Le violenze di un sacerdote del Wisconsin sui piccoli affetti da sordità
La rivelazione del New York Times: "La priorità era proteggere la Chiesa"
Usa, sacerdote abusò di 200 bambini
"Ratzinger e Bertone occultarono il caso" *
ROMA - I vertici del Vaticano, tra cui il futuro Papa Benedetto XVI, occultarono gli abusi di un prete americano, sospettato di aver violentato circa 200 bambini sordi di una scuola del Wisconsin. Lo scrive il New York Times, sulla base di alcuni documenti ecclesiastici di cui è venuto in possesso. La corrispondenza interna tra vescovi del Wisconsin e l’allora cardinale Joseph Ratzinger, scrive il New York Times, mostra che la priorità era, a quel tempo, quella di proteggere la chiesa dallo scandalo.
La vicenda in questione riguarda un prete del Wisconsin, il reverendo Lawrence C. Murphy, che aveva lavorato nella scuola dal 1950 al 1977. Nel 1996, riferisce il quotidiano americano, l’allora cardinale Joseph Ratzinger non fornì alcuna risposta a due lettere che gli furono inviate dall’arcivescovo di Milwaukee, Rembert G. Weakland, mentre solo otto mesi più tardi il cardinale Tarcisio Bertone diede istruzioni, ai vescovi del Wisconsin, di avviare un processo canonico segreto che avrebbe potuto portare all’allontanamento di padre Murphy.
Ma Bertone, precisa il New York Times, fermò questo processo dopo che lo stesso padre Murphy scrisse al cardinale Ratzinger ricordando che il caso era sostanzialmente caduto in prescrizione. "Voglio solo vivere il tempo che mi resta nella dignità del mio sacerdozio. Chiedo il vostro aiuto in questa vicenda", chiese il sacerdote.
Nei documenti, ottenuti dal quotidiano dai legali di cinque uomini che hanno fatto causa alla diocesi di Milwaukee, non c’è traccia della risposta di Ratzinger a questa lettera. Ma secondo quanto si legge, padre Murphy non ricevette mai alcuna punizione o sanzione e fu trasferito in segreto in alcune parrocchie e scuole cattoliche, prima di morire nel 1998.
* la Repubblica, 25 marzo 2010
Il capo dei vescovi tedeschi ammette "La Chiesa ha nascosto gli abusi"
La stampa: Benedetto XVI sapeva e taceva. Indagati 14 sacerdoti
Mea culpa del cardinale Zollitsch
Centinaia i casi denunciati ma sarebbero migliaia
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 22.03.2010)
BERLINO - «Sì, è vero, la Chiesa ha nascosto casi di abusi sessuali per anni. È un problema di tutta la società, ma ognuno di questi casi oscura il volto della Chiesa». La clamorosa ammissione viene, per la prima volta, dal presidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Robert Zollitsch. Nella patria del pontefice, il cattolicesimo, la Chiesa e le sue istituzioni sono ormai sprofondate in una crisi ogni giorno più grave. Almeno 14 religiosi sono indagati dalla magistratura per sospetto di abusi o violenze su minori, e 250 sono i casi accertati tra gli anni Cinquanta e Ottanta, quindi in maggioranza prescritti.
E l’edizione cartacea di Der Spiegel rincara il tono delle accuse al Papa in persona già lanciate sabato, e riportate da Repubblica: quando era vescovo di Monaco e Frisinga, Joseph Ratzinger sapeva che padre Peter Hullermann, trasferito da Essen a Monaco, aveva precedenti pedofili. Esaminò i dossier, accettò il suo trasferimento, per dargli ospitalità e seguire una terapia. Ma appena due settimane dopo il suo arrivo in Baviera, il sacerdote - con ogni probabilità all’insaputa di Ratzinger - era di nuovo attivo: diceva la messa, era a contatto con minori.
Quattordici religiosi indagati, è quanto dicono le procure che hanno accettato di fornire dati su inchieste su sacerdoti. Altre tacciono. E soprattutto tacciono ancora, oppresse dalla vergogna, molte vittime. Per cui il numero degli abusi, ufficialmente di qualche centinaio, secondo fonti vicine allo stesso mondo cattolico potrebbe essere anche di venti volte superiore.
La confessione di monsignor Zollitsch - in un’intervista al settimanale conservatore Focus che esce oggi - è una svolta. «Da anni ormai seguiamo una pratica del tutto diversa, ma sebbene l’intera società abbia taciuto e rimosso per decenni e la maggior parte degli abusi sia avvenuta fuori dalla Chiesa, provo vergogna e spavento davanti a un numero così elevato di casi commessi nelle nostre istituzioni», dice il presidente della Conferenza episcopale. «Spesso le vittime non sono disposte a denunciare gli atti di violenza subìti, e questo per noi è un problema morale, perché noi siamo interessati a portare i responsabili davanti al giudice, affinché con un processo si arrivi a una sentenza».
Un altro caso grave è emerso al Windsbacher Knabenchor, un’istituzione protestante. Dove, almeno fino al 2004, ai ragazzi venivano somministrate botte da orbi, secondo i media tedeschi.
La posizione del Papa, anche dopo la sua lettera, è difficile in patria. «Ratzinger, figlio di un poliziotto, sapeva che nessuno (nella Chiesa) aveva mai chiamato la polizia», accusa Der Spiegel. E continua: non solo a Monaco, ma anche più tardi a Roma, come prefetto della Congregazione della dottrina della fede, si lasciò sfuggire la possibilità di affrontare il problema. Una vittima - una donna oggi sulla quarantina, abusata da un sacerdote e poi da un altro da quando aveva dieci anni - ha detto ieri: «Per la lettera del Papa provo solo disgusto e rabbia, questi freddi vecchi uomini non vogliono modificare le strutture della Chiesa, soprattutto riguardo alla sessualità». Un clima pesante, e alcuni prelati reagiscono oltre misura. Il vescovo di Ratisbona, Gerhard Ludwig Mueller, ha accusato ieri i media di «attaccare la Chiesa come facevano i nazisti con le loro campagne contro il cristianesimo».
Parla Christian Weisner, leader del movimento dei cattolici critici "Wir sind Kirche"
"Crisi da affrontare con urgenza il Pontificato mai così oscurato"
Dobbiamo accettare che gli stupri sono un problema globale cui serve una risposta globale di A. T. (la Repubblica, 22.03.2010)
BERLINO - Christian Weisner, leader di Wir sind Kirche la Chiesa siamo noi (il forte movimento dei cattolici critici), è deluso dalla lettera del Papa ma esorta a incoraggiarlo a fare chiarezza fino in fondo. È la grande chance, altrimenti la crisi acquisterà qualche parallelo con quella del socialismo reale sovietico.
Signor Weisner, come giudica la lettera del Papa?
«Il dramma della violenza sessuale viene affrontato con grande apertura. È inusuale per un pontefice. Ma sulle cause e i consigli per la prevenzione futura purtroppo è molto deludente. Egli è all’inizio della presa di coscienza. Lui vede più le tendenze secolari mondiali nella morale come cause, e mi sembra mostruoso anche che veda una falsa lettura del Concilio Vaticano II come concausa. Allora lavorò per il Concilio ma oggi cerca di tornare a più tradizione che innovazione».
E non una parola sulla Germania. Che ne dice?
«Un silenzio accettabile, ma i tedeschi si aspettavano almeno una parola di compassione per le vittime tedesche quando il Papa il 12 marzo ricevette il rapporto dei vescovi tedeschi. Purtroppo il Papa tacque allora e tace in questa lettera. Posso in parte accettarlo, riguarda la ben più grave situazione irlandese. Ma tutti noi cristiani, da ogni fedele al Papa, dobbiamo accettare che la violenza sessuale contro bimbi, minori o donne nella Chiesa è un problema globale e necessita d’una risposta globale».
Il pontificato di Benedetto è in pericolo?
«La crisi deve essere affrontata con urgenza. Mai, nemmeno nei secoli più bui, la luce del Vangelo è stata tanto oscurata come oggi, lo scrive anche il Papa. È cosciente della gravità del problema. Ma la crisi non finisce così. Nessuno chiede le sue dimissioni. Tutti nella Chiesa, vescovi e cardinali, devono aiutarlo in questa tempesta. Egli non ha ancora individuato i problemi strutturali».
Ritiene il Papa responsabile di silenzi e insabbiamenti?
«Vedo una corresponsabilità. Dirlo non è chiederne le dimissioni, ma un vescovo deve avere un’alta autorità morale ma anche amministrativa. Manager e politici pagano gli errori dimettendosi, nella Chiesa c’è la riconciliazione. Ma se lui riconoscesse sue responsabilità, ciò gioverebbe alla sua autorità e a quella della Chiesa».
La difesa del sistema non ricorda l’autunno del socialismo reale sovietico?
«Anche all’Est mancava, ai vertici, la consapevolezza della gravità della crisi. Paralleli ci sono, tra sistemi centralisti e gerarchici, con dogmi. La differenza che mi fa sperare è che cristianesimo non è solo strutture centraliste, ma messaggio di Gesù. Se il sistema entra in una crisi di quel tipo, il messaggio cristiano resta, ben più vitale del socialismo. Ma la mancata riforma della Curia è stata un grave errore». (a.t.)
A Varsavia l’ultimo saluto a Bronislav Geremek, protagonista di un’epoca *
Celebrata nel Duomo di Varsavia la cerimonia funebre per Bronislaw Geremek, l’ex ministro degli Esteri polacco, artefice della svolta democratica della Polonia 20 anni fa, morto nei giorni scorsi a 76 anni in un incidente automobilistico.
Le spoglie dell’europarlamentare sono state tumulate nel cimitero militare di Powazki nella capitale. Al funerale di stato prendono parte tutte le massime autorità polacche, rappresentanti della comunità internazionale: in tutto un migliaio di ospiti ufficiali e centinaia di semplici polacchi, in parte assiepati fuori del Duomo.
L’Italia è rappresentata del vice presidente della Camera dei deputati, Rocco Buttiglione. La cerimonia religiosa è stata celebrata dall’arcvescovo Kazimierz Nycz assieme ai vescovi Tadeusz Goclowski e Alojzy Orszulik. In apertura è stato letto un messaggio del cardinale Saverio Bertone. Hanno preso la parola anche il fondatore del sindacato Solidarnosc, l’ex presidente Lech Walesa e il primo premier non comunista, Tadeusz Mazowiecki.
Dopo il Duomo le esequie sono proseguite al cimitero militare di Powazki, dove sono sepelliti i vertici istituzionali dello Stato. Suonati l’inno nazionale polacco e quello dell’Unione europea, e parleranno il presidente polacco Lech Kaczynski, il premier Donald Tusk e il presidente del Parlamento europeo, Hans Gert Poettering.
Successivamente hanno preso la parola familiari e amici fra cui Marek Edelman, ultimo dirigente in vita della rivolta del ghetto di Varsavia, e il direttore del quotidiano Gazeta Wyborcza e ex compagno di lotta, Adam Michnik.
Geremek, di origini ebree, ministro degli Esteri nel 1997-2000, da giovane riuscì a fuggire dal ghetto di Varsavia e fu poi adottato da una famiglia cattolica polacca. Dal 2004 era deputato al parlmento europeo. È morto il 13 luglio in un incidente a Lubien, ovest della Polonia, mentre era alla guida di un’auto in viaggio verso Bruxelles
* l’Unità, Pubblicato il: 21.07.08, Modificato il: 21.07.08 alle ore 16.19
Ansa» 2007-10-17 16:00
Annunciato il concistoro, 23 nuovi cardinali
CITTA’ DEL VATICANO - Benedetto XVI ha annunciato il suo secondo concistoro per la creazione di nuovi cardinali. L’annuncio è stato fatto al termine dell’udienza generale. Il 24 novembre prossimo, vigilia di Cristo Re, si terrà la cerimonia dell’imposizione della ’berretta rossa’ e del giuramento dei nuovi porporati. Benedetto XVI creerà nel concistoro annunciato oggi per il prossimo 24 novembre 23 nuovi cardinali: tra questi 18 al di sotto degli 80 anni di età, superando così di una unità la soglia dei 120 "elettori" - tra cui mons. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, mons. Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro, e André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi - e cinque oltre gli 80 anni.
Questi i nuovi cardinali non elettori che il Papa nominerà nel concistoro annunciato oggi per il prossimo 24 novembre. Tra loro ci sono due italiani, mentre figura anche il patriarca caldeo di Baghdad. La lista letta da Benedetto XVI al termine dell’udienza generale si apre con Emmanuel III Delly, patriarca di Babilonia dei Caldei. Seguono mons. Giovanni Coppa, nunzio apostolico; mons. Estanislao Esteban Karlic, arcivescovo emerito di Paranà (Argentina); il padre gesuita Urbano Navarrete, già rettore della Pontificia Università Gregoriana; il padre francescano Umberto Betti, già rettore della Pontificia Università Lateranense. Il Papa ha aggiunto che avrebbe voluto elevare alla porpora anche l’anziano vescovo polacco Ignacy Jez, che però ieri è improvvisamente deceduto.
Ecco i nomi dei 18 nuovi cardinali elettori, vale a dire i prorporati con meno di 80 anni e col diritto di entrare in Conclave. Tra di essi quattro italiani. La lista letta da Benedetto XVI al termine dell’udienza si apre con mons. Leonardo Sandri, argentino, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Seguono l’americano mons. John P. Foley, ex presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali e ora pro-Gran Maestro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; mons. Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano ed ex ’ministro degli Esteri’ della Santa Sede; il tedesco mons. Paul Joseph Cordes, presidente del Pontificio Consiglio ’Cor Unum’, il "braccio" caritativo del Papa; mons. Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro e vicario del Papa per la Città del Vaticano; il polacco mons. Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per il Laici; mons. Raffaele Farina, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Seguono ancora mons. Vicente Garcia-Gasco, arcivescovo di Valencia (Spagna); mons. Sean Baptist Brady, arcivescovo di Armagh (Irlanda), mons. Lluis Martinez Sistach, arcivescovo di Barcellona (Spagna); mons. André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi; mons. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana; mons. Theodore-Adrien Sarr, arcivescovo di Dakar (Senegal); mons. Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay (India); mons. Francisco Robles Ortega, arcivescovo di Monterrey (Messico); mons. Daniel N. DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston (Stati Uniti); mons. Odilio Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo del Brasile; mons. John Njue, arcivescovo di Nairobi (Kenya).
