazioni e considerazioni.
Una parte del popolo di Dio che si trova in Italia vive la fede con sincerità e ricerca, si riferisce con continuità al Vangelo di Gesù di Nazareth, partecipa alla propria comunità parrocchiale anche in modo attivo; nello stesso tempo avverte disagio nei confronti dei pronunciamenti del Magistero, in particolare di quelli che riguardano le dimensioni e le esperienze più profonde e delicate della vita stessa.
Probabilmente il disagio tante volte non viene manifestato pubblicamente ma, appena se ne presenta la possibilità, viene comunicato e condiviso. Pare di percepire che spesso le persone continuano a vivere l’esperienza ecclesiale, valorizzando le dimensioni positive e coltivando il desiderio di una Chiesa diversa, profetica nell’annuncio e coerente nella fedeltà di una testimonianza riconoscibile, che parli direttamente all’umanità. E quali sono queste qualità evangeliche che desiderano, dal profondo del cuore e della coscienza, tanti giovani, tante donne e uomini che vivono nelle comunità parrocchiali della nostra Italia?
Una Chiesa che annunci il Vangelo in rapporto continuo e diretto con la storia, con le storie delle persone, nelle loro diverse condizioni esistenziali.
Una Chiesa profetica, coraggiosa nell’annuncio e nella denuncia, nella proposta e nella condivisione: rispetto alla giustizia e alla legalità; alla nonviolenza attiva e alla pace; all’accoglienza di ogni “altro”, degli immigrati; attenta alla salvaguardia di tutti gli esseri viventi.
Una Chiesa che pratichi la democrazia per vivere una comunione che non può mai coprire decisioni non condivise. Una Chiesa che si liberi dal clericalismo, dagli apparati, dal lusso, dai privilegi, dai titoli onorifici e dai vestiti d’altri tempi. Semplice, diretta, coinvolta.
Una Chiesa che valorizzi la diversità di compiti e ministeri, con attenzione particolare alle donne e alla ricchezza della loro diversità di genere anche nel diaconato e nel sacerdozio. Una Chiesa che si liberi dal maschilismo, in cui il celibato libero sia un dono, come il matrimonio dei preti, con attenzione a quelli già sposati e costretti ad abbandonare il ministero.
Una Chiesa che accolga le persone con le loro storie; che non si permetta di definire gli omosessuali «contro natura», ma che ne sostenga le vicende umane; che non usi più i termini valori «non negoziabili», offensivi per milioni di persone che vivono quelle situazioni; che invece accolga, dialoghi, si confronti, esprima il suo orientamento etico, comunichi serenità e pace. Una Chiesa povera, in cammino con i poveri, non confondibile con le strutture di potere - politico, economico, militare - di questo mondo.
Una Chiesa che celebri l’Eucaristia, che preghi e operi per la giustizia. La Chiesa di Gesù diNazareth; la Chiesa dei profeti, dei martiri, dei testimoni. La Chiesa di papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II.
A questa Chiesa, giovani, uomini, donne, preti e, speriamo, vescovi, cardinali, papa, vogliamo appartenere; questa Chiesa vogliamo testimoniare; questa Chiesa è un seme e un segno buono, lievito nella pasta della storia dell’umanità.
* Del Centro Balducci di Zugliano (Udine), autore del libro “Fuori dal tempio,la Chiesa a servizio dell’umanità” (Laterza, 2011; v. Adista n. 49/11)
Joseph Moingt, l’appello pressante di un teologo
di Claire Lesegretain
in “La Croix” del 14 gennaio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con le debite proporzioni, il successo incontrato dall’ultimo libro di Joseph Moingt assomiglia a quello del famoso Indignatevi! di Stéphane Hessel. In entrambi i casi, si tratta di un vecchio signore che non ha più nulla da temere né da dimostrare e che può permettersi, con la legittimità che gli conferiscono i decenni di lavoro e di impegno coraggioso, di dire a voce alta ciò che molti pensano soltanto o dicono a bassa voce. Tuttavia, questo gesuita di 96 anni intende dire non tanto Indignatevi! quanto Restate! ai suoi lettori, talvolta tentati di lasciare la Chiesa.
