FOTO. FILIPPO BARBERI o BARBIERI (Philippus de Barberis o Philippus Siculus),"Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini, et alia opuscola", Roma, 1481: La Sibilla Tiburtina.
Se teniamo presente che, commissionata nel 1511 dal segretario papale Sigismondo de’ Conti per la chiesa dell’Aracoeli, "la pala raffigura la visione della Vergine che Augusto ebbe il giorno della nascita di Cristo", e che "la chiave per comprendere l’apparizione si trova nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (cfr. Marco Carminati, L’enigma del fulmine, Il Sole-24 0re, 08.12.2013, p. 37), e nel manuale xilografico "Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini et alia opuscola di Filippo Barberi (Philippus Siculus), Roma 1481" (a riguardo, si cfr. Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 37-65 e, partic., p. 58), emerge ben chiara la connessione con il tema e le idee di Michelangelo, con il già realizzato ("Tondo Doni") e ancor più con il lavoro in corso nella Volta della Cappella Sistina (1512).
E, ancora, se rileggiamo quanto scrive Jacopo da Varagine [Varazze], nella sua Legenda Aurea:
appare ben chiaro come il discorso per immagini fatto da Raffaello, nella sua pala (si tengano presenti con il loro significato anche i santi: Giovanni Battista, Francesco d’Assisi, e Girolamo) - per essere ben compreso e collocato nel suo tempo - sia da mettere in rapporto (per contrasto) con l’altra e più dominante leggenda, quella dell’"In hoc signo vinces" di Costantino e della divinizzazione dell’Imperatore-Cristo - e, con la corona ferrea e con Napoleone!
CHIUSE LE CELEBRAZIONI (con la Mostra ospitata a Palazzo Reale dal 25 ottobre 2012 al 17 marzo 2013) del diciassettesimo centenario della emanazione nel 313 d.C. dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino (e del suo omologo d’Oriente, Licinio), la Mostra della "Madonna di Foligno" di Raffaello è stata una buona e significativa scelta, per Milano, per l’Italia e per la Chiesa! COME A DIRE, DOPO DICIASSETTE SECOLI, CHE LA ’CROCE’ (lettera alfabeto greco = X) DI CRISTO NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL CROCIFISSO DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA. . DECISAMENTE: UNA BUONA INDICAZIONE - E UN BUON AUGURIO. E NON SOLO PER IL 2015!
*Federico La Sala (08.01.2014)
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": TRACCE PER UNA NUOVA ERMENEUTICA. Materiali sul (e dal) lavoro di Federico La Sala DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
PEDAGOGIA STORIA LETTERATURA E FILOLOGIA: L’INDICAZIONE DELLA SIBILLA TIBURTINA E LA ESORTAZIONE DELLA DEA "LEVANA" ("CONTEMPLATE CHI E’ PIU’ GRANDE DI VOI!") NELL’ORIZZONTE DELLA "MORTE DI DIO" E DEL NICHILISMO.
Una ipotesi di ricerca... *
A) Nella sua "Legenda Aurea", Jacopo da Varagine scrive:
"Narra papa Innocenzo III che il senato voleva adorare come un dio Ottaviano per aver riunito e pacificato tutto il mondo; ma il prudente imperatore non volle usurpare il nome di immortale poiché ben sapeva di essere come uomo, mortale. Insistevano i senatori nel loro proposito onde Ottaviano interrogò la Sibilla per sapere se mai sarebbe nato nel mondo qualcuno più grande di lui.
Era il giorno della Natività di Cristo e la Sibilla si trovava in una stanza, sola con l’imperatore: ed ecco apparire un cerchio d’oro attorno al sole e in questo cerchio una vergine bellissima con un fanciullo in grembo. La Sibilla mostrò questo portento all’imperatore: mentre costui teneva gli occhi fissi alla visione sentì una voce che diceva: - Questa è l’ara del cielo! -. Esclamò allora la Sibilla: - Questo fanciullo è più grande di te; adoralo -.
La stanza dove avvenne tale fatto è stata poi consacrata alla Madonna ed ora si chiama Santa Maria Ara Coeli.
Timoteo ci dice di aver trovato negli antichi libri romani lo stesso fatto raccontato in modo diverso: dopo trentacinque anni di regno, Ottaviano salì in Campidoglio e chiese agli dei chi avrebbe retto l’impero dopo di lui. Udì in risposta queste parole: - Un fanciullo celeste, figlio del Dio vivente, nato da una vergine immacolata -. Ottaviano fece allora costruire un altare e vi fece scolpire queste parole: - Questo è l’altare del figlio del Dio vivente - (...)" (Jacopo da Varagine, "Legenda Aurea", Libreria Editrice Fiorentina, p. 52 s.).
B) Nei "Suspiria de Profundis", a proposito di Levana (e le «Nostre Signore del Dolore»), Thomas De Quincey scrive:
"Spesso a Oxford vidi nei miei sogni Levana. La riconobbi dai suoi simboli romani. Chi è Levana? Lettore, che sostieni di non aver troppo tempo per erudirti, non ti dispiacerà che te lo spieghi. Levana era la dea romana che esercitava per il neonato il primo ministero di nobilitante benevolenza, tipico, nel suo rituale, di quella grandezza che è dappertutto propria dell’uomo e di quella benignità delle potenze invisibili che anche nel mondo pagano scende talvolta a sostenerla. Al momento stesso della nascita, proprio quando il neonato saggiava per la prima volta l’atmosfera del nostro travagliato pianeta, esso era deposto in terra.
Questo gesto si prestava a diverse interpretazioni. Ma immediatamente, affinché una così nobile creatura non restasse in quell’umile posizione più di un istante, o la mano paterna in rappresentanza di Levana, o un parente prossimo in rappresentanza del padre, lo sollevava in alto, gli ordinava di stare eretto quale sovrano di tutto il mondo e ne volgeva la fronte verso le stelle dicendo, forse in cuor suo: «Ammirate ciò che è più grande di voi!» Questo atto simbolico rappresentava la funzione di Levana. E quella dama misteriosa che non rivelò mai il suo volto (salvo a me in sogno) ma sempre agì per procura, traeva il suo nome dal verbo latino (rimasto tuttora nell’italiano) levare, sollevare verso l’alto.
Tale è la spiegazione di Levana. E da ciò è venuto che alcuni intendano per Levana la potenza tutelare che vigila l’educazione nella prima infanzia. Colei che non tollererebbe alla nascita del suo mirabile pupillo nemmeno una sua finta o simbolica degradazione, ancor meno si può ritenere che tollererebbe la vera degradazione inerente al mancato sviluppo delle facoltà che sono in lui. Ella perciò vigila sull’umana educazione. Ora la parola educo, con la penultima breve, è derivata (per un processo che spesso si riscontra nella cristallizzazione delle lingue) dalla parola edùco, con la penultima lunga. Tutto ciò che educe, o sviluppa, educa. Per educazione di Levana si intende, perciò, non il povero meccanismo che è messo in moto da sillabari e da grammatiche, ma il meccanismo che è mosso dal possente sistema di forze interiori nascoste nel profondo della vita umana e che, per mezzo di passioni, lotte, tentazioni, energie della resistenza, agisce continuamente sui fanciulli e non si arresta mai ne giorno né notte, come le stesse ruote possenti del giorno e della notte, i cui istanti, simili a raggi che non hanno sosta, brillano eternamente nel loro ruotare. (cfr. T. De Quincey, "Confessioni di un oppiomane" - con i racconti: "Suspiria de Profundis" e "La diligenza inglese", Garzanti 1987).
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" #PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "#CAPPELLASISTINA"): #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI SISTO IV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
Federico La Sala #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
ARCHEOLOGIA E CHIESA CATTOLICA. ALLA RICERCA DEL GIARDINO PERDUTO...
DANTE2021: RISALIRE LA CORRENTE E USCIRE DALL’INFERNO...*
MEMORIA E IMMAGINARIO. Papa Gregorio XVI "[...] mostrò un vivo interesse per l’archeologia (apertura nel 1838, 1839, 1844 dei Musei Gregoriano etrusco, Gregoriano egizio, Gregoriano profano)".
TIVOLI, LA SIBILLA, E IL GRAND TOUR. "Villa Gregoriana - rinominata dal FAI dopo il restauro
Parco Villa Gregoriana - è un’area naturale di grande valore storico e paesaggistico che si trova a Tivoli, nella valle scoscesa tra la sponda destra dell’Aniene e l’antica acropoli romana. Il sito è noto soprattutto per ospitare la #GrandeCascata, e si può considerare un particolarissimo esempio di giardino romantico, per la sua conformazione e per la corrispondenza con il gusto dell’estetica del sublime, tanto caro ai romantici. [...]
L’itinerario di visita percorre l’intera Valle dell’Inferno: si parte dal ponte Gregoriano, si discende lungo la valle, arrivando con una piccola deviazione alla terrazza di fianco alla grande cascata [...], e poi si continua a scendere nell’ombra della forra, incontrando lungo il sentiero la grotta di Nettuno e quella delle Sirene, [...].
Arrivati in fondo si risale dal lato opposto del letto antico del fiume fino all’acropoli, sulla cui spianata sono collocati due templi databili attorno al I secolo a.C., uno rettangolare, detto della Sibilla ma in realtà di incerta attribuzione, l’altro rotondo, detto di Vesta.
Questo insieme è ricorrente nell’iconografia paesaggistica su Tivoli fin dal XVIII secolo, e fu una delle mete canoniche del Grand Tour romantico [...]".
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
Federico La Sala
DANTE 2021: ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA, E STORIOGRAFIA...
A 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UN INVITO A RILEGGERE la sua "Monarchia", a cercare di capire meglio le ragioni di "quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 102), e rimeditare le "Res Gestae" di Augusto, alla luce dei 2046 anni dalla fondazione di Aosta, avvenuta nel 25 a. C., in coincidenza con il solstizio d’inverno.
AUGUSTO, L’ITALIA, E LE SUE "28 COLONIE":
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924).
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Augusto figlio di dio
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di...
di Marco Sferini (La Sinistra quotidiana, 22 Settembre 2021)
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di uomo di legge e di procuratore, si interessò di storia - per così dire - “moderna” o “contemporanea“, se lo si vive calato esclusivamente nel suo tempo, astraendosi dal proprio presente. Questa sua passione la mise tutta nella redazione di una narrazione accurata delle Guerre civili: da Mario e Silla fino all’instaurazione del Principato.
In realtà, la sua monumentale opera, ben 24 libri, è arrivata fino a noi più che dimezzata: della “Ῥωμαικά” (“Rhomanikà“) rimangono solo 11 volumi, ma sono sufficienti per riuscire a ritrovare tutta una lunga serie di collegamenti con altri autori e con episodi della storia imperiale dell’Urbe.
Sappiamo che Karl Marx se ne interessò e che, molto probabilmente, soprattutto grazie alla lettura dei testi di Appiano imparò ad apprezzare oltre ogni modo la figura di Spartaco come “der famoseste Kerl“: tradotto dal tedesco, questo giudizio sul generale degli schiavi risulta essere “il tipo più in gamba“. Meglio di Garibaldi, si spinge il Moro nella comparazione con l’attualità che osserva in Europa e nell’Italia dei moti risorgimentali.
Appiano, come bene scrive Luciano Canfora nel suo “Augusto figlio di dio” (Editori Laterza, prima ed. 2015), è uno storico dilettante, ma tremendamente bravo e soprattutto ha accesso ad una vastità di fonti e di informazioni che, ancora oggi, rimangono un enigma per come siano state trovate, scoperte e utilizzate dall’alessandrino. Sembra essere, se non l’unico, almeno uno dei pochi cronachisti dell’antichità a conoscere situazioni così intime, segrete e particolari della corte augustea da mettere in discussione quel poco che sappiamo della sua vita.
La sorpresa di Marx davanti alla bravura di Appiano è nulla in confronto alle tinte di giallo che contornano questo avvocato dei tempi di Traiano, Adriano e Antonino Pio nel momento in cui si accinge a diventare uno scrittore, uno storico e lo fa con a disposizione dettagliatissimi resoconti della vita tanto privata quanto pubblica di Giulio Cesare ma, soprattutto, di Augusto.
L’opera di Canfora sul Princeps, sul rifondatore della Res publica, sul primo imperatore di Roma, è barocca, ricca di pieghe del tempo, di sovrapposizioni e intersezioni tra i personaggi di un passato che si rilegge nel tempo moderno ottocentesco, mentre prende corpo il marxismo, così come nel primo novecento mentre avanza lo spartachismo germanico. Sono pagine di meticolosa disamina della vita di Ottaviano, pur intervallate da viaggi nella quarta dimensione, accanto ad un Virgilio dantescamente ritrovato, seppure un bel po’ di anni dopo la sua morte, che però è - come scrive Marx ad Engels - «un egiziano tutto d’un pezzo».
Chi si dispone alla lettura dell’Augusto di Canfora, sappia fin dall’inizio che non è un libro semplice: necessita una certa conoscenza della romanità, tanto sul piano storico quanto su quello politico. Necessita pure una conoscenza, quanto meno di base, della letteratura latina, di autori come Seneca, Cicerone, Tacito ed anche il più leggero mondo svetoniano dei Cesari.
Non è una biografia né di Augusto e né di Appiano. Paradossalmente, però, riesce ad essere un grande affresco dinamicamente tinteggiato da tante sfumature di un mondo in continua evoluzione, che si riconosce proprio dall’atto fondativo prodotto dalle Guerre civili, dalla dittatura cesariana e dalla pax inaugurata da un Augusto scaltro, cui Appiano riconosce tutti i meriti del grande politico, camaleontico, capace di interpretare simultaneamente il difensore del Senato e della tradizione repubblicana della Roma che aveva cacciato i re ed essere il nuovo sovrano di un impero che viene rinnovato, completamente ristrutturato nella sua amministrazione ed anche nella preservazione della memoria, del sapere, dell’arte e delle lettere.
Augusto, ce lo dice Marco Antonio, ma lo sottolinea pure Canfora, deve un po’ tutto al suo nome: non a quello di nascita (Gaio Ottavio), bensì a quello del suo padre adottivo, il Divus Julius. Ottaviano ne è consapevole e fa di tutto per attribuirselo in ogni occasione, per farsi riconoscere dai Padri coscritti come l’erede di una volontà politica che difende la repubblica dai tentativi di restaurazione oligarchica dei cesaricidi.
In realtà, Luciano Canfora svela tante ambiguità di una storia romana che Appiano tuttavia non cela, non mistifica, non celebra inversamente, revisionisticamente, con quella accondiscendente sudditanza verso il potere, con una piaggeria che ci si aspetterebbe da uno scrittore che, per giunta, è un procuratore imperiale (anche se alcuni storici ritengono che questa carica gli venne assegnata più come titolo onorifico che come investitura vera e propria con pieni poteri).
“Augusto figlio di dio” è molto più di un libro sul primo imperatore di Roma: è un vero e proprio lavoro di ricerca storica, politica, sociale e morale tradotto in una biografia che ha il gusto piacevole del romanzo giallo, la fascinazione del prosa descrittiva di un passato mostrato con le tante similitudini del e nel nostro presente (in particolare, queste fanno riferimento alle caratteristiche più propriamente umane nelle declinazioni politiche, intellettuali e militari). Non ultimo, possiede il disincanto da una esposizione cattedratica che l’autore a volte è tentato di offrire a tutti i lettori nel proporre l’intersezione di tante difficili argomentazioni, ma che riesce sempre a coniugare con la cosciente pragmaticità della fruizione dell’opera da parte di un vasto pubblico dalle conoscenze più varie.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
FLS
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
L’ultimo saluto a Raffaella Carrà, i funerali nella basilica dell’Aracoeli
Lacrime e tanti fiori gialli per la grande artista scomparsa. La commozione di Sergio Iapino, suo compagno di una vita, dei colleghi e conoscenti, dei tanti tanti fan. Frate Castaldi all’omelia: ’Raffaella ci salverà dalla retorica’*
Lunghi applausi e un canto collettivo da parte della folla che scandisce le parole di alcune delle canzoni più popolari di Raffaella Carrà, da "Ma che musica maestro" a "Ballo ballo" hanno accolto l’uscita del feretro dell’artista e conduttrice, al termine dei funerali a Santa Maria in AraCoeli. Il feretro è rimasto oltre venti minuti sul sagrato per permettere alla lunga fila di parenti e amici di dare l’ultimo bacio, l’ultima carezza alla semplice bara con le spoglie di Raffaella.
Poi la partenza, con il carro funebre scortato dagli agenti di Roma Capitale e ancora tanti tantissimi applausi.
In chiesa, per i funerali celebrati da fra Simone Castaldi e da quattro frati cappuccini di San Giovanni Rotondo, c’erano per l’ultimo saluto all’artista, la sindaca di Roma Virginia Raggi con Sergio Japino, compagno di una vita, i familiari, e tanti colleghi e vip.
Sergio Japino in completo grigio chiaro, l’ad della Rai Fabrizio Salini, il ministro della Cultura Dario Franceschini e Roberto Gualtieri. Milly Carlucci, Massimo Lopez, Carmen Russo e Enzo Paolo Turchi, Michele Cucuzza, Beppe Convertini, Alessandro Greco sono stati fra i primi ad arrivare in Piazza del Campidoglio per i funerali di Raffaella Carrà nella basilica di Santa Maria in Aracoeli. "Quando ho sentito La notizia non riuscivo a smettere di piangere - dice Carmen Russo -. Raffaella ha insegnato l’arte a tutti noi, deve continuare a essere un esempio. Manca già a tutto il mondo". Turchi, commosso ricorda di "aver iniziato con Raffaella e oggi manca come se avessi perso una sorella".
"Il dolore è tanto, la retorica sarebbe una facile scappatoia, ma Raffaella ci salverà dalla retorica, lei è stata tante cose ma retorica mai". Frate Simone Castaldi ha introdotto così la cerimonia funebre per Raffaella Carrà- E ha aggiunto: "Chissà se ci si rende conto di quanto sono importanti gli artisti, quanto fanno bene alla gente. In cielo sarà una festa ritrovarsi tutti insieme e proprio perché sarà una festa, sono sicuro che troveremo Raffaella lì, in prima fila".
"Raffaella è venuta molto spesso a San Giovanni Rotondo ed è stato suo desiderio tornarci. Per questo, non appena sarà possibile con Sergio Japino ci organizzeremo perché la sua urna farà tappa nella chiesa di Padre Pio e poi all’Argentario". Lo ha annunciato padre Francesco Di Leo al termine della omelia.
"Grazie Raffaella". La sindaca di Roma Virginia Raggi comincia così il suo saluto a Raffaella Carrà "Parole semplici che ci uniscono, siamo tutti qui a salutarti, inchiesa, in piazza, nelle case". Raffaella, dice la sindaca di Roma "riusciva a parlare a tutti anche i più semplici, un’icona che ha varcato i confini nazionali, uno straordinario successo, il suo, dovuto ad un talento innato che accompagnava con una puntualità e una precisione del lavoro e dello studio e un ingrediente segreto, un grande carisma, la capacità di trascinare e travolgere tutti quelli che lavoravano con lei o che semplicemente la guardavano in tv. Credo che tutti possano concordare su un aggettivo per lei, indimenticabile, Roma era diventata la sua città e noi romani non la dimenticheremo. Ciao Raffaella, grazie per quello che hai fatto e che ci hai lasciato".
Lunghi minuti di applausi nella basilica a in Piazza del Campidoglio in omaggio a Raffaella Carrà, dopo le parole della famiglia lette da Lorena Bianchetti. "Che Grande donna, che grande artista che grande persona, è stata personaggio simbolo che ha scavalcato un secolo e un millennio. Forse solo ora vediamo quello che è è stata, un regalo", ha commentato Bianchetti commossa. L’applauso "anche oggi - ha concluso - è tutto per te". E uscendo dalla chiesa per accompagnare sul sagrato la semplice bara, anche i frati officianti si sono fermati ad applaudire.