PAPA: NEI NUOVI CARDINALI SI RISPECCHIA UNIVERSALITA’ CHIESA "I nuovi porporati provengono da varie parti del mondo. Nella loro schiera ben si rispecchia l’universalità della Chiesa con la molteplicità dei suoi ministeri". E’ quanto ha affermato Benedetto XVI al momento dell’annuncio del nuovo concistoro per il prossimo 24 novembre, il secondo del suo pontificato, per la nomina di 18 nuovi cardinale elettori e cinque oltre gli 80 anni. "Accanto a presuli benemeriti per il servizio reso alla Santa Sede - ha aggiunto il Pontefice - vi sono pastori che spendono le loro energie a diretto contatto con i fedeli". "Altre persone - ha proseguito - vi sarebbero, a me molto care, che per la loro dedizione al servizio della Chiesa ben meriterebbero di essere elevate alla dignità cardinalizia. Spero di avere in futuro l’opportunità di testimoniare, anche in questo modo, ad esse ed ai Paesi a cui appartengono la mia stima e il mio affetto". Il Papa ha spiegato che il concistoro si svolgerà alla vigilia della solennità di Cristo Re. E ha sottolineato che con la nomina dei 18 "elettori" derogherà "di una unità al limite numerico stabilito dal papa Paolo VI", confermato dal suo predecessore Giovanni Paolo II nella Costituzione apostolica ’Universi dominici gregis’. Al termine, ha affiato i nuovi eletti "alla protezione di Maria Santissima, chiedendole - ha detto - di assisterli nelle rispettive mansioni, affinché sappiano testimoniare con coraggio in ogni circostanza il loro amore per Cristo e per la Chiesa".
ELIMINARE POVERTA’ DAL MONDO, OFFENDE DIGNITA’ UMANA Un appello "a moltiplicare gli sforzi" diretti a "eliminare le cause della povertà" e "le tragiche conseguenze che ne derivano". Lo ha pronunciato Benedetto XVI al termine dell’udienza generale in Piazza San Pietro in occasione della Giornata Mondiale del rifiuto della miseria, riconosciuta dall’Onu come Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà. "Quante popolazioni vivono ancora in condizioni di estrema povertà!", ha esclamato il Papa. "La disparità tra ricchi e poveri - ha sottolineato - s’é fatta più evidente e inquietante, anche all’interno delle nazioni economicamente più avanzate". "Questa situazione preoccupante - ha poi aggiunto - s’impone alla coscienza dell’umanità, poiché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offendere la dignità dell’essere umano e da compromettere, conseguentemente, l’autentico ed armonico progresso della comunità mondiale". "Incoraggio, pertanto - ha concluso papa Ratzinger -, a moltiplicare gli sforzi per eliminare le cause della povertà e le tragiche conseguenze che ne derivano".
Ratzinger lo ha incontrato domenica in udienza privata a Castel Gandolfo
Per gli ebrei europei l’emittente diretta da Rydzyk è "antisemita e ultraconservatrice"
Il Congresso ebraico attacca il Papa
"Ha ricevuto il direttore di Radio Maria"
Ma un anno fa Benedetto XVI la accusava di essere "antisemita" *
ROMA - Ha tutta l’aria di un incidente diplomatico quello scoppiato tra la Santa Sede e il Congresso ebraico. Colpa dell’udienza privata che Benedetto XVI ha concesso domenica scorsa a Castel Gandolfo a Tadeusz Rydzyk, direttore di Radio Maria.
"Il Congresso ebraico europeo - è scritto in una nota dell’Associazione che riunisce le comunità ebraiche di tutta Europa - è scioccato di apprendere che Papa Benedetto XVI ha ricevuto in udienza privata e nella sua residenza estiva Tadeusz Rydzyk, il direttore dell’antisemita Radio Maryja". Ejc, acronimo del Congresso ebraico, si dice "attonito del fatto che il Papa ha concesso un’udienza privata e la benedizione a un uomo e a un’istituzione che ha appannato l’immagine della Chiesa Polacca".
Radio Maria, infatti, avrebbe "largamente trasmesso le affermazioni antisemitiche di Rydzyk". La nota del Congresso ebraico arriva dopo due giorni di polemiche in Polonia tra chi accusa il sacerdote di Radio Maria di essere un antisemita e i suoi sostenitori che hanno inteso il colloquio col Pontefice come la sua benedizione alla linea ultraconservatrice della radio.
In realtà non più tardi di un anno fa proprio Benedetto XVI prendeva le distanze dall’emittente accusandola di essere "antisemita".
Domenica scorsa a Castel Gandolfo, padre Rydzyk è stato ammesso al baciamo con il Papa al termine dell’Angelus insieme ad un folto gruppo di fedeli polacchi. Recentemente, in vista delle prossima elezioni presidenziali in Polonia, gli stessi gemelli Kaczynski sono tornati a chiedere pubblicamente l’aiuto e il sostegno dell’emittente radiofonica dei cattolici ultraconservatori e del suo controverso direttore.
* la Repubblica, 8 agosto 2007
Nota della Santa Sede dopo le proteste del Congresso europeo
Il direttore di Radio Maryja attaccato per le posizioni antisemite
"Con Rydzyk solo un baciamano
Non cambiano i rapporti con gli ebrei" *
ROMA - Nessuna udienza privata. Il Papa ha concesso solo un "baciamano" al fondatore di Radio Maryja Tadeusz Rydzyk ma questo "non implica alcun mutamento nella ben nota posizione della Santa Sede sui rapporti tra Cattolici ed Ebrei". Un comunicato della sala stampa della Santa Sede cerca di smorzare la polemica dopo che Radio Maryja aveva diffuso in Polonia la notizia di una "udienza privata" concessa da Benedetto XVI al sacerdote attaccato per le sue posizioni antisemite, e dopo le dure prese di posizione delle organizzazioni ebraiche, che avevano interpretato la presunta udienza come un passo indietro nelle relazioni ebraico-cristiane.
La visita di Rydzyk domenica scorsa a Castel Gandolfo ha già suscitato molte polemiche in Polonia, tra chi accusa il sacerdote di Radio Maryja di essere un antisemita e i suoi sostenitori, che hanno interpretato l’accoglienza ricevuta da Rydzyk come un sostegno del Papa alla linea ultraconservatrice della sua emittente.
Poi il baciamano di domenica scorsa e la protesta delle comunità ebraiche di tutta Europa che avevano sottolineato come "le affermazioni antisemitiche di Rydzyk" siano state largamente trasmesse attraverso la sua radio. Proprio per questo il Congresso ebraico si era detto stupito "dal fatto che Papa Benedetto XVI abbia concesso udienza privata e la benedizione ad un uomo e a un’istituzione che hanno macchiato l’immagine della Chiesa polacca".
* la Repubblica, 9 agosto 2007
IL CASO
Nella testimonianza di Viktor Bede, ex prete e amico del dittatore, un «testamento» ben diverso da quello ufficiale: «Ci mancano dieci san Francesco»
Il «mea culpa» di Lenin
Sul letto di morte un’amara riflessione sulla necessità della violenza. Eppure concludeva: «Tra cent’anni sotto le macerie delle istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica»
di Paolo Vicentin (Avvenire, 12.07.2007)
Era il 9 aprile del 1917 allorché si misero in viaggio dal loro esilio in Svizzera, 31 rivoluzionari russi, con Lenin quale capo: erano diretti in Svezia, attraverso la Germania, in un vagone piombato. Il governo del Reich tedesco di allora aveva concesso, attraverso il proprio territorio, questo passaggio, con la speranza che la rivoluzione russa, già incominciata, desse il colpo decisivo ad uno dei nemici allora in guerra contro la Germania, la Russia appunto. In quanto a Lenin, era noto essere un ateo a tutto campo. In seguito tuttavia venne diffusa una dichiarazione del morente rivoluzionario ben singolare, che sembrò significare una sconfessione di tutto il suo operato.
Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell’imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l’oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all’amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell’oceano di sangue di infinite vittime. Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d’Assisi». Così scriveva su una pubblicazione cattolica tedesca, nel 1977, il vescovo di Ratisbona di allora, Rudolf Graber, citando gli articoli che Viktor Bede avrebbe scritto per L’Osservatore romano, pubblicati il 23 agosto e il 24 settembre 1924 e usciti senza firma. Di questi incontri tra l’ex-ecclesiastico ungherese, che si chiamava Viktor Bede, e il fondatore del comunismo, ha parlato anche il giornalista tedesco Hansjakob Stehle in un volume dal titolo Die Ostpolitik des Vatikans.
Nel ricordare sul quotidiano vaticano i suoi incontri con Lenin, questo ex-prete riportava altre dichiarazioni del rivoluzionario: «L’umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo». Aggiungendo: «Credo, tuttavia, che sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica... nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica». E avrebbe concluso, il morente Lenin: «Peccato che noi, allora, non ci saremo più...».
L’articolo Pensieri di Lenin sul cattolicesimo di Viktor Bede informa che l’autore aveva conosciuto Lenin, a Parigi, per la «comune professione di giornalisti», definendo il loro rapporto «molteplice e cordiale». Pochi mesi prima della morte del dittatore, egli si recò a Mosca «per far visita al suo vecchio collega e fu ricevuto, nella sua privata abitazione al Cremlino, con la consueta cordialità». Annota ancora: «Potevo andare a trovarlo, senza grandi difficoltà, in quanto, ad eccezione di lui, nessuno sapeva che ero un ex-prete. E, in tal modo, ho potuto procurarmi importanti documenti fornitimi dal dittatore». Prosegue: «Come era consuetudine, i nostri colloqui erano discussioni piuttosto che conversazioni e ciò mi piaceva, perché il mio interlocutore aveva mantenuto tutta la semplicità e schiettezza del passato, che mi permetteva di ricordare più l’amico e il giornalista che l’ideatore di una delle più spaventose rivoluzioni della storia. Da questi incontri personali, da uomo a uomo, avevo l’impressione che la persona che veniva presentata come crudele e tiranna era, a suo tempo, vittima della sua concezione sociale e che lui, contro la sua volontà, era stato indotto a commettere misfatti, a motivo della ragione di Stato...».
Continua l’ex-ecclesiastico: «In realtà si svelò dinanzi a me un carattere, nonostante tutto, ancora così mite, come un tempo avevo apprezzato a Parigi, di una, chiamiamola pure, dolcezza di uomo che molto ebbe da sopportare. Lo soffocava l’idea che si era fatta della sua missione, spinta fino a quella forma di misticismo politico, suo proprio, nei sentimenti dell’uomo privato, per lasciare mano libera al dittatore a decidere, di sua volontà, di liberare l’umanità, allargando su tutto il mondo la sovranità sovietica, della quale necessità era intimamente convinto».
Continua questo rapporto: «Mi disse ancora un giorno: cosa vuoi tu quando mi rimproveri che noi sovietici dobbiamo usare la violenza e i metodi più radicali per tenere lontani dalla nostra nazione, tutti gli elementi nocivi al nostro programma... Con questi non si può discutere ragionevolmente, come non lo si può fare con una vipera che ti punge: la si uccide. Molti, purtroppo, non lo sanno o, viziosi, non sono in grado di capire la necessità di destinare il loro soprappiù a beneficio della grande massa che non possiede nulla: è questo il motivo perché si mette in atto l’inflessibile espropriazione e lo sterminio di quanti a ciò si oppongono».
Lenin affermò poi, in un altro colloquio: «Vedi, l’umanità, quasi seguendo il suo destino, ha intrapreso il cammino dell’Unione Sovietica. È solo questione di tempo. Fra un secolo tra i popoli civilizzati non ci sarà altra forma di governo. Tuttavia credo che continuerà a sussistere, sotto le macerie delle attuali istituzioni, la gerarchia cattolica, perché in essa si effettua sistematicamente l’educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L’umanità ha bisogno dell’una e dell’altra potenza».
Nel secondo articolo, apparso su L’Osservatore romano il 24 settembre 1924, l’autore tratta il problema russo dal punto di vista del dittatore. Bede rimproverava a Lenin di non avere egli alcuna convinzione morale, anzi di distruggere tale fondamento, perché sradica i sentimenti religiosi dal cuore degli uomini. Lenin rispose: «Voi volete dunque che io lasci venire i vostri confratelli, affinché essi incitino il popolo contro i sovietici». Rispose Bede: «Che la vita dei nostri confratelli sia l’applicazione del più puro comunismo, viene confermato da tanti secoli di esperienza: se si crede cioè alla possibilità di una educazione del popolo verso il disinteressamento e l’altruismo, non si può presentare miglior esempio di quello dei membri dei nostri ordini religiosi». Prosegue il racconto: «Lenin mi fissò con i suoi occhi penetranti. Mi resi conto che in lui i pensieri erano in subbuglio e lo udii mormorare queste parole: "No, non è possibile..."».
Annota l’amico: «Dopo aver atteso un po’, insistetti nel suo dovere di garantire la libertà di religione. Lenin mi fissò con i suoi grandi occhi, senza aprir bocca. Poi, con accento duro, sarcastico, mi chiese: "È il tuo papa che ti ha mandato da me?" Era il tono di voce del dittatore, non più dell’amico. Lo assicurai che non avevo avuto alcun incarico, da nessuno, e che ero venuto a Mosca senza aver parlato del viaggio a chicchessia, nemmeno ai più fidati amici. Lenin si calmò di nuovo e disse: "Ti ammiro... sento che vivrò ancora per poco tempo. Ciò che tu pensi è troppo bello perché io lo potessi esprimere, è troppo grande perché io potessi realizzarlo. Ci saranno altri, spero, i quali invece di misure violente e di crimini, adotteranno metodi che tu proponi per far felice l’umanità"». Questo secondo articolo dell’ex prete ha questa conclusione: «Era dunque troppo tardi: il terribile dittatore sentiva di non possedere più la forza per accettare le grandi idee che egli ancora ammirava. Sentiva di non avere più la forza di distruggere la banda che lo teneva attanagliato, dopo che essa l’aveva innalzato sul trono degli zar». Insomma, il padre della rivoluzione bolscevica si diceva disgustato per gli orrori provocati, ma li giustificava. Lenin moriva poco tempo dopo. Fu pubblicato un suo testamento: «Ma questo è davvero il testamento di Lenin? - si chiede Viktor Bede - Io ne dubito molto...».