Di Croire quand même, pubblicato alla fine del 2010 (1) sono state vendute più di 8000 copie ed è in corso la seconda edizione. “Ho ricevuto molte lettere di ringraziamento da laici e da preti, ma curiosamente nessuna eco dall’episcopato”, dice divertito padre Moingt socchiudendo i maliziosi occhi azzurri. I lettori “sentono confusamente che l’opzione scelta da Roma di un ritorno al passato non è il modo migliore di preparare il futuro del cristianesimo. Dopo avermi letto, si dicono fortificati nella loro fede e incoraggiati a restare nella Chiesa.” Da un anno, Croire quand même suscita anche molti gruppi di lettura in tutta la Francia ed è motivo di molti inviti per conferenze.
Un sabato, eccolo con la sua figura minuta all’abbazia di Saint-Jacut-de-la-Mer (Côtes-d’Armor) per una giornata aperta al grande pubblico. Davanti a 150 persone, la maggior parte coi capelli grigi, comincia a ripercorrere il suo lavoro di teologo, segnato dai “due grandi choc”, quello del Vaticano II e quello del Maggio ’68. “Da allora i teologi non si rivolgono più solo a futuri preti, ma sono convocati tra i fedeli per far luce sui loro problemi”, sottolinea, prima di esporre la sua analisi della crisi della Chiesa. Una crisi che, secondo lui, è “la più grave” che il cristianesimo abbia conosciuto da due millenni, perché si tratta di una crisi di civiltà.
“Il nostro mondo è sul punto di rifiutare Dio”, riassume, citando Dietrich Bonhoeffer che, prima di morire nella prigione nazista, percepiva che il mondo “si stava liberando dell’idea di Dio”. Ed è attraverso questa griglia di lettura che Moingt parla della “primavera araba”, segno non della “distruzione dell’islam, ma della disgregazione di uno spazio sociale che era stato cementato dalla legge religiosa”. Perché, ricorda, “la volontà di Dio è che l’uomo si liberi dai suoi legacci, compresi quelli posti in nome di Dio”, Padre Moingt non sfugge alle domande che vengono poste, perché sono anche le sue domande. Con pedagogia, permette ai suoi interlocutori di beneficiare della sua visione storica sul lungo periodo per relativizzare le tensioni attuali all’interno della Chiesa.
Alcune settimane più tardi, nella sua camera-ufficio di rue Monsieur, nel 7° arrondissement di Parigi, prosegue le sue riflessioni sul futuro della Chiesa. “Temo fortemente che un numero crescente di fedeli voglia solo delle risposte con un sì o con un no e non riescano ad entrare nelle sottigliezze teologiche”, riassume. Come esprimere l’umanità di Cristo se è nato da una donna vergine? Come spiegare la Trinità? Come parlare della Rivelazione, dell’Incarnazione, della Redenzione se si considera che i testi dell’Antico Testamento sono solo racconti inventati? Come pronunciare ad ogni Eucaristia: “Questo è il mio corpo”, se si tratta di una metafora? Su che cosa fondare il sacerdozio, mentre nessuno degli Apostoli è stato fatto prete o vescovo da Gesù?... Sono tutte domande complesse che richiedono effettivamente delle risposte approfondite e che occupano la mente del teologo da più di sessant’anni.
Aveva 23 anni, alla fine del 1938, quando è entrato nella Compagnia di Gesù. Non avendo avuto il tempo, prima della mobilitazione, di terminare i dodici mesi di noviziato, dovrà rifare un anno completo a Laval (Mayenne) nel grande noviziato dell’epoca.
Durante la guerra, l’apprendista gesuita è prigioniero in diversi “stalags” per sottufficiali che si rifiutano di lavorare per il III Reich. Riesce ad evadere da un campo in Svevia, viene poi inviato a Kobierczyn, vicino a Cracovia, poi in un altro campo da cui sarà liberato nel 1945 dall’esercito del generale Patton... Ma improvvisamente Padre Moingt interrompe il racconto dei ricordi: “Non ho l’abitudine di dilungarmi sulla mia biografia, non interessa a nessuno”, sorride con quellagentilezza divertita che lo caratterizza. Prima di aggiungere che, “dal ritorno dalla prigionia, per principio non ritorno sul passato.”
Riusciremo solo a sapere che dopo due anni di filosofia a Villefranche-sur-Saône. poi quattro di teologia a Fourvière, sulla collina lionese dove la Compagna di Gesù aveva la facoltà fino al 1974, è stato nominato professore di teologia. Viene allora mandato alla Cattolica di Parigi a preparare una tesi su “La teologia trinitaria in Tertulliano”, che sostiene, tre anni dopo, sotto la direzione del gesuita e futuro cardinale Jean Daniélou. “Tra i gesuiti di quell’epoca, sono stato segnato soprattutto da Henri de Lubac che insegnava alla Cattolica di Lione e con cui ho lavorato su Clemente d’Alessandria”, precisa, prima di aggiungere a questa lista di grandi figure i nomi di Gaston Fessard, Henri Bouillard, Xavier Léon-Dufour e Donatien Mollat...