*FONTE: Redazione ANSA 09 luglio 2021
Profilo Mille, nessuna, una sola Raffaella (1943-2021) Mille, nessuna, una sola Raffaella (1943-2021)
Sempre pronta a cambiare, sintonizzandosi in anticipo su una tv e una società che cambiano, senza però mai dimenticarsi di condurre il pubblico con sé, in questi esperimenti, in questo futuro
di Luca Barra (Il Mulino, 06 luglio 2021)
La forza della televisione generalista è quella di raccogliere una comunità altrimenti distante e separata, di sincronizzare il quotidiano di milioni di persone, di offrire informazioni, testi e immaginari condivisi in modo trasversale. E questa potenza si è ritrovata tutta nell’istante in cui si è diffusa la notizia della morte di Raffaella Carrà, che con la televisione generalista si è identificata per almeno cinque decenni. I programmi tv in diretta stravolti e i recuperi d’archivio a rimpinguare scarni palinsesti estivi; le aperture delle testate online e le prime pagine dei quotidiani, anche sportivi, il giorno dopo; il flusso di coscienza di Facebook, di Twitter, di Instagram, persino di TikTok, altrimenti disperso in mille bolle e polemiche-del-giorno; e ancora i messaggi privati, le chiacchiere, qualche telefonata: un’elaborazione del lutto a reti e media unificati, come accaduto tante altre volte, ma qui con un’intensità e una partecipazione inedite.
Difficile trovare analogie, difficile racchiudere la molteplicità di un personaggio come Raffaella Carrà in poche parole e immagini, in un semplice profilo. Ecco allora l’uso un po’ pigro (e talvolta l’abuso) della parola «icona», corredata o meno da aggettivi. I momenti memorabili di una carriera memorabile. Le sigle, le canzoni, i versi che ognuno sa cantare. Il caschetto biondo, i corpi di ballo, le coreografie. Le fotografie, gli abiti, lo stile. Le interviste lungimiranti, l’impegno e la leggerezza. Dal recupero del provino d’ammissione al Centro sperimentale e degli esordi al cinema alle chiacchierate del suo ultimo programma, A raccontare comincia tu. L’Italia e la Spagna, Berlusconi e la Rai. Le clip delle tv straniere, lei ospite da Letterman. I ricordi e le nostalgie di tutti, veri o verosimili, diretti o mediati, in un continuo gioco di specchi.
Ci sono state mille Raffaella Carrà, ci sono ancora, resteranno. Centinaia di sfumature a dare significato pieno all’idea di popular culture, a proteggere un privato sempre rimasto tale, a garantire uno status particolare, unico, sapientemente coltivato, ottenuto e poi mantenuto con impegno e cura. E a fare da collante in questa molteplicità, da amplificatore di questa unicità, da approdo spesso sicuro, da coronamento a un talento e una progettualità dispiegati anche altrove è sempre stato il piccolo schermo. Possono bastare tre esempi tra i tanti, tre momenti in cui il percorso di Carrà e la storia della televisione (ma non solo: la storia dei media, quella del costume, forse quella tout court) si sono intrecciati.
1974, Milleluci. Il trionfo del varietà classico, di una televisione ancora in bianco e nero, scritta in ogni minimo dettaglio, provata e riprovata, e insieme il canto del cigno di un’offerta che di lì a poco sarebbe profondamente mutata, ottenendo più canali, la pubblicità libera dalla prigione di Carosello, i colori. Raffaella Carrà ci arriva dopo i trionfi di Canzonissima qualche anno prima, si trova accanto a Mina, alla pari, in quel genere che a lungo è stato di suo dominio totale, la regia è nelle mani di Antonello Falqui. Il risultato sono otto puntate a orologeria, dedicate ciascuna a celebrare una diversa forma di spettacolo, tra ospiti e canzoni, balletti, sketch, numeri vari. Il 6 aprile la televisione rivolge lo sguardo su se stessa, in occasione del ventennale delle trasmissioni regolari, presentando una sintesi fatta spettacolo della sua storia e delle sue potenzialità espressive: c’è l’occhiata alla «tv del futuro», con Adriano Celentano che canta Prisencolinensinainciusol, Raffaella che si scatena e un labirinto di specchi; c’è un Rischiatutto in versione parodica, con Mike Bongiorno che la apostrofa con «Signorina Pelloni» e i battibecchi con Mina quando il pulsante per prenotarsi (e rispondere a domande sulle rispettive carriere) non funziona granché; e c’è soprattutto una cavalcata solitaria di Carrà che ballando attraversa la tv intera, occupando gli studi del tg e i set degli sceneggiati, solcando agile sul chroma-key delle partite di calcio e di tutte le frattaglie della programmazione, dalle previsioni del tempo ai famigerati intervalli campestri. La Carrà di Milleluci è una professionista impeccabile nei tempi e nei toni, la modernità accanto a Mina già diventata tradizione, la scusa per sperimentare qualcosa nella gabbia festiva e dorata del sabato sera unico.
1984, Pronto Raffaella? Con il primo dei molti programmi che prenderanno nel titolo il suo nome vero o il cognome d’arte, Raffaella Carrà conquista porzioni inedite del palinsesto televisivo, aprendo lo spazio del mezzogiorno con una produzione originale, in diretta, ogni giorno. Nel giro di pochi anni i media e la società sono cambiati profondamente, e così i lustrini dell’evento festivo diventano i lustrini, un po’ meno eccezionali ma sempre speciali, della quotidianità feriale. La televisione occupa ogni anfratto del nostro tempo, si inserisce senza più remore nelle nostre abitudini, combatte per le nostre attenzioni. La Rai, con la regia di Gianni Boncompagni e la scrittura di Giancarlo Magalli e Irene Ghergo, con la star che apre le porte di un salotto sotto steroidi, coloratissimo, con terrazza aperta su panorami di plastica, impunemente artificiale come solo la tv dei primi anni Ottanta sapeva essere, sfrutta il vantaggio della diretta che i network di Berlusconi non potevano avere e apre al dialogo diretto con gli spettatori. Ecco le telefonate da casa, lo small talk elevato a sistema, la chiacchiera che a volte è pura ricerca di contatto e altre, complice l’abilità (sovr)umana e iper-umana della conduttrice, riesce ad aprire squarci di realtà. Ecco la conta dei fagioli nel barattolo, la ripetizione, la ritualità, il trucco perfetto perché ci sia una scusa per seguire con attenzione, per ritornare lì davanti. La neo-televisione, ha scritto Umberto Eco l’anno prima, porta il mondo fuori negli studi televisivi, mette tutto sotto la stessa luce artificiale. E l’incontro-scontro tra esterno e interno, tra realtà e rappresentazione, trova rappresentazione plastica il 13 aprile, con l’intervista esclusiva di Raffaella Carrà a Madre Teresa di Calcutta: l’eccezionale e il banale, il sacro e il profano, la benedizione e l’applauso, l’inglese e l’accompagnare lo spettatore passo dopo passo, la deferenza del primo canale nazionale e la malizia del camp. Tutto senza mai sbagliare tono.
1995, Carramba! Che sorpresa. Dopo polemiche sui compensi e passaggi in campo avverso, dopo Spagna e America Latina, il ritorno sull’ammiraglia Rai di Raffaella ha il sapore della rivincita e del trionfo. E ancora una volta segna una svolta, nella sua carriera ma pure nella televisione. Lo spettacolo puro lascia il posto a quello delle emozioni (emotainment), il dialogo al telefono è sostituito dalla presenza in studio, gli attori e i musicisti si scambiano continuamente di posto con la gente comune. Dopo Tortora e prima della De Filippi, è per la Carrà che le persone qualunque si vestono da festa e si lasciano sorprendere, travolte da reazioni ancora piuttosto sincere, poco consapevoli delle grammatiche televisive. Carramba è fucina di neologismi (carrambata, gancio), di espressioni enfatiche («è qui...»), di parodie. E soprattutto è una televisione ancora una volta ricca, scritta, pensata (con Sergio Japino, Brando Giordani, Giovanni Benincasa e altri), dove i piccoli desideri e i grandi eventi delle vite messe in scena diventano materiale sia narrativo sia spettacolare, in una concatenazione di sorprese inserite una dentro l’altra, una accanto all’altra, con gran dispiego di forze tecniche e di risorse economiche. Nella prima puntata, 21 dicembre, riproposta da Raiuno il giorno della morte, la promozione del nuovo film di Carlo Verdone (Viaggi di nozze) è interrotta per spostarsi in un cinema che proietta lo stesso film, dove uno spettatore scoprirà - tra il primo e il secondo tempo - che sta per diventare padre, e una spettatrice sarà richiamata in studio per una futura sorpresa. Il volto imbambolato di chi non se lo aspetta, da un lato, e dall’altro la risata sicura di chi ha nella sua cartelletta i segreti di tutti i presenti. Ancora una volta: spettacolo, invenzione, dominio dei tempi, controllo dei toni, professionalità estrema, familiarità costruita e naturale insieme.
Mike Bongiorno, letteralmente il primo conduttore italiano, è stato il fondatore, l’inventore delle regole, la norma stessa nel suo farsi. Raffaella Carrà è stata, invece, lo spingersi costante ai confini delle regole, e talvolta anche oltre, la creatività che arriva a toccare i margini per poi ritornare al centro, un’eccezione sempre però vicina, rassicurante, familiare. Come l’ha definita Renzo Arbore in uno dei suoi ricordi a caldo, centrando perfettamente il punto, la Carrà era una «rivoluzionaria popolare». Capace di portare avanti istanze di modernità estrema senza farlo neppure notare, senza allontanare nessuno, affidandosi a una frase, a un vestito, a un gesto, a cose apparentemente banali. Abile nel nascondere tutto lo studio e nel far sembrare ogni cosa eccezionale e insieme semplice, alla portata di tutti: alto e basso, arte e commercio, avanguardia e mainstream. Sempre pronta a cambiare, sintonizzandosi in anticipo su una tv e una società che cambiano, senza però mai dimenticarsi di condurre il pubblico con sé, in questi esperimenti, in questo futuro. Forse è questo uno dei segreti che spiegano un cordoglio tanto universale, di tutti, immediato, ampio e senza eccezioni. Di certo è questa la sua eredità più importante.
A piedi nudi (e sporchi) nella tela
Il 18 luglio 1610 moriva Michelangelo Merisi
Caravaggio per le chiese romane. Una chiave di lettura a partire dai nuovi studi
di Andrea Lonardo *
Nella Madonna di Loreto la creatività iconografica del Merisi è evidente. La Madonna che era sempre stata dipinta in volo sulla Santa Casa, trasportata dagli angeli da Betlemme a Loreto, ora è rappresentata nel momento in cui atterra dinanzi ai due pellegrini appena giunti. I piedi sporchi degli anziani sono in primo piano, ma ecco i piedi, altrettanto nudi, ma pulitissimi, della Vergine che appare alla porta della Santa Casa, mentre discende dal cielo, apposta per loro.
Mai le antiche fonti caravaggesche parlano del volto di Maria alla maniera del gossip sensazionalistico inventato dalla critica dilettantistica, quasi che il problema fosse la modella utilizzata per quel volto. No! Ciò che fece parlare di sé era il sudiciume dei due pellegrini al cospetto della assoluta bellezza della Vergine e del suo Figlio che non hanno remore a presentarsi a loro.
Pupillo ha recentemente messo in luce come Ermes Cavalletti, colui che commissionò l’opera, aveva partecipato subito prima al pellegrinaggio a Loreto organizzato dalla Confraternita dei Pellegrini, con trecento partecipanti: come era usanza essi si scalzarono giunti al recinto della Santa Casa e compirono a piedi nudi, proprio come i due rappresentati dal Merisi, l’ultimo tratto di cammino. Tutto è nuovo nell’opera, perché il Merisi riesce ad esprimere in maniera originalissima l’evento. Ma l’oggettivo perenne della fede cattolica è lì: la Vergine con il suo Bambino, il pellegrinaggio ai luoghi della fede, l’inginocchiarsi, la grazia divina che non teme di incontrare il luridume dell’uomo.
Anche nella Madonna del serpe la novità iconografica balza agli occhi. Il Bambino è vero uomo, con le sue pudenda in primissima vista. La tela dei Parafrenieri venne commissionata dalla Confraternita che era incaricata della preparazione del cavallo per le processioni del pontefice. Sant’Anna era la loro patrona, ma la madre della Madonna appartiene ancora all’Antico testamento ed è pertanto rappresentata a lato e non in piena luce, mentre è la Vergine con il suo Figlio ad essere illuminata.
Maria e Gesù calpestano il serpente, cioè il diavolo e il suo peccato: è la vittoria sul peccato originale che avviene a motivo del Bambino, ma tocca anche la Madre, che è, nella tela del Caravaggio, rappresentata come l’Immacolata Concezione. Nella Chiesa cattolica di allora il papa aveva chiesto di sospendere la discussione sulle modalità con cui Maria era stata preservata dal peccato originale, ma non aveva impedito di rappresentare Maria senza peccato, poiché, nella temperie controriformista, forte era il desiderio di riaffermare il ruolo unico della Vergine.
Gli studi recenti mostrano come l’opera non potè permanere in San Pietro perché venne tolta ai Parafrenieri la Cappella per la quale essi l’avevano commissionata. Proprio in quegli anni, infatti, Paolo v Borghese decise l’abbattimento della navata costantiniana che era ancora in piedi: due corpi architettonici di età differente convivevano allora in un ibrido che è oggi difficile immaginare. Nel progetto della nuova navata del Maderno non ci fu più posto per la Cappella dei Parafrenieri che, quindi, nel 1605 dovettero rinunciarvi.
Il papa prese la storica decisione di abbattere quel manufatto, che era in piedi dai tempi di Costantino, e la tela del Merisi non fu che un particolare dell’enorme evento che vide quella trasformazione colossale. Pochi si accorgono, fra l’altro, che Maderno, barocco, era più anziano del Merisi e che la tela venne realizzata mentre prendeva forma l’idea della navata barocca.
La Morte della Vergine è così l’unico quadro mariano del Merisi che venne rifiutato, anzi l’unico rifiutato fra tutte le sue opere per le chiese romane. Lo dipinse per la chiesa carmelitana di Santa Maria della Scala, ma l’opera fu giudicata troppo «spropositata di lascivia e di decoro». Si noti bene: l’accusa non è di eresia. Anzi il Merisi sottolineò la santità della Vergine illuminando il suo corpo di luce, mostrandola con il segno della sua gravidanza benedetta e alludendo al suo essere assunta in cielo con il panno rosso che “spalanca” in alto il dipinto.
Ma l’immagine apparve troppo cruda rappresentata in quella guisa, con Maria su di un tavolo da obitorio. Il Merisi aveva spinto ancora una volta all’estremo il suo desiderio di toccare le corde del cuore dei romani, ma anche qui non si era allontanato dal dogma cattolico. In nessuna delle fonti antiche si trova la benché minima menzione che egli fosse sospettato di eresia. Anzi i registri della parrocchia di San Nicola dei Prefetti recano l’indicazione che egli si confessò e comunicò per Pasqua, come gli archivi dell’Accademia dei Virtuosi ricordano la sua partecipazione all’adorazione eucaristica delle Quarant’Ore, probabilmente per la festa della Madonna di San Luca.
La recente mostra I bassifondi del barocco ha mostrato ampiamente come moltissimi dei pittori dell’epoca fossero di costumi non integerrimi, ricordando come il Cavalier d’Arpino fu accusato per aver attentato alla vita del Pomarancio e gli vennero trovate in casa due «pistole prohibite», mentre Giovanni Baglione ebbe una figlia da una cortigiana e Annibale Carracci morì forse per “eccessi” amorosi e addirittura Artemisia Gentileschi venne stuprata da un pittore amico del padre, il Tassi. D’altro canto, i famosi sonetti volgari contro il Baglione furono diffusi dal Gentileschi, dal Longhi e dal Trisegni.
Le fonti smentiscono la visione di un Caravaggio moralmente o teologicamente difforme dai suoi contemporanei: quello che evidenziano, invece, è che bisogna modificare l’idea sulla Roma controriformista poiché essa era, in realtà, molto più variegata rispetto all’immaginario moderno. Certo è che tutti i pittori dell’epoca erano in lotta fra di loro, con mezzi leciti e illeciti, non perché sostenitori di diverse visioni religiose, bensì per vincere la concorrenza ed emergere come i migliori.
Eppure li ritroviamo tutti insieme a lavorare come nella Chiesa Nuova, voluta da san Filippo Neri, nelle forme che ancora conserva. A Caravaggio venne assegnata la Deposizione ed egli dipinse il Cristo, scolpito dalla luce: mentre a destra una pianta ricorda la sua morte reale, a sinistra il sudario tocca una pianta viva, rigogliosa ad indicare, insieme alla luce che illumina il corpo del Signore, la verità della resurrezione. La lastra tombale, probabilmente, allude invece alla mensa d’altare che è subito sotto, come appare evidente da una visione dell’opera nel suo contesto originario, ad indicare che quella vittoria è ora presente nella celebrazione eucaristica.
Caravaggio dipinse la Deposizione nella serie dei “misteri” di Cristo che i discepoli di san Filippo Neri affidarono al Barocci, al Cavalier d’Arpino, al Pulzone e agli altri. Caravaggio e gli altri pittori dell’epoca insieme pregavano nell’Accademia di San Luca, insieme duellavano, ma anche insieme dipingevano. La critica isola il Merisi dal suo contesto, mentre le sue opere ve lo collocano appieno, poiché essi erano un gruppo coeso e collaborativo. Fra l’altro proprio la Chiesa Nuova, con la sua maestosità, ci ricorda quanto sia poco scientifico il preteso pauperismo che Caravaggio avrebbe respirato da san Filippo Neri, poiché anzi il santo escluse il voto di povertà dai suoi, proprio perché potessero possedere ai fini della predicazione: i piedi nudi di Cristo e dei santi in Caravaggio sono, invece, il tipico del modo di rappresentare all’epoca i personaggi del Nuovo testamento.
Ciò appare evidente dalla Vocazione di San Matteo dove, mentre Matteo-Levi e i gabellieri sono vestiti con abiti seicenteschi, Gesù e Pietro, sulla destra, li incontrano a piedi nudi. L’opera vuole destare meraviglia per il fatto che Cristo, vissuto secoli prima, abbia la potenza di chiamare anche oggi i suoi.
Anche in quella tela l’innovazione del Merisi è sconvolgente se solo la si raffronta con l’affresco del Cavalier d’Arpino in alto, nella volta della Cappella. Lì si apre una porta e la luce simbolica, che è al contempo naturale, tocca il capo del figlio del re, che viene resuscitato da san Matteo. Nella Vocazione, Caravaggio rovescia i campi del chiaro e dello scuro e la luce perde ogni connotato realistico, divenendo solo simbolica. Già nella Maddalena penitente, Caravaggio aveva sperimentato l’intromissione della luce nel buio dello sfondo ad indicare il sopraggiungere della grazia: questo contrasto di chiaro e scuro diverrà la sua cifra pittorica più evidente
La Vocazione è accompagnata dal Martirio dell’apostolo, la prima opera del Merisi per una chiesa. È una tela di soggetto catecumenale: Matteo ha appena celebrato la messa con i neo-battezzati ed indossa le vesti di un prete tridentino, con la pianeta, mentre un chierichetto fugge per l’orrore. L’altare in alto ha ancora una candela accesa, mentre uno dei due battezzati ha la gamba che pende nella vasca battesimale.
La pala d’altare con il San Matteo e l’angelo venne commissionata al Merisi dopo il rifiuto della statua del Cobaert - il vero rifiuto della Cappella Contarelli.
La prima versione non poteva essere l’originale, perché troppo piccola e assolutamente inadatta a reggere il confronto con le due tele laterali. La si può immaginare come un bozzetto che portò il Merisi alla tela definitiva, quella sì veramente bella e degna con l’angelo magnifico che gli ricorda, contando con le dita, la genealogia di Gesù: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe». Matteo è sempre a piedi nudi, ma quanto più caravaggesco è il definitivo rispetto alla debole prima versione.
Si parla, pertanto, a torto di un rifiuto, mentre si dovrebbe insistere sul fatto che la Contarelli rappresenta piuttosto la consacrazione del Merisi e della sua fama.
Anche nel caso della Cappella Cerasi vale lo stesso discorso. Mancano i dati e una cronologia precisa, a motivo della scarsezza delle fonti, per comprendere esattamente perché si passò dalla prima alla seconda versione delle opere, ma quel che è certo è che, mentre la prima Conversione di san Paolo è ancora manierista, è la definitiva ad essere pienamente caravaggesca, con l’isolamento delle figure e la piena valorizzazione della luce: san Paolo, cadendo da cavallo, fuoriesce dalla tela e quasi cade, cieco, nelle braccia del visitatore.