Colloqui singolari. Citati anche dallo storico Andrze J. Kaminski nel volume I campi di concentramento dal 1896 a oggi (Bollati Boringhieri 1997) e dal vaticanista Sergio Trasatti nel libro La croce e la stella (Mondadori 1993). Non esiste alcun dubbio sulla loro autenticità, affermava il vescovo di Ratisbona, Rudolf Graber, nel 1977, sottolineando che bisognava aggiungere qualche cosa, però, all’immagine di Lenin, con queste parole: «Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
Risvegliarsi con la democrazia
Jan, ferroviere polacco, investito da un treno nel 1988, è uscito dal coma dopo 19 anni, e ha trovato un paese senza comunismo
In coma 19 anni si risveglia e trova la democrazia
IL VIDEO. Polonia, come nel film Goodbye Lenin. Jan fu investito da un treno nel 1988 e oggi ha scoperto che non c’è più il comunismo: "Quanti negozi e tutti parlano al cellulare"
* la Repubblica, 2 giugno 2007
Chiesa cattolica polacca. Un presente peggiore del suo passato.
Ecco chi è l’arcivescovo di Varsavia
da agenzia ADISTA n. 7 l del 27-01-2007
Intervista a Carla Tonini, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università di Bologna *
NELLA CHIESA POLACCA, LA CONFUSIONE REGNA SOVRANA
33716. VARSAVIA-ADISTA. Il peggio deve ancora venire: è questa la frase che si è sentita ripetere più spesso dopo la dimissioni di mons. Stanislaw Wielgus da arcivescovo di Varsavia lo scorso 6 gennaio (v. Adista n. 5/07). La sua rinuncia, a parere di molti, non basterà infatti per arginare l’emorragia di dossier e rivelazioni provenienti dagli archivi della polizia segreta del regime filo-sovietico. D’altra parte, già in un documento della scorsa estate, in un documento, la Conferenza episcopale polacca aveva valutato tra il 10 e il 15% del clero il numero dei collaboratori con i servizi segreti, e altre stime arrivavano a raddoppiare questa percentuale.
Per arginare una situazione esplosiva, i vescovi polacchi - che si sono incontrati lo scorso venerdì per una riunione di emergenza - hanno deciso di sottoporre ad una "piena verifica" tutti i documenti che li riguardano conservati dall’Istituto per la Memoria Nazionale. I risultati dell’indagine non saranno resi pubblici ma spediti a Roma, perché Benedetto XVI valuti i provvedimenti necessari.
Nell’attesa di questa verifica - e della pubblicazione del libro del prete-inquisitore p. Tadeusz Isakowicz-Zaleski - Wielgus continua a ribadire di non aver mentito al papa e alla Curia sulla sua collaborazione, un’accusa che molti, anche in vaticano, gli hanno mosso all’indomani dello scandalo. In un’intervista all’agenzia cattolica polacca "Kai", l’ex-arcivescovo ha negato di aver fornito "al nunzio apostolico in Polonia una falsa testimonianza circa i miei contatti con i servizi speciali". La sua dichiarazione risponde a quanto affermato dal nunzio in Polonia, mons. Józef Kowalczyk, che aveva accusato Wielgus di non aver fornito "un’immagine completa" dei suoi contatti con la polizia segreta prima della sua nomina. Dopo la pubblicazione delle prime accuse sulla Gazeta polska, Kowalczyk racconta di aver convocato Wielgus per chiedergli ulteriori dettagli: "Egli ha scritto una spiegazione dettagliata, che ho immediatamente inoltrato alla santa sede". (alessandro speciale)
UN PRESENTE PEGGIORE DEL SUO PASSATO. ECCO CHI È L’ARCIVESCOVO DI VARSAVIA
33717. BOLOGNA-ADISTA. "Monsignor Wielgus non sarebbe dovuto diventare arcivescovo di Varsavia non per il suo passato, ma per il suo presente". Sintetizza così la vicenda delle dimissioni di mons. Stanislaw Wielgus da arcivescovo di Varsavia (v. Adista n. 5/07) Carla Tonini, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università di Bologna a cui abbiamo rivolto qualche domanda sulla situazione della Chiesa polacca e della Polonia in generale e su un problema molto attuale che tutti conoscono ma di cui nessuno parla: l’antisemitismo.
D: Cominciamo dalla cronaca: raccontando delle dimissioni di monsignor Wielgus, c’è un dettaglio che i giornali italiani hanno in maggioranza tralasciato: mentre l’arcivescovo leggeva le sue dimissioni nella cattedrale di Varsavia, all’esterno i fan suoi e di Radio Marjya accusavano gli "ebrei" di voler distruggere la Chiesa cattolica. È il ritorno di un passato superato?
R: In Polonia è frequente ritenere gli ebrei responsabili di ogni disgrazia. Radio Marjya, poi, di cui Wielgus era un protettore, ha fatto della figura dell’‘ebreo comunista’ uno dei suoi leit-motiv, dipingendolo come il responsabile dell’instaurazione del regime nel dopoguerra. Quella di un complotto ebraico-comunista è un’idea vecchia, che risale addirittura alla prima guerra mondiale. Ma in Polonia questa idea si è conservata intatta fino ai nostri giorni. Dopo l’89 è riesplosa con particolare forza e a farsene portatrice sono state soprattutto la chiesa e le sue alte gerarchie. Il cardinal glemp, ad esempio, ha ribadito il collegamento tra ebrei e comunismo durante il dibattito infuocato sull’eccidio di Jedwabne (nel luglio 1942, a Jedwabne, una cittadina nei dintorni di Lublino, i polacchi massacrarono barbaramente circa 800 ebrei, i loro ‘vicini di casa’. La strage è stata portata alla luce da un libro di Jan Tomasz Gross, pubblicato da mondadori con il titolo I carnefici della porta accanto; ndr).
La scoperta di questo episodio è stato un duro colpo per l’autostima polacca ed ha suscitato un vespaio durato oltre due anni. Glemp, interrogato a questo proposito, rispose di non vedere nessun motivo per chiedere scusa agli ebrei, che sono i principali responsabili del comunismo. È un motivo che torna regolarmente anche nelle prediche di padre Henryk Jankowski, cappellano della chiesa di santa Brigida a Danzica, ex consigliere e confessore di Walesa. Jankowski, che inveisce regolarmente nelle sue omelie contro gli ebrei, è stato sospeso per un paio d’anni ma poi è tornato in servizio. E nel 2005 è tornato al suo tema degli ebrei portatori dei due mali della Polonia, il bolscevismo e il liberalismo. E su questi temi la posizione di Radio Marjya è ben nota. Niente di nuovo, quindi, nell’antisemitismo di parte della Chiesa polacca. Solo, non ci si rende conto di quanto sia radicata quest’idea dell’ebreo-bolscevico...
D: Radicata soprattutto a livello popolare?
R: No, lo è a livello popolare perché lo è a livello della gerarchia. Se l’alta gerarchia - perché qui non stiamo parlando di un prete di campagna - diffonde questa immagine, nella mente della gente si inculca l’idea che si tratti di una posizione accettabile o quantomeno neutra. Comunque, non è un fatto che porti scandalo o che possa compromettere qualcuno come nel caso di Wielgus. Ecco, io ho letto stralci dalle sue omelie in cui lui inveisce contro i liberali, i cosmopoliti, i bolscevichi, i massoni, gli omosessuali... tutti i bersagli abituali collegati nell’immaginario collettivo all’ebreo.
D: Wielgus era già vescovo da 7 anni quando è stato nominato arcivescovo di Varsavia da Benedetto XVI. Com’era stato il suo profilo pubblico fino ad allora?
R: Il 7 dicembre (giorno della sua nomina, ndr) mi trovavo a Varsavia e Gazeta wyborcza ha pubblicato degli stralci delle sue omelie. Mi ha molto colpito leggere come lui lamentava la secolarizzazione della Polonia e indicava come colpevoli tutta la lista di ‘soliti sospetti’ di cui parlavo sopra. Wielgus era il rappresentante di questa chiesa integralista, intollerante, xenofoba ed è sorprendente che qualcuno con questo profilo sia stato scelto come arcivescovo della capitale e che il vaticano non sia intervenuto. E anche qui in Polonia nessuno ha protestato, nemmeno negli ambienti della Chiesa ‘liberal’. È come se tutto ciò rientrasse nella normalità: dato che il papa non ha rimosso un personaggio come p. Jankowski, quello che dice non è deprecabile, anzi, è ‘bello’. Credo sia importante spiegare questa situazione, altrimenti si rischia di raccontare una versione dei fatti che è deresponsabilizzante. Quando si dice che la folla inveiva contro gli ebrei, ci sono delle responsabilità ben precise a livello di gerarchia e di vaticano, perché hanno tollerato questa situazione fino ad oggi. Anzi, nella rosa dei candidati Roma ha scelto proprio un esponente di questo ambiente come Wielgus.
D: Quindi lei crede che sia impossibile che a Roma non sapessero?
R: Io credo che a Roma non sapessero della collaborazione di Wielgus con la polizia segreta. Però sapevano sicuramente delle sue posizioni ultraortodosse, integraliste, xenofobe. E Wielgus sarebbe succeduto a Glemp che già aveva dato abbondanti manifestazioni di sé su questi temi. Inoltre, è membro del comitato in difesa di Radio Marjya. Motivi per non sceglierlo ce n’erano, ma si trattava di motivi che in Polonia non sono sufficienti per screditare. L’unica cosa che scredita è se si è stati collaboratori dei servizi segreti.
D: C’è un clima di ‘maccartismo’ nella Chiesa polacca?
R: Non direi tanto nella Chiesa quanto sulla scena politica. I fratelli Kaczynski hanno fatto della lustracja il perno della loro campagna elettorale e poi del loro governo. Ma la lustracja si può trasformare in un boomerang e dà luogo ad un clima di caccia alle streghe, perché chiunque può venir accusato di essere stato un collaboratore. Quanto a chi c’è dietro l’operazione per screditare Wielgus, naturalmente non saprei dirlo con certezza. Sicuramente si sono intrecciati diversi elementi. Quel che so è che, contrariamente a quel che si dice, Kaczynski ha sostenuto la nomina di Wielgus, in origine, ma quando hanno cominciato a circolare le notizie di una sua collaborazione le ha cavalcate perché non poteva non farlo; lo stesso vale per i settimanali e i giornali dell’estrema destra che hanno fatto esplodere il caso come la Gazeta polska.
D: Quindi Wielgus era originariamente un candidato vicino al blocco ultraconservatore e populista. E poi?
R: Poi è esploso il caso ed è scappato di mano. I Kaczynski stanno cercando di liberarsi di questi due alleati che sono ormai scomodi, il partito dell’autodifesa e la lega delle famiglie polacche, per rifarsi una verginità politica e arrivare ad un’alleanza con il partito di destra moderata, ‘europea’, la piattaforma civica. Hanno anche cercato di screditare il leader di autodifesa con uno scandalo sessuale ma questa manovra è fallita. Il passo logico successivo è quello di attaccare gli ambienti più retrivi e compromessi della Chiesa. D’altra parte, proprio mentre nominavano Wielgus, il presidente Kaczynski (Lech, presidente della Repubblica e fratello gemello di Jaroslaw, primo ministro, ndr) partecipava all’anniversario della fondazione di Radio Marjya di cui è un aperto sostenitore. Quindi, come vede, è una storia molto intricata. Ci sono dentro le forti rivalità all’interno della Chiesa, tutta un’atmosfera di caccia alle streghe. (alessandro speciale)
http://www.adista.it
* www.ildialogo.org, Martedì, 23 gennaio 2007
I vescovi polacchi: “Quel tenebroso passato...”
Domenica 14 gennaio è stato letto nelle chiese polacche il messaggio sottoscritto da tutti i cardinali e vescovi della Polonia dopo il summit seguito alle dimissioni, 40 ore dopo la nomina, dell’arcivescovo di Varsavia Stanislaw Wielgus, per la sua passata collaborazione con la polizia segreta del regime comunista.
L’antefatto è in www.chiesa: “Caso Wielgus. I perché delle dimissioni”. *
E questo è il testo integrale del messaggio, nella traduzione fornita dalla conferenza episcopale polacca:
Cari fratelli sorelle!
1. Negli ultimi giorni abbiamo vissuto l’avvenimento drammatico, legato alla rinuncia alla carica dell’Arc. Metropolita di Varsavia Stanisław Wielgus, nel giorno previsto per il suo solenne ingresso nella cattedrale di Varsavia. Con dolore abbiamo seguito le accuse a lui indirizzate nelle settimane scorse, riguardanti il suo coinvolgimento nella collaborazione con i Servizi di Sicurezza e con lo spionaggio della PRL. Ciò ha provocato un’ondata di preoccupazione e addirittura di sfiducia nei riguardi del nuovo pastore. Si sono resi visibili divisioni nella comunità dei fedeli. Siamo grati al Santo Padre Benedetto XVI per il suo aiuto paterno nell’ evangelico misurarsi con la difficile situazione di fronte alla quale ci troviamo. Grazie alla sua decisione e al suo atteggiamento siamo meglio preparati a vivere in modo coraggioso e fruttuoso questo tempo insolito. Ringraziamo anche l’Arc. Józef Kowalczyk, Nunzio Apostolico in Polonia, per il suo aiuto fraterno e competente.