Dopo dodici anni di insegnamento a Fourvière, padre Moingt chiede un anno sabbatico nella Parigi sessantottina, per “mettersi al corrente nelle novità in teologia, filosofia e scienze umane”. Ma la Cattolica di Parigi, che inizia nel 1969 il suo Ciclo C, un corso serale di formazione per laici, gli dà l’incarico di insegnare cristologia. Insegna anche al Centro Sèvres a partire dal 1974, e a Chantilly (Oise), tradizionale luogo di formazione della Compagnia di Gesù. Questo gli permette di affermare che “tutti i gesuiti entrati nella Compagna dopo il 1960 e anche molti vescovi attuali” sono passati tra le sue mani. Negli stessi anni, padre Moingt prende la direzione della prestigiosa rivista Recherche de science religieuse (RSR), che ha festeggiato i suoi cento anni nel 2010. A partire dal 1980, lasciata la Cattolica per la pensione a 65 anni, il gesuita continua ad insegnare al Centro Sèvres e prosegue le sue ricerche teologiche e la pubblicazione di importanti opere.
“Ne ho un’altra in cantiere, ma non sarà un libro per il grande pubblico”, precisa, sapendo che non avrà il tempo per volgarizzare il suo lavoro: “Se ne incaricheranno altri dopo la mia morte!”.
Oggi resta in rapporto con le “comunità di base” che ha frequentato, sia nell’ambito del catecumenato sia durante le sue esperienze parrocchiali a Châtenay-Malabry (Hauts-de-Seine) per dodici anni, poi a Poissy (Yvelines) e a Sarcelles (Val-d’Oise) rispettivamente per tre anni. Si tratta di “laici che frequentano l’Eucaristia ma che hanno bisogno di ritrovarsi al di fuori della loro parrocchia per condividere il Vangelo o delle riletture di vita”; laici sempre più preparati che “sentono che essere cristiani non è altro che essere uomini, e che prendono la responsabilità del loro essere-cristiani assumendo la responsabilità del destino dell’umanità”.
Perché, per Joseph Moingt, non è focalizzandosi sull’istituzione ecclesiale che si potrà realizzare una riforma radicale del cattolicesimo, ma tornando al Vangelo. “C’è urgenza di ripensare tutta la fede cristiana per dire ’Gesù Cristo vero Dio e vero uomo’ nel linguaggio di oggi e in continuità con la Tradizione”, ripete basandosi sulla sua immensa cultura teologica e biblica per confermare che la Chiesa non potrà più cavarsela con risposte dogmatiche e che occorre che al suo interno dei teologi “facciano cose nuove senza essere minacciati di scomunica”. Per quanto lo riguarda, la sua prudenza non è mai stata motivata dalla paura di una sanzione ecclesiale, ma piuttosto dal desiderio di scrivere conformemente alla sua fede. E poi, “alla mia età, non si rischia granché!”.
(1) Joseph Moingt, Croire quand même, Libres entretiens sur le présent et le futur du catholicisme, con Karim Mahmoud-Vintam e Lucienne Gouguenheim, Éd. Temps Présent, coll. « Semeurs d’avenir »
il manifesto del vescovo di Brescia
Impegno nel sociale senza scomuniche
di Massimo Tedeschi (Corriere della Sera, 19 gennaio 2012)
La fede cristiana ai tempi della crisi implica un forte senso di responsabilità individuale e comunitaria. Responsabilità significa «tenere conto degli effetti che le nostre azioni hanno su tutti e sul bene degli altri: non essere individualisti, non essere narcisisti, camminare verso un rapporto di fraternità, costruire legami di fedeltà».
Così il vescovo di Brescia, monsignor Luciano Monari, in una intervista pubblicata ieri sulle pagine bresciane del Corriere. Quasi un manifesto tracciato dal vescovo di origini modenesi (è nato a Sassuolo 69 anni fa), biblista allievo del cardinal Martini, che da quattro anni guida la diocesi che ha dato i natali a Paolo VI: un vivaio del cattolicesimo liberale e democratico, un possibile snodo del nuovo protagonismo dei cattolici nella vita pubblica italiana.