Il Merisi, dialogando con l’Assunta del Carracci che è al centro, ripete l’iconografia che Michelangelo Buonarroti aveva escogitato per la Cappella Paolina - segno evidente che era talmente accetto in Vaticano da poter accedere alla Cappella del papa per studiarne le opere.
In particolare, è straordinario - sono le conclusioni delle ricerche di chi scrive questo articolo - che il Merisi abbia ripreso dal Buonarroti la torsione del volto di Pietro che, prima di morire, si volge non a guardare chi entra nella Cappella, quanto nella direzione opposta, verso il Tabernacolo e l’altare della celebrazione, a contemplare per l’ultima volta in terra quel Cristo per il quale sta offrendo la vita.
Nel 1610 Caravaggio stava tornando a Roma, poiché sentiva la Roma controriformista, quella dei papi, come la città in cui meglio avrebbe potuto esprimere se stesso. Il papa e i cardinali - e, in particolare, il cardinal Borghese - tutto avevano fatto per rendere possibile il suo ritorno. La sorte volle, invece, che non ci fosse un secondo periodo romano del Merisi che avrebbe riempito gli occhi e il cuore di nuove sue tele nelle chiese.
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di Andrea Lonardo
* L’Osservatore Romano, 16 luglio 2020
SCHEDE:
Madonna dei Pellegrini o di Loreto
Madonna dei palafrenieri , anche detta Madonna della Serpe (Wikipedia).
FLS
La Scuola di Atene di Raffaello di Nadia Pucci *
L’affresco di Raffaello nella Stanza della Segnatura, la celeberrima Scuola di Atene, nello studiolo e biblioteca dell’appartamento di Giulio II, non cessa ancora oggi di stupire e di seminare interrogativi, ricerche, meraviglia. Non mi riferisco solo agli studiosi: la recente, bellissima monografia di Frommel [ Raffaello. Le Stanze, Milano 2017] dedicata alle Stanze ne rappresenta un esempio illustre. Parlo di noi profani o semplici appassionati.
Nell’ultima delle nostre visite alle Stanze, possibili o immaginate, in tempi di Medioevo virale, non ci aspettiamo da un momento all’altro, di veder comparire all’improvviso, nel tempio in cui è ambientato l’affresco, qualcosa o qualcuno? Un nuovo personaggio che sbircia da dietro le imponenti paraste, illuminate dal cielo terso di azzurro della cupola, incuriosito dalle animate discussioni o sbucato all’improvviso al centro della scena fra maestri e allievi in primo piano? Non ci stupiremmo neppure se Platone, con il volto di Leonardo, e Aristotele si decidessero finalmente a scendere la scalinata, brontolando con Raffaello e lamentandosi per le articolazioni delle spalle indolenzite, a dir poco: il dito puntato da cinquecento anni (più undici, in verità), al cielo il primo, il maestro, e a terra l’allievo. Riprendendo magari a litigare e allontanandosi senza neppure degnarsi di rispondere alle nostre domande impertinenti ...
Quando Raffaello giunse a Roma, chiamato dal Bramante, nel 1508, aveva già una carriera splendida alle spalle: Urbino, Città di Castello, Perugia, Firenze: queste le tappe della sua formazione e della sua folgorante carriera. Tuttavia l’ «eccezionale educazione»[1] ricevuta a Urbino assieme allo strepitoso talento ne avevano costruito le basi. Il padre, Giovanni Santi, pittore e scenografo di corte, autore delle Cronache Rimate, era di casa al Palazzo Ducale e sin da bambino e ancora adolescente era pane dell’anima per Raffaello la cultura che lì si respirava. Pensiamo ai fiamminghi che avevano dipinto Federico da Montefeltro e gli uomini illustri dello studiolo nel Palazzo, Giusto di Gand, Berruguete, alla limpidezza cristallina dello spazio geometrico e la dignità della figura umana nelle opere di Piero, alla cerchia urbinate: Timoteo Viti, Girolamo Genga, lo scrigno del Palazzo Ducale. Senza tralasciare il retaggio che gli derivava dal padre[2] e le prime esperienze nella sua bottega[3]: il precoce contatto, grazie alla figura paterna, con i modelli umbri, in particolare il Perugino[4].
Nella Stanza della Segnatura, diversi sono gli apporti che Raffaello deriva dallo Studiolo del Palazzo Ducale di Urbino, compreso il programma della decorazione[5]. Nello Studiolo di Urbino, al di sopra degli intarsi, vi erano infatti collocati in doppio registro 24 uomini illustri: teologi, filosofi, poeti: 15 di questi si ritrovano negli affreschi della Stanza, nella Scuola di Atene, tra cui Platone, Aristotele, Euclide e Tolomeo.
D’altronde Giulio II confida su Raffaello nel suo progetto di far rivivere la grandezza di Roma e mostrare al mondo quella del suo pontificato, a partire dal felice retaggio dell’antico, innestato sull’albero della cultura cristiana. Irascibile, collerico, vizioso, un papa guerriero, nel vero senso della parola, intenzionato a recuperare e sottomettere città e territori allo Stato della Chiesa, chiamando all’occorrenza anche gli eserciti stranieri, francesi e spagnoli, in Italia: ad Agnadello (1509) persino la Repubblica di Venezia rischiò il collasso. Un papa rinascimentale, sotto tutti gli aspetti al di là del bene e del male. Grande mecenate e collezionista, commissionò opere che da sole basterebbero a costituire il patrimonio dell’umanità. Il grande umanista Erasmo da Rotterdam lo strattona parecchio nel suo pamphlet, gustosissimo, intitolato Giulio, scritto in latino e pubblicato anonimo nel 1517[6]. Giulio è rappresentato mentre, dopo la morte, arriva con Genio, il suo alter ego, e con i suoi armigeri in cielo, bussando fragorosamente alla porta del Paradiso. Immaginiamo il seguito: riuscirà Giulio a entrare in Paradiso?
La Scuola di Atene si inserisce nel progetto del pontificato giuliano che Raffaello interpreta in modo geniale. Tuttavia nessun approccio forse ci potrebbe introdurre nella complessità dell’opera se non ci facessimo guidare dalle parole di Frommel: «Raffaello era cresciuto alla corte di Urbino, frequentata dall’élite intellettuale e artistica italiana, dove suo padre lavorava come pittore e poeta. Se egli non avesse avuto una valida formazione di latino e di studi umanistici, difficilmente Giulio avrebbe nominato lui e non Michelangelo Scriptor Apostolicus dopo che nell’estate del 1511 avevano presentato i loro affreschi. A Roma Raffaello apparteneva a una raffinata cerchia di prìncipi della Chiesa, teologi, umanisti e artisti come non si era mai vista neppure a Firenze. Grazie a questa esperienza del tutto nuova e alla sua passione intellettuale, il ventiseienne potè rievocare la comunità dei sapienti e dei loro discepoli in modo talmente efficace che ancor oggi la Scuola di Atene è una delle opere più celebri di tutta la storia dell’arte»[7].
Innanzitutto la scena in cui Raffaello colloca i personaggi dell’affresco: il progetto elaborato dal Bramante per la fabbrica di San Pietro (nominato da Giulio architetto della fabbrica dal 1506 fino alla morte nel 1514. Incarico prestigioso che passerà poi a Raffaello fino alla morte). Aperta ai quattro lati: la luce penetra dalle volte e l’azzurro del cielo emerge dal fondo e dalla cupola sovrastante come Venere dal mare di Cipro. I filosofi, tutti (tranne forse Averroè e Zoroastro oltre ai contemporanei raffigurati) appartenenti alla cultura greca, di scuole e secoli diversi, stanno uscendo dal tempio e continuano in capannelli a discutere, dialogare, tentare soluzione ai problemi. Frommel afferma che nessun dipinto, neppure l’Ultima Cena di Leonardo, riesce a trasmettere così potentemente il senso di scuola e l’intenso, erotico rapporto allievo-maestro come la Scuola di Atene.
Al vertice della piramide dei personaggi, accanto ad Aristotele, Raffaello rende omaggio a Leonardo dipingendo Platone con il suo volto. Platone ha in mano il Timeo, indica il cielo: il mondo sopraceleste delle idee e la destinazione delle anime felici. Aristotele, in mano la sua Etica a Nicomaco, indica la terra e la ricerca della felicità in privato e in pubblico: l’euprattein, il ben agire e la pratica delle virtù, le forme dell’amicizia e, al sommo dell’umano, la felicità del pensare.
L’intento di spiegare il pensiero causale, esplicitato dall’allegoria della filosofia sulla volta causarum rerum cognitio, è tradotto da Raffaello in senso matematico. Ma non stupisce che non sia l’unico aspetto del suo programma nell’affresco e che l’altro, connesso al primo, sia la «vita felice»[8].
«Il suo pensiero si fonda sulla matematica, - afferma Frommel - perciò gli angoli inferiori della piramide umana sono rappresentati da Euclide e Pitagora.Questi ultimi sono quindi i vertici inferiori di un triangolo ideale che culmina con Platone e Aristotele, che formano il vertice superiore. La maggior parte degli altri personaggi stabilisce uno stretto rapporto con questi tre vertici della scena piramidale e nessun altra disciplina assume nell’affresco di Raffaello un’importanza paragonabile»[9].
In questo contesto si staglia ancora di più come guida nel paesaggio dell’affresco di Raffaello il Timeo di Platone, uno dei pochissimi testi del grande filosofo conosciuti in epoca medioevale, prima del grande lavoro di traduzione dei dialoghi e di diffusione del suo pensiero da parte di Marsilio Ficino e dell’Accademia Platonica fiorentina alla metà del Quattrocento. Innesto straordinariamente fecondo, quello del neoplatonismo, nella cultura del Rinascimento, se pensiamo al bakground che animò, con sensibilità diverse, il genio di Leonardo, Michelangelo e Raffaello[10]. Senza considerare gli esiti che la cultura dei pitagorici, mutuata da Platone e dai testi ermetici, ebbe nel creare il fertile humus attorno cui si svilupperà la rivoluzione astronomica.
Nell’affresco, Pitagora, sulle cui teorie riformulate e rifondate si articola il Timeo platonico, scrive sul manoscritto che ha di fronte. Forse sta commentando, le armonie numeriche della scala musicale disegnate sulla lavagnetta che uno dei suoi allievi sorregge di fronte a lui. «Si tratta dei rapporti fra cifre piccole, sui quali si fondano gli intervalli di quarta, di quinta e di ottava, e l’armonia delle sfere, e di tali armonie si servivano non solo i musici ma anche gli artisti»[11]. Le stesse armonie espresse in numeri cui si riferisce il Timeo, il dialogo dove appunto è un pitagorico, Timeo di Locri, a narrarci in prima persona il grande mito del demiurgo, l’artigiano celeste che plasma l’universo, portando una materia caotica, in cui esistevano solo tracce di ordine, dal disordine all’ordine.
L’«anima del mondo», più antica del corpo del mondo, perché destinata a guidarlo e a sovraintendere alle rivoluzioni celesti, il demiurgo l’ha plasmata mescolando le essenze che la compongono secondo proporzioni numeriche, cioè i rapporti delle armonie musicali (Timeo, 35a-36b)[12] che Raffaello ha dipinto sulla lavagnetta di fronte a Pitagora. L’universo è costruito sulle armonie matematiche della musica: la musica delle stelle.
Da qui forse la cura dell’essere-universo-natura: anche il tempio in cui è ambientato l’affresco, come l’Essere di Parmenide, è «inviolabile», «non saccheggiabile» nel senso giuridico del termine[13]. Una filosofia della natura come sensibilità estrema, sguardo di cura sulle cose, Raffaello l’ha traghettata per noi, come un dono prezioso, dal passato nel nostro futuro. Se solo guardiamo con gli occhi della ragione e della bellezza. Tale sensibilità è traducibile oggi in un nuovo linguaggio della scienza? Nel mondo esausto e malato dalla tracotanza rapace della ragione predatoria? Abbiamo un’altra scelta? Non abbiamo un pianeta B.
Nel Timeo l’universo è pensato come un tutto, somigliantissimo a quello «di cui gli altri animali considerati nella loro singola individualità e come specie sono parti» (30c 5-6), un «vivente dotato di anima e di intelligenza» (30b 8), un «dio felice» (34b 8). E la terra poi, «nostra nutrice ... Egli [il demiurgo] la costruì custode ed artefice della notte e del giorno» (40c). Non per nulla vediamo sul lato sinistro dell’affresco due grandi astronomi, Zoroastro e Tolomeo: l’uno di fronte all’altro, il cosmo dell’uno si specchia nel globo terracqueo dell’altro. E Raffaello che si dipinge accanto a loro ne è testimone. Inoltre «i movimenti dell’armonia sono della stessa famiglia delle rivoluzioni della nostra anima» (47d). Come sottolinea Frommel, «per Platone la perfezione dell’universo è l’archetipo dell’anima umana, a cui allude anche il suo mantello rosso»[14]. In questa armonia, forse, la radice della vita felice.
Ma il legame fra la terra, il cosmo e l’uomo non si ferma qui. Ci siamo già spostati, con Zoroastro e Tolomeo, in direzione dell’altro angolo alla base della piramide dei personaggi. A sinistra, in primo piano Euclide con le fattezze del Bramante è attorniato dall’entusiasmo dei suoi allievi. Sta disegnando con l’aiuto del compasso due triangoli rettangoli sovrapposti, uno isoscele e l’altro scaleno che, secondo il Timeo (53c8-d4), sono gli atomi, cioè gli elementi primi grazie ai quali il demiurgo plasma, compone i corpi primi, aria, acqua, terra, fuoco: il corpo dell’universo. Frommel ci fa notare che «il blu del mantello di Aristotele e il verde della sua tunica sono gli stessi colori che rappresentano l’Aria e la Terra sulla veste variopinta dell’allegoria della Filosofia nella volta»[15].
Sono le combinazioni di quei triangoli a dare vita ai 4 poliedri regolari: la piramide o il fuoco, l’ottaedro o l’aria, l’icosaedro o l’acqua, tutti e tre questi poliedri costituiti da triangoli rettangoli scaleni, mentre il cubo o la terra da triangoli isosceli (Timeo, 54d-55c). Aria, acqua, terra e fuoco, grazie al principio di associazione e dissociazione dei triangoli che li compongono, saranno l’ordito e la trama della tessitura delle cose nell’universo e delle loro trasformazioni, anche se il fuoco prevale di gran lungo nei cieli. I triangoli elementari quindi sono le vocali e le consonanti dell’ordine matematico-geometrico del tutto. Quei «caratteri» con cui è scritto l’universo, come dirà Galileo nel Saggiatore[16] (1623) più di un secolo dopo. L’allievo di Euclide che ha colto la spiegazione si volta infatti, quasi di scatto, girando lo sguardo verso il cosmo di Zoroastro, mentre Tolomeo tiene come contrappunto in mano il globo terracqueo.
Certo, l’affresco è ricchissimo ancora di spunti e di personaggi incredibili! Basti pensare a Eraclito con il volto di Michelangelo come lui ipercritico e scontroso ... E con l’amato Alcibiade ecco Socrate, che vuol essere una mosca fastidiosa per i suoi concittadini, un «tafano», capace di rovesciare tutti i valori ritenuti per certi, compreso il giudizio sulla morte. E l’atomista Democrito, che considerava anche l’anima (occhio al mantello rosso) un aggregato di atomi, quindi mortale: un ateo dipinto nella biblioteca del papa.
E il cinico Diogene cosa sta dicendo ad Alessandro Magno mentre sale incontro al suo maestro, Aristotele? E Inghirami, fra i contemporanei, perché Raffaello lo dipinge vicino a Pitagora e incoronato di foglie di vite?
Frommel risponde alle nostre domande e ci lascia con la curiosità di scoprire ancora. Lo sguardo dello studioso percorre tutte le Stanze ricostruendo a tutto tondo, per ogni affresco, la genesi creativa, le varianti, i progetti di politica, di cultura, di rappresentanza e di potere che di volta in volta i papi esplicitano e le risposte uniche e creative dell’artista. Un’opera preziosa e ancora più prezioso è il suo sguardo, capace di cogliere la complessità e la incredibile ricchezza di riferimenti coinvolti nelle opere di Raffaello, che come scrigni rivelano tesori inesauribili.
* MicroMega, 17 giugno 2020 (ripresa parziale - senza note).
ASTREA! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola RacKete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
ASTREA - L’Astraea Virgo, ” vergine delle stelle “, simbolo della giustizia, abitò la terra nell’età dell’oro e la lasciò per ultima nell’età del ferro, cedendo all’iniquità ormai dominante. Il ‛ritorno di A. ‘ si identifica in Virgilio con il ritorno dell’età di Saturno (” magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. / iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna, / iam nova progenies caelo demittitur alto “, Buc. IV 5-7). L’intero passo virgiliano è parafrasato in Pg XXII 70-72 Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenïe scende da ciel nova; in Mn I XI 1 è riportato il v. 6 (cui segue la chiosa ‛ Virgo ‘... vocabatur iustitia, quam etiam ‛ Astraeam ‘ vocabant), ricordato anche in Ep VII 6; in Ep XI 15 il nome di A. è usato come metonimico di giustizia (http://www.treccani.it/enciclopedia/astrea_%28Enciclopedia-Dantesca%29/).
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
By Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
L’anniversario.
Raffaello teologo nel segno dell’umanesimo
Acuto interprete di questioni teologiche Raffaello superò predecessori e posteri con la sua arte capace di donare all’immagine la forza dell’eternità. La riflessione del cardinal Ravasi
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, domenica 1 marzo 2020)
Per anni ho avuto la fortuna di vivere nello stesso palazzo della Biblioteca Ambrosiana ove si custodisce un imponente disegno a carboncino e biacca di ben 2,75 per 7,95 metri: è il cartone preparatorio che Raffaello ha elaborato di suo pugno per abbozzare l’affresco della Scuola di Atene che avrebbe poi dipinto in Vaticano nella cosiddetta Stanza della Segnatura. Come recita il titolo, l’opera rivela un Raffaello filosofo che convocava in quel dipinto Platone e Aristotele, Socrate, Epicuro, Eraclito e Pitagora, persino Diogene e Alcibiade, ma anche Averroè e Zoroastro. Tuttavia il lessico iconografico che dominò la breve, ma intensa, vita cronologica e artistica dell’Urbinate fu quello teologico.
Lungo sarebbe l’elenco e complessa l’analisi dell’immensa sequenza di soggetti biblici e religiosi che popolano le pareti del Palazzo Apostolico. Ad esempio, la Stanza di Eliodoro è così denominata da un murale che rappresenta la scena narrata dal Secondo Libro dei Maccabei (3,23-24), ove è appunto protagonista questo ministro siro. Ma nella stessa sala ecco la liberazione di san Pietro dal carcere, episodio narrato dagli Atti degli Apostoli (12,1-19), con uno straordinario gioco di luce e tenebra (indimenticabile è la luna che si affaccia in un cielo estivo velato di nubi lievi). Tra le altre scene, facciamo emergere il tema eucaristico, raffigurato nella cosiddetta Messa di Bolsena col celebrante boemo in crisi di fede che, nel 1236, alla consacrazione vede l’ostia sanguinare, miracolo che generò la festa del Corpus Domini. A lato di quell’evento Raffaello pone simbolicamente il “suo” papa, Giulio II che, inginocchiato, alza le mani giunte in preghiera, fissando in concentrazione il miracolo che sta compiendosi sull’altare, mentre le bionde guardie svizzere assistono anch’esse genuflesse nel loro sontuoso abbigliamento di velluto e raso con armature. [...]
Un apogeo della sua arte è la Trasfigurazione, tavola pensata come dono da inviare alla cattedrale francese di Narbonne, sede episcopale titolare di un nipote del pontefice di allora Leone X, il cardinale Giulio de’ Medici che sarebbe divenuto, un paio di anni dopo la morte dello zio, nel 1529, lui stesso papa col nome di Clemente VII. L’Urbinate compose su due registri la scena, seguendo il testo evangelico nella sua struttura a dittico. I tre evangelisti sinottici - Matteo (17,1-20), Marco (9,2-29) e Luca (9,28-43) - narrano, infatti, sia pure da angolature redazionali differenti, sia la “cristofania” della Trasfigurazione su un monte innominato, identificato nel Tabor da un’antica tradizione secolare, sia la guarigione di un ragazzo epilettico ai piedi di quel monte. Nella sua pala Raffaello alla luminosa “metamorfosi” (tale è la parola originaria greca per indicare la Trasfigurazione) di Cristo congiunge una vicenda così drammatica come quella del ragazzo epilettico, la cui sindrome era accuratamente delineata dagli evangelisti: «Uno spirito muto, dovunque lo afferrava, lo gettava a terra ed egli schiumava, digrignava i denti e si irrigidiva [...].
Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo che, piombato a terra, si rotolava schiumando ». Anzi, suo padre confessava a Gesù che quello spirito maligno - secondo l’antica concezione alcune malattie erano considerate come effetto di possessione diabolica - «spesso lo buttava nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo» (Marco 9,18-22). Due piattaforme sceniche sovrapposte animano, dunque, il dipinto di Raffaello. Esse, però, sono impostate prospetticamente a diversa gradazione. La Trasfigurazione è lassù, avvolta in un nimbo di luce trascendente, ove Cristo aleggia sospeso con le braccia aperte a croce, accompagnato ai bordi della mandorla luminosa da Mosè, simbolo della Legge, e da Elia, emblema della profezia, protesi in contemplazione, mentre ai piedi di Gesù, sul terreno della cima del monte, accecati e storditi sono accasciati a terra i tre apostoli testimoni Pietro, Giacomo e Giovanni.
Questa scena alta e sublime dovrebbe essere ammirata a distanza, come se fosse un’epifania che da lontano, dall’alto, quasi dall’infinito, si apre allo sguardo della contemplazione mistica. Una visione ravvicinata è, invece, richiesta dalla scena inferiore, mossa, tormentata, agitata da movimenti fortemente “carnali”: basti solo guardare il corpo in torsione e gli occhi sbarrati e stravolti del ragazzo epilettico. Eppure alcune mani si levano verso l’alto ove risplende circonfuso di luce il Cristo. Anzi, il giovane, con le sue braccia, il destro teso verso il Cristo trasfigurato e il sinistro rivolto a terra, crea una sorta di croce a cui la malattia lo inchioda. Raffaello, in tal modo, va oltre la lettera del racconto evangelico che suppone una sequenza temporale staccata tra i due eventi, e vede tra di essi un rapporto causale di natura squisitamente teologica. È, infatti, dal Cristo glorioso, centro della storia della salvezza, che fluisce la liberazione dal male. Per questo egli unisce trascendenza e immanenza, eternità e storia, luce e oscurità, grazia e sofferenza, assoluto e caducità, divinità e umanità. [...]
Questo dipinto fu in pratica l’ultimo a cui si dedicò il pennello di Raffaello tra il 1518 e il 1520, l’anno della sua morte. Egli era appena trentasettenne e il suo funerale è commemorato con una nota commossa da Giorgio Vasari nelle sue Vite. Le sue parole possono essere il suggello più efficace alla contemplazione di questo capolavoro. Scriveva, infatti, trent’anni dopo, nel 1550, quel pittore che fu uno dei primi storici e critici d’arte: «Gli misero alla morte al capo, nella sala dove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’animo di dolore a ognuno che quivi guardava».
Il fascino di Raffaello, più forte del virus
A Roma la più grande mostra di sempre, record assicurazioni 4 mld *
di Silvia Lambertucci *
ROMA. SCUDERIE DEL QUIRINALE - La qualità, prima di tutto, con un progetto scientifico che è il frutto di tre anni di lavoro e al quale ha collaborato un team di super esperti del settore, da Nicholas Penny a lungo direttore della National Gallery di Londra a Dominique Cordellier del Louvre, dalla direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta al suo predecessore, ex soprintendente di Firenze ed ex ministro della cultura Antonio Paolucci. Ma anche la quantità, con un numero di opere del maestro urbinate, che "mai prima d’ora si erano viste tutte insieme".
Roma celebra i 500 anni dalla morte di Raffaello, pittore grandissimo, ma anche architetto e primo storico soprintendente ai beni culturali, e dopo la meraviglia degli arazzi esposti per una settimana nella Cappella Sistina è conto alla rovescia per la rassegna allestita alle Scuderie del Quirinale.
Epidemia da coronavirus permettendo , l’apertura al pubblico è prevista dal 5 marzo al 2 giugno, appuntamento "unico e irripetibile, senza nessuna possibilità di replica all’estero", sottolinea il presidente e ad di Ales Scuderie del Quirinale Mario De Simoni.
Lo sforzo del resto è stato titanico, ribadisce, con 54 istituzioni coinvolte nei prestiti, dai Musei Vaticani al Prado, dalla National Gallery alla Pinacoteca di Monaco, il Louvre, la National Gallery di Washington. E un valore assicurativo monstre di 4 miliardi di euro, per le 206 opere esposte (120 di Raffaello) più alto persino del Leonardo colossal appena andato in scena al Louvre.
Le prenotazioni sono già tantissime, oltre 70 mila i biglietti acquistati, duemila solo nelle ultime ventiquattrore a dispetto delle notizie sempre più allarmanti che arrivano dal nord Italia. Nessuna disdetta. "Confermate anche tutte le presenze per l’inaugurazione", sottolinea De Simoni, che pure non nasconde la preoccupazione per l’evolversi degli eventi legati alla salute pubblica: "E’ chiaro che faremo quello che le autorità ci dicono di fare", allarga le braccia il manager culturale. Nella peggiore delle ipotesi, spiega, si tenterà "uno spostamento temporale". Tant’è, per ora si va avanti, con il fascino di Raffaello più forte di tutto.
Concepito "a ritroso" con un racconto che parte proprio da una ricostruzione della tomba dell’artista al Pantheon, per poi ripercorrerne tutta l’avventura creativa da Roma a Firenze all’Umbria fino alle radici urbinati, il percorso si sofferma in particolare sul periodo romano, "undici fecondissimi anni" dal 1509 al 6 aprile 1520, data della sua morte improvvisa e prematura, avvenuta "dopo giorni di febbre continua e acuta", come scrisse il Vasari.
Sono gli anni dei papi mecenati, Giulio II prima Leone X poi, delle importantissime committenze, dalle Stanze dell’appartamento papale con la Segnatura, capolavoro dei suoi 25 anni, agli Arazzi, i lavori per il ricco banchiere Agostini Chigi e la sua Villa Farnesina. Ma è anche l’epoca dei dei dipinti più iconici, dalla Velata alla Fornarina, dal ritratto di Giulio II a quello di Innocenzo X (tutti in mostra) fino all’impegno di architetto per il cantiere di San Pietro.
Centrale in questo racconto, è la Lettera a Leone X , che Raffaello scrisse insieme a Baldassare Castiglione, una missiva destinata a diventare il fondamento stesso della idea italiana di tutela del patrimonio culturale, principio non a caso poi inserito nella Costituzione: le Scuderie ne espongono la preziosa minuta conservata nell’Archivio di Mantova e già questa è una emozione. Come emozionante sarà rivedere in Italia per la prima volta La Madonna d’Alba prestata dalla National Gallery di Washington o La Madonna della Rosa del Prado, la Madonna dei Tempi inviata dalla Pinacoteca di Monaco.
"E’ la mostra più imponente che avremo occasione di vedere dedicata a Raffaello, ma anche la più sensata perché basata su ricerche scientifiche e novità venute fuori dai restauri", fa notare il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, a cui si deve peraltro l’idea di una grande rassegna romana. Due in particolare "il colore del ritratto di Leone X, restaurato dall’opificio delle Pietre Dure". Ma anche la "riscoperta, che si deve a due giovani ricercatrici Roberta Aliventi e Laura Darimbettina, di un frammento di un cartone preparatorio di un dipinto di Giulio Romano che si trova oggi a Padova" .
Uno sforzo, sottolinea Marzia Faietti curatrice insieme al direttore delle Scuderie Matteo Lafranconi , "Che è stato anche un ripercorrere le tappe di un percorso intellettuale, quello della nostra generazione". Alla ricerca, tra l’altro, dei messaggi che ancora oggi l’opera di Raffaello può dare. Uno su tutti, "il più moderno" secondo la studiosa, "è quello di pace" che viene ad esempio dalla Scuola di Atene "dove tante persone di diverse culture dialogano tra loro". Proprio in quegli anni, ricorda, usciva il pamphlet di Erasmo da Rotterdam contro la guerra: " E Raffaello, spirito aperto, era allineato con i grandi pensatori d’Europa, i più grandi pacifisti". Lunga vita a Raffaello. (ANSA).
* Fonte: Ansa, 24 febbraio 2020 (ripresa parziale).
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo. La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
Augusto e la cultura. Tutti i poeti del principe
Attraverso il circolo del fedele amico Mecenate, Ottaviano legittimò il suo predominio assoluto. All’imperatore è dedicato il primo volume della serie «I protagonisti della storia» in edicola con il «Corriere della Sera» da giovedì 27 dicembre
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 27.12.2018)
Un’impronta comune caratterizza la produzione letteraria durante l’età augustea. Come se un’abile e occulta regia avesse guidato tutti gli autori nel tendere verso un equilibrio etico. Con il principio di evitare eccessi stilistici quali la volgarità del linguaggio e l’esaltazione della lussuria o dell’estasi erotica. D’altronde qualsiasi forma di potere necessita di legittimazione.
Così per aumentare il proprio consenso Ottaviano, che per primo riuscì a riformare la costituzione repubblicana di Roma senza annullarla ma svuotandola di contenuto, decise di utilizzare l’ars poetica sotto vigile controllo, pronto a ricorrere a drastiche misure di repressione contro quegli scrittori che non si fossero allineati alla sua politica culturale. Un abile progetto di propaganda: dopo le guerre civili, il periodo del grande terrore compreso fra la morte di Cesare e la battaglia di Azio, è chiaro che Augusto, simile al dio Helios, doveva essere esaltato per la sua straordinaria capacità di donare la pace universale al popolo, di restituire importanza alla famiglia e agli antichi costumi morali, di certificare la missione dei Romani nel «civilizzare» i barbari fino ad inglobarli.
Il suo nome andò di conseguenza a coincidere con la ricostruzione dei valori tradizionali nell’ambito di una concordia raggiunta. Mai più lotte intestine. Per controllare e orientare i maggiori letterati del tempo il princeps ordinò al caro amico e sostenitore Mecenate, ricco cavaliere, abile diplomatico, raffinato appassionato di cultura, di costituire una cerchia di scrittori disponibili a collaborare agli obiettivi della politica augustea. Che cosa offrire in cambio? Protezione, garanzia di carriera, munifiche elargizioni e cospicui sovvenzionamenti.
Con fiuto da eccellente talent scout, Mecenate lanciò i giovani ma già apprezzati Virgilio e Orazio. E non solo: sotto la propria ala protettrice accolse Tibullo, Properzio e altri poeti, considerati poi minori dalla critica: Lucio Vario Rufo, Cornelio Gallo, Aristio Fusco, Plozio Tucca, Valgio Rufo, Domizio Marso, Quintilio Varo, Caio Melisso ed Emilio Macro. Un autentico esercito di letterati come armi da usare per il sostegno del disegno imperiale teso ad una riforma complessiva dello Stato.
Attraverso le loro opere Mecenate, che da privato cittadino esercitava un potere senza nome né definizione, riuscì a costruire un’operazione «modello» di promozione a favore dell’ideologia di Augusto. Soltanto in tale modo è possibile comprendere la stupefacente coerenza stilistica delle Odi di Orazio e dei capolavori di Virgilio. Mentre la creazione nell’Urbe delle prime biblioteche pubbliche permetteva all’imperatore di mettere a disposizione di tutti esclusivamente letture gradite al regime.
I rapporti tra principe e intellettuali non erano però sempre armoniosi. Persino Virgilio fu convinto ad eliminare dall’Eneide il nome dell’amico Cornelio Gallo, costretto al suicidio per ordine dell’imperatore. Ovidio pagò l’esaltazione dei piaceri dell’eros e degli insoliti connubi sessuali presenti nelle Metamorfosi con l’esilio in una sperduta località sul Mar Nero. Lo storico Tito Labieno, colpevole di non essere più in sintonia con Augusto, venne invece punito dando i suoi libri alle fiamme.
Nella smania di conquistare un potere illimitato il princeps s’incarnò di conseguenza nella figura di Enea, l’antenato della gens Iulia, il nuovo eroe epico frutto dell’erudita fantasia di Virgilio. Ma quell’Enea iniziatore della stirpe coincide tuttavia con un fomentatore di guerra a qualsiasi costo. Non si tratta di una contraddizione. Prima di divenire portatore di pace, Ottaviano sparse sangue ovunque, assumendo il ruolo di vendicatore contro i cesaricidi Bruto e Cassio e di salvatore della patria nei confronti dell’Oriente invasore di Cleopatra e Antonio.
Nell’arco di un ventennio è proprio con Augusto che iniziò la stagione dei massimi scrittori della letteratura latina, quei classici senza tempo come Virgilio, Orazio, Properzio, Tibullo, Ovidio e Livio, in grado di competere con gli autori della Grecia antica. Tutti alle dipendenze dell’imperatore, uomo di polso, non di clemenza.
La sfida al destino: i protagonisti che fanno la storia
Parte oggi, con un volume di Arnaldo Marcone sul primo imperatore dell’antica Roma, la serie delle biografie in edicola con il quotidiano. Da lungo tempo si discute su quanto influiscano nelle vicende delle società umane le scelte compiute dalle figure più famose sulla base del proprio orientamento personale
di Marcello Flores (Corriere della Sera, 27.12.2018)
Nel 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Sidney Hook, un intellettuale impegnato che era stato comunista nei primi anni Trenta e nel 1939 aveva costituito il Committe for Cultural Freedom che intendeva opporsi ai totalitarismi di destra e sinistra, pubblicò The Hero in History. In esso sosteneva che esistono «uomini memorabili» e «uomini che creano eventi nella storia»: tra i primi ricordava il ragazzo olandese che, ponendo il dito sul buco creato nella diga, salvò la città di Haarlem dall’inondazione, ma anche Gavrilo Princip, il giovane terrorista serbo-bosniaco il cui atto - l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e della moglie Sofia - precipitò il mondo nella tragedia della Prima guerra mondiale; tra i secondi poneva senza esitazione Vladimir Lenin, di cui ricordava ancora, evidentemente, l’infatuazione che aveva prodotto in lui e in molti intellettuali della sua generazione.
Anche se può sembrare paradossale furono proprio i marxisti, secondo i quali le forze dominanti nella storia erano quelle economiche e sociali e che affidavano alle strutture e ai contesti più generali, più che agli individui, il ruolo di muovere la storia e alimentarne le dinamiche, a riflettere sul ruolo delle singole personalità nel corso degli eventi. Il libro che ebbe maggiore successo e che, ristampato in molte lingue, venne letto da molteplici generazioni, fu quello di Georgij Valentinovic Plechanov, che nel 1898 pubblicò La funzione della personalità nella storia. In esso, dopo aver sottolineato che l’individuo costituiva «un legame inevitabile nella catena inevitabile degli eventi» - cercando così di superare gli estremismi di una visione pienamente soggettivistica e una puramente deterministica - aveva aggiunto: «La funzione degli uomini veramente grandi consiste nell’essere i promotori, perché essi vedono più lontano e hanno una volontà più forte degli altri». Egli si domandava cosa sarebbe successo alla Rivoluzione francese se Mirabeau non fosse morto improvvisamente, Robespierre fosse stato ucciso accidentalmente o Napoleone fosse stato assassinato prima d’iniziare la campagna d’Italia. E rispondeva che le cose sarebbero, forse, cambiate, ma solo di poco o per poco tempo, dal momento che ogni epoca produceva i suoi eroi adatti, riprendendo la frase dell’illuminista Claude-Adrien Helvétius, secondo cui «ogni periodo ha i suoi grandi uomini, e se mancano li inventa».
Il principale esponente del soggettivismo era stato Thomas Carlyle, che dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento aveva sviluppato, in sintonia con il romanticismo tedesco, l’idea che la storia fosse appannaggio dei grandi uomini, di alcuni dei quali (Schiller, Cromwell, Federico II) scrisse biografie destinate a durare, trovando in essi i protagonisti di eventi collettivi (la rivoluzione francese, il romanzo tedesco, il cartismo inglese) che acquistavano significato solo attraverso i propri protagonisti. Anche all’interno della storiografia liberale whig, che nell’Ottocento egemonizzò la visione britannica del passato, il ruolo affidato agli individui nel permettere il successo della libertà civile, della tolleranza religiosa, della divisione dei poteri come base per una spinta vittoriosa al progresso industriale e sociale del Paese venne ripetutamente sottolineato.
Sarà successivamente la tradizione tedesca, nella forma prima hegeliana e poi marxista, a suggerire che a creare la storia non erano tanto i grandi individui, ma forze sovraindividuali (lo «spirito universale» di Hegel, le «masse» dei populisti utopici, le «forze produttive» del marxismo ortodosso). Anche per un romantico e un idealista come Schelling, tuttavia, la storia era in qualche modo predeterminata, e gli uomini vi giocavano un falso dramma in cui da attori rischiavano di diventare marionette; mentre per Marx la storia era il risultato dell’attività storica degli uomini, che vedeva però al tempo stesso come «autori» e «attori» del dramma che vivevano e interpretavano.
Per cercare di risolvere l’antinomia tra le forze sociali, economiche e collettive che dominano il processo storico e il ruolo che potrebbero avere gli individui nel determinarne gli effetti, o almeno accelerarne spostamenti e deviazioni, Karel Kosik sostenne che l’uomo è al tempo stesso un prodotto della storia, ma si trova anche a esserne potenzialmente il creatore, perché è penetrato della presenza e dell’umanità degli altri e non può trasformare il mondo che attraverso la loro collaborazione.
È difficile pensare che cosa avrebbe potuto essere la storia senza la presenza di quelle personalità che costituiscono i «protagonisti» che verranno proposti nelle prossime settimane dal «Corriere della Sera»: senza Augusto o Cristoforo Colombo, senza Pietro il Grande o Marco Polo, senza Pericle o Attila; ma anche senza Cleopatra o Livia, Teodora o Maria de’ Medici. Furono il risultato dei loro tempi o i creatori delle loro epoche? Probabilmente entrambe le cose.
È stato sempre presente, nelle vite di ognuna di queste figure, un elemento di casualità, dell’essere presenti al momento giusto quando le loro capacità potevano costituire una risorsa importante per modificare o confermare il corso della storia. Ma si trattava, in ogni modo, di figli e figlie del proprio tempo, capaci di interpretarlo con maggiore lucidità, intensità e determinazione. Fortuna e virtù, come scrisse Machiavelli - un altro dei protagonisti della serie che andrà in edicola - sono due aspetti che si compenetrano: la prima è l’occasione attraverso cui l’uomo può dimostrare il proprio valore e la propria insostituibilità.
Augusto e il duplice capolavoro. Costruì l’Italia e rigenerò Roma
Un leader pragmatico, abilissimo nella comunicazione. All’imperatore è dedicato il primo volume della collana «Protagonisti della storia» in edicola dal 27 dicembre
di LIVIA CAPPONI (Corriere della Sera, 23.12.2018)
«Camaleonte» fu il soprannome affibbiatogli nel IV secolo dall’imperatore Giuliano, mentre per lo storico Ronald Syme era uno showman, un personaggio dotato di eccezionali doti organizzative e un grande senso dello spettacolo. Per Cicerone, il giovane Gaio Ottavio, nato a Roma da famiglia non illustre, era il «ragazzo che deve tutto al suo nome»: adottato dal prozio Giulio Cesare, alla sua morte diventò Divi filius cioè «figlio del divino», formula che tradotta in greco suonava come «figlio di dio». Dal 27 a.C. gli fu conferito il nome di Augusto, in onore della sua auctoritas, nozione affine ad «autorità» o, se si preferisce, «autorevolezza», comunque extra-costituzionale.
Proclamatosi il difensore della Repubblica contro la monarchia di Marco Antonio e Cleopatra, iniziò di fatto un regime completamente nuovo, il principato, in cui al Senato era affiancato, in una sorta di partnership, il princeps, cioè il «primo cittadino». Portatore di valori quali la moderazione, la guerra al lusso, il rilancio della religione, l’attenzione alla demografia e alle esigenze alimentari e sociali della città, diede il via a una reinvenzione della tradizione, che non mirava solo a soddisfare bisogni presenti, ma progettò consapevolmente un futuro straordinariamente longevo.