Il 5 gennaio scorso nell’appello rivolto alla comunità della Chiesa di Varsavia l’Arcivescovo Wielgus confermò il fatto del ricordato coinvolgimento e confessò di aver con questo danneggiato la Chiesa, come pure di averla danneggiata negando di fronte alla campagna mediale i fatti della collaborazione con i Servizi di Sicurezza
Accogliamo con rispetto la sua decisione di rinunciare al servizio di metropolita di Varsavia. Non sta a noi giudicare la persona, il confratello, che per anni ha servito con fedeltà e fervore la Chiesa, fra l’altro come professore e Rettore dell’Università Cattolica di Lublino, e poi come vescovo di Płock. Con la nostra preghiera desideriamo aiutare l’Arcivescovo nel pieno chiarimento della verità. Contemporaneamente affermiamo con dolore che la mancata presa in considerazione delle norme universalmente accettate di presunta incolpevolezza ha creato intorno all’accusato Arcivescovo un’atmosfera di pressione che non lo ha aiutato a presentare all’opinione pubblica l’adeguata difesa, alla quale aveva diritto.
2. Sperimentiamo ancora una volta, che il tenebroso passato del periodo del sistema totalitario che ha regnato per decine d’anni nella nostra Patria continua a farsi sentire. Come abbiamo scritto nel Memoriale dell’Episcopato Polacco riguardo alla collaborazione di alcuni sacerdoti con gli organi di sicurezza in Polonia negli anni 1944-1989, “la documentazione conservata negli archivi della IPN rivela parte degli ampi spazi di costrizione e di neutralizzazione della società polacca da parte degli organi di sicurezza dello stato totalitario. Non è però la completa ed unica documentazione dei tempi passati”. Solo un’analisi accurata e critica di tutte le fonti accessibili ci permetterà di avvicinarci alla verità. Letti unilateralmente, i documenti preparati da funzionari dell’apparato di repressione dello stato comunista ostili alla Chiesa, possono seriamente recar danno alle persone, distruggere legami di fiducia sociale e di conseguenza trasformarsi in vittoria del sistema inumano nel quale abbiamo dovuto vivere, dopo la sua sepoltura.
Il Memoriale afferma anche, che “la Chiesa è accusata di voler nascondere verità scomode per lei, di provare a difendere i responsabili di collaborazione con i servizi di sicurezza e di dimenticare le vittime di quella collaborazione. Di conseguenza è messa in dubbio l’autorità della Chiesa, indebolita la sua credibilità. Abbastanza facilmente si dimentica che durante il totalitarismo comunista tutta la Chiesa in Polonia si è opposta continuamente alla costrizione della società ed è stata oasi di libertà e verità”. Casi come quelli che viviamo attualmente, gettano purtroppo ombra sulle dichiarazioni di confrontarsi con quel frammento di storia e comprovano interpretazioni unilaterali e bugiarde del ruolo della Chiesa nel periodo totalitario.
3. Perciò ripetiamo di nuovo: la Chiesa non ha paura della verità, anche se è una verità dura, vergognosa e se la sua ricerca è talora molto dolorosa. Crediamo profondamente che la verità ci rende liberi, perchè verità liberatrice è lo stesso Gesù Cristo. Da due mila anni la Chiesa combatte contro il peccato dentro di sè e nel mondo, al quale è mandata. Il peccato infatti degrada l’uomo e deforma in lui l’immagine e la somiglianza di Dio.
La Chiesa non fa questo per la propria forza. Lo fa per la forza di Colui, che unico ci può liberare dal male. Perciò iniziamo anche ogni Eucarestia con la confessione dei nostri peccati: “Confesso a Dio Onnipotente....”. Non è una formula liturgica priva di fondamento, ma una profondo raffronto, al cospetto del volto di Dio misericordioso, con la nostra debolezza e infedeltà. Similmente preghiamo in ogni S. Messa: “Signore Gesù Cristo, (...) ti preghiamo, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della Tua Chiesa”. Non abbiamo paura di confessare che la Chiesa è una comunità di peccatori, ma che contemporaneamente è santa e chiamata alla santità. Perchè vive ed opera in lei il suo Capo Gesù Cristo - il Santo dei santi.
Stiamo davanti a Lui chiedendo allo Spirito Santo di liberarci dal male, dalla paura, dalla nostra vigliaccheria.
Domenica scorsa, festa del Battesimo di Cristo, nella cattedrale di Varsavia, veniva letto il Vangelo di Gesù, che solidale con i peccatori stava sulla riva del Giordano per ricevere il battesimo di penitenza. Crediamo fortemente che Gesù sta con noi tutti sulla riva del Giordano polacco. Ancora una volta ci ridonano speranza le parole di Gesù: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Luc. 5, 31-32). La solidarietà con i peccatori ha condotto Gesù sulla croce. Grazie a questo abbiamo ricevuto il suo battesimo - il battesimo dello Spirito Santo e del fuoco per la remissione dei peccati.
4. Ricordiamoci: “Da due secoli la Chiesa si oppone al male in modo evangelico, che non distrugge la dignità dell’altro. La verità del peccato deve condurre il cristiano a riconoscere personalmente la colpa, al pentimento, alla confessione della colpa - anche alla confessione pubblica, se è necessaria, e poi alla penitenza e alla riparazione.
Non possiamo abbandonare questa via evangelica della lotta col male. (...) La Chiesa di Cristo è comunità di riconciliazione, di perdono e di misericordia. In lei c’è posto per ogni peccatore che come Pietro desidera convertirsi e nonostante le debolezze vuol servire la causa del Vangelo” (Memoriale).
Come sottolineò con fermezza il Servo di Dio Giovanni Paolo II, “via della Chiesa è l’uomo” (Redemptor hominis, 14) - ogni uomo, anche ogni sacerdote e ogni vescovo. Se realizza le condizioni per una conversione cristiana, ognuno ha diritto al perdono e alla misericordia, a inserirsi nella vita della comunità della Chiesa e della società. Sappiamo, che molti di coloro che una volta si sono arresi alla costrizione, hanno fatto tacere la voce della propria coscienza e leso la propria dignità, hanno espiato già la propria debolezza con anni di fedele servizio. Essi sono nostri fratelli e sorelle nella fede!
Desideriamo che il mercoledì delle Ceneri, 21 febbraio prossimo, sia un giorno di preghiera e penitenza per tutti i sacerdoti della Polonia. Che in tutte le chiese delle nostre diocesi si celebrino funzioni di preghiera alla Misericordia di Dio chiedendo perdono per gli errori e le debolezze nel trasmettere il Vangelo nella sua interezza. Come sacerdoti siamo “presi dal popolo”, siamo parte della società polacca, che ha bisogno tutta di voltare le spalle al male e di una piena conversione.
5. La Chiesa in Polonia, oltre a stare davanti a Dio nella verità, si trova davanti a un grande compito di riconciliazione. Il passato non possiamo cambiarlo, sia quello glorioso che quello del quale ci vergogniamo. Con l’aiuto di Dio possiamo inserirlo nel nostro presente e nel nostro futuro in modo che sul volto della Chiesa possa manifestarsi la forza di Cristo. Ci rivolgiamo a tutte le persone della Chiesa, sacerdoti e laici, perchè continuino l’esame di coscienza sul proprio comportamento durante il periodo del totalitarismo. Non vogliamo entrare nel santuario della coscienza di nessuno, ma invitiamo a fare tutto per confrontarsi con eventuali fatti e - se necessario - riconoscerli e confessarne la colpa.
Chiediamo ai governanti e ai parlamentari di assicurare una utilizzazione dei materiali trovati negli archivi provenienti dai tempi della PRL, in modo da non ledere i diritti della persona umana, da non degradare la dignità dell’uomo e in modo da rendere possibile la verifica di tali materiali da parte di un tribunale indipendente. E non si può dimenticare che questi materiali accusano soprattutto i loro autori.
Coscienti del richiamo di Cristo: “Non giudicate affinchè non siate giudicati” (Mt 7,1) preghiamo tutti di desistere dal dare giudizi superficiali e affrettati, perchè possono essere offensivi. Pensiamo a tutti coloro che lavorano nei mezzi di comunicazione sociale. Che la coscienza cristiana e la sensibilità umana suggeriscano loro che cosa e come presentare all’opinione pubblica tenendo sempre presente la dignità della persona umana, il suo diritto alla difesa, anche dopo la morte.
Ci appelliamo alla generazione dei giovani, che non ha esperienza diretta dell’epoca nella quale hanno dovuto vivere i più anziani, perchè cerchi di conoscere l’ardua e complessa verità dei tempi passati. Nonostante tutte le ombre, alle generazioni che hanno vissuto a quei tempi, fra queste anche alle generazioni dei sacerdoti, ai loro inflessibili combattimenti col male, dobbiamo la conquista della libertà dopo anni di un’ ideologia marxista e di modelli di vita politica e sociale che ci erano stati imposti.
La Chiesa in Polonia ha sempre sentito con la nazione, ne ha sempre condiviso le sorti, soprattutto nei periodi più tenebrosi della nostra storia. Il portare alla luce dopo anni le debolezze e infedeltà di alcuni suoi membri, anche sacerdoti, non muta questo fatto. Che il momento presente sia per noi tutti un tempo opportuno di penitenza e riconciliazione, di restituzione della violata giustizia e di conquista della fiducia reciproca e della speranza.
Che sia soprattutto tempo di preghiera e di approfondimento della fede nella presenza del Signore della storia in mezzo alle più intricate faccende umane.
Fiduciosi nella forza della verità del Vangelo desideriamo, quali Vostri Pastori, continuare i lavori già in corso per una piena verifica dei contenuti degli atti raccolti nell’IPN, riguardanti noi stessi e tutti i sacerdoti.
6. “Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perchè tu sei con me” (Ps 22, 4). Che le parole del Salmista ci accompagnino in questi giorni. Vi ringraziamo Cari Fratelli e Sorelle, particolarmente per lo spirito di preghiera, che ha raffreddato le emozioni e portato nel cuore l’armonia e l’ordine dell’amore. Vi ringraziamo per la cura che avete della Chiesa e per il vostro rimanere con lei nei momenti di prova. Crediamo che ciò che ora stiamo sperimentando porterà ad un rinnovamento della Chiesa, ad una maggior trasparenza i maturità dei suoi membri. Crediamo che aiuterà la Chiesa ad essere fedele al Vangelo, a cercare in esso le soluzioni ai nostri problemi e a rigenerarsi da esso per essere lievito di bene e di amore nel mondo.
Con questi desideri in cuore imploriamo su tutti la benedizione di Dio e l’intercessione della Madre di Dio di Jasnagóra, che ci ricorda sempre: “ Fate tutto quello, che vi dirà” (J 2,5).
Hanno firmato i Cardinali, gli Arcivescovi e i Vescovi riuniti nella seduta plenaria del Consiglio Permanente e dei Vescovi Diocesani della Conferenza Episcopale Polacca
Varsavia, 12 gennaio 2007
Polonia, i vescovi: via chi collaborò coi comunisti *
«Non si può più continuare con questa caccia alle streghe», ha detto il portavoce della Conferenza episcopale polacca, Jozef Klock. È cominciata sotto queste insegne, a Varsavia, la riunione straordinaria dei vescovi polacchi per discutere una strategia comune per uscire dallo scandalo dell’arcivescovo designato della capitale, monsignor Stanislaw Wielgus, costretto alle dimissioni per il suo passato di collaboratore dei servizi segreti comunisti.
E ora la caccia è ufficiale, visto che l’episcopato polacco ha deciso di sottoporre a verifica il passato di tutti i vescovi del Paese per accertare se tra loro vi sia qualcuno che ha avuto legami con la polizia segreta del passato regime comunista. L’incontro a porte chiuse aveva all’ordine del giorno «La situazione della chiesa in Polonia conseguente agli avvenimenti degli ultimi giorni». L’obiettivo è rispondere alle accuse piovute sulla chiesa della Polonia, un Paese in cui il 90 % dei 38 milioni e mezzo di abitanti si professa cattolico.
«Dobbiamo trovare soluzioni ed evitare di essere confrontati ogni settimana con questo tipo di problemi», aveva spiegato padre Kloch. E il segretario generale della Conferenza episcopale polacca, monsignor Piotr Libera, ha spiegato che tutti i vescovi hanno espresso la volontà di sottomettersi a questa verifica. «Quando sarà stato fatto un lavoro sistematico, forse forniremo anche una lista completa dei nomi», ha detto. Il religioso non ha nascosto quanto la situazione sia «tesa» e «difficile».
L’Episcopato polacco ha deciso inoltre di rivolgere una lettera aperta ai fedeli della Polonia per esprimere la propria volontà di avviare un processo di «trasparenza» e «purificazione». Tale lettera sarà presentata in tutte le chiese del Paese domenica prossima.
I documenti conservati dai servizi segreti sulla Chiesa dovrebbe analizzarli la Chiesa. Ne è sicuro padre Adam Boniecki, biografo ufficiale di Karol Wojtyla che dopo essere stato a capo dell’edizione in lingua polacca di «L’Osservatore Romano» attualmente dirige in Polonia il settimanale cattolico «Tygodnik Powszechny». Poi, però, aggiunge che l’analisi servirà "anche" «per far emergere i personaggi eroici, distinguere varie circostanze in modo più giusto».
In fondo, in Polonia, molti hanno fatto come Ratzinger, il cui papato si arricchisce di un altro scandalo dopo quello di Ratisbona. Il cardinale polacco Edmund Casimir Szoka, uno dei pochi porporati di Curia, è sicuro infatti che, durante il regime comunista, «qualche sacerdote fu costretto a firmare dichiarazioni di collaborazione con i servizi segreti. Non aveva scelta. Come per il Papa Benedetto XVI che, quando era giovane, fu costretto a far parte della gioventù hitleriana», la Hitlerjugend. «Non conosciamo tutte le circostanze - afferma Szoka, presidente emerito del governatorato del Vaticano, - forse c’erano alcune situazioni in cui non potevano non firmare documenti di collaborazione, erano costretti per evitare mali più grandi».