Monari non usa la clava ruiniana dei «valori non negoziabili». Parte dall’osservazione del reale «per cogliere le possibilità di bene che la società offre». Là dove sono in gioco valori evangelici, la presa di posizione del vescovo di Brescia è netta. È il caso della tutela del creato, cioè dell’emergenza ambientale, su cui Monari sta preparando una lettera pastorale. È il caso del divario crescente fra i compensi dei grandi manager e quelli dei semplici lavoratori, che pone un tema di giustizia sociale e su cui vengono invocati «elementi equilibratori».
È il caso dell’accoglienza degli immigrati. Come il vescovo di Bergamo, il bresciano Francesco Beschi, anche Monari si dichiara favorevole alla proposta di legge delle Acli di riconoscere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati nati in Italia (introducendo lo jus soli) e alla proposta di riconoscere il voto amministrativo a chi è nel nostro Paese da almeno 5 anni. Su altri temi politici e sociali c’è un forte investimento di fiducia sui laici e sulla loro autonomia. Nessuna «scomunica» ai cristiani che militano a destra o a sinistra, ma un appello a entrambi a incontrarsi «non solo per pregare, ma per scambiare le proprie opinioni». Nello spirito di Todi.
Se non è un manifesto, poco ci manca. I martiniani sono tornati. E hanno trovato, forse, un nuovo punto di riferimento.
Liberare la parola
di Jean Rigal (“La Croix”, 14 gennaio 2012 - traduzione: www.finesettimana.org)
Il problema emerge da ogni lato. Attraversa tutte le istituzioni: professionali, politiche, sociali, religiose. Nel contesto attuale, che si vuole democratico, il dibattito fa parte della vita quotidiana. I media lo ricordano a modo loro. Non ci si meraviglierà pertanto che dei cristiani - cattolici in questo caso - facciano ascoltare pubblicamente le loro richieste, così come è avvenuto recentemente in Germania, in Austria, e attualmente in Francia. Questi cristiani alzano maggiormente la loro voce dato che hanno la percezione di non essere ascoltati. Ritengono che il centralismo romano soffochi la possibilità di espressione e la creatività delle Chiese locali.
Nel momento in cui commemoriamo il 50° anniversario dell’apertura del Vaticano II, è estremamente interessante prestare attenzione a quello che dice il Concilio a questo proposito. Certamente non vi si trova la parola “dibattito”, ma vi si riscontrano delle insistenze in relazione alle esigenze di dialogo e di ricerca nella Chiesa. Ci si trova all’opposto dell’antico dualismo “Chiesa docente e Chiesa discente”.
Applicata alla chiesa, la nozione di “Popolo di Dio” non mette più l’accento sull’idea di “società diseguale”, così pregnante durante il XIX secolo, ma sull’uguaglianza fondamentale dei battezzati “quanto alla dignità e all’attività comune” (Lumen Gentium, n. 32)
Il Concilio mette in rilievo il “senso della fede” dei battezzati (il “sensus fidei” in latino), una nozione un tempo utilizzata dai Padri della Chiesa ma per lungo tempo dimenticata. Questa espressione designa una sorta di intelligenza spirituale, di istinto cristiano, di senso della chiesa (secondo il concilio di Trento) che si basano sulla vocazione battesimale e appartengono alla identità cristiana. “Il senso della fede” è una idea profondamente tradizionale e non una richiesta democratica, vale a dire sospetta, sorta tardivamente dalla modernità. Il Concilio precisa che “il senso della fede” non si esercita mai isolatamente ma nella comunione della Chiesa, e grazie allo Spirito Santo.
Questa nozione - evocata a sei riprese dal Vaticano II - presenta necessariamente delle difficoltà di applicazione. Dal lato del popolo cristiano, esiste il rischio di rimanere ad uno sguardo troppo locale e troppo parziale delle questioni. Dal lato del magistero episcopale, soprattutto romano, di ricondurre il ruolo dei fedeli ad una pura sottomissione. Grande è la tentazione per l’autorità di vedere l’applicazione del “senso della fede” solo in un movimento discendente. Questo movimento a senso unico è oggi difficilmente sopportabile. Detto in altri termini, commemorare il Concilio Vaticano II non è solo conoscere il suo insegnamento - il che è lontano dall’essere acquisito - , è anche e prioritariamente metterlo in pratica. Una Chiesa in cui la parola è confiscata potrà ancora essere percepita come una chiesa di Pentecoste per il mondo dei nostri giorni?