La guerra civile non fu solo scontro militare, ma anche battaglia d’idee, dèi e immagini. Ottaviano, presentandosi come protetto da Apollo contro Antonio e Cleopatra, equiparati a Dioniso-Afrodite e Osiride-Iside, impersonò la lotta dell’Occidente contro un Oriente dipinto come monarchico, animalesco, ignorante di istituzioni e leggi, e convinse i suoi concittadini che lo scontro fosse necessario per la sopravvivenza di Roma.
Vincitore ad Azio (31 a.C.) grazie soprattutto al valore del suo ammiraglio Agrippa, fornì il resoconto ufficiale del suo operato nelle Res Gestae («I miei atti»), singolare testamento politico diffuso in tutto l’impero, perché s’imprimesse nella memoria dei posteri. «Tutta l’Italia giurò spontaneamente fedeltà a me e chiese me come comandante della guerra in cui vinsi presso Azio. (...) Dopo aver sedato l’insorgere delle guerre civili, assunsi per consenso universale il potere supremo, e trasferii dalla mia persona al Senato e al popolo romano il governo della Repubblica». Esagerazioni, forse, ma non così lontane dalla verità, sostiene Arnaldo Marcone nel volume Augusto, in uscita con il «Corriere» il 27 dicembre.
Coniugando flessibilità e pragmatismo, Augusto assestò il suo potere attraverso una dialettica fra diverse componenti sociali e una sapiente gestione della comunicazione, dell’arte e della religione, quest’ultima da intendersi come ritualità pubblica, non come fede o dogma. Bollare il tutto come propaganda è riduttivo. Le contraddizioni esplosero al momento della successione: quando il potere passò, seppure con i crismi della legalità, al figlio adottivo, Tiberio, fu chiaro a tutti che era ormai iniziato un nuovo regime, che Marcone definisce una «monarchia militare mascherata», e i cui successivi esponenti si dimostrarono quasi sempre inferiori al primo.
Uomo poliedrico e attento all’immagine, si fece raffigurare a Roma come generale vittorioso (Prima Porta) e pontefice massimo solenne e pio (Via Labicana), all’estero secondo il gusto locale, per esempio come faraone in Egitto, o invincibile signore di terra e mare ad Afrodisia in Turchia. Scelse di abitare senza sfarzi in una casa modesta, ma come un «secondo Romolo» la volle sul Palatino, sede dei leggendari inizi di Roma, ora nobilitati dall’opera dell’amico Virgilio. Al contempo, rivoluzionò la città, trasformandola in una capitale senza pari: «Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo». -Diffondendo storie sul suo concepimento da parte di Apollo e pubblicando il suo oroscopo, creò l’idea che il suo futuro fosse scritto nelle stelle. L’obelisco in piazza Montecitorio, gigantesco gnomone di una altrettanto immensa meridiana, puntava la sua ombra sull’Ara Pacis nell’equinozio d’autunno, giorno del suo compleanno.
Il principato di Augusto è oggi valutato più positivamente che in passato, anzitutto come costruzione dell’Italia tutta (non più solo di Roma e del Lazio) come entità etnico-morale fatta di popoli diversi ma consanguinei, in costante dialogo con il mondo greco. Inoltre, il governo delle province si distinse perché non arbitrario e autocratico; il rifiuto di Augusto di un culto esplicito della sua persona, almeno a livello ufficiale, è coerente con tale scelta. Lo slogan di aver «restituito la Res publica», servì non tanto a ripristinare le istituzioni repubblicane, incompatibili con uno Stato così esteso, ma a far emergere una visione ecumenica del dominio territoriale di Roma: un governo regolato non più da capifazione in lotta perenne, ma attraverso una classe dirigente fatta di magistrati competenti e affidabili, secondo norme certe, che dovevano essere di garanzia per i cittadini e per i provinciali, minoranze etniche comprese. Legalità e competenza: due aspetti dell’eredità di Augusto validi ancora oggi.
"GUERCINO A PIACENZA". Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 ...
Il ’600 di Guercino tra Sacro e Profano
Dal 4/3 a Piacenza si visiteranno anche affreschi cupola Duomo
di Nicoletta Castagni *
PIACENZA - Una mostra dei suoi capolavori a Palazzo Farnese e la possibilità di poter ammirare da vicino, per la prima volta, il ciclo di affreschi della cupola della Cattedrale: dal 4 marzo Piacenza celebra Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, e il suo sublime ’600, di cui, tra immagini sacre e raffigurazioni profane, il pittore di Cento fu uno degli indiscussi protagonisti. Fino al 4 giugno, la rassegna presenterà infatti una ventina di opere tra oli e disegni, mentre una serie d’iniziative di grande suggestione e rilevanza storico-artistica accompagneranno l’ascesa all’interno della cupola decorata dal maestro emiliano con le storie dall’Antico e Nuovo Testamento.
Intitolato ’Guercino a Piacenza’, il progetto espositivo è stato promosso dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio e dal comune di Piacenza, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Mibact e col contributo della Camera di Commercio di Piacenza, Apt Servizi Regione Emilia Romagna, Iren (main sponsor Credit Agricole Cariparma). Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 e che si presenterà in tutta la sua bellezza grazie alla nuova illuminazione realizzata da Davide Groppi.
Tra i vertici assoluti della sua arte, le pitture della cupola sono suddivise in sei scomparti raffiguranti le immagini dei profeti Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia. Nelle le lunette ecco dunque alcuni episodi dell’infanzia di Gesù (Annuncio ai Pastori, Adorazione dei pastori, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto) che si alternano alle immagini di otto Sibille e il fregio del tamburo.
Chiamato per primo a dipingere i Profeti nella volta della Cattedrale, fu nel 1625 Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che ne realizzò due, Davide e Isaia, ma morì appena ultimati i primi due spicchi, notevoli per cromia e impianto. Quindi, nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno successivo gli altri sei scomparti della cupola e le lunette.
Per preparare all’ascesa della cupola, il visitatore sarà invitato, come prima tappa del percorso espositivo, all’interno delle sagrestie superiori della Cattedrale, dove verrà allestita una sala multimediale circolare che conterrà un grande videowall di oltre 10 m di lunghezza.
Il filmato di impatto spettacolare, condurrà virtualmente nella storia, al momento in cui il Vescovo Linati invita Guercino a Piacenza per decorare la cupola secondo i canoni imposti dal Concilio. Grazie all’impiego delle più attuali tecnologie, a una base scientifica che poggia su documenti d’archivio e disegni preparatori, alle foto ad altissima risoluzione del ciclo pittorico, lo spettatore potrà comprendere i tempi, le tecniche di lavorazione e le difficoltà riscontrate nella realizzazione di quello che la critica ha definito uno dei maggiori capolavori del maestro di Cento.
Sempre dal 4 marzo, la Cappella ducale di Palazzo Farnese ospiterà la bella mostra curata da Daniele Benati e Antonella Gigli, che insieme (e con il supporto di un comitato scientifico composto da Antonio Paolucci, Fausto Gozzi e David Stone) hanno selezionato 20 capolavori del Guercino, capaci di restituire la lunga parabola creativa che lo ha portato a divenire uno degli artisti del ’600 italiano più amati a livello internazionale. I dipinti scelti, infatti, testimonieranno la ’poetica degli affetti’ con cui il pittore, lungo l’arco cronologico della sua operosa attività artistica, ha realizzato sia i temi sacri sia quelli profani.
Tra i capolavori esposti ci saranno in prevalenza pale d’altare, ma non mancheranno i quadri ’da stanza’ a soggetto profano, in modo da scoprire il vero volto di Guercino e apprezzarne la straordinaria qualità e le prerogative messe a punto prima e dopo la grande impresa della volta piacentina. Il percorso espositivo illustrerà quindi le prime esperienze pittoriche a Cento, paese natale, svolte nel segno di una romantica adesione al linguaggio di Ludovico Carracci e indagherà la sua maturazione artistica avvenuta durante i lunghi soggiorni a Bologna e quindi a Roma. Fino ad arrivare all’ultima fase, quando, pur rimanendo inconfondibile, il suo linguaggio si apre a nuove sollecitazioni di tipo classicheggiante, incontrando il favore dei più illustri committenti.
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) *
Come scalare il Guercino
di Silvia Tomasi **
Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola.
Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.
Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.
A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?
Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale... Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846.
Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.
A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.
E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.
Per mantenere le stimmate del mondo terreno - e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 - Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».
* * THE LIVINGSTONE, 19/03/2017
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FILIPPO BARBERI o BARBIERI (Philippus de Barberis o Philippus Siculus),"Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini, et alia opuscola", Roma, 1481: La Sibilla Tiburtina.
PROFETI E SIBILLE. Storia delle immagini... Filippo Barberi, "Discordantiae sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini", 1481
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666)
Federico La Sala
L’inventore dell’Italia
Augusto plasmò un mito identitario da brandire nella lotta con Antonio
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 08.12.2015)
A spalancare le porte del successo al diciannovenne Ottaviano, fu un «difetto di pianificazione» da parte degli attentatori di Cesare: Bruto, Cassio e compagni («tra cui c’erano ottimati, ma anche cesariani e personaggi non attribuibili ad alcuno schieramento preciso»). È questa la tesi iniziale dell’interessantissimo Augusto di Arnaldo Marcone, pubblicato da Salerno.
L’assenza di un «progetto per il dopo» portò in quel 44 a.C. a un generale stato di confusione. Un caos ben ricostruito anni fa da Arnold Hugh Martin Jones nel suo Augusto (Laterza), laddove si spiega come l’errore iniziale dei congiurati fu probabilmente quello di non aver seguito il consiglio di Cicerone, cioè di eliminare anche Antonio («Bruto fu il più deciso nel volerlo risparmiare», sottolinea Marcone). Con le conseguenze che, per vie tortuose, ne venne fuori un disordine che durò per tredici anni, fino alla battaglia di Azio (31 a.C.) nella quale Ottaviano sconfisse Antonio e Cleopatra. Una concatenazione di eventi approfondita con considerazioni non scontate da Giovannella Cresci Marrone in Marco Antonio. La memoria deformata (Edises). Fu solo nella battaglia di Azio che si completò l’ideale passaggio di consegne tra Cesare e il suo figlio adottivo Ottaviano Augusto.
Nella storia di quegli anni, ha scritto Luca Canali in Augusto, braccio violento della storia (Bompiani), sarebbe stato difficile trovare due personalità tanto diverse fra loro... Cesare aveva voluto con sé Ottaviano, appena adolescente, nel corso di due spedizioni, in Africa e in Spagna. In quelle due circostanze avrebbe scoperto «la gracilità delle membra e il pallore a volte mortale di quel ragazzo, ma anche la sua ostinazione tirata fino allo spasimo in qualsiasi situazione, fosse pure di grave rischio o di dura fatica».
Canali, domandandosi che cosa Giulio Cesare avesse trovato in quel «sedicenne schivo e taciturno», si è spinto a ipotizzare che avesse individuato in lui, sia pure in nuce , «la innata capacità di trasformare una rivoluzione ancora in atto in un regime illuminato ancorché autoritario fino al dispotismo». Marcone ricorda che, secondo Svetonio, a Munda, la località della Spagna meridionale dove nel marzo del 45 si svolse una decisiva battaglia contro i seguaci di Pompeo, Cesare pensò addirittura al suicidio: fu probabilmente in quegli attimi che scelse il nipote Ottaviano (la sorella di Cesare, Giulia, era sua nonna) come successore. E, dopo la vittoria ispanica, gli concesse di seguirlo nella carrozza più prossima alla sua, dove sedeva con Marco Antonio, nei giorni in cui attraversò trionfalmente l’Italia.
Vennero poi le Idi di marzo e, dopo l’uccisione di Cesare, il caos di cui abbiamo detto all’inizio. Una notevole carenza di senso delle prospettive accecò all’epoca anche Cicerone, ondivago nei suoi giudizi sui protagonisti di quella fase storica e ossessionato dall’idea che Antonio potesse trasformarsi in un nuovo tiranno. Ed è a questo punto che si produce quello che Luca Canali, ha definito il «pasticcio di Modena». A Modena nel 43 a.C. Ottaviano combatté la «prima vera battaglia (quasi una guerra)» che «vide capovolte e violate le motivazioni politiche delle parti in conflitto» . In che senso? Ottaviano prese la decisione di schierarsi con i due consoli in carica, Aulo Irzio e Gaio Pansa, i quali sostenevano Bruto, uno dei congiurati che avevano ucciso Cesare. Paradossalmente il nemico del figlio adottivo di Cesare, in quella occasione fu Marco Antonio, cesariano da sempre. La battaglia fu sanguinosissima, Irzio e Pansa morirono in combattimento, ma Antonio venne sconfitto, dovette lasciare il campo e attraversare le Alpi.
Ancor più imprevedibile quel che accadde in seguito. Ottaviano, dopo questa che per Canali fu una «guerra assurda», si riconciliò con Antonio e passò di nuovo «dalla parte della rivoluzione», marciò su Roma e chiese a soli vent’anni il consolato (mentre l’età minima per ottenerlo avrebbe dovuto essere di trenta) al posto di Irzio e Pansa, caduti, come s’è detto, in battaglia. A tale richiesta «completamente anomala e avventata», i senatori «cedettero atterriti dalle minacce di rappresaglia». Soprattutto dopo che un centurione di Ottaviano entrò nella aula senatoriale con la spada sguainata e disse: «Se non lo farete console, lo farà quest’arma». Così il figlio adottivo di Cesare ottenne il consolato, furono stilate le liste di proscrizione e «il sangue corse a fiumi».
Alludendo in modo quasi esplicito al passo di Benito Mussolini dell’ottobre 1922, Luciano Canfora ha definito, fin dal titolo di un suo fortunatissimo libro, quella di Augusto La prima marcia su Roma (Laterza). «Atto eversivo ammantato di legalità», ha scritto Canfora, «quella precoce conquista a mano armata della più alta magistratura della Repubblica fu, per il giovanissimo e già più che maturo erede di Cesare, il presupposto fondamentale della successiva sua costruzione politica che segnò per secoli la storia del mondo». Certo, scrive Marcone, la caccia all’uomo che si scatenò in quei giorni - e che ebbe in Cicerone la sua vittima più illustre - «lascia un’ombra incancellabile sul giovane Ottaviano, anche se è verosimile che almeno in un primo tempo, abbia cercato di opporsi alle proscrizioni, dal momento che non aveva nemici personali in Senato da colpire». Ma questo era probabilmente un suo punto di forza, dal momento che stava per giungere l’ora dello scontro finale con gli artefici della congiura del 44 a.C.
A Filippi nell’ottobre del 42 a.C., gli eserciti dei cesaricidi e dei triumviri si scontrarono due volte e in entrambe le occasioni, sottolinea Werner Eck in Augusto e il suo tempo (Il Mulino), «il vero vincitore fu Antonio». Il quale, successivamente, rappresentò Ottaviano come «un vile codardo che si era nascosto davanti al nemico».
Effettivamente, scrive Eck, le cose andarono più o meno come aveva detto Antonio e l’assetto successivo risentì di questa forza di Antonio, nonché dell’altrettale debolezza di Ottaviano. Il primo tenne per sé il comando sulle Gallie e ricavò dall’Oriente il denaro per sistemare i suoi veterani. Al secondo toccarono le province spagnole (a danno di Lepido); in Italia dovette cacciare abitanti dalle loro terre per far posto ai soldati che avevano combattuto per lui. Eck ha censito almeno diciotto città italiche colpite, da alcune delle quali si dovette mandare via l’intera popolazione. Con qualche eccezione, come nel caso di Virgilio che, vicino a Mantova, riottenne i beni paterni. E che, in virtù di ciò, in una delle Egloghe espresse tutta la sua gratitudine e lodò quella di Ottaviano come un’«epifania divina». Ma la massa della popolazione di queste città lo maledisse e le immediate conseguenze dell’operazione misero Ottaviano persino in pericolo di vita: gli espropriati avevano prontamente trovato un portavoce in Lucio Antonio, fratello del triumviro.
Fu in quel momento che, secondo Marcone, in un certo senso Ottaviano «inventò l’Italia». L’esperienza delle guerre civili, «aveva lasciato un segno». Ottaviano «recepì precocemente che quella stagione doveva essere superata per sempre e fece di tutto, una volta divenuto Augusto, per ridimensionarne il ricordo». Augusto «scelse l’Italia come sua interlocutrice privilegiata». L’appello che fece nel 32 a.C., alla vigilia dello scontro finale con Antonio, «assume un valore del tutto particolare, che trova conferma nei successivi sviluppi ideologici». Sembra allora valorizzarsi, scrive Marcone, «un concetto polivalente di Italia, di tutta la penisola italica, che diventa un fattore ideologico - e politico - di riferimento». Esso va apparentemente «al di là dello stesso mito troiano dell’arrivo di Enea nel Lazio, che era pur sempre nato con una funzione essenzialmente riferita all’esterno, al mondo greco in primo luogo».
E venne l’ora della battaglia di Azio, a seguito della quale Ottaviano divenne, secondo Cassio Dione, «il signore unico di Roma», al punto che «il conto degli anni del suo regno si fa proprio partendo da questo giorno», ciò che, secondo Marcone, rende esplicito «il valore epocale, periodizzante» di quella vittoria. È qui che inizia il regime augusteo. Perché regime? Alla riconoscenza di Virgilio si aggiunse l’ossequio di molti altri intellettuali. Augusto «incoraggiò in tutti i modi gli ingegni del suo secolo», scrisse Svetonio; «ascoltò benevolmente e pazientemente chi gli recitava cose proprie, non soltanto di poesia e storia, ma anche orazioni e dialoghi». Grazie a loro, agli uomini d’ingegno di cui si circondò, nell’età augustea la propaganda - ha messo in luce Ronald Syme nello straordinario La rivoluzione romana (Einaudi) - ebbe maggior peso di quello che le armi avevano avuto nelle lotte del periodo triumvirale.
Syme ha descritto Augusto come un personaggio in possesso di «un impareggiabile senso dello spettacolo» e, ad un tempo, «dotato di grandi capacità organizzative», capace di scegliere «oculatamente» i propri collaboratori. «Il capo di gabinetto di Augusto, Mecenate, si preoccupò di catturare, quasi giovani fiere, i poeti più promettenti e di ammaestrarli in modo conveniente al principato». Augusto presenziava alle loro letture, ma insisteva che le sue lodi «fossero cantate solo in opere seriamente impegnate e dai migliori», ha scritto Syme rifacendosi a Svetonio. Un clima magnificamente descritto da Antonio La Penna in Orazio e l’ideologia del principato (Einaudi). E, in tempi più recenti, da Augusto Fraschetti in Augusto (Laterza).
Mecenate poi ebbe il grande merito, secondo Marcone, di restare «sostanzialmente estraneo al grande gioco politico», per una scelta «che attingeva a una precisa filosofia di vita». Ma, mette in guardia l’autore, attenti a presentare Augusto come «un uomo della propaganda», in particolare se questo termine «viene utilizzato in modo indifferenziato e con implicazioni eccessivamente modernizzanti».
Augusto fu soprattutto un imperatore di grandi realizzazioni. Non tutto, tra l’altro, andò liscio: lo testimoniano la messa al bando delle poesie di Cornelio Gallo, l’invio di Ovidio in esilio. E, a dispetto di quel che scrisse Tacito, le numerose manifestazioni di ostilità: Egnazio Rufo, Marco Emilio Lepido, Cinna Magno, Fannio Cepione, Licinio Varrone Murena. Anche se, sostiene Svetonio, le cospirazioni furono «tutte scoperte prima che diventassero pericolose».
Di pari passo all’affermazione di Augusto, la memoria di Cesare andò sfumando. Duemila anni dopo, per il fascismo - ha notato Luciano Canfora in Augusto figlio di dio (Laterza) - nella fase «rivoluzionaria» della presa del potere il riferimento di Mussolini era stato Cesare, ma per il fascismo «regime» (sono come è noto le categorie introdotte da Renzo De Felice) il modello fu invece Augusto. Ma Cesare rimase sullo sfondo. Così come nell’attuale impero cinese, prosegue Canfora, pur essendo il richiamo a Mao sempre più pallido, il suo ritratto resta all’ingresso della Città proibita. Allo stesso modo nella Russia post-sovietica di Putin ci si richiama a Stalin, vincitore della guerra contro gli invasori da Ovest. E Volgograd una volta l’anno, nei giorni di anniversario della conquista di Berlino, torna a chiamarsi Stalingrado.