L’iniziativa della Chiesa mette una pezza prima che arrivi quella del governo. Il primo ministro polacco Jaroslaw Kaczynski ha infatti annunciato un’iniziativa legislativa mirante a vietare agli ex membri della Sb di lavorare in posti pubblici, pubblicare le liste dei collaboratori dei passati servizi e ridurre le loro pensioni al livello del salario minimo garantito. Kaczynski e il suo partito "Diritto e giustizia" (Pis, di destra), si propongono di «liberare la Polonia dal retaggio del comunismo, sopprimendo tutti i privilegi delle persone responsabili dei crimini e delle repressioni dell’apparato di uno Stato totalitario».
Qualcuno ha perfino anticipato Kaczynski. Una attivista di spicco di Solidarnosc, accusata di essere stata una spia dei servizi segreti, è stata infine assolta, avendo la magistratura stabilito che le prove contro di lei potrebbero essere state manipolate. Il tribunale ha stabilito che le accuse contro Niezabitowska non erano sostanziate e che i documenti della polizia segreta che proverebbero che sarebbe stata una collaboratrice (con lo pseudonimo Nowak) erano probabilmente fabbricati ad arte da un agente dei servizi.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.01.07, Modificato il: 12.01.07 alle ore 18.51
La strategia adottata dall’Episcopato dopo lo scandalo Wielgus. Ricerche sui trascorsi di ognuno dei 45 vescovi titolari di una diocesi
Polonia, al setaccio il passato dei vescovi Bertone: "Verifica anche per i politici" *
VARSAVIA - Un processo di "trasparenza" e "purificazione", nel quale tutti i vescovi polacchi si sottoporranno a una verifica sul loro passato durante il regime comunista. Questa la "soluzione sistematica" emersa dalla riunione straordinaria dei vescovi, oggi a Varsavia, indetta per discutere una strategia comune dopo lo scandalo dell’arcivescovo designato della capitale, monsignor Wielgus, costretto alle dimissioni per il suo passato di collaboratore dei servizi segreti comunisti. Una verifica, quella alla quale l’Episcopato ha accettato di sottoporsi, che avverrà attraverso la commissione storica della Chiesa di Polonia e su precise indicazioni del Vaticano. Appresa la notizia, il segretario di Stato vaticano, monsignor Tarcisio Bertone, ha commentato: "Sarei contento se questo screening si facesse anche per i funzionari dei partiti, per i politici e per gli amministratori pubblici nella società polacca".
Le conclusioni della riunione sono state rese note oggi dal presidente della conferenza episcopale polacca, monsignor Jozef Michailik. E per esprimere la volontà di avviare un processo di "trasparenza e purificazione", l’Episcopato ha deciso inoltre di rivolgere una lettera aperta ai fedeli della Polonia, lettera che sarà presentata in tutte le chiese del Paese domenica prossima.
Così si svolgerà la verifica. Ognuno dei 45 vescovi polacchi titolari di una diocesi, dovrà presentare domanda alla Commissione storica ecclesiastica, che darà il via al processo di verifica presso gli archivi dell’"Istituto nazionale di rimembranza", dov’è custodito quel che resta dei documenti dei servizi segreti comunisti. I risultati della ricerca verranno comunicati all’interessato ma anche trasferiti, per un ulteriore esame, a una seconda commissione, formata da storici laici ed esperti.
Questa seconda commissione - una specie di secondo grado di inchiesta - è una novità decisa oggi dalla riunione di Varsavia. Alla fine del procedimento, che si prevede piuttosto lungo e complesso, i fascicoli (non è stato precisato se quelli più delicati oppure tutti) verranno inviati presso la Santa Sede per un giudizio finale.
La decisione di sottoporsi individualmente a verifica - ha spiegato il presidente dell’Episcopato polacco - è stata presa all’unanimità durante la riunione. Per la verità, lo stesso Michailik aveva inviato due settimane fa una lettera a tutti i capi di diocesi invitandoli "delicatamente" ad accettare un’inchiesta sul proprio passato. A marzo, in una riunione generale della Chiesa polacca, il processo di verifica sul passato sarà esteso anche a tutti i vescovi ausiliari.
Si è detto "contento di questa decisione" monsignor Bertone, soprattutto "perché la comunicazione è essenziale, in quanto un deficit di comunicazione è dannoso in particolare perché impedisce il discernimento". Il porporato, riferendosi all’autenticità o all’eventuale contraffazione dei documenti, ha sottolineato che "occorre potere operare con discernimento tra ciò che è autentico e ciò che è contraffatto".
* la Repubblica, 12 gennaio 2007.
taglio basso
Dopo il vescovo Wielgus a Varsavia, si dimette a Cracovia Janusz Bielanski, il canonico della cattedrale Wawel, anch’egli accusato di aver collaborato coi servizi segreti comunisti
di Mimmo de Cillis* (il manifesto, 09.01.2007)
Il nuovo anno non inizia sotto i migliori auspici per il Vaticano, agitato dalla ambigua vicenda del vescovo Stanislaw Wielgus, dimessosi un minuto prima di insediarsi alla sede arcivescovile di Varsavia, dove il papa lo aveva nominato. Wielgus cade sotto l’accusa di essere stato negli anni della guerra fredda informatore e complice dei servizi segreti comunisti polacchi. Grave delitto, se si pensa che lo stesso Karol Wojtyla, come ha ricordato ieri il suo ex portavoce Navarro-Valls, prima di diventare papa aveva resistito alle lusinghe e alle minacce del regime. Il giorno dopo la chiusura (momentanea) della spinosa vicenda, in Vaticano l’aria è pesante e l’atteggiamento verso la chiesa polacca - fino a ieri modello, nuovo polmone cristiano in grado di ossigenare l’intera Europa - è di crescente scetticismo. Si dubita dell’affidabilità di preti e vescovi polacchi, mentre la strategia già avviata da Ratzinger, di bloccare l’ascesa di prelati polacchi all’interno della curia romana ( a favore del personale tedesco) trova conferme sempre più nette.
Sulle scrivanie vaticane campeggiano i giornali della stampa polacca, che indica il papa come «salvatore della chiesa in Polonia», o i commenti di quella tedesca che, come nel caso di Die Welt, si chiede se nella gestione della crisi non vi siano stati errori o negligenze. La Santa sede si è trovata coinvolta in un caso segnato da ambiguità, menzogne, superficialità. Tanto che si parla di «teste che cadranno» e di «tempi lunghi» per la nomina del nuovo vescovo di Varsavia, la cui sede vacante è stata affidata ora al primate Jozef Glemp, anch’egli nella bufera.
Il fatto grave è che la Santa sede si era esposta con chiarezza nella nota del 21 dicembre: «Nel decidere la nomina del nuovo arcivescovo metropolita di Varsavia - si diceva - il santo padre ha preso in considerazione tutte le circostanze della sua vita, tra cui anche quelle riguardanti il suo passato», «nutre verso monsignor Stanislaw Wielgus piena fiducia e, con piena consapevolezza, gli ha affidato la missione di pastore dell’arcidiocesi di Varsavia». I documenti pubblicati nei giorni precedenti dall’Istituto della memoria nazionale, che provavano un coinvolgimento diretto dell’arcivescovo con i servizi segreti (sia pur non come spia ma come informatore), erano dunque noti. Ed erano stati vagliati nella procedura di elezione del vescovo, che prevede l’indicazione di un terna di nomi (proposta dalla Congregazione dei vescovi, su consulto con la chiesa locale e la nunziatura apostolica), fra i quali il pontefice sceglie. Ma le notizie avevano alimentato forti perplessità nel mondo politico e tra i fedeli polacchi. La richiesta pubblica di perdono, espressa da Wielgus pochi giorni prima dell’iinsediamento, non era bastata a placare le acque.
Poi, nella notte tra sabato e domenica, la svolta: dopo febbrili contatti tra il governo, la chiesa di Varsavia e il Vaticano, vista la presa di distanza di alcuni vescovi, il dissenso crescente e il pericolo di minare in modo irreparabile la credibilità della chiesa polacca, ecco arrivare le dimissioni, subito accettate dal papa e avvenute in base al comma 2 dell’art 401 del Codice di diritto canonico («un vescovo che per grave causa risultasse non idoneo all’adempimento del suo ufficio»). Ma solo domenica mattina i fedeli , giunti alla cattedrale di Varsavia per assistere alla cerimonia, hanno saputo che Wielgus non sarebbe stato il loro pastore. Il portavoce vaticano padre a Federico Lombardi ha sottolineato che «il comportamento di mons. Wielgus negli anni passati del regime comunista in Polonia ha compromesso gravemente la sua autorevolezza, anche presso i fedeli. Perciò la rinuncia alla sede di Varsavia e la sua pronta accettazione da parte del Santo padre è apparsa come una soluzione adeguata».
Dalla vicenda non esce bene la Santa sede, che si ritrova nell’ambiguità di aver prima avallato, difeso e poi scaricato Wielgus. Non esce bene la chiesa polacca, spaccata fra conservatori e progressisti e dilaniata dai sospetti di chissà quanti altri traditori, testimoni di un segmento di contiguità con il regime comunista. Non ne esce bene papa Ratzinger, ingannato dalla rete dei suoi collaboratori più stretti, e nemmeno il card Glemp, che ha difeso fino alla fine l’arcivescovo accusato.
Un bel pasticcio, insomma, mentre arriva la notizia che a Cracovia si è dimesso il canonico della cattedrale di Wawel, Janusz Bielanski, anch’egli accusato di aver collaborato con i servizi. Si potrebbe così innescare una reazione a catena, dato che il numero di preti-informatori negli anni del regime comunista, è altissimo: 10-15% del clero. Negli anni scorsi, alcuni dossier puntavano il dito anche contro il domenicano Konrad Heymo, organizzatore dei pellegrinaggi polacchi a Roma e conoscente personale di Wojtyla. Benedetto XVI, nel viaggio in Polonia nel maggio scorso aveva affrontato il problema, esortando a non giudicare con arroganza le generazioni precedenti, pur senza «negare i peccati del passato». Mai si sarebbe aspettato, però, un ciclone così travolgente.
* Lettera22
LA TESTIMONIANZA
E un giorno Papa Wojtyla mi disse: "Il regime ci provò anche con me"
di JOAQUIN NAVARRO-VALLS *
La nomina e successiva dimissione di Monsignor Wielgus e lo scalpore della confessione della sua collaborazione con i servizi segreti polacchi mi hanno fatto pensare a due episodi che mi sono capitati alcuni anni fa.
Era il giugno del 1988 ed ero a Mosca con il cardinale Casaroli in occasione della celebrazione del Millennium cristiano della Russia. Erano passati soltanto tre anni da quando Gorbaciov era salito al potere, e la sua perestroika era ancora soltanto una ipotesi. Alle 16.30 nella camera dell’albergo Sovietskaja dove soggiornavo ricevetti una telefonata. All’inizio la voce cominciò a parlarmi in russo; poi, di fronte alla mia richiesta di passare all’inglese, sentii rispondermi: "Niet!". Allora, chiesi di parlare in francese, italiano oppure spagnolo ma ad ogni mia offerta la voce ribadì: "Niet!". La conversazione sarebbe finita lì, se a quel punto egli non mi avesse chiesto di parlare in latino.
Io risposi con un certo imbarazzo: "Intelligo". Egli proseguì, dicendo: "Ego episcopus ucrainum sum". Mi disse che si chiamava Ivan Markitis. Mi spiegò di aver letto sulla Pravda della presenza in Russia di una delegazione cattolica e di essere venuto a Mosca dall’Ucraina per incontrarsi con noi.
Io pensai che sicuramente la telefonata era stata registrata dal Kgb. Due giorni dopo Gorbaciov ci avrebbe ricevuto al Cremlino, occasione che sarebbe stata la prima pietra del percorso che condusse, un anno dopo, all’incontro storico con Giovanni Paolo II in Vaticano. Poi, verificai il nome che la persona mi aveva dato e vidi che non corrispondeva a nessun vescovo da noi noto. A quel punto, dopo aver a lungo riflettuto, decisi di non incontrarlo. Pensai che il nostro incontro per lui sarebbe stata la fine.
Anche in un’altra occasione mi è accaduta un’esperienza analoga. Era il 1995 ed ero a Pechino per partecipare alla Conferenza internazionale sulla donna organizzata dell’Onu. Al Palazzo dei Congressi, dove si svolgeva l’iniziativa, si avvicinò una giovane donna cinese, forse fingendosi giornalista, che parlava un inglese molto rudimentale. Mi disse di essere cattolica e che voleva informarmi che tre vescovi cinesi underground avevano saputo della nostra presenza e volevano incontrarci.
Spiegai alla mia interlocutrice che noi non avremmo avuto problemi a vedere quei prelati, perché tutelati dallo statuto diplomatico, ma quelle persone sarebbero state immediatamente dopo arrestate. Anche in quella occasione, decisi di non fare l’incontro.
In definitiva, come ho imparato anche direttamente durante i miei soggiorni in Polonia nei primi anni Ottanta, bisogna conoscere bene la situazione in quei mondi per mettere i fatti nella giusta prospettiva. In questo senso, le motivazioni date dal nuovo vescovo polacco, relative alla possibilità di studiare all’estero o di garantire la propria incolumità personale, descrivono una situazione, una logica, che era molto diffusa in quel momento nei paesi dell’Est. Wielgus non avrebbe mai potuto avere i visti per studiare all’Università di Monaco, se non avesse accettato il compromesso che gli veniva offerto dal regime. E questa condizione era comune a molti altri suoi concittadini, sacerdoti o meno.
In quei paesi la situazione per molti sacerdoti e vescovi era molto difficile da vivere e molto semplice da spiegare: si viveva in una tensione continua tra l’eroismo e la compromissione. E non era una lotta in cui bisognava decidere una volta per tutte: la decisione doveva essere rinnovata almeno ogni giorno e spesso parecchie volte ogni giornata. Tutto dipendeva del capriccio ideologico del potere. Prima del 1957 molti sacerdoti furono torturati oppure scomparvero e furono uccisi.