Questi elementi dottrinali sono rafforzati da ciò che ci insegnano la storia e la sociologia. Per un verso, i rinnovamenti della Chiesa partono meno, salvo eccezioni, dalle istanze della gerarchia, spesso portata alla prudenza, rispetto alla creatività di una parte della comunità ecclesiale. Gli appelli del popolo cristiano, soprattutto se si prolungano nel tempo, sono portatori di una dimensione spirituale e profetica di cui generalmente solo successivamente si percepisce la fondatezza. Per altro verso, è risaputo che l’assenza di dibattito uccide la creatività. Infine, anche se al momento soffocate, alcune questioni non tarderanno a rinascere di nuovo. E si comprende facilmente che i nostri contemporanei, sottoposti al confronto con una estrema varietà di opinioni, e gelosi della loro libertà, accettano sempre meno prescrizioni alle quali non aderiscano interiormente.
A proposito del Vaticano II, il papa Giovanni Paolo II dichiarava “che è una bussola affidabile perorientarci sul cammino del secolo che inizia”. “Liberare la parola” è appunto una delle richieste del Concilio.
“Teologi confrontiamoci sulla crisi”
di Fabrizio Mastrofini (La Stampa/Vatican Insider. 18 gennaio 2012)
Uscite dal silenzio, apritevi alla realtà, confrontatevi con gli scottanti problemi della crisi economica e della crisi ambientale. È la sintesi di una “lettera aperta” che alcuni sacerdoti e religiosi hanno rivolto ai teologi e teologhe italiane. E danno un appuntamento, per venerdì prossimo pomeriggio (20 gennaio, ore 17.30), alla Comunità delle Piagge, a Firenze, per un dibattito pubblico. Dopo la morte di don Mazzi (ottobre 2011), animatore della Comunità dell’Isolotto, in prima fila dagli anni Settanta nel chiedere un’istituzione aperta e dialogante, da Firenze arriva una nuova sollecitazione alla Chiesa italiana.
La “lettera aperta” ha toni netti e precisi.
«Dove stai tu - scrivono i firmatari ai teologi e teologhe - quando si soffrono cambiamenti climatici e cambiamenti di umore? Dove stai tu mentre il nostro pianeta va al collasso e le multinazionali e le banche, vendute al dio profitto e al dio denaro, governano il mondo? Dove stai tu quando si deve decidere se intervenire per sostenere un intervento armato della Nato nella terra degli altri? Dove stai tu quando si riducono tutte le spese per il sociale, la sanità e la scuola, mentre continuano ad aumentare i bilanci della difesa e si spendono cifre folli per le armi? Dove stai tu quando la gente dei Sud del mondo si sospinge fino alle spiagge di Lampedusa e viene ricacciata indietro o chiusa nei Cie, colpevoli soltanto di immigrazione? Dove stai tu quando qualcuno dice che l’ex primo ministro è meglio che un politico dichiarato gay, perché il primo è “secondo natura”? Dove stai tu quando il bilancio familiare è insufficiente e si vive una precarietà che riduce a brandelli sogni e progetti? Dove stai tu quando gli indignados scendono in piazza o fanno rete virtuale su internet? ».
I firmatari sono Alessandro Santoro (prete della Comunità delle Piagge di Firenze), la teologa domenicana Antonietta Potente, Andrea Bigalli (prete di S. Andrea in Percussina, Firenze), Pasquale Gentili (parroco di Sorrivoli, Cesena), Benito Fusco (frate dei Servi di Maria), Pier Luigi Di Piazza del Centro Balducci di Zugliano (Udine) e Paolo Tofani (parroco di Agliana, Pistoia).
Il riferimento obbligato è al teologo protestante Karl Barth ed alla sua celebre espressione secondo la quale si riflette con la Bibbia da una parte ed il giornale dall’altra, perché la teologia deve continuamente confrontarsi con la realtà. Come fa da sempre la teologa domenicana suor Antonietta Potente, che ha pubblicato in questi ultimi mesi un libro di etica intitolato Un bene fragile (Mondadori), in cui sottolinea il primato dell’essere sull’avere, forte della sua esperienza di docente a Cochabamba, in Bolivia, e di vita quotidiana presso una famiglia aymara.
Obiettivo dei firmatari di questo appello: scuotere la teologia italiana, farla uscire dal chiuso delle aule delle facoltà pontificie, provocare un dibattito. Venerdì si vedrà chi riesce a raccogliere la sfida.