Collocato dunque Cesare in un lontano empireo, nella cultura augustea, scrive Marcone, la presenza indubbiamente rilevante di Troia «può essere riconducibile all’accentuata consapevolezza della minaccia orientale». È da considerare come «l’idea etnico morale dell’Italia assurga a tema politicamente forte nel momento delicato del passaggio dall’età triumvirale alla costituzione del Principato».
La tota Italia diventa «un argomento ideologico e culturale, oltre che politico, che va oltre il motivo della consanguineità tra i vari popoli della penisola, che pure era stato impugnato dai Gracchi e ripreso in varie circostanze, con finalità diverse, prima e durante la Guerra sociale».
Augusto decise «di non governare l’Impero in modo arbitrario e autocratico come nel 30 avrebbe potuto fare». È una scelta «che ha puntuali riscontri a vari livelli». Anche se «la nozione extra costituzionale di auctoritas , valorizzata a giustificazione della sua azione politica, possiede indiscutibilmente una valenza di natura religiosa», va detto che il «rifiuto di un culto esplicito della sua persona, in forme di derivazione orientale», è coerente con la sua scelta di fondo. Certo, la trasmissibilità del potere a eredi, scelti tra l’altro all’interno della propria famiglia, è priva di fondamento legale e «rappresenta una delle contraddizioni irrisolte del regime augusteo». Ma nel concetto di res publica restituta («per quanto limitato sia il riscontro oggettivo che esso ha nelle fonti») si può apprezzare «un’idea forte di legalità che significa in primo luogo il ripudio degli arbitri dell’età triumvirale». E non è cosa da poco.
Augusto figlio di Dio
Augusto, l’imperatore, più abile di Cesare che riuscì a seppellire la Repubblica fingendo di restaurarla.
Un saggio di Luciano Canfora sul camaleonte spietato che si fece adorare dai romani
di Giovanni Brizzi (Corriere della Sera, venerdì 20 marzo 2015)
Libro ricchissimo, complesso e affascinante, Augusto figlio di Dio di Luciano Canfora (Laterza, pp. 567, e 24); che tratta di due non dirò eroi (l’autore, in una delle tante sue felicissime formule, ricorda come quella del periodo sia inevitabilmente, in Appiano, una «storia pragmatica e senza “eroi”, che “va al fondo delle cose”»), ma certo figure di riferimento per l’età delle guerre civili a Roma. Il primo in maniera solo indiretta, trattandosi di quell’Appiano che, circa due secoli dopo i fatti narrati, ha lasciato il resoconto più completo e prezioso degli anni fondamentali successivi alla morte di Cesare. L’altro, Ottaviano poi Augusto, protagonista vero, solo vincitore e (come proprio Appiano sottolinea) creatore del successivo regime monarchico.
Dopo aver fatto la storia dell’autore greco e del suo testo, a lungo dimenticati e talvolta sottovalutati ancor oggi, Canfora affronta, di Appiano, il metodo di lavoro; e rivela come questo «parassita» - così lo ha definito Giuseppe Giusto Scaligero -, il fucus che dei lavori altrui riporta, traducendole ad uso di un pubblico eminentemente greco, intere porzioni, abbia in realtà saputo scegliere assai bene le sue fonti, affidandosi, oltre che a Timagene, il discusso alessandrino suo conterraneo, a due opere preziosissime per noi perdute, le Historiae ab initio bellorum civilium di Seneca padre e i Commentarii de vita sua, le cosiddette Memorie di Augusto. La prima, che nel titolo stesso cercava un initium all’interminabile conflitto civile, risalendo fino ai prodromi graccani, era, su quei fatti, la fonte forse migliore e più indipendente; l’altra restituiva le preziose note personali del primo imperatore. Opere di segno opposto, dunque, che - pur non riuscendo sempre a conciliare - Appiano maneggia però con qualche attenzione critica.
Ma, per venire alla figura del secondo, gigantesco personaggio, e cioè di Augusto, occorre ora accennare al metodo non di Appiano, bensì di Canfora stesso, capace di un prodigioso (e oggi impensabile quasi per tutti...) lavoro di Quellenforschung, di paziente recupero storiografico. Per usare le sue stesse parole, si dovrà rinunciare «al vezzo di mescolare i dati delle fonti onde creare un (fittizio) racconto di “sintesi” anziché cercare di farle parlare distintamente, capirne le differenze ed eventualmente coglierne la consapevole contrapposizione».
Proprio così si muove Canfora, sottoponendo il testo di Appiano ad un paziente confronto incrociato con ogni altro autore alternativo della letteratura antica, Dione e Velleio, Plutarco e Svetonio, i poeti augustei e l’infinito epistolario di Cicerone; e, grazie alle sue smisurate conoscenze, giunge non solo a proporre ipotesi acute e sempre puntuali circa l’origine degli asserti appianei, ma anche a far emergere un Augusto almeno in parte inedito; e, direi, talvolta quasi inatteso (come nel rapporto con Cicerone, forse davvero abbandonato al suo destino obtorto collo e non senza rammarichi...).
Del vincitore di Azio, Canfora viene costruendo un profilo complesso e affascinante nella sua fosca grandezza. Capace dei più acrobatici equilibrismi politici, poi giustificati sempre con estrema disinvoltura dialettica; pronto a piegarsi come un giunco, assecondando le situazioni, per riemergere ogni volta; spietato con gli avversari, della cui morte non esita a sincerarsi di persona; gelido e razionale sempre, persino con gli amici; mai esente da calcolo, Ottaviano Augusto - il «camaleonte», secondo l’azzeccata definizione che ne dà l’imperatore Giuliano - è, ben più del padre adottivo Cesare, il politico perfetto, capace di concepir la finezza di «“restaurare” la Repubblica nell’atto stesso di seppellirla per sempre» sotto il nuovo regime.
«Le analogie sono diagnosi compendiarie», osserva infine Canfora, proponendo un suggestivo raffronto tra la mummia di Lenin nel mausoleo sulla Piazza Rossa e il sidus Iulium, la cometa apparsa in morte di Cesare che fa di Ottaviano il Divi filius, anticipando non tanto il titolo di Augustus, quanto l’altro e più compromettente, il greco Sebastòs, «colui che deve essere adorato». È il preludio alla nascita del formidabile impianto ideologico che farà definitivamente di lui il «figlio di Dio», impianto e modello del quale resteranno ostaggi a lungo i successori.
Giovanni Brizzi
IL PITTORE E LA PASSIONE PER MARGHERITA, EX PROSTITUTA E SUA SPOSA: C’È IL SUO VOLTO DIETRO SANTE, VENERI E NINFE
Raffaello innamorato e la musa popolana che diventò Madonna
di Dario Fo (il Fatto, 15.03.2015)
Per dire del suo fascino di Raffaello, quando a Roma, a Carnevale, il carro sul quale stavano vocianti le ragazze “smaritate”, così si chiamavano quelle che non avevano ancora marito, col loro carro a bellapposta transitava sotto le finestre del palazzotto dove stava il pittore, da quel carro saliva un coro d’elogio appassionato cantato a tutta voce dalle ragazze per il giovane pittore, che diceva:
Bello figliolo che tu se’, Raffaello, come te movi appresso a lu Papa quanno sorte a passaggiare, tu se’ l’àgnolo Gabriele, ìllo pare lo tòo camariere. Dòlze creatura con ‘sto cuorpo tuo che pare in danza, comme me vorrìa rotolar co’ te panza panza dentro lu vento, appesa alle labbra tue da non staccarme mai uno momento: Raffaello mettime dinta ‘na tua pittura dove ce sta ‘no retratto de te tutto intiero così de notte ce se potrebbe cerca’ e infrattati nell’oscuro facce l’amore. Si nun me voi amà, Raffaello dolze, canzéllame da la tua pittura, méjo morì se non son tua.
Quando morì, Raffaello aveva appena trentasette anni. Si racconta che per il dolore anche i sampietrini si staccarono, rotolando fuori dal selciato, e mezza Roma urlando piangeva disperata.
L’orecchio scoperto e gli occhi da impunita
Nella Sacra Famiglia detta di Francesco I assistiamo alla scena in cui il bimbo in piedi corre disperato verso la madre. Forse in mezzo a tanta gente l’ha perduta di vista. Ora l’ha ritrovata e le si getta addosso a braccia spalancate, aggrappandosi alle sue vesti. Il bimbo sembra accennare a un timido sorriso, la madre purtroppo non lo ricambia appena. Nello splendido disegno preparatorio, oggi agli Uffizi, notiamo che il gesto del bimbo che si lancia verso la madre è di certo più drammatico rispetto a ciò che ci mostra il quadro a olio. Le braccia sono più protese e la mano della Madonna che lo afferra è di gran lunga più evidente. Inoltre il bambino chiaramente sorride, la Madonna purtroppo nel disegno non c’è. Ma al Louvre abbiamo ritrovato un altro disegno che sembra riprodurre la Vergine della Sacra Famiglia in questione. Questa giovane accenna solo a un sorriso ma se non altro ci prova. Poi abbiamo scoperto, leggendo la didascalia, che non si tratta del volto di una Madonna, ma di un ritratto dal vero, o meglio lo studio di una testa di donna, che gli servirà per realizzare La Madonna. Ma qui la cosa più importante è che per la prima volta vediamo una Madonna con l’orecchio completamente scoperto, come usavano le donne del popolo, come era la Fornarina, la sua innamorata, di cui conosciamo già i due ritratti: quello dove si mostra seminuda e quello detto La Velata. Le due pitture ci mostrano una ragazza di grande bellezza e fascino. Gli occhi molto grandi, una bocca ben disegnata dalle labbra turgide, un lieve sorriso da impunita. Su questa giovane donna, dotata di una straordinaria carica sessuale, si sono scritte migliaia di pagine, romanzi, sceneggiature cinematografiche... Selezionando le varie notizie, abbiamo elaborato un profilo della Fornarina, secondo noi il più attendibile.
La Fornarina, l’anello e il segno del matrimonio
La ragazza proviene da Siena, guarda caso proprio come la famosa modella di Michelangelo da Caravaggio. È figlia, si dice, di un fornaio. Ma c’è un’altra versione del significato di quel nome: nel gergo popolare romano “infornare” allude a un rapporto sessuale. Evidentemente si sottintende una ragazza che si prostituiva. Ad ogni modo la Fornarina ha un suo nome, quello di Margareta, o Margherita. Come lo sappiamo? Ricercatori abilissimi hanno esaminato le metafore che tradizionalmente i pittori del tempo inserivano nei ritratti (i Fiamminghi sono stati forse gli iniziatori di questa moda) e, confrontando fra di loro i due dipinti della modella di Raffaello, hanno ritrovato identici simboli allusivi. In entrambi i ritratti appaiono due brocchette dalle quali pendono delle perle. Le brocchette sono fermagli che legano il velo ai capelli. Le perle nella convenzione allegorica indicano un nome, appunto Margherita. Ma significano anche amante. Scopriamo poi che la Fornarina è da poco maritata, anche se qualcuno, con velature a olio, ha tentato di cancellare l’anello che Margareta portava all’anulare della mano sinistra. Nella Velata la mano sinistra è nascosta sotto il panneggio. Evidentemente il matrimonio doveva rimanere segreto. Ma con chi era sposata la modella? Ce lo dice lei stessa, che nel dipinto in cui appare seminuda esibisce, avvolto al braccio, un cerchietto con scritto il nome del suo uomo: il nome è Raphael Urbinas.
Raffaello quindi era lo sposo e solo se immaginiamo l’esplodere di una passione davvero incontenibile ci riesce di capire quale folle carica amorosa debba aver spinto l’ancor giovane maestro a decidere di affrontare la situazione che si sarebbe per lui creata con quel colpo di testa. Il maestro di Urbino in quel tempo non era solo un pittore famoso: era stato scelto dal papa, oggi diremmo, come sovrintendente massimo delle antichità e dei nuovi progetti di Roma, compresa la Basilica di San Pietro e il riassetto urbanistico di tutta l’Urbe. Il pittore di Urbino godeva dell’ossequio di tutti i principi e di molti banchieri nostrani e foresti che facevano la coda pur di avere un suo ritratto o dipinto sacro. Come poteva gestire Raffaello la presenza vicino a lui di questa sua ragazza splendida, ma dal passato tanto chiacchierato? “Mi permetto di presentarle la mia sposa. La conoscevate di già? Dove? In che occasione? Nuda? Basta così...”.
I poemi, i sonetti e il cambio di stile
Il fatto è che Raffaello ormai non poteva più vivere senza quella donna. Margherita era sempre nei suoi pensieri, non riusciva a stare lontano da lei. È risaputo che l’innamorato scriveva sonetti a lei dedicati mentre preparava i cartoni: sui fogliacci che ci sono pervenuti si sono trovate tracce di piccoli poemi, sonetti, di certo dedicati alla sua donna. Eccone uno a caso: Io vorrebbe criare a tutta voce quando tu me avveluppi con le tue brazza contro le membra tue e per tutto me baci e m’accarezzi fin dentro l’ànema. Criàr vurrìa ma non lo puòzzo fare che tutto me resveierèbbe tosto a cagion d’esto mio grido dallo sogno bello che eo me sto vivendo.
Crediamo che da questo canto all’improvvisa si possa capire meglio che da ogni altro discorso quale metamorfosi abbia condotto Raffaello a cambiar registro di pittura in ogni sua forma e maniera. Infatti da un certo momento in poi ecco che ritroviamo in Madonne, Ninfe, Sante poco note, Veneri e perfino dentro le facce di giovani efebi, sempre il volto di Margherita, spesso dipinta ignuda, di fronte, di scorcio, di schiena, sdraiata, dormiente, perfino con le ali... sempre Margherita.
Lo sguardo puntato sullo spettatore
Nella Madonna che abbraccia il Bambino è la prima volta che incontriamo in un quadro di Raffaello un gesto tanto appassionato e autentico nella madre santa, la donna stringe a sé il bambino come volesse per intero legarlo al proprio corpo. E guardate bene il viso della Vergine: è il ritratto della Fornarina. Ed è anche la prima volta che in una Madonna di Raffaello, tanto la vergine che il bambino puntano gli occhi verso gli spettatori che li osservano.
C’è anche un’altra, detta la Madonna della Seggiola, ed è composta dentro un cerchio. Le braccia della Madonna e le gambe del figlio disegnano figure geometriche roteanti intorno al centro. Si tratta di un capolavoro di potenza inarrivabile. A nostro avviso, la più bella Madonna che abbia mai dipinto Raffaello. Una Madonna popolare, anzi popolana, che mostra il suo orecchio scoperto. Significa che Raffaello ha compiuto anche un salto di classe. Ha deciso che da questo momento la Vergine madre non è più una fanciulla nobile ma una donna del popolo. E scusate se è poco.
L’impronta di Augusto su Roma
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 09.01.2015)
«Se lo spettacolo vi è piaciuto, applaudite» disse Augusto prima di morire, dopo aver chiesto uno specchio ed essersi pettinato. Così quantomeno scrive Svetonio, e poco importa che l’aneddoto sia vero o falso.
A far pensare alla vita di Augusto come a uno spettacolo contribuiscono, in effetti, non pochi elementi: il carattere dell’uomo, come pochi altri consapevole dell’importanza della sua immagine pubblica e privata, la sua genialità nel conquistare e mantenere il consenso e nel legare la gens Iulia, alla quale apparteneva, al mito delle origini troiane di Roma (e quindi a una sua remota ascendenza divina).
Fu veramente uno spettacolo, la vita di Augusto, sotto il cui governo Roma si trasformò da Repubblica in Principato, mentre la città, secondo il suo progetto, assumeva anche urbanisticamente un nuovo aspetto. Ed ecco, oggi, un libro di uno dei maggiori archeologi italiani, e non solo, Andrea Carandini, accompagnarci in una visita a quella Roma.
Il libro si intitola La Roma di Augusto in 100 monumenti (Utet, pp.144, € 30) e anche se sarebbe riduttivo definirlo tale è, in primo luogo, una straordinaria guida ai monumenti riconducibili al periodo del potere augusteo (44 a.C. - 14 d.C.).
Individuati tra gli strati di rovine che i secoli hanno accumulato e sovrapposto, questi monumenti guidano il lettore in una visita che non è solo archeologica. Accompagnata da un apparato di testi (affidati, per ciascuno degli scavi, a uno dei nove archeologi che hanno collaborato con Carandini e illustrati da un eccezionale apparato iconografico), questa straordinaria visita contestualizza i monumenti, restituendone non solo l’immagine, ma anche la funzione e la storia.
Classificati per tipologie (quelli dedicati a infrastrutture e servizi, quelli amministrativi, i luoghi di culto, gli edifici per la produzione e il commercio, quelli per le attività culturali, i monumenti onorari, le abitazioni, le aree funerarie) i documenti, nel loro insieme, prospettano un quadro generale della cultura dell’epoca, sotto tutti i suoi diversi aspetti.
Qualche esempio, partendo dal diritto pubblico: la descrizione del luogo destinato alle votazioni assembleari (chiamato Saepta Iulia, dopo la sua ristrutturazione, portata a termine da Augusto) offre informazioni fondamentali sulle trasformazioni del sistema politico romano: tra l’altro, quelle che riguardano le basi sulle quali veniva concesso il diritto di voto e su come si svolgevano le operazioni elettorali.
Passando ad altro tipo di monumento: la casa delle Vestali. Sorteggiate tra le famiglie più in vista quando avevano un’età tra i 6 e i 10 anni, le sacerdotesse di Vesta erano tenute a un voto di castità che le vincolava per 30 anni, e punite con una morte orribile (la vivisepoltura) se venivano meno al voto. Oltre che ad avvicinarci alla religione dei nostri antenati, la visita alla loro casa contribuisce alla conoscenza di alcuni importanti aspetti della condizione femminile.
E ancora: il tempio dedicato a Marte Ultore (vendicatore), costruito da Augusto per adempiere un voto fatto poche ore prima della battaglia di Filippi, in cui sconfisse i cesaricidi, offre molti spunti per riflettere su una caratteristica importante della cultura e del diritto romano, vale a dire la persistenza della concezione arcaica della vendetta intesa come imprescindibile dovere sociale. Inutile insistere sull’interesse e l’importanza di questo libro, sul quale tante altre cose si vorrebbero dire. Non potendolo fare, non resta che lasciare il piacere di scoprirle a chi lo leggerà.
Raffaello incantato
Con la Madonna Esterhàzy la svolta del pittore che rivestì di gloria il papato
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 30.11.2014)
Il viaggio che nel corso dei secoli ha portato da Roma a Budapest la piccola tavola della cosiddetta Madonna Esterházy prese avvio per volontà di Clemente XI, all’inizio del Settecento. Chi, se non un papa, poteva permettersi di donare un quadro di Raffaello come gentile omaggio all’imperatrice Elisabetta? Il genio di Urbino è stato infatti, assieme a Michelangelo, il pittore per eccellenza dei papi che ne detenevano quasi l’esclusiva del lavoro.
Ma mentre lo scontroso pittore della Sistina servì suo malgrado ben nove pontefici, detestandoli tutti e con essi il potere temporale della Chiesa; Raffaello, pur lavorando solo per due di essi perché morto precocemente, conferì la forma visiva per eccellenza al programma politico e culturale del papato che poneva in continuità l’Impero con la Chiesa; il mito pagano con la fede cristiana.
Legame affermato in modo sublime fin dalla prima delle Stanze affrescate in Vaticano, con la Disputa del Sacramento che fronteggia la Scuola di Atene . A chiamare l’urbinate a Roma nel 1508 era stato Giulio II in persona che aveva già al suo servizio Bramante e Michelangelo. Diventato papa grazie a un’efficace campagna di acquisto dei voti, Giuliano della Rovere scelse il nome del primo Cesare di Roma e diede subito avvio al suo progetto di imperialismo cattolico attraverso continue guerre ponendosi spesso alla testa dell’esercito.
Come quando entrò a Bologna armato di spada, con le vesti purpuree degli imperatori, gettando monete al popolo che lo sentì gridare minaccioso: «Vederò, si averò sì grossi li coglioni come li ha il re di Franza!». La propaganda protestante lo dipingeva come «Il papa in armatura» e Francesco Guicciardini scriveva che «non riteneva di pontefici altro che l’abito e il nome».