Dopo il 1957 prima con Gomulka e poi con Gierek si rischiava soltanto l’ostracismo, la solitudine imposta, il divieto sistematico di studiare in una qualche università all’estero, l’impossibilità di avere un passaporto del proprio paese.
La percezione di tutta questa realtà era molto chiara anche a quello che sarebbe diventato il più famoso prete della Polonia: Karol Wojtyla. Egli però non aveva mai accettato alcun compromesso con il regime comunista. Bisogna dire che trovava in questo un grande aiuto nella sua estrema povertà che lo rendeva immune da qualsiasi ricatto: non aveva nulla, nulla gli poteva essere offerto. Non desiderava nulla; quindi, non era ricattabile. Egli non ha mai accettato coinvolgimenti, anche se conosceva a fondo le difficoltà che si dovevano affrontare per sopravvivere in Polonia.
Si può dire che la sua comprensione delle difficoltà del prossimo faceva parte, in fondo, della sua profonda spiritualità, della sua profonda libertà e, alla fine, della sua stessa vita di fede. Le reazioni verso i fatti che vedeva erano esemplificative del suo modo di essere e della sua ricca esperienza di vita, molto comprensiva verso gli altri. "Bisogna imparare a perdonare", mi disse una volta facendo riferimento a questi fatti. E lo diceva lui che non aveva bisogno di perdono alcuno per le "colpe" di tanti in quegli anni. E questo atteggiamento di giustificare alcune scelte di quegli anni è rimasto in lui anche quando anni dopo ha dovuto esercitare il perdono in nome di tutta la Chiesa.
Ma lui aveva, certamente, scelto un’altra strada. Wojtyla aveva vissuto nell’ecosistema della menzogna istituzionalizzata dal giorno della sua ordinazione come prete a quello della sue elezione a Papa. Tutti gli anni della sua formazione e poi dello sviluppo della sua personalità avevano avuto come humus questo ambiente sociale e culturale. Penso che soltanto le caratteristiche della sua persona siano state il vero motivo per cui Wojtyla scelse una strada diversa rispetto a tanti altri.
Certamente, egli dovette ricorrere a degli pseudonimi per pubblicare le sue poesie, le sue opere di teatro e i suoi saggi di antropologia personalista, finanche per realizzare la sua strategia di confronto con il regime. Egli però non ricorse all’anonimato per nascondersi o per accettare sotterfugi, ma per realizzare con maggiore libertà la sua lotta centrata nel senso della cultura, per l’educazione e per i valori in cui credeva, senza dover esporre pubblicamente e ufficialmente la Chiesa a rischi inutili.
La sua scelta "diplomatica" è stata in fondo così poco diplomatica, anche se, alla fine, coronata dal successo, perché portatrice di una visione più ricca di umanità. In effetti, il profondo rispetto che tutti hanno rivolto verso Giovanni Paolo II, anche in occasione della sua morte, era molto legato al suo carisma e al suo peculiare modo di essere così comprensivo verso gli altri, ma anche così intransigente nelle scelte fondamentali. Questo atteggiamento era capito perfettamente anche da chi non lo amava: incuteva rispetto e, alla fine, ammirazione.
Il Cardinale Wyszynski chiedeva sistematicamente in quegli anni ai giovani preti di sottoscrivere un impegno formale di lealtà verso la Chiesa in Polonia. A Wojtyla non lo chiese mai né Wojtyla formalizzò mai impegni di questo tipo. Non ce ne era bisogno. Lo sapeva Wyszynski. E lo sapevano anche tutti gli altri preti. E lo sapeva lui stesso.
Una volta ho sentito raccontare da lui, con un velo di ironia, delle volte che era stato convocato dalla polizia per gli inevitabili e frequenti interrogatori. Loro chiedevano delle sue posizioni sulla politica, sulla società, sulla struttura del potere. Lui non aveva fretta nelle sue risposte. E parlava dell’uomo in una concezione personalista, citando alcuni pensatori contemporanei ma anche l’Etica di Aristotele e perfino la Politica di Platone. Poi distingueva tra l’etica dei valori in Max Scheler e i pericoli di un solipsismo che si concretava nel "riflettere sulla riflessione".
Naturalmente, i funzionari non capivano niente di quei lunghi monologhi. Alla fine lo lasciavano partire: "Non è pericoloso" segnavano nei loro appunti. "E pensavano - mi diceva lui anni dopo ridendo - che un giorno anche io avrei potuto collaborare". Non è un caso, ad esempio, che Wojtyla sia stato l’unico vescovo polacco ad aver ottenuto il passaporto con il visto per partecipare a tutte le sessioni del Concilio Vaticano II. All’inizio, le autorità polacche pensavano erroneamente che egli avrebbe ceduto e accettato una qualche forma di incontro con il regime, passando se non dalla loro parte almeno ad una parte grigia e intermedia, cioè quell’ambito sbiadito che di solito chiamiamo "spazio di nessuno". Probabilmente, l’apparato politico aveva tenuto conto dell’abilità diplomatica e della grandezza di pensiero dell’interlocutore, ma certamente gli sfuggiva la sua alta visione dell’uomo e soprattutto, la sua libertà spirituale.
Tutte le volte che in discussione erano i valori fondamentali, allora non era più il momento di discutere, ma di affermare la verità. Quando non esiste libertà nell’aria che si respira, pensava, l’unico modo di sopravvivere sta nel non tradire la verità che si ha dentro poiché nel difendere e proteggere quella verità interiore sta l’unica forma di libertà che è veramente essenziale all’essere umano. Wojtyla in quegli anni non diceva soltanto la verità, ma piuttosto viveva nella verità: la verità che l’ecosistema totalitario di quelli anni, sistematicamente faceva affogare con la menzogna strutturata. Ed essendo così libero interiormente, non fu mai sottomesso a nessuna schiavitù, neanche a quelle forme di schiavitù minuta che erano tanto comuni intorno a lui per poter - dicevano - andare avanti. Ascoltando da lui i racconti di quelli anni, si aveva l’evidenza della straordinaria eleganza con cui aveva portato il peso che non sfugge in un modo o nell’altro a tutti noi: il peso di essere uomini.
Il coraggio e la coerenza fino all’eroismo, come si sa, sono virtù rare, e non tutti ne dispongono facilmente. Per questo, e soprattutto per quel "bisogna imparare a perdonare" che più di una volta ho ascoltato da Giovanni Paolo II riferito a quegli anni, penso che la difficoltà maggiore sta alle volte non nel giudicare - impresa sempre rischiosa - ma nel comprendere. O almeno nel cercare di comprendere. Il che non esclude l’ammirazione e magari anche la gratitudine verso chi nell’ambivalenza tra la compromissione e l’eroismo ha scelto la strada della verità.
* la Repubblica, 8 gennaio 2007
Autogol in cattedrale
di ENZO BETTIZA (La Stampa, 8/1/2007)
Non è facile comprendere lo scandalo più grave che sia mai scoppiato, dopo l’89, nel pur tumultuoso universo ex comunista dell’Europa centrorientale: le dimissioni con cui l’appena nominato arcivescovo di Varsavia ha completato in ventiquattr’ore l’inaudita ammissione di essere stato per due decenni una spia al servizio della polizia comunista.
Si pensi per un attimo alla vertiginosa profondità dello scandalo. La cattolicissima Polonia, la terra martire delle fosse di Katyn, patria di Solidarnosc e di Karol Wojtyla, antagonista di prima linea del comunismo russo, che ha rischiato di esibire stabilmente alla sommità della propria Chiesa un primate un tempo legato ai servizi controllati dall’oppressore straniero: servizi, per dirla fino in fondo, che facevano capo al Kgb moscovita, alla Lubjanka di Andropov, dove con ogni probabilità era stato premeditato il piano per l’assassinio del combattivo pontefice polacco. Non si conosce comunque la natura dei danni causati, negli anni, dalle attività occulte del prelato che aveva perfino seguito un corso di addestramento clandestino per spie. Ci sono innocentisti che oggi lo difendono e altrettanti colpevolisti che lo condannano.
Ma il punto non è soltanto la quantità di male che monsignor Wielgus può aver provocato nel passato alla Chiesa e ai dissidenti che ne popolavano le trincee anticomuniste. Il punto essenziale della questione lo ha bene individuato lo storico Bronislaw Geremek, personaggio di punta della rivoluzione democratica di Solidarnosc, il quale ha detto: «In un Paese dove la Chiesa è sempre stata punto di riferimento morale e costitutivo della tradizione nazionale, il caso Wielgus crea ribrezzo e sconvolge. Non solo perché egli ha collaborato a lungo con i vecchi servizi, ma anche perché ha negato la verità fino all’ultimo». Come dire: il semplice fatto di essere stato una spia con tanto di nome in codice, perdipiù confessa, avrebbe dovuto suggerire al porporato di rifiutare l’alto incarico alla guida della diocesi di Varsavia che, all’epoca del primate Wyszynski, fu un glorioso simbolo di resistenza contro il colonialismo russo. O, quanto meno, il cardinale, incalzato dalle rivelazioni sulla sua doppia vita, il cardinale che aveva mentito fino alla vigilia della solenne investitura nella cattedrale, avrebbe dovuto invertire i tempi della rinuncia: prima dimettersi e poi confessare. Non lasciare insomma il minimo margine di dubbio sull’ipotesi che un cardinale, una volta emendatosi in pubblico del peccato di «tradimento», potesse restare perdonato e inamovibile al vertice della più importante diocesi di Polonia.
Probabilmente il Vaticano sapeva tutto ma esitava a intervenire. L’impressione è che il pontefice tedesco abbia cercato d’immischiarsi il meno possibile nelle strane decisioni della gelosa gerarchia polacca, al cui interno si cerca di occultare tra silenzi misericordiosi e rimozioni pietose la mole di smarrimenti che coinvolse una parte del clero ai tempi della dittatura comunista. Può darsi inoltre che l’atavico realismo politico del Vaticano, il quale ha spesso usato verso le prigioniere e vulnerabili Chiese dell’Est pesi e misure alternate, ora sostenendo ora frenando presuli crociati come Wyszynski, Mindszenty, Stepinac, abbia indotto il papa a socchiudere un occhio sul passato di Wielgus lasciando ai cattolici polacchi di risolvere tra loro uno scandalo che, al dilà del fatto religioso, va assumendo i contorni incontrollabili di una dirompente patologia nazionale. In un contesto tanto delicato, per non dire esplosivo, l’ideale per Ratzinger era quello di accettare le dimissioni di Wielgus anziché imporle e così è avvenuto.
La prudenza della Santa Sede la si spiega ancor meglio sullo sfondo dell’incalzante crisi politica e psicologica che, da un anno a questa parte, sta alterando l’identità europea e democratica della Polonia. Il grande tema, pieno d’insidie, che da qualche tempo agita gli animi dei polacchi è infatti: chiudere pietosamente le piaghe del passato comunista o riaprirle inquisitoriamente? I gemelli Kaczynski, uno capo dello Stato e l’altro del governo, ambedue populisti di destra e ipernazionalisti, danno l’impressione di voler spingere il Paese alla deriva e ai margini dell’Europa. Essi soffiano sulle braci dell’ancestrale antisemistismo polacco e sostengono l’Istituto della memoria nazionale che, a colpi di dossier più o meno autentici o del tutto apocrifi, estratti da archivi segreti, sta intossicando il clima della convivenza nazionale. Si va diffondendo un clima di caccia alle streghe in una società ammorbata da decenni di comunismo dove, purtroppo, come dimostra il caso dell’arcivescovo spia, le streghe ci sono e sono tante e annidate perfino nella Chiesa «più cattolica del mondo». Il rimbombo mediatico, tra cui spicca per fanatismo e volgarità l’emittente nazionalclericale e filogovernativa di Radio Marija, s’interessa sempre meno ai parametri di Maastricht e sempre più ai fantasmi della Vistola: la cattiva memoria del tempo che fu tende a sostituirsi al presente e a ingoiarlo.
Tutto questo comunque non relativizza e non sminuisce la gravità dello scandalo dell’arcivescovo dimissionario, lo colloca però in un quadro ambientale quanto mai inquinato e ambiguo. L’atmosfera da inquisizione, che sta avvelenando la Polonia gemellocratica dei Kaczynski, avrebbe dovuto semmai suggerire alla Chiesa di prendere per tempo le distanze che non ha preso nei confronti di un porporato bugiardo e già da alcune settimane seriamente indiziato. Esporre alla berlina dell’autodenuncia e alla costrizione delle dimissioni il successore del primate Glemp, dopo due giorni dalla nomina episcopale, è stata la svista peggiore che l’orgogliosa gerarchia polacca potesse commettere.
La spia che venne dal clero
di Siegmund Ginzberg *
Quella del pastore che scende a patti col lupo per salvare il proprio gregge è una storia che si ripete. Per mettere a repentaglio la propria reputazione ci vuole talvolta più coraggio che mettere a rischio la propria vita, più eroismo a lavorare pazientemente per i compromessi che fare i martiri. A meno che uno il patto col lupo (o il diavolo) non lo faccia per salvare solo la stalla, non il gregge, solo l’istituzione di cui fa parte, la propria parrocchia, senza muovere un dito per le pecore delle greggi di altro colore, oppure addirittura solo se stesso e il proprio comodo.