DEPONIAMO LE ARMI, APRIAMO UN DIBATTITO
di Federico La Sala*
Bisogna cominciare a vaccinarsi: il conto alla rovescia è partito. L’allineamento dei “pianeti” si fa sempre più stretto e minaccioso (Usa, Uk, Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Israele..) e il papa - accerchiato e costretto alla rassegnazione - lo ha detto con decisione e rassegnazione: “Dio sembra quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”.
Io credo che non si riferisse solo e tanto all’umanità degli altri, ma anche e soprattutto delle sue stesse “truppe” che lavorano dietro le quinte e alacremente a tale progetto.
Come è già apparso chiaro in varie occasioni (ultima, plateale, nel Kazakistan nel 2001) la gerarchia della Chiesa Cattolico-Romana ha il cuore duro come quello dei consiglieri del faraone. Si è mantenuta a connivente distanza da Hitler, ha appoggiato Mussolini, sta appoggiando il governo Berlusconi, e non finirà per appoggiare Bush? Figuriamoci.
Lo sforzo di memoria e riconciliazione non è stato fatto per riprendere la strada della verità, ma per proseguire imperterrita sulla via della volontà di potenza... Non ha sentito e non vuole sentire ragioni - nemmeno quelle del cuore: la “risata” di Giuseppe (cfr. Luigi Pirandello, Un goj, 1918, “Novelle per un anno”) contro il suo modello-presepe di famiglia (e di società) continua e cresce sempre di più, ma fanno sempre e più orecchi da mercanti! Cosa vogliono che tutti e tutte puntino le armi non solo contro Betlemme (come già si è fatto) ma anche contro il Vaticano?
Credo con Zanotelli che "stiamo attraversando la più grave crisi che l’homo sapiens abbia mai vissuto: il genio della violenza è fuggito dalla bottiglia e non esiste più alcun potere che potrà rimettervelo dentro"; e credo - antropologicamente - che sia l’ora di smetterla con l’interpretazione greco-romana del messaggio evangelico! Bisogna invertire la rotta e lavorare a guarire le ferite, e proporre il modello-presepe correttamente.
Lo abbiamo sempre saputo, ma ora nessuno lo ignora più! Chi lo sa lo sa, chi non lo sa non lo sa, ma lo sanno tutti e tutte sulla terra, nessuno e nessuna è senza padre e senza madre! Dio “è amore” (1Gv.: 4,8) e Gesù (non Edipo, né tanto meno Romolo!) è figlio dell’amore di un uomo (Giuseppe, non Laio né tanto meno Marte, ma un nuovo Adamo) e una Donna (Maria) e non Giocasta né tanto meno Rea Silvia, ma una nuova Eva. Cerchiamo di sentire la “risata”. Deponiamo le armi: tutti e tutte siamo “terroni” - nativi del pianeta Terra, cittadini e cittadine d’Italia, d’Europa, degli Stati Uniti d’America, di Asia, di Africa ecc., come di Betlemme, come di Assisi e di Greccio... E non si può continuare con le menzogne e la violenza!
Non siamo più nella “fattoria degli animali”: fermiamo il gioco, facciamo tutti e tutte un passo indietro se vogliamo saltare innanzi e liberarci dalla volontà di potenza che ha segnato la storia dell’Occidente da duemila anni e più! Si tratta di avere il coraggio - quello di don Milani - di dire ai nostri e alle nostre giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie dell’amore di D(ue)IO... dell’amore di "due Soli" esseri umani, come anche Dante aveva già intuito, sul piano politico ma anche sul piano antropologico.
Cerchiamo finalmente di guardarci in faccia e intorno: apriamo il dibattito - o, perché no, un Concilio Vaticano III (come voleva già il cardinale Martini) tra credenti e non credenti - e teniamo presente che Amore non è forte come la morte, ma è più forte di Morte (Cantico dei cantici: 8,6, trad. di G. Garbini, non degli interpreti greco-romani della Chiesa Cattolica).
* Pubblicata su l’Unità del 29 dicembre 2002, p. 30.
TU SEI IL FIGLIO MIO, L’AMATO: IN TE HO POSTO IL MIO COMPIACIMENTO (Mc 1,7-11).
Chi parla? Quale Dio? Certamente non un Super-uomo, ma lo Spirito Santo ("Charitas"), il "Padre nostro"...
CONTRO LA LEZIONE EVANGELICA E GIOVANNEA CHE DIO E’ SPIRITO ("CHARITAS"): "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1Gv., 4. 1-16),
LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA CONTINUA A PENSARE e a concepire MARIA come MADRE DI DIO, "SECONDO NATURA":
"Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35).