Non fu quindi per la grazia del disegno che un simile uomo scelse il giovane urbinate, né per la profondità del suo sapere. Raffaello fu scelto perché la sua giovinezza era come una spugna; possedeva un’incredibile capacità di assorbire gli stimoli, di intuire i cambiamenti e di dargli forma. Trasferendosi da Firenze a Roma diventò lo strumento di un ambizioso progetto di ritorno alla grandezza imperiale passando con estrema naturalezza «da un’estasi graziosa, tenera e devota, allo stile eroico», come ha scritto Henri Focillon.
La Madonna Esterházy è ancora il frutto garbato della sua «prima vita» passata fra Urbino, Perugia e Firenze, dipingendo piccoli quadri da stanza o pale d’altare per privati. Nel disegno preparatorio conservato agli Uffizi, non compare ancora il paesaggio delle rovine del Foro e questo fa pensare che la tavola fu dipinta all’arrivo a Roma nel 1508 e poi mai terminata.
L’aggiunta dei ruderi rivela come subito Raffaello trovò nell’antichità la sua casa naturale amplificando la maniera dolce verso un respiro monumentale. «Mai l’Occidente si era avvicinato tanto alle sue origini elleniche. Raffaello sembra avere quel retaggio secolare nel cuore e custodirne dentro di sé tutto lo sviluppo, da Fidia fino all’alessandrinismo», ha scritto Focillon.
Inevitabilmente, dunque, la sua fortuna presso i papi continuò anche col successore di Giulio II: Giovanni de’ Medici, il figlio del Magnifico Lorenzo, che aveva fama di letterato ed era stato discepolo del Poliziano e del Ficino. Non ancora quarantenne, disinteressato alle guerre, Leone X fece subito capire come sarebbe stato il suo stile: «Godiamoci il papato, poiché Dio ce l’ha dato».
Si dedicò alle cacce, alle feste, alla vendita di ogni beneficio e ufficio ecclesiastico, al lusso dell’arte. Nemmeno una sfrenata simonia gli bastò per soddisfare i costosi capricci e alla sua morte le casse del papato erano così prosciugate che non si trovarono nemmeno i soldi per pagare il funerale. «Se ‘l viver ancor gli era concesso / vendeva Roma, Cristo e poi se stesso», sentenziò la voce anonima di Pasquino.
In quegli anni di guerre e sovvertimenti, Raffaello, come se vivesse in una bolla d’aria diversa da quella che Michelangelo considerava invece tossica, interpretò i fasti della Chiesa e del paganesimo antico, i due grandi sistemi di pensiero della civiltà mediterranea, come un unico possente compendio.
E forse proprio perché occupato in un’impresa così vasta e virile, il papato non si accorse che intanto il tritolo della Riforma protestante stava per far saltare in aria quella sublime e mai più tentata sintesi.
Quel gioco di relazioni rivela l’eredità leonardesca
di Chiara Vanzetto (Corriere della Sera, 30.11.2014)
Il quadro a confronto con i dipinti di Melzi e Boltraffio L’ha portata il vento dell’Est, star dell’arte a Milano durante il Natale: è la Madonna Esterházy , preziosa tavoletta dipinta da Raffaello Sanzio agli inizi del XVI secolo, in prestito alla nostra città dal Museo delle Belle Arti di Budapest. Come da consolidata tradizione, sotto l’albero arriva un dono: l’esposizione gratuita di un capolavoro «ospite» in Sala Alessi a Palazzo Marino. Appuntamento di grande richiamo, a cui il Comune di Milano non ha voluto rinunciare anche se ci sono novità.
Intanto un avvicendamento di sponsor, che vede a fianco del Comune Intesa San Paolo e La Rinascente. Ma anche una nuova prospettiva, come spiega il curatore Stefano Zuffi: «Non solo un focus sull’opera-simbolo, ma anche la ricerca del suo legame con il patrimonio artistico milanese». Legame trovato nelle radici leonardesche della Madonnina di Raffaello, accostata così a due pezzi eccellenti: la Madonna della Rosa di Giovanni Antonio Boltraffio del Museo Poldi Pezzoli e la copia coeva della Vergine delle Rocce di Leonardo, attribuita al suo allievo Francesco Melzi, dall’Istituto Orsoline di via Lanzone.
Entrambe una scoperta: la prima, isolata dal contesto museale, svela una fattura squisita, la seconda è praticamente un inedito, poco conosciuta ai milanesi stessi. «La tela di Melzi ha funzione introduttiva: richiama i prototipi vinciani che Raffaello rielabora. La tavola di Boltraffio invece è a confronto diretto con la Madonna Esterházy , prossime per epoca, soggetto, dimensioni e funzione devozionale». Più le diversità che le similitudini. Boltraffio coglie dei modelli leonardeschi la teoria dei sentimenti, spingendo le figure verso il primo piano in rapporto intimo con l’osservatore.
Raffaello invece dà di Leonardo un’interpretazione compositiva: crea un raffinato gioco di relazioni tra i personaggi, disponendoli secondo quello schema piramidale, invenzione vinciana, evocato anche nell’allestimento triangolare della mostra. Semplicità nella complessità, ecco una delle grandi doti di Raffaello, capace di assimilare le fonti trasformandole nella sua «maniera» inconfondibile. Ma arriviamo al minuscolo capolavoro, circa 29 centimetri per 22: un luminoso concentrato di bellezza.
«Nasconde elementi di mistero - racconta ancora Zuffi -. I documenti non ne parlano per due secoli, una stranezza: eseguito intorno al 1508, anno del trasferimento di Raffaello da Firenze a Roma, viene citato per la prima volta quando Papa Clemente XI lo dona alla principessa Cristina di Brunswick, all’inizio del ‘700. In più è rimasto incompiuto nelle figure, fatto inconsueto per un dipinto di piccole dimensioni. Se poi lo si confronta con il disegno preparatorio, conservato agli Uffizi di Firenze, si nota un elemento di novità: nel dipinto compare sullo sfondo un insieme di ruderi classici che non è di fantasia, ma rappresenta il modo preciso il Foro di Nerva a Roma».
Riflettendo su questi elementi il curatore ha elaborato un’ipotesi affascinante: Raffaello concepisce e inizia a Firenze la Vergine col Bambino e San Giovannino, e qui rimane infatti il disegno. Ma non consegna la tavola agli sconosciuti committenti, ci si affeziona, la tiene per sé e con sé, la porta a Roma ancora da terminare nel momento della sua grande svolta, quando su invito di Bramante gli viene affidata la decorazione delle Stanze Vaticane.
Si spiega così il non finito, a causa del repentino trasferimento, e anche la presenza delle rovine classiche, descritte in dettaglio. I visitatori ascolteranno questi racconti e molto di più condotti in gruppi dalle guide di Civita. Ma qualcosa in quest’opera va oltre ogni descrizione. È l’unione di vivacità e compostezza, verità e perfezione, intimità ed eleganza. È l’unicità non dicibile del genio.
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La dolcezza di mamma che «copre» la tragedia *
Nel 1508 Raffaello abbandonò, senza l’ultima finitura, la piccola tavola oggi nota come Madonna Esterházy . Doveva correre a Roma, dove l’aveva chiamato Giulio II. Aveva trascorso quattro anni intensi a Firenze, città dove operavano Michelangelo e Leonardo. A Roma l’attendeva la gloria. Tra Raffaello e Michelangelo correvano 8 anni, molti di più tra lui e Leonardo. Raffaello seguiva il percorso di entrambi. Stimolato da Leonardo, disegnava rapidi schizzi di bambini piccoli in un rapporto giocoso con la mamma, dipingeva incontri dell’intera Sacra Famiglia in spazi aperti, dove il rapporto umano tra i membri scioglieva la fierezza con cui Michelangelo aveva trattato lo stesso tema nel celebre Tondo Doni. Non si trattava di semplici scene di vita quotidiana, bensì di cogliere un momento presago nella vita della Madre e del Figlio. Un gesto, un velo di malinconia dovevano avvertire della consapevolezza di entrambi.
L’elaborazione della Madonna Esterházy era stata complessa. Un disegno conservato agli Uffizi dimostra che Raffaello aveva già perfezionato la composizione, tranne il paesaggio, che nella tavola evoca monumenti medievali e rovine di Roma, tanto che alcuni pensano che il giovane maestro avesse portato la tavola con sé per finirla. Nel disegno, il piccolo san Giovannino sembra quasi ritroso di fronte alla vivacità di Gesù, ma nel dipinto, tutto si chiarisce. Gesù indica il cartiglio che attrae l’attenzione di san Giovannino. Sappiamo che cosa vi è scritto: «Ecce Agnus Dei». Così il gioco innocente dei due bambini ci rivela la tragedia imminente. Ne è consapevole Maria, che trattiene Gesù come se questi volesse precipitarsi verso il sacrificio.
Anche nel dipinto di Boltraffio, esposto a Palazzo Marino, la Madonna, con un sorriso indulgente, trattiene il piccolo che vuole afferrare una rosa spinosa. Un gioco di azioni contrapposte che risale certamente a un progetto di Leonardo. Diverso è il comportamento di Maria nella Vergine delle rocce , qui presentata in una copia antica. La Madonna non trattiene nessuno e anzi ha un gesto protettivo verso il piccolo Giovanni che s’inginocchia e prega il cugino Gesù.
* Corriere della Sera, 30.11.2014
Eterno Rinascimento
Le Goff lo cancella ma «l’era nuova» si decifra in chiave soprattutto politica
L’oggetto del contendere è l’interpretazione della «identità» della cultura e della «coscienza» d’Europa
di Michele Ciliberto (l’Unità, 26.01.2014)
IL PROBLEMA DEL SIGNIFICATO DEL RINASCIMENTO NELLA STORIA EUROPEA RIAPERTO ORA DA JACQUES LE GOFF CON IL SUO INTERVENTO SUL «MESSAGGERO» È ASSAI ANTICO: per molti aspetti sono stati proprio gli umanisti a costruire la ideologia della Rinascenza, cioè di una «età nuova» frontalmente opposta ai «secoli bui» del Medioevo. Sono poi stati gli illuministi -in modo particolare d’Alembert nel Discorso preliminare alla Enciclopedia a sistemare il concetto sul piano filosoficostorico individuando nella «rinascita» italiana delle arti lettere l’«aurora» del «sole» che si sarebbe poi compiutamente dispiegato nell’epoca dei lumi.
Come dimostrano questi autori, il Rinascimento non è mai stato un concetto storiografico di carattere descrittivo, ma fin dall’inizio ha espresso, già con il nome, un giudizio di «valore» appunto, il «rinascere» -, ed è in questi termini che è diventato un archetipo della coscienza e della autobiografia dei «moderni» dal Quattrocento al XVII secolo, ed oltre.
È stato però proprio questo elemento fortemente «ideologico» che ha complicato la discussione sul Rinascimento, perché in essa si sono intrecciate valutazioni di ordine etico-politico e giudizi di ordine storiografico, sia negli apologeti dell’«età nuova» che negli studiosi che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno insistito sulla continuità fra Medio e umanesimo, sottolineando la genesi medievale dello stesso termine che aveva identificato fin dall’inizio e in chiave polemica l’età nuova : renovatio, rinascentia.
Anche nei più autorevoli rappresentanti di questa tendenza, come ad esempio Konrad Burdach è però chiaro l’intreccio tra motivi ideologici e giudizi storiografici, come appare assai evidente dalla polemica che egli svolge, simmetricamente, sia contro il Rinascimento che l’Illuminismo. Proprio per questo alcuni storici hanno addirittura proposto di eliminare il termine Rinascimento, sostituendolo con quello di «età umanistica» un lungo periodo della storia europea che andrebbe da Petrarca fino a Rousseau appunto dal Rinascimento all’Illuminismo. Ma è una proposta che, comprensibilmente, non ha avuto successo.
Di «continuità» o «discontinuità» si discute, dunque, da molto tempo. Ma per capire la lunga durata e la asprezza di questa discussione occorre tenere presente l’interpretazione che è stata data prima dagli Illuministi, poi nell’Ottocento del Rinascimento come «genesi» del «mondo moderno».
Ciò di cui si discute attraverso il Rinascimento è, precisamente, il carattere, e il significato, di quella che con termine sommario si è soliti chiamare «modernità». Questa è stato, in sostanza, il vero oggetto del contendere; ed esso naturalmente, non riguarda, ovviamente, solo il campo storiografico: qui in discussione è la interpretazione della «identità» della cultura e della «coscienza» europea, definita, a seconda dei momenti storici, secondo parametri differenti. Dalla seconda metà del Novecento, ad esempio, alla periodizzazione classica del «mondo moderno» incentrata sul Rinascimento se ne è affiancata, fino a sostituirla, un’altra che fa capo al paradigma della «rivoluzione scientifica» moderna.
Personalmente, sono persuaso che siano problemi, e discussioni, di cui sarebbe bene liberarsi se si vuole aprire una nuova stagione negli studi rinascimentali, ponendo in termini nuovi anche la questione della «continuità» della storia europea e quello del significato del Rinascimento, chiarendo però, in via preliminare, un punto.
Sul piano storico sono individuabili, senza dubbio, molte «rinascite», a cominciare da quella del XII secolo, su cui insistono molto gli storici francesi; ma il Rinascimento italiano è stato un fenomeno assai più importante ed significativo, ed ha inciso a fondo nella costituzione della «coscienza» europea. Quando gli umanisti parlavano di «età nuova» e gli illuministi di «aurora cinquecentesca» avevano ragione; anche se nel pieno di una grande battaglia culturale ed etico-politica enfatizzavano fortemente la rottura con i «secoli bui».
In breve: la «rinascita» è esistita, sul piano storico, anche se ha dato origine a una secolare «tradizione» storiografica che ne ha selezionato temi e motivi alla luce di quella che si può chiamare l’«autobiografia» dei moderni, espressa nel modo più rigoroso e coinvolgente dagli Illuministi.
Oggi però il problema essenziale è un altro, e risiede nel guardare al Rinascimento per quello che esso è stato, liberandosi proprio dal peso di una «tradizione» che ha condizionato a fondo questi studi e che è ormai non ha più molto da dire. A mio giudizio, è su queste nuove basirigorosamente storiche che deve essere affrontato il problema del «significato» del Rinascimento nella storia europea, al quale fa riferimento Le Goff, analizzando a questa luce anche il problema della «continuità» europea, e distinguendone forme e livelli.
Qualche esempio. Si sono consumati fiumi di inchiostro per indagare i rapporti tra Rinascimento e «scienza moderna» , dando risposte differenti o, addirittura, opposte a cominciare dal problema del rapporto tra «ermetismo» e «rivoluzione scientifica» moderna. \Tra Machiavelli o Bruno e il concetto di «natura» di Spinoza o Cartesio c’è una differenza radicale e insuperabile, come del resto Cartesio sapeva per primo e assai bene. Cercare di Individuare «continuità» su questo piano non serve, se non a creare, o perpetuare, falsi problemi.
Ma dal punto di vista politico ed etico-politico le cose stanno in modo assai diverso, come dimostra, ad esempio, il fatto che Spinoza nel Trattato politico assuma proprio Machiavelli come uno dei suoi principali interlocutori sulla base di un riconoscimento che sotto la sua penna assume un valore eccezionale: «risulta che stava dalla parte della libertà».
Sul terreno storico è un problema affascinante sul quale occorrerebbe riflettere anche dal punto di vista del metodo: l’adesione ad ontologie diverse ed anche opposte visibile, in questo caso, sul piano della concezione della natura e della scienza non toglie e non ostacola, la convergenza su problemi etici e politici fondamentali. La mancata distinzione tra questi due livelli genera, però, una quantità di discussioni interessati, certo, sul piano storiografico, e ideologico; ma inconcludenti sul piano storico.
Questo, a mio parere, è oggi il compito della ricerca sul significato del Rinascimento nel «mondo moderno»: distinguere piani e livelli e riuscire a individuare nelle differenze, quando e dove ci siano, motivi ed elementi di affinità o convergenza, considerando come una «fonte», e solo in quanto tale, la «tradizione» costruita dai «moderni». I discorsi generali sono importanti e talvolta divertenti; ma rischiano spesso di essere generici, e perciò inutili sul piano storico, si intende.
LA MADONNA DEL SOLLETICO
di Augusto Vegezzi (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.01.2014)
Questa splendida pala d’altare (308×198 cm.), dipinta in tempera grassa su tavola e poi trasferita su tela fu commissionata a Raffaello nel 1511 da Sigismondo de’Conti (1432-1512), nobile folignate, storico e segretario di papa Giulio II della Rovere, ed esposta l’anno dopo nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma, ma nel 1565 la nipote del donatore la destinò a Foligno. In seguito a varie peripezie approdò ai Musei Vaticani. Ora è esposta a Milano
D’acchito questa tavola colpisce per la stupenda continuità e omogeneità tra terra e cielo, tra le figure della madre e del bambino, incorniciate dal globo solare a sua volta circondato da un arco popolato da serafini e dalle nuvole fino a boschi e colline di un vibrante paesaggio ricco di verzure ed edifici veneti. Qui si distingue la casa di Sigismondo, protetta da un arcobaleno monocromo, verso la quale è diretto un fuoco, probabilmente un meteorite, in un villaggio che rappresenta Foligno. Infatti, il dipinto sarebbe l’ex voto di gratitudine del committente perché la sua dimora, pur colpita da un fuoco misterioso, non era stata distrutta.
L’impronta veneziana è evidente nella suggestione misteriosa della campagna in una gamma di verdi e di colpi di luce, che ricorda il Giorgione, nelle strutture architettoniche, forse ispirate da Lotto e Dosso Dossi e nella melodiosa tavolozza di colori tonali, così intensi e fiammeggianti, che unificano organicamente il dipinto, facendone un unicum nella produzione del Sanzio. Il dipinto incanta per l’armoniosa sunfonia cromatica, in particolare blù, azzurro, rosso e verde, che con giochi magistrali di tonalità e luminosità esalta la coerenza unitaria della scena scandita tra terreno o e divino che si rivelala di una freschezza, una naturalezza e una spontaneità agli antipodi di ogni simbolismo astruso e metafisico.
Evidente è la continuità organica dello spazio chiuso in alto da un arco gremito di serafini con al centro Maria e il figlio sulle nubi che scendono a incorniciare il paesaggio. In primo piano si stagliano il committente inginocchiato, protetto da san Gerolamo, da un lato, e, dall’altro, san Giovanni Battista e san Francesco; mentre al centro campeggia un angelo con un cartiglio enigmatico. Tutti questi personaggi sono nel paesaggio e poggiano i piedi su un praticello. In modi diversi tutti, grazie a una sapiente regia di gesti e sguardi, fanno convergere l’attenzione su Maria e il figlio, anche in funzione mediatrice verso noi spettatori, genialmente introdotti e coinvolti nella scena. Infatti, Sigismondo, Girolamo e Francesco guardano la coppia al centro; ci invita quest’ultimo anche con la mano, mentre Giovanni ci guarda e la indica con l’indice deittico di leonardesca memoria.
Maria con il figlio si staglia al centro della scena non nella tradizionale mandorla, invece entro un globo dorato, simbolo forse del sole. La sua grazia è accentuata dalla lieve flessione della testa, che ricorda l’Adorazione dei Magi di Leonardo. Non è ieratica, una divina regina assisa in trono nella gloria dei cieli, ma una bella e mesta signora seduta su una nuvola, piuttosto rilassata, tanto che la gamba destra, quasi diritta, appoggia su una nuvola inferiore e il suo piede è all’altezza delle spalle di Giovanni e Girolamo e della testa di Sigismondo. Ciò le conferisce una notevole altezza e un’esplicita presenza nel mondo, del resto sottolineata dal fatto che le nuvole nel retro sfiorano e si saldano in continuità a boschi e colline. Non si vede il cielo. La madre, avvolta da uno scialle, che copre la sua testa e quella del figlio, e da un largo mantello è pensierosa, imbronciata, concentrata sul figlio in un dolce rapporto amoroso e ludico. Gli occhi sono semichiusi e forse fissi su Sigismondo.
Del pari il figlio, bellissimo, sereno, sonnolento, è in posizione speculare: appoggia la gamba sinistra piegata sulla coscia della madre, mentre con la destra, diritta, si regge su una nuvola, con analogo effetto longitudinale. Maria sostiene col braccio sinistro l’infante, che si divincola graziosamente o meglio subisce uno di quei guizzi torsionali che sono provocati dal solletico. Infatti, il medio della mano destra della madre sembra titillare il bimbo sotto l’ascella con ludica affettuosità.
Nella storia della pittura mariana, forse di quella mondiale, questa è la seconda rappresentazione di un solletico. Prima di Raffaello, già la Madonna Casini, forse di Masaccio, esposta agli Uffizi, raffigurò una madre che fa solletico al bimbo ignudo, supino e inerte. L’originalità di Raffaello, tuttavia, sta nel cogliere perfettamente la fulmineità del guizzo incontrollato e nel significato di questa ardita innovazione.
Quale obiettivo semantico si poneva Raffaello introducendo questo dettaglio insolito e irrituale? Cos’è il solletico? E’ uno stimolo fisico che proviamo fin dalla nascita e che fa reagire il nostro corpo al di fuori del nostro controllo, a volte irritandoci, altre facendoci ridere. Ve ne sono di due tipi: la gargalesi è il solletico insistente e indirizzato a piedi, ascelle, ventre, che ci fa ridere e contorcere in forme incontrollate; la knismesi è la reazione a un leggero sfioramento della pelle in qualsiasi parte del corpo che provoca eccitazioni di tipo erotico. In entrambi i casi si tratta di fenomeni indipendenti dalla coscienza e dalla volontà, specificamente appartenenti alla naturalità e fisicità dell’essere umano. Il figlio, insomma, sembra sottolineare il pittore, è un bambino fisicamente e naturalmente come tutti gli altri. E così la madre giocherellona.
A mio avviso in quest’opera si evidenzia una forte radicalizzazione di quell’avvicinamento dell’umano e del divino che era il cardine del Rinascimento. Rivediamola: in una visione complessiva la terra finisce nelle candide nubi che si coagulano in azzurre presenze angeliche, serafini, simboli di razionalità, attorno alla sfera solare alle spalle di Maria e del figlio. O, reciprocamente, gli azzurri serafini svaniscono nelle bianche nuvole che a loro volta si dissolvono nelle nebbie e infine nella terra. Insomma, notiamo una continuità, un ciclo unitario tra lo spirituale e il materiale.
Raffaello sembra qui anticipare il manifesto visivo della teoria spinoziana di una realtà unitaria e onnicomprensiva, espressa dalla duplice formula: deus sive natura oppure natura sive deus. La struttura dell’opera è piramidale con la scansione di due piani omogenei. Al culmine e centrale si stagliano Maria e il figlio. Alla base i tre santi e il committente sono presentati in modo originale come esseri terreni, con i piedi ben piantati sulla terra e nel quadro di un paesaggio affascinante e misterioso. I loro visi come quello di Sigismondo non esprimono i tradizionali sentimenti estatici e devozionali ma, scolpiti con maestria, caratteri umani forti e drammatici. Particolarmente Giovanni e il folignese rivelano la celebrata maestria di Raffaello ritrattista nel far trasparire dai visi la complessità degli animi.
Certo la madre e il bambino si librano tra le nuvole ma si rivelano profondamente umani. In essi non è dato di vedere alcun elemento, aureola, segno o simbolo sacrale, celestiale o trascendente.
A differenza della Madonna Sistina, dipinta negli stessi due anni, e del suo figlio, che sono straordinariamente umani ma con caratteri che evocano esplicitamente la loro dominante missione religiosa. Si pensi al viso serio del figlio, allo sguardo severo e profondo che sembra trafiggerti. Infine, sottolineo che il ludico solletico al figlio accentua ancora di più la naturale affettività della madre in dolce rapporto col suo birichino. Ciò mi sembra organico alla visione unitaria di spirito e materia, di divino e terrestre già sottolineata come agli antipodi di una visione dualistica che contrapponga il mondo e la trascendenza.
Secondo l’opinione ortodossa e prevalente, Raffaello in questa tela fa scendere il divino nel mondo, collegando armoniosamente la dimensione trascendente e quella terrestre, il sovrumano e l’umano, addirittura secondo alcuni annunciando trionfalmente che il divino è tra noi. No, noi siamo fuori discussione. Sanzio annunciava agli uomini del suo tempo, geniali creatori e fruitori della civiltà umanistica rinascimentale, che il divino era tra loro e sconfinava nella natura.
Suggerisco da un lato di rileggere il capolavoro senza pregiudizi e con animo problematico; dall’altro di riconfrontarsi con questo mondo e questa civiltà di oggi, in cui è sempre più facile constatare una dilagante eclisse sia dell’umano che del divino.
RIVOLUZIONARIA MARIA
Un contributo all’interpretazione della Madonna Sistina
di Augusto Vegezzi (Libertà - quotidiano di Piacenza, 01.09.2013)
“Intorno a questa immagine (la Madonna Sistina) si raccolgono tutte le irrisolte questioni circa l’arte e l’opera d’arte”. Così scriveva Martin Heidegger, iniziando una paginetta densissima di ardite e spericolate intuizioni, concluse icasticamente: “Nondimeno mi accorgo che tutto questo resta un insufficiente balbettio”.
Questa scoraggiata ma sincera capitolazione può suggellare gli oltre tre secoli di riflessioni critiche, estetiche e teologiche della più alta cultura del Centro e dell’Est Europa, insomma dal Reno agli Urali e oltre, che si è cimentata su questo dipinto con innumerevoli interpretazioni, da Winckelmann a Schiller, Goethe, Hegel, Schopenhauer, Gogol, Tolstoi, Dostoevskiy, Nietszche, Mann, Freud, Florenskiy, Beniamin, Chestov e tanti altri, senza scioglierne il misterioso, intrigante fascino.
Quasi nessuno invece se n’è mai occupato in Italia e nel resto dell’Europa. Un silenzio inesplicabile e quasi tombale. Già nel ‘500 troviamo solo alcune osservazioni, acute come sempre ma generiche, del Vasari e nel ‘600 un giudizio positivo ma di maniera di tale padre Passera. Fino alla vendita nel 1754 ad Augusto III di Sassonia, nessuno in Italia spende una parola o scrive una riga, mentre rari risultano i pellegrini sulla strada Francigena o i viaggiatori del Grand Tour che la visitano.
Non stupisce se i monaci neri di San Sisto, che conservano il dipinto con cura, infine, considerandolo “infruttuoso”, lo vogliano alienare. Meglio un sacco d’oro di un Raffaello imbarazzante e irredditizio. La corte dei Farnese è favorevole alla vendita, tranne un alto dignitario, lo Scribani. Nessuna obiezione dal Vescovado. Forse per la tradizionale contrapposizione tra San Sisto e la Cattedrale? Nessuna rivolta del popolo dei fedeli. Forse perché non la capisce, non coinvolge, non esalta ma lascia indifferenti?
Insomma, l’assente da sempre a Piacenza va a Dresda, dove invece ispira ed esalta intellettuali e popolani e ancora oggi attrae folle di turisti e fedeli. Ma la sconsolata resa di Heidegger sancisce che la coscienza critica della grande cultura europea di tre secoli si è risolta e dissolta in un “insufficiente balbettio”.
La Madonna Sistina, tuttavia, rimane un meraviglioso dipinto, che intriga, affascina, sfida cuore e mente a sbrigliarsi per capirlo e amarlo ed esserne ulteriormente estasiati. Eppure l’affascinante enigma resta irrisolto e deve ancora essere indagato per la sua complessità, la sua originalità, la sua drammaticità.
Lo conferma il dotto articolo di Mimma Berzolla, che con occhi di lince ha rivelato ben sei dita nella destra di San Sisto e ne ha dato un’ingegnosa spiegazione. La scoperta è raccapricciante. Chiunque conosce l’alto senso dell’arte, il culto della bellezza naturale e il rigore etico-intellettuale di Raffaello non gli avrebbero permesso di dipingere spontaneamente un sesto dito. Non dimentichiamo l’epitaffio, forse del Bembo: «Qui giace quel Raffaello, da cui, vivo, Madre Natura temette di essere vinta e quando morì, [temette] di morire [con lui].»
I milioni di ammiratori in Europa e anche a Piacenza, che finora l’avevano esaltata e si erano estasiati, non l’avevano veramente guardata, decifrata e vista appunto con occhi lincei, penetranti. Si direbbe che questa Madonna innamora a prima vista, coinvolge, incanta e appaga a prescindere dai tanti dettagli e problemi strutturali, interpretativi e simbolici che si debbono ancora scoprire e spiegare.
Alcuni sono sotto gli occhi di tutti e per nulla raccapriccianti, anzi molto gradevoli e seducenti. Il dipinto è molto complesso ma vediamolo analiticamente, concentrando il fuoco dell’attenzione sulla Madonna stessa e sul suo bambino. Si tratta forse di un geniale unicum, una straordinaria invenzione, un’assoluta novità rispetto alla tipologia canonica delle migliaia di Sacre maternità con il consueto infante amorosamente, perdutamene abbracciato dalla Madonna della seggiola o quello del malizioso tondo Botticelli di Piacenza o i tanti leggiadri fanciulli ludici, ignari e sorridenti, con le loro madri splendide nelle loro vesti sgargianti di sete e velluti, aristocratiche padrone di palazzi sfarzosi e parchi perfetti.
Qui Maria è in piedi e cammina su un globo, simbolo della Terra. Ha i piedini nudi, rosei, delicati, con le giuste cinque dita, le caviglie nude, fini e lisce, le mani diafane e delicate, il collo snello e flessuoso, un incarnato di pesca. E un viso leggiadro, misterioso e difficile da interpretare. Questa non è la Madre ieratica e ascetica delle icone bizantine, priva corporeità, stimolo di elevazione, miracolosa e magica. Né la Madre estatica nella Gloria dei Cieli, tipo l’Assunta di Tiziano (1516), (che deve avere visto una riproduzione della Sistina) sublime e raggiante. Questa Maria, attraente, terrestre, naturale, è lontana dalle Madonna di culto devozionale che conquistano l’adorazione, quasi l’iperdulìa, dei fedeli, estasiati appunto da Madri Divine, Divine Vergini, Madri Dolorose, Strazianti Pietà etc.
Questa ragazza, diciamo di diciotto anni, con un bambino in braccio di due anni, cammina con passo spedito, tanto che la larga veste che l’avvolge rivela la forma delle lunghe, affusolate gambe e di un bel seno, mentre il largo velo le ondeggia sulla spalla sinistra. Ella non si libra nel cielo o sulle nuvole, come San Sisto e Santa Barbara, ma marcia su un globo, sulla Terra. Marcia sulla Terra! E porta sul braccio Gesù, un bambino di almeno due anni.
Possiamo dedurne che Sanzio ha voluto effigiare la moglie di Giuseppe, il falegname, suddita romana di etnia ebrea, nell’anno terzo della nostra era, magari il 30.07.0003 dopo Cristo. Un ritratto storico, frutto di un impareggiabile studio morale, psicologico e religioso!
Maria appare una ragazza piena di vita, energica, esuberante, una forza della natura ma non come le figure greco-romane, estroverse e soddisfatte, espressioni di serenità, quiete, grandezza, incarnazioni dell’idea platonica di una femminilità eterna, ora e sempre. Qui Raffaello ha creato una Maria donna integrale, che ha una carnalità vibrante insieme a un’interiorità intensa, vive non nell’eternità della gloria dei cieli, ma anima e corpo, qui e ora, il suo Dasein, il suo tempo e luogo preciso. Cammina, marcia avanti, col suo carico fisico e simbolico, in missione, guardando e prefigurando con i suoi neri occhi pensosi il futuro redento.
Lo scrittore Grossman dedica a Maria Sistina pagine profondissime ma sconcerta sostenendo che questa immagine, “la più atea che ci sia”, sarebbe un’icona dell’uomo sovietico e rivoluzionario. E’ vero, Questa Maria è rivoluzionaria, ma in senso diverso, nel senso della rivoluzione cristiana. Raffaello percepisce ed esprime questa eccezionale novità; nel suo ritratto mette in risalto il rovesciamento del senso del tempo, la fine del tempo statico di tutto il mondo antico e l’inizio di quello dinamico della nostra civiltà. Insomma, la cesura epocale tra il tempo circolare e sempre eguale della preistoria e delle civiltà agrarie del pane, scandito dalle quattro stagioni dell’anno e dall’eterno ritorno della Terra nel suo orbitare attorno al Sole e quello rivoluzionato, in crescita, come un’onda che monta, una linea che s’innalza dal meno al più, dalla Caduta alla Salvezza, un tempo iniziato dalla missione di Gesù per redimere l’umanità, un tempo in progress con la diffusione del Cristianesimo.
Questo straordinario mutamento, da un mondo statico ed esteriore a uno dinamico e interiore, si riflette nel viso di Maria Sistina, che rispecchia genialmente il nuovo Zeitgeist. Niente a che fare con la serenità e vitalità terrene ed estroverse dei visi antichi, immortalate dall’arte greca e romana e rievocate da Sanzio nella splendida Galatea, un’appassionata apoteosi del trionfo pagano della bellezza e sensualità. Ma anche niente a che fare con la serenità eterea e la bellezza sontuosa delle tante Madonne dipinte nel ‘400 e nel ‘500. Quello della Sistina è un viso grazioso, acqua e sapone, drammatico, inquieto, volitivo e determinato. Il viso della donna che ha generato il Figlio e lo reca decisa nel mondo e al mondo.
Questa Madre, per Raffaello, è l’eloquente simbolo della donna protocristiana e ricorda la stampa Il cavaliere, la morte e il diavolo (1513) del Duerer, certo a lui nota, che tratteggia, magari con qualche tocco barbarico per un umanista, il prototipo del cavaliere cristiano. Raffaello non ha bisogno di porre a fianco del suo prototipo della donna cristiana la morte e il diavolo, simboli del tragico male di vivere che tutti ci tormenta e alla fine uccide. Il volto di Maria è unruhige, inquieto ma risoluto, e testimonia il dramma esistenziale e la vittoria spirituale della vocazione e della missione religiose sui tormenti, sui rimpianti e sulle disillusioni di una giovane normale che ha sacrificato sogni, speranze e progetti di una vita normale.
Questa immagine della donna Maria è la più profonda, sensibile ed empatetica di Raffaello, che rivela qui iperbolicamente il suo genio creatore. Di lui dicevano che era divino perché superava la natura, che la dipingeva come avrebbe dovuto essere. Certo è che nessun pittore approfondì l’animo della ragazza Maria come Sanzio ha fatto in questo capolavoro. Anzi, pochissimi pittori si sono addirittura posti questo problema.
E nessuno come lui ha affrontato il problema del Figlio ... un bambino sconcertante e impressionante come il Cristo risorgente dalla tomba di Piero o il Cristo giudice di Michelangelo.
Sul figlio Raffaello ha osato forse l’inosabile e ha superato se stesso per originalità e profondità. Come ha tentato con successo di capire e svelare la complessità della donna Maria, così si è cimentato e ha inventato un figlio misterioso, enigmatico, intrigante. Fisicamente non bello, un bambinone, macrocefalo, (la sua testa è più grande di quella di Maria, dolicocefala) e un po’ in sovrappeso.
Eppure questo Gesù non ha nulla di puerile. Si intravedono invece una serietà adulta, una maturità latente, forse il senso di un inaudito destino. Il viso è un capolavoro, severo, corrucciato, con tonde guanciotte e bocca disgustata. Pensieroso. E’ un enigma. Gli occhi neri sono penetranti, spalancati a fissare gli astanti, noi, fedeli e non fedeli; ci trafiggono, ci leggono dentro, forse ci giudicano. Qui nulla è normale, infantile, puerile. Questo non è un semplice bambino. E’ forse sovrumano? Ha forse voluto l’artista far intuire come in filigrana nel figlio il Figlio?
L’intuizione sconcertante di Grossman, tuttavia, non è priva di senso, se intesa a rimarcare il nuovo Zeitgeist rispetto a quello dell’era cristiana, lo svolgimento sempre più dinamico, accelerato della nostra civiltà, lungo l’onda permanente di questo tempo in progress, postumanista, postcristiano, postcomunista, postindustriale, postmoderno, postliquido, panterrestre... ma che rischia di peggiorare l’attuale crisi globale aprendo scenari apocalittici.
Eppure l’idea di un’umanità impegnata a costruire coscientemente e responsabilmente il proprio mondo e il proprio futuro sotto il segno del miglioramento, che si esprime in Maria Sistina, prototipo dalla madre cristiana, e che ha avuto una lunga elaborazione secolare nell’Occidente con le grandi svolte dell’Umanesimo, dell’Illuminismo, del Liberalismo, del Socialismo e della Democrazia, questa idea oggi langue ma non è morta, anzi si sta diffondendo su tutta la terra pur tra mille travisamenti e contraddizioni. Il fondamento indistruttibile rimane nello spirito di conoscenza e libertà degli uomini e delle donne uniti e solidali.
In grazia dell’arte di Raffaello, che come ogni arte è l’espressione attraverso mezzi sensibili della complessità dell’umano interrogando il profondo, ci giunge questa figura emblematica della quale Vasilij Grossman esalta il senso carismatico e universalmente umano. “Questo dipinto ci dice quanto la vita deve essere preziosa e magnifica, e che non c’è forza al mondo in grado di costringerla a trasformarsi in qualcosa che, benché assomigli esteriormente alla vita, non è più vita. ... La forza della vita, la forza di ciò che è umano nell’uomo, è immensa, e la violenza più potente non può asservire questa forza, essa può solo ucciderla.”
Purtroppo la società mediatico-consumistica-cibernetica-globale, la nostra, sta facendo passi giganteschi nella tragica direzione di una disumanizzazione agghiacciante.
Cari essere umani, uomini e donne, l’alternativa di un futuro di valori, cultura e civiltà è nelle nostre scelte, nelle nostre speranze, nei nostri valori.
La Madonna di Raffaello torna a Foligno
Sopralluogo a sorpresa di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani *
Foligno, 9 gennaio 2014 - E’ la conferma che la storica «Madonna di Foligno» di Raffaello tornerà in Umbria, nella sua Foligno. Ieri mattina, quasi in sordina, il professor Antonio Paolucci ) e la sua équipe hanno effettuato un sopralluogo in città. Per verificare le condizioni di un clamoroso rientro, da anni al centro di un animato dibattito locale. La visita ha interessato Palazzo Trinci e il Monastero di Sant’Anna, là dove il capolavoro del maestro rinascimentale è stato custodito prima del rastrellamento francese sul finire dell’Ottocento.
Da tempo a Foligno c’è un movimento di pensiero molto forte, sostenuto tra gli altri dal presidente della Quintana Domenico Metelli, che vede nell’opera uno dei simboli della città e tenta di riportarla ‘a casa’. Speranze che potrebbero diventare concrete, considerata l’autorevolezza del sopralluogo effettuato.
Attuale direttore dei Musei Vaticani, ex ministro dei beni culturali e soprintendente per il Polo museale fiorentino, Paolucci è figura chiave della storia dell’arte italiana e tanti lo ricordano in prima fila nel restauro della Basilica di San Francesco di Assisi dopo il terremoto del ’97, che seguì nelle vesti di commissario straordinario del Governo. Sarà lui a valutare la sede ideale, nel ballottaggio tra Palazzo Trinci - con opportune misure di sicurezza, però, stante il clamoroso furto di monete romane di qualche tempo fa - e il Monastero di Sant’Anna, che si lega a doppio filo con la storia del dipinto. Raffaello lo realizzò tra 1511 e il 1512 su commissione di Sigismondo de’ Conti, segretario di papa Giulio II: un ex voto per il miracolo che lo aveva salvato dopo che un fulmine aveva colpito la sua casa di Foligno.
La Pala, che rappresenta la Vergine Maria con Gesù Bambino in gloria tra San Giovanni Battista, San Francesco d’Assisi e San Girolamo, era nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma dove Sigismondo fu sepolto finché nel 1565 una sua nipote, monaca, la fece trasferire a Foligno, nel Monastero di Sant’Anna. E lì è rimasta fino a quando venne rastrellata durante l’occupazione francese nel 1797 e portata a Parigi. Col Trattato di Tolentino tornò in Italia nel 1816, ma il pontefice Pio VII decise di trattenerla a Roma, ai Musei