A proposito dello scandalo che sta scuotendo i vertici della Chiesa polacca (l’arcivescovo di Varsavia, Stanislaw Wielgus, dimissionario confesso per collaborazione coi servizi segreti comunisti, il rettore della cattedrale di Cracovia, Janusz Bielanski, che lo segue a ruota, il primate di Polonia, Jozef Glemp, sotto accusa per averli difesi), il dottor Joaquìn Navarro-Valls, che era stato portavoce di Papa Wojtyla, ha elegantemente scritto di aver imparato da Giovanni Paolo II che «la difficoltà maggiore sta alle volte non nel giudicare - impresa sempre rischiosa - ma nel comprendere. O almeno nel cercare di comprendere». Ricorda di avergli sentito raccontare, «con un velo di ironia, delle volte che era stato convocato dalla polizia». «Loro chiedevano della sue posizioni sulla politica, sulla società, sulla struttura del potere». Lui parlava di filosofia. Quelli non capivano niente, e alla fine gli davano il passaporto. Navarro Valls racconta che Wojtyla gli disse ridendo: «Pensavano che un giorno anche io avrei potuto collaborare». Era forte del fatto che non avevano molti argomenti di ricatto: «Non aveva nulla, nulla gli poteva essere offerto. Non desiderava nulla; quindi non era ricattabile». Sta di fatto che, se non si compromise, non fece nemmeno nulla per deludere le «speranze» dei suoi nemici. Era stato l’unico vescovo polacco ad ottenere il passaporto con il visto per partecipare a tutte le sessioni del Concilio Vaticano. Era un grande leader spirituale, ma anche un politico accorto. Le autorità comuniste lo trattarono sempre coi guanti finché restò a Varsavia. Ricordo il vecchio, tremendo Gian Carlo Pajetta che scherzava: «Chissà se in Italia riusciremo ad essere all’altezza dell’attenzione che gli dedicava il governo polacco; sicurezza totale, un elicottero sempre a disposizione...». Con estrema eleganza, fu lui a metterli nel sacco, non viceversa. E può essere che per questo qualcuno abbia dato l’ordine di ammazzarlo. Ma era già Papa quando dalla Chiesa venne l’ordine a Walesa di non esagerare nello scontro e mettersi da parte.
Diverso lo stile dei commenti che sulla vicenda polacca arrivano dal Vaticano di Benedetto XVI. Un cardinale, il prefetto della congregazione per i vescovi, Giovanni Battista Re, si è precipitato per prima cosa a salvare il Papa e la casa madre dal pasticcio: «Noi non sapevamo nulla della collaborazione (di Wielgus) coi servizi segreti». Il portavoce, Federico Lombardi, si è messo addirittura ad evocare oscuri complotti, a denunciare una «ondata di attacchi» alla Chiesa cattolica in Polonia, persino «molti aspetti di una strana alleanza fra i persecutori di un tempo e altri suoi avversari, e di una vendetta da parte di chi nel passato l’aveva perseguitata ed è stato sconfitto dalla voglia di libertà del suo popolo». Un linguaggio del genere Papa Wojtyla non l’avrebbe permesso nemmeno quando gli spararono. Non è solo poco «elegante», il guaio è che rischia di essere controproducente, aumenta la confusione anziché chiarire le cose. Dei Papi verrebbe da dire quel che Machiavelli diceva dei principi (e dei leader in generale), e cioè che la maggior dote è la fortuna. Se c’è una cosa su cui questo Papa non sembra aver avuto fortuna, sin dall’inizio del suo pontificato, è la comunicazione. Prima le gaffe sulle responsabilità tedesche nell’Olocausto, poi il putiferio della lezione di Ratisbona, ora la faccenda polacca, un’impressione continua di dover rimediare a un malinteso dopo l’altro.
Ma con chi ce l’hanno? Con la destra ultra nazionalista, antieuropea, quasi «leghista», dei gemelli Kacynski? Con una non specificata ala di nostalgici dei servizi comunisti? Con nostalgici del Papa polacco in polemica col Papa tedesco? Con un possibile regolamento di conti all’interno della gerarchia cattolica polacca? Il primo a pubblicare, lo scorso autunno, una lista di 37 agenti, informatori, collaboratori dei servizi segreti del regime comunista, che avrebbero contribuito a perseguitarlo, era stato padre Henryk Jankoswski. Nella lista figuravano ben 9 sacerdoti, e persino un vescovo. Padre Jankowski non è uno qualunque: era il confessore di Lech Walesa; in passato avevano creato parecchio imbarazzo le sue tirate ultrà e antisemite.
In fatto di «compromessi» tra uomini di religione e potere, le cose sono spesso più complicate di quanto appaia a prima vista. C’è una predisposizione al vivere e lasciar vivere, se non a stare dalla parte del potere, qualunque sia, ma c’è modo e modo. È quasi mezzo secolo che in Cina ci sono due chiese cattoliche, pronti additarsi come traditori: la chiesa «patriottica», di regime, e la Chiesa fedele al papa. Succede per gli ortodossi: se nessun Papa ha messo piede in Russia non è colpa di Putin ma della Chiesa di Mosca. A scatenare la rivolta del 1989 contro il regime di Ceausescu, era statala persecuzione di un pastore protestante della minoranza ungherese di Timisoara, Lazlo Tokes, abbandonato dal suo vescovo, poi accusato di essere al soldo della Securitate. Fucilato il dittatore, il leader spirituale del 90 per cento dei rumeni, l’allora settantacinquenne patriarca ortodosso Theocist, fu costretto alla dimissioni e a ritirarsi in convento, per essersi compromesso troppo col regime. Ma il caso che ricordo allora mi aveva più impressionato era quello del rabbino capo di Romania, Moses Rosen. Aveva 77 anni quando fu accusato di avere collaborato con troppo entusiasmo con Ceausescu, di essere stato un suo agente e portavoce all’estero, uno strumento del regime. Il vecchio rabbino rispose che delle accuse non gli importava un fico secco, che tutto quello che aveva fatto era per proteggere il suo popolo, che era fiero di essere riuscito a comprare da quel «fascista» di Ceausescu le libertà di emigrare per 300.00 ebrei, mezzo suo gregge, e la libertà di culto per quelli che restavano, e che, se necessario, l’avrebbe rifatto tutto da capo.
* l’Unita, Pubblicato il: 09.01.07, Modificato il: 09.01.07 alle ore 8.34
Addio all’uomo che fermò i tank golpisti
di Adriano Guerra *
Anche perché si usa non parlare troppo male dei morti è possibile che le critiche, spesso pesanti, che sono state per tanto tempo indirizzate a Eltsin, vengano messe per qualche giorno da parte. Non che si tratti di critiche immeritate. Il nome di Eltsin è, e rimarrà irrimediabilmente, legato ai costi tremendi che milioni di russi hanno pagato per una liquidazione, quella dello dello Stato-proprietario sovietico, avvenuta attraverso una gigantesca «appropriazione indebita» compiuta da alcune migliaia di persone ai danni della popolazione. E tra queste migliaia di persone vi erano in prima fila anche i familiari e gli amici del nuovo capo del Cremlino.
Né c’era e c’è solo questo. Si pensi alle responsabilità che è giusto attribuire ad Eltin, oltreché ad un gruppo di deputati golpisti, per l’assalto alla sede del Parlamento del settembre 1993. E ancora si pensi a come è nata la prima guerra di Cecenia. Non è stato insomma per caso che Eltsin ha potuto lasciare il Cremlino solo dopo aver raggiunto con Putin, il successore da lui scelto, un patto che gli si garantiva l’impunità. Detto questo va però anche aggiunto che quel che nessuno ha potuto e può negare ad Eltsin è il merito di essere stato il fondatore sulle ceneri dell’Urss dello Stato russo, e di uno Stato russo che per la prima volta nella storia si presentava spogliato o quasi dall’impero. L’immagine che di lui resterà sarà probabilmente quella, dunque, che lo vede nell’agosto del 1991 arringare il popolo di Mosca dal carro armato mandato a far fuoco contro il parlamento russo dai colpisti che avevano bloccato e imprigionato in Crimea il Presidente dell’Urss Gorbaciov. Eltsin e Gorbaciov dunque. Due destini, due linee che si incontrano e si separano, per incontrarsi di nuovo e subito separarsi nel quadro confuso e drammatico di un processo di implosione che non ha precedenti.
Entrambi,i due Presidenti, ritengono all’inizio che il sistema sovietico sia ancora riformabile. Gorbaciov pensa alla Nep di Lenin, ad una serie di «riforme radicali» che investendo l’economia e il sistema politico, possano permettere al Paese di uscire dalla crisi nella continuità coll’ ottobre 1917. Gorbaciov pensa che lo strumento su cui puntare per portare avanti la perestrojka, come «rivoluzione nella rivoluzione», sia il partito e punta sui piccoli passi, sulla necessità di salvaguardare l’intesa con i «conservatori» del partito perché senza di essi - pensa - il fallimento è sicuro. È su questo punto che si scontra con Eltsin, col populismo radicale e il «giustizialismo», ma anche con lo straordinario intuito politico di quest’ultimo. Lo scontro è durissimo e apparentemente la vittoria sembra arridere a Gorbaciov che batte e umilia il rivale davanti ai quadri del partito di Mosca. Si tratta però di una vittoria di breve durata.
Sorretto da una valanga di voti Eltsin diventa infatti Presidente della Repubblica federativa russa e dà immediatamente battaglia a Gorbaciov. Alla base del suo successo c’è una lucida visione della natura della crisi che aveva investito l’Unione sovietica e i fatti gli daranno ragione. In quel decisivo agosto del 1991 si vide chiaramente che l’Unione sovietica come Stato unitario non esisteva più. Non c’era più a Mosca un potere centrale in grado di governare o anche solo di tenere in piedi il Paese. Il progetto di riforma che, con un ritardo che doveva rivelarsi fatale, Gorbaciov aveva approntato per bloccare le spinte centrifughe, venne bloccato prima ancora che dalle varie repubbliche ormai avviate verso l’indipendenza, dagli stessi golpisti del Pcus. Quando questi ultimi misero agli arresti Gorbaciov dopo aver cercato, invano, di conquistarne l’appoggio, non ci fu un solo strumento o organo istituzionale dello Stato sovietico - il partito, il Soviet Supremo, l’Armata rossa, la polizia politica - che si mosse in difesa del potere centrale e della linea della perestrojka. A muoversi è stato solo, col suo Presidente, il Soviet supremo della Russia. E quando Eltsin il successivo 8 dicembre 1991 firmò coi presidenti dell’Ucraina e della Bielorussia il documento che sanciva la fine dell’Unione sovietica come Stato sovrano, non fece che stendere l’atto notarile col quale si prendeva atto della realtà.
Il giudizio che si deve dare su Eltsin uomo di Stato non può certo fermarsi ai momenti che riguardano il ruolo decisivo da lui ricoperto nei mesi della convulsa fase finale del crollo dell’Urss. Per quel che riguarda il periodo successivo si è già detto della necessità di tener conto del carattere del tutto inedito della situazione e dei compiti che il primo Presidente della Russia si è trovato a dover affrontare. Il quadro politico-culturale era in quel 1991 estremamente complesso. Si parlava della necessità di riconoscere il «pluralismo degli interessi e delle idee» ma non di pluripartitismo (anche se partiti e gruppi politici di ogni sorta nascevano a centinaia). Il «mercato» era visto come qualcosa che avrebbe dovuto rientrare entro la formula del «socialismo di mercato». Del tutta aperta era la questione della stessa «identità» dello Stato russo e della sua collocazione ( «occidentale» o «euroasiatica»?).
Altrettanto contradditorie erano inevitabilmente in questo quadro le proposte avanzate che riguardavano la politica verso gli altri Stati indipendenti nati dal crollo dell’Urss (il «vicino estero» come veniva un poco ambiguamente chiamato) nonché verso i Paesi occidentali. E tutto questo nel pieno di una crisi economica per cui la nuova Russia era costretta a rivolgersi all’Occidente per chiedere prima ancora che riconoscimenti politici e prestiti, continue dilazioni nei pagamento del debito dell’Urss e aiuti in derrate alimentari.
Tenendo conto di questo - nonché di quel che si è detto all’inizio parlando del dilagare della corruzione e del ruolo negativo giocato dal «populismo» di Eltsin - è possibile provare ad elencare alcuni dei risultati che è giusto attribuire al primo presidente della Russia: le basi di uno Stato «normale» sono state create e, coi loro limiti, si tratta di basi democratiche basate su una Costituzione, sul pluripartitismo, sul voto elettorale libero, sull’assegnazione di spazi assai ampi (eccessivi, come si è poi visto) di autonomia alle Repubbliche e ai territori della Federazione, su una politica estera di pace aperta verso Occidente. Si tratta di basi certo ancora limitate, e va detto. Va detto anche però che oggi è la politica di Putin a colpire queste basi.
* l’Unita. Pubblicato il: 24.04.07, Modificato il: 24.04.07 alle ore 10.19
Dittature dell’Est contro l’Europa
di Barbara Spinelli (La Stampa, 21.05.2007)
E’ importante quel che accade lungo la frontiera Est dell’Unione, nel momento in cui a Parigi c’è un nuovo Presidente che promette di metter fine all’inedia che affligge l’Europa dal 2005, quando la costituzione fu bocciata in Francia e Olanda. È una frontiera dove stanno mettendo radice nazionalismi autoritari, che avvalendosi del diritto di veto insidiano mortalmente il farsi dell’Europa e il suo guarire. Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner dicono che Parigi cambierà politica, difendendo i diritti dell’uomo nel mondo e combattendo le dittature. Ma la vera battaglia inizia in casa, se davvero la si vuol fare: il male è dentro l’Europa, ed è letale e contagioso. Le periferie dell’Est sono le nostre marche di confine, da quando la comunità s’è allargata, e questa loro condizione - l’esser baluardi orientali dell’Unione, come la Germania occidentale nella guerra fredda - le rende determinanti in politica estera e militare. Sono i governi dell’Est a decidere come e se l’Europa comincia a negoziare con il retroterra russo. Sono loro a influire sui rapporti con Washington, a meno d’un tempestivo chiarimento.
Chi vive nel cuore dell’Unione ha meno preoccupazioni politiche e strategiche di chi presidia le frontiere: questo è il dato da cui conviene partire quando si esamina quel che succede a Varsavia, Bratislava, Budapest, Bucarest, nei Baltici. I governi dell’Est hanno utilizzato questa carta (l’acuta coscienza delle marche di confine) ma col tempo il ragionamento strategico è divenuto un pretesto per insediare nazionalismi intolleranti che con le regole e la storia dell’Unione sono incompatibili. Il bisogno d’America che essi esprimono - su Iraq, sullo scudo anti-missili Usa, su ulteriori allargamenti a Est auspicati da Washington - è un mezzo per impantanare l’Europa con tre armi: il nazionalismo, l’appello al cristianesimo, la politica dei valori.
Il caso Polonia è il più significativo, ma il suo esempio fa scuola attorno a sé. Da quando i gemelli Kaczynski sono al potere, dopo le legislative e presidenziali del settembre-ottobre 2005, Varsavia è precipitata in un nazionalismo prevaricatore e religioso. Quel che conta per i due fratelli (Lech presidente, Jaroslaw premier) è opporre la democrazia al liberalismo, non solo economico ma istituzionale e dei diritti cittadini. Solo due idoli contano per loro - la legittimità popolare, i Valori - e su essi nulla deve prevalere: né le norme né la Costituzione, né le istituzioni né la divisione dei poteri. Una dopo l’altra, le istituzioni indipendenti sono state politicamente asservite (Banca Centrale, Corte costituzionale,Vigilanza sull’audiovisivo). Uno svuotamento democratico accentuato dal regolamento dei conti con la generazione dissidente, che nell’89 liberalizzò economia e politica negoziando con i comunisti (un metodo rischioso, che garantì alle nomenclature impunità e oblio del passato). Il regolamento dei conti secerne oggi la più vendicativa delle epurazioni.
La legge entrata in vigore a marzo si propone di epurare ben 700 mila persone. Secondo i calcoli fatti da Aleksandr Smolar, presidente della Fondazione Batory a Varsavia (filiale della fondazione Soros), sono 3 milioni i cittadini messi in pericolo dalla lustrazione, se si includono le famiglie dei 700 mila. Ha fatto impressione la ribellione di Geremek, leader di Solidarnosc negli Anni 80 e ministro degli Esteri fra il ’97 e il 2000: il deputato europeo si è rifiutato di firmare un’umiliante dichiarazione in cui negava d’aver collaborato con i servizi comunisti. Ma tanti si son rifiutati, perché l’epurazione non minacciava di licenziamento solo politici o giudici (come la legge del ’97) ma studenti, professori, giornalisti. La Corte costituzionale ha invalidato la legge, l’11 maggio, affermando che i governi «non regnano sulla Costituzione» e i diritti individuali. Di fatto sono forme neo-fasciste che s’installano a Est.
Un neofascismo che usa la politica dei valori per imporre società chiuse, ostili alle diversità: per colpire chi difende gli omosessuali, chi avversa la pena di morte, chi si schiera per un’Europa che i Kaczynski considerano atea, permissiva, materialista, decadente moralmente. È in nome delle radici cristiane che i gemelli si ergono contro un’Unione sovrannazionale, e legittimano l’arbitrio nazionalista: chi in Europa occidentale inalbera bellicosamente i Valori, ha interesse a vedere quel che succede qui. I grandi nemici dei Kaczynski sono la Russia ma anche la Germania accusata di furia egemonica: le due nazioni sono messe sullo stesso piano, la battaglia per i diritti umani violati da Putin è contaminata. Ambedue le potenze si spartirebbero l’Europa centrale e minaccerebbero, come in passato, la sopravvivenza polacca. Paralizzata com’è, l’Europa di oggi non ha tuttavia strumenti d’intervento: né istituzionali né culturali. Non ha neppure volontà di capire. È tormentata dal falso dibattito sulle radici cristiane, non osa difendere una laicità vitale per la democrazia polacca. Fu vigilante nel 2000, quando Haider in Austria s’avvicinò al potere, ma quei tempi son tramontati e oggi, in una situazione ben più deteriore (un’estrema destra ai vertici del potere), impensabili. La vigilanza d’allora fu ingiustamente criticata, ritenuta inefficace. In realtà l’Unione influì grandemente su Vienna. Il cancelliere democristiano Schüssel fu abile, nell’assorbire Haider invece di demonizzarlo. Ma mai sarebbe riuscito nell’impresa, senza il vigile occhio esterno dell’Unione. Oggi l’occhio è cieco.
A bloccare l’Europa è la stasi istituzionale, ingovernabile da quando l’Unione è composta di 27 Stati: sulle decisioni cruciali occorre l’unanimità, e al veto gli orientali s’aggrappano rabbiosamente, perché il diritto di nuocere e interdire dà loro lo smalto di mini-potenze. Smalto fittizio, ma pur sempre smalto. Senza che l’Unione possa impedirlo, ci sono deputati polacchi nel Parlamento europeo che impunemente elogiano Franco (uno «statista cattolico eccezionale») o Salazar. Il deputato europeo Maciej Gyertich ha pubblicato un pamphlet antisemita, edito dal Parlamento europeo (Guerra delle civiltà in Europa: gli ebrei, «biologicamente differenti», avrebbero scelto volontariamente i ghetti). Maciej è padre di Roman Gyertich, il ministro dell’Educazione che vorrebbe escludere Darwin dall’insegnamento, che avversa gli omosessuali e appartiene alla Lega della Famiglie Polacche, una formazione che governa con i Kaczynski e l’estrema destra di Lepper (partito dell’Autodifesa).
La Carta dei Diritti potrebbe essere uno strumento europeo: ma non è vincolante senza approvazione della Costituzione. È sperabile che Kouchner si batta per non estrometterla dal mini-trattato che sarà presentato in Parlamento. L’Unione è inerme: ha contato molto durante la presidenza Prodi, quando Bruxelles impose una democrazia fondata sulla separazione dei poteri in cambio dell’adesione. Ma appena ottenuto l’ingresso, i dirigenti che l’avevano voluto sono caduti: a Varsavia, Praga, Budapest, Bucarest. Lo slogan s’è fatto nichilista: adesso che siamo entrati, tutto è permesso. Jacques Rupnik, storico della Cecoslovacchia, parla di sindrome da decompressione. «Ora possiamo far loro vedere chi siamo veramente», avrebbero detto i Kaczynski. Quasi nessuno di questi Paesi entrerebbe oggi nell’Unione: né la Polonia né l’Estonia, che critica non senza motivi Putin ma che smantella provocatoriamente monumenti ai morti dell’ultima guerra e vieta alle consistenti minoranze russe (40 per cento della popolazione) una cittadinanza che dovrebbe esser normale (lo stesso accade in Lettonia).
L’Europa ha oggi bisogno di istituzioni forti, ma per edificarle dovrà capire l’emergenza veto creatasi a Est. Ha bisogno di laicità, per arrestare le proprie derive autoritarie-religiose. Ha bisogno di trattare seriamente con Mosca, e di avere una politica energetica comune anziché molte politiche e sterili veti alla trattativa. Uno straordinario articolo di Piero Sinatti, sul Sole-24 Ore, spiega bene come la Polonia rischi, bloccando il negoziato euro-russo, d’impedire che una risoluta politica comune nasca. L’emergenza veto dovrebbe ricordare qualcosa ai polacchi. Quando introdusse il liberum veto, nel XVII secolo, la Polonia preparò la propria rovina: ogni deputato della Dieta poteva interrompere sessioni e decisioni con le parole «Non permetto». Nel secolo successivo sarebbe scomparsa dal continente. È grave che oggi Varsavia usi la stessa carta per far scomparire l’Europa, nell’illusione di salvarsi come finta nazione sovrana.
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La rivista «La Nuova Europa» pubblica una lettera inedita in Italia in cui l’autore russo prefigurava l’equivalenza dei regimi
Pasternak: nazismo e comunismo sono gemelli
Lo scrittore nel ’33 definiva i due totalitarismi «figli della stessa notte materialistica»
di Boris Pasternak (Corriere della Sera, 14.07.2008)
5 marzo 1933, Mosca
Miei cari mamma e papà, scusate se per tanto tempo non vi ho scritto, proprio non mi riusciva.
Non so come rispondere alla tua domanda a proposito di Anatolij Vasil’evic’; è questione terribilmente difficile e non ne ho il cuore. Un uomo che ha sofferto un colpo, la cui vita è appesa ad un filo, invecchiato, irriconoscibile, pronuncia davanti agli scrittori un discorso pubblico sulla drammaturgia, pieno di odio e di minacce, assetato di sangue e rivoluzionario: e questo quando ha già un piede nella fossa. Io ascoltavo con orrore e indicibile pietà. Mi sarà difficile trattare con lui, tanto più che si dice sia ancora malato. Forse è meglio che tu chieda a Šura.
Avete gioito troppo presto per la mia raccolta: l’hanno vietata. E inoltre in questi giorni hanno vietato anche la seconda edizione de Il salvacondotto, dedicata alla memoria di Rilke. Nonostante tutti questi dispiaceri siano insignificanti rispetto a come vive qui la gente, scriverò comunque a Gor’kij, per quanto ciò mi pesi. Le parole sul mio conto in cp. pal. hanno colto nel segno. Amara verità.
Come spesso ti ho scritto, a volte mi sembra di essere impazzito o di vivere in un incubo. La passaportizzazione riguarderà anche me: colpisce le due donne che fino ad oggi erano insieme a mio carico e che io ugualmente mantengo. Inoltre, Zina ha ancora una zia che probabilmente sarà sfrattata e non sa dove sbattere la testa. Garrik è già in confusione. Sono nel panico anche i vicini, i Frišman e Praskov’ja Petrovna. Con le tessere del pane ci sono state molte dolorose disavventure. Eppure gli scrittori sono portati in palmo di mano. Ma come fa la gente comune?
D’ora in avanti, forse, diventerà impossibile scriversi: è probabile che cresca la diffidenza da entrambe le parti. Ecco perché scrivo più apertamente che mai e proprio sul tema centrale, affinché in futuro possiamo limitarci esclusivamente a scambi di battute sulla salute, sempre che questa lettera vi arrivi e che a me non succeda nulla.
Auguro di tutto cuore, come pochi altri fanno, che sia coronato da successo qualsiasi tentativo di costruire un’umanità finalmente umana; e lo auguro soprattutto al nostro, visto che è proprio questo lo scopo per cui sono state sopportate così tante prove nel nostro Paese. Mi tormenta la stessa cosa nel nostro sistema qui e nel vostro, per quanto possa sembrarti strano: cioè il fatto che si tratta di movimenti nazionalistici e non cristiani, che corrono l’uguale rischio di scivolare nel bestialismo del fatto e che comportano un’identica rottura con la tradizione secolare misericordiosa, che si nutriva di trasformazioni e di prefigurazioni e non delle mere constatazioni della cieca inclinazione. Sono due movimenti gemelli, di pari livello, dove uno emula l’altro, il che è sempre più triste. Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica.
Rispondimi comunicandomi di aver ricevuto questa mia lettera e dandomi notizie sulla vostra salute, e fammi anche sapere se devo continuare a scrivervi in russo o se è meglio in tedesco. Nel caso la corrispondenza alla nostra vecchia maniera crei difficoltà, per comodità comincerei a scrivervi nel mio pessimo francese storpiato. Avete letto la biografia di Wagner di Guy de Pourtalès? Leggetela. Ho molti progetti, ho una voglia matta di lavorare, ma tutto ciò è ancora là da venire: è idealismo.
Vi bacio forte Vostro Borja Lo scrittore Boris Pasternak (1890-1960) ritratto nel 1924 con la prima moglie Evgenija Lourie e il figlio Evgenij
La capacità rabdomantica di anticipare gli eventi
di Dario Fertilio (Corriere della Sera, 14.07.2008)
Un Boris Pasternak talmente ispirato da sembrare il dottor Zivago, da identificarsi completamente con il suo personaggio letterario più famoso. È questo il profilo dell’autore di questa lettera, inedita fuori dalla Russia.
Testimonianza doppiamente forte e inquietante, se si considera la data che porta, cioè il 5 marzo 1933. Hitler era cancelliere in Germania da due mesi, mentre il regno staliniano teneva ancora in serbo i suoi orrori peggiori.
Eppure Pasternak già sapeva quel che sarebbe accaduto. Come spiegarlo? La risposta è nel passo in cui si parla di prefigurazione, cioè della capacità di vivere gli eventi in anticipo, immaginandoli: questa è considerata caratteristica distintiva dello scrittore ma, più in generale, tessuto connettivo di qualsiasi esperienza realmente umana. È invece il materialismo, secondo Pasternak, ovvero il «bestialismo del fatto», a distruggere l’uomo e la sua anima.
Ma là dove il profetismo dello scrittore si rivela inquietante è nel paragone fra «i due regimi gemelli di pari livello, dove uno emula l’altro», comunismo e nazionalsocialismo. Chi, oltre a Pasternak, poteva aver già colto nel 1933 quella affinità tra i due sistemi che qui lo spinge a scrivere: «Sono le due ali, destra e sinistra, della stessa notte materialistica»? Certo, un altro grande della letteratura russa, Vasilij Grossman, avrebbe descritto in Vita e destino l’equivalenza delle due bandiere rosse - una con la falce e martello e l’altra con la svastica - ma sarebbe arrivato a una simile, amara conclusione solo nel 1960.
L’unica spiegazione possibile è questa: la particolare filosofia di Boris Pasternak, la sua teoria riguardo alla necessità di lasciarsi invadere dalla vita senza remore, pronunciando un sì a ogni suo aspetto, comprese le illuminazioni e le contraddizioni, lo rese straordinariamente ricettivo, acuto, rabdomantico nell’indagare la marea montante dei totalitarismi.
Il merito della scoperta va a Serena Vianello, che si è imbattuta nel documento (il cui originale appartiene al fondo Pasternak di Oxford) consultando a Mosca l’Opera Omnia dello scrittore, da poco pubblicata. I riferimenti cui si allude nel documento sono stati decifrati da Simona Vianello: Anatolij Vasilevic, ad esempio, è Lunacharskij, primo commissario del popolo per l’Istruzione, cui il padre di Boris sperava di strappare l’autorizzazione a pubblicare un suo libro. Šura è il nomignolo di Aleksandr, fratello minore dello scrittore; la «passaportizzazione» allude al nuovo obbligo di passaporto interno con indicazione del domicilio; Garrik era un grande pianista, marito della sua futura seconda moglie; Guy de Pourtalès un biografo svizzero famoso all’epoca. Soltanto della misteriosa sigla «cp. pal.» sembra non sia ancora stata trovata la chiave.