E a mettere da parte o, meglio, a sfruttare, come uno straniero (Un "goj") Giuseppe e, così, fare del papa e di ogni sacerdote il funzionario di un "Padrone Gesù" ("Dominus Iesus", alla Ratzinger maniera!) e di un Dio Padrone, Imperatore del Cielo e della Terra!!!
DOPO DUEMILA ANNI E PIU’ DALLA NASCITA DI CRISTO, NON E’ FORSE ORA DI CAMBIARE REGISTRO E RESTITUIRE ALLO SPIRITO CIO’ CHE E’ DELLO SPIRITO ("CHARITAS") E A MARIA E GIUSEPPE CIO’ CHE E’ DI MARIA E GIUSEPPE, IL LORO "sì" ALL’ACCOGLIERE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS"), GESU’!?
BASTA CON LA "MALA-EDUCAZIONE"!!! RESTITUIRE L’ANELLO DEL "PESCATORE" A GIUSEPPE!!! E RICORDIAMO CHE "ICHTHUS" ("Pesce" = "Gesù figlio di Dio Salvatore") SI SCRIVE CON LE "H", se no è solo e sempre un "pesce" (morto, colpito da "ictus")!!! Cosi come, che "charitas" (l’Amore pieno di Grazia dello Spirito Santo) si scrive con la "H", se no diventa "caritas" (nel senso del "caro" della ricchezza e del tesoro) COME è AVVENUTO ed è "Spirito di Mammona"!!!
In principio era il Logos ... "Deus charitas est"!!! e L’Amore ("charitas") non è lo zimbello del tempo!
Federico La Sala
Lettera di Natale 2011
La Chiesa del Vangelo e del Concilio Vaticano II con le porte sempre aperte
Centro Balducci 20 dicembre 2011
Per leggere la lettera cliccare su-> Sottoscrivono i preti: Pierluigi Di Piazza (Udine); Franco Saccavini (Udine); Mario Vatta (Trieste); Giacomo Tolot (Pordenone); Piergiorgio Rigolo (Pordenone); Alberto De Nadai (Gorizia); Andrea Bellavite (Gorizia); Luigi Fontanot (Gorizia); Albino Bizzotto (Padova); Antonio Santini (Vicenza)
Don Luisito Bianchi, prete e scrittore operaio
di Roberto Carnero (Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2012)
Con la scomparsa di don Luisito Bianchi, avvenuta il 5 gennaio, abbiamo perso non solo uno scrittore, uno dei più originali degli ultimi decenni, ma anche il testimone scomodo di un radicalismo evangelico profetico e mai accomodante. Nella sua vita Luisito Bianchi ha fatto l’insegnante, il traduttore, l’operaio, il benzinaio, l’inserviente in ospedale. Nato a Vescovato, in provincia di Cremona, nel 1927, sacerdote cattolico dal 1950, il grande pubblico l’ha conosciuto a partire dal 2003, quando Sironi editore ripubblicò La messa dell’uomo disarmato, un ampio, suggestivo romanzo sulla Resistenza, uscito per la prima volta nel 1989 in un’edizione autoprodotta. Di quel periodo, l’autore non offriva soltanto una lettura storiografica. C’era una dimensione filosofica e religiosa (una religione civile, oltre che trascendente) che faceva della Resistenza una categoria quasi esistenziale.
Nel 2005 sempre Sironi manda in libreria una nuova edizione di un suo libro del 1972, dal titolo Come un atomo sulla bilancia, il racconto, alternato alla riflessione, dell’esperienza vissuta da don Luisito, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, come prete operaio. In occasione dell’uscita di quel libro, lo incontrai presso l’abbazia trecentesca di Viboldone (una manciata di chilometri da Milano), dove da alcuni anni prestava la funzione di cappellano presso la comunità delle suore benedettine. Parlammo della sua vita, del suo amore per la scrittura, della sua idea di Chiesa. Parlava lentamente, a voce bassa, di tanto in tanto socchiudendo gli occhi. Ma le sue parole erano molto precise.
Don Luisito non risparmiava le critiche ai modi con cui l’istituzione ecclesiastica ha organizzato la propria vita. Tuttavia ci teneva a ribadire il suo amore per la Chiesa: «Amo questa Chiesa perché è lei che mi ha trasmesso Cristo. Ed è nella Chiesa che ho sentito parlare di un Dio che sceglie di perdere ogni potere, preferendo la povertà. Di fronte a certi atteggiamenti della Chiesa mi viene da chiedermi: è possibile che si cerchi il potere per affermare la parola di colui che ha rifiutato il potere?».
Uno dei concetti su cui insisteva maggiormente era quello della "gratuità". Nel 1968 si chiedeva: «Come posso restare coerente nell’annunciare la gratuità del Vangelo, se in cambio, proprio per la mia funzione di prete, ricevo del denaro?». È da questa riflessione che scaturì in lui la decisione di diventare operaio. Così entrò in fabbrica (alla Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria), per condividere tutto con i colleghi: salario, turni di lavoro, amicizie. Per tre anni registrale sue giornate in alcuni taccuini. Nel 2008 pubblica da Sironi I miei amici. Diari (1968- 1970), in cui rievoca quell’esperienza. Il suo ultimo libro, uscito due anni fa sempre presso Sironi, si intitola Le quattro stagioni di un vecchio lunario. Quasi un testamento spirituale, incentrato su una sorta di ritorno alle origini: una ricostruzione dell’infanzia e della giovinezza, alle radici della propria vocazione di uomo e di scrittore.
Don Luisito, che lavorava per gli ultimi
di Remo Bassini (il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2012)
Quando Gesù si è fatto uccidere in croce non l’ha fatto in cambio di uno stipendio” diceva spesso, con voce flebile ma ferma, don Luisito Bianchi , cappellano di Viboldone, prete scomodo, scrittore, morto giovedì scorso a Melegnano (Milano). Aveva 84 anni. Era un prete che predicava bene - la gratuità come essenza del vivere cristiano - e razzolava bene, tant’è che ha sempre rifiutato lo stipendio “da prete”. La Chiesa istituzione lo ha sopportato: con una smorfia di disprezzo, ignorandolo.
Non c’erano mai preti, o se c’erano, erano preti isolati come lui, quando presentava i suoi libri. Quando diceva “se fossi Papa brucerei il Vaticano , affinché rifulga la luce di Cristo. E donerei ai poveri, a chi soffre, agli zingari, ai perseguitati”, la Chiesa istituzione faceva finta di niente. Anche perché, si sapeva, don Luisito, mite e timido, rifuggiva telecamere e notorietà. La sua vita da prete l’ha vissuta ascoltando gli insegnamenti del Vangelo. Dietro le quinte, insomma, tra gli ultimi.
ORDINATO sacerdote nel 1950, negli anni Sessanta, dopo un’esperienza romana alla Pastorale del lavoro, si domanda: “Cosa ho imparato? Io, veramente, che so del lavoro?”. A trent’anni decide così di andare a lavorare in fabbrica, alla Montecatini di Spinetta Marengo (Alessandria), esperienza che racconterà in alcuni suoi libri e che lo segnerà per sempre: rifiuterà infatti l’etichetta di prete operaio. In fabbrica, spiegherà don Luisito, un prete non serve, perché le virtù teologali, Fede, Speranza e Carità, sono già parte del lavoro duro, da operaio. Se un intellettuale si sente a corto di argomenti, dirà anche, vada in fabbrica: lì, il terreno è fertile.
NEL 2003, don Luisito diventa noto nell’ambiente editoriale. La piccola casa editrice Sironi pubblica La messa dell’uomo disarmato ed è subito un successo: di vendite e critiche. Tanti gridano al capolavoro. Un libro sulla resistenza, ma anche sulla gratuità: dei partigiani che morirono per un’idea, per la libertà, solo per quella.
I proventi del libro, comunque, don Luisito li dona ai missionari: a lui, che vive tra Vescovato, suo paese natale, e Viboldone, dove è cappellano, bastano 600 euro di pensione, frutto dei contributi versati come operaio, inserviente, benzinaio, insegnante. Era un mite, ma insieme all’amore per il prossimo insegnava la ribellione.
“Uno schiavo ai tempi di Gesù - ha scritto don Luisito - veniva colpito al volto dal suo padrone con il dorso della mano, perché quest’ultimo non avesse a sporcarsi le mani. La guancia colpita era dunque la guancia destra. Porgere l’altra guancia, cioè la sinistra, a quel tempo significava costringere il padrone a colpire col palmo della mano e, quindi, a sporcarsi le mani, cosa che un padrone non avrebbe mai fatto. Quindi il voltare il viso dall’altra parte per porgere la guancia opposta era un modo per impedire al padrone di colpire ancora, era un modo per interrompere il sistema, per costringere il potente a fermarsi”. Sussurrava, ma aveva una grande voce, don Luisito Bianchi...