BIBBIA LAICA di Raniero La Valle (“Rocca”, n. 12, 15.6.2006)
“Se i dieci comandamenti fanno cilecca, state almeno alla Costituzione”. Così disse ai giovani venuti ad ascoltarlo il monaco Giuseppe Dossetti, che ben s’intendeva sia dei primi che della seconda: i comandamenti perché ne aveva fatto ragione di vita, e la Costituzione perché in gran parte l’aveva scritta lui stesso.
Non era la prima volta che si metteva la Costituzione in rapporto con i più alti valori cristiani, nel presupposto di una coerenza tra l’una e gli altri. La Pira aveva provato addirittura, con un emendamento all’Assemblea Costituente, a far partire la Costituzione “in nome di Dio”, ciò che per fortuna non gli riuscì, altrimenti anche Dio sarebbe oggi oggetto di referendum popolare. Tuttavia il fatto che la Costituzione italiana, e le altre costituzioni moderne, non chiamassero in causa né Dio né i suoi santi, né le loro radici, non impedì a Giovanni XXIII di identificare nelle Costituzioni uno dei segni dei tempi che alludono all’avanzare del regno di Dio nella storia. Che gli esseri umani siano liberi, eguali per dignità e diritti, protetti da leggi fondamentali e istituti di garanzia, affrancati dalla guerra e difesi dai raptus di potenza di leviatani, caimani e altri mostri marini a sovranità limitata, è una cosa che piace a Dio ed è stata fatta, o almeno concepita e messa per iscritto dagli uomini.
Per questo le Costituzioni sono un avanzamento decisivo nella storia della civiltà. In Italia la Costituzione ha rappresentato l’uscita dal fascismo, ma la sua portata va bel al di là, perché il costituzionalismo postbellico ha sancito la chiusura di tre grandi cicli storici che avevano per secoli marcato la cultura occidentale e la scena del mondo: il ciclo della guerra, “padre e principio di tutte le cose”, il ciclo della sovranità, come “suprema potestas” nei rapporti interni e internazionali, e il ciclo della disuguaglianza per natura degli esseri umani, dalla città greca di signori e servi al razzismo, alla discriminazione tra “popoli dello Spirito” e “popoli della natura” di Hegel (e poi di Croce e di Hitler, nomi che è un trauma scrivere insieme). L’idea era di voltare pagina per cominciare una storia nuova.
Perciò i cristiani dovrebbero essere i primi ad accorrere in difesa della Costituzione quando essa cade in mano ai Barbari che non sanno a che serve e come si usa, e se ne fanno un’altra a propria misura, come quella che siamo chiamati a votare il 25 e 26 giugno.
L’OBIEZIONE FALSA.
Dicono che non si tratta di una nuova Costituzione, ma solo di cambiare la seconda parte della vecchia. L’obiezione è falsa. La Costituzione mette in relazione il cittadino e il potere, non per descriverli ma per far sì che non abbia a ripetersi che il cittadino sia niente e il potere tutto.
La prima parte parla del cittadino, la seconda del potere. Perciò basta cambiare la seconda parte per togliere ai cittadini valori, libertà e diritti che pur restino scritti nella prima. Così nella nuova Costituzione resterebbe l’art.1 della Seconda parte, che ne attribuisce l’esercizio al Parlamento, i cui poteri sarebbero usurpati dal Primo ministro; e tutto il resto di conseguenza.
Quindi ci sono tutti i motivi per dire di “NO” a questa riforma, e così salvare la Costituzione che, alla fine del suo mandato, il presidente Ciampi definì come la “Bibbia laica”. Bibbia perché portatrice di valori e di ordinamenti irrinunciabili; ma non perché si tratti di un testo immutabile, da leggere in modo fondamentalista e fissista. Neanche la Bibbia è così, essa “cresce con chi la legge” per la forza dell’interpretazione e dell’esperienza.
La Costituzione è anch’essa vivente, e può evolvere e cambiare in singole sue norme. Ma ci sono delle cose essenziali che non si possono cambiare, limiti del potere che non possono essere travolti e garanzie di democrazia, di rappresentanza, di partecipazione popolare che non possono essere trasgredite. Per questo è sbagliata l’iniziativa di chi, a sinistra, dice: “votiamo no” al referendum, e poi facciamo noi quelle stesse riforme che la destra ha fatto da sola.
QUELLE RIFORME APPARTENGONO ALLA CULTURA DELLA DESTRA.
Quelle riforme appartengono alla cultura della destra e chiunque le facesse esse avrebbero lo stesso significato di restaurazione e di rilegittimazione delle vecchie sovranità deposte dai troni. Affrontare il referendum con questa coscienza debole, ammiccando alla destra “riformatrice” e progettando Convenzioni o Costituenti per fondare un’altra Repubblica, vuol dire perdere il referendum e lasciare il popolo senza più difese. Allora subito cadrebbe il governo Prodi, il centrosinistra avrebbe fallito mancando alla prova più impegnativa, e lo scettro sarebbe rimesso nelle mani di Berlusconi, ma ormai senza più Costituzione.
La politica e la fede
di Furio Colombo (l’Unità, 1 novembre 2004)
Deve la fede, intesa come verità, prevalere non solo nel contesto di ciascuna vita di credente ma anche nella vita dei non credenti, nelle decisioni politiche che riguardano tutti? Se la fede prevale, non si forma una sorta di imposizione in nome della verità religiosa che si trasforma in legge?
Queste domande nascono da un titolo di questo giornale (8 ottobre) che, dando notizia della conclusione della Settimana Sociale dei cattolici, riassumeva con la frase: "Appello del Papa ai cattolici: entrare in politica per imporre la fede". Il titolo era motivato da alcuni passaggi letti, a conclusione dell’evento cattolico, dal Card. Ruini. Il passaggio chiave era quello che attribuiva al laicismo la colpa di coltivare il relativismo (ovvero il riconoscimento di altre verità diverse dalla propria) definendolo "rischio e minaccia per la democrazia". La democrazia - secondo il testo letto da Ruini - sarebbe stata garantita solo se "fondata sulla verità". Perché "senza il radicamento nella verità l’uomo e la società rimangono esposti alla violenza delle passioni e a condizionamenti occulti". Una lettrice, la signora Anna Maria Stua, aveva scritto per dire, da credente, che "la fede non si può imporre perché appartiene alla inviolabile libertà della coscienza". L’ipotesi dell’autrice della lettera era che l’Unità, con quel titolo, aveva deformato i fatti e forzato il senso delle cose dette nella Settimana Sociale dei cattolici. La lettera della signora Stua e la mia risposta sulle pagine de l’Unità sono state seguite da numerose lettere e-mail che rendono utile tornare sull’argomento.
IL 23 ottobre avevo risposto alla lettera della signora Stua (pag. 1 e pag. 24 de l’Unità) notando due aspetti del problema: il primo è che vi è certo un’aspirazione a imporre la fede quando si chiede che essa si trasformi in legge per tutti. La seconda per notare che, per fortuna, un clima di intelligente e rispettosa convivenza esiste in Italia, accanto, e nonostante l’integralismo di molti. E usavo come testimonianza una frase di Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni, che in occasione di un dibattito con non credenti ha detto (questa era la mia citazione a memoria): "Ciascuno di noi possiede solo una piccola parte della verità. Perciò possiamo vivere accanto, ciascuno rispettoso dell’altro". Si trattava di un dialogo fra Mons. Paglia e Arrigo Levi, che per fortuna è riflessa in modo molto più completo in due libri che citerò secondo la data di pubblicazione: "Lettera a un amico che non crede" di Mons. Vincenzo Paglia, Rizzoli, 1998, e "Dialoghi sulla fede" di Arrigo Levi, Il Mulino, 2000.
Di Vincenzo Paglia ricorderò questa frase essenziale: "Ai laici e ai credenti è chiesto di inventare nuove "vie di mezzo", di interrogarsi sulle vie della salvezza, sui modi per combattere la superstizione e allontanare l’idolatria, sulle strategie per difendersi dai sincretismi ingannatori e ostacolare i fondamentalismi, su come praticare la vita interiore e difendere la pace e saper ascoltare il grido di tanti popoli" (pag. 27). Come si vede è una affermazione coraggiosa, una finestra aperta su un vasto paesaggio di comprensione reciproca fra ispirazioni diverse che corrisponde alla frase "ciascuno di noi possiede una piccola parte di verità..." che gli avevo attribuito nel mio articolo.
Il libro di Arrigo Levi che ho appena citato è notoriamente un diario in pubblico sul "dialogo delle fedi", ovvero sul come sentimenti e culture diverse convivono. Stiamo parlando di un’Italia profondamente civile che precede l’epoca sboccata dei finti credenti (si pensi alla invocazione delle radici cristiane da parte della Lega e di An)e di eventi come "il caso Buttiglione" destinato a segnare tristemente la storia della nuova Europa. Qui, nell’Italia del rispetto che stiamo citando, ogni parola ha un peso, e non è il "politicamente corretto" delle parole che conta, ma l’elaborazione attenta e misurata di passaggi difficili, da parte di persone che non si accontentano delle buone maniere e cercano, nella diversità, veri punti di contatto sia umani che culturali.
A pag. 55 del suo libro, Levi cita il Card. Martini che dice: "Le religioni sono l’esprimersi storico, dottrinale, sociale della fede e in questo esprimersi storico possono entrare valori e disvalori etnici, politici, nazionali che diventano motivo di conflitto". A questo punto Levi chiede al card. Martini: "Non vi è illogicità nel dialogo fra credenti, ciascuno dei quali ha una sua verità rivelata?". "No - replica il Cardinale - perché la verità rivelata non è una verità matematica. Verità è una parola che uso malvolentieri perché è una parola troppo grande, è una apertura su un mistero più grande, e io non riesco se non a intuire qualcosa, a balbettare qualcosa di questo mistero più grande di noi. Perciò è possibile dialogare con altri che, come me, non si accontentano delle cose che hanno davanti, se no non dialogherebbero. Citando Bobbio, l’importante è essere pensanti: non ci domandiamo se siamo credenti o non credenti, ma pensanti o non pensanti".
Queste parole del Card. Martini ad Arrigo Levi, che Levi riporta nel suo libro, corrispondono nitidamente alla citazione di Mons. Paglia da me riportata, sia pure a memoria. E ci indicano un modo di parlare di fede in un tempo e in un luogo (questa Italia) in cui la religione viene usata come strumento di intimidazione e di governo nel tentativo di isolare i miscredenti, vuoi islamici (la invocazione ripetuta alla guerra santa), vuoi "comunisti" (ovvero tutti coloro che si oppongono). Ci parla della preoccupazione morale e culturale di impedire uno scontro come conseguenza del non riconoscersi. È una testimonianza di civiltà. E per questo, in un momento difficile e torbido della vita italiana, è sembrato importante, rispondendo alla lettera della signora Stua e poi alle molte e-mail ricevute, parlarne ancora in queste pagine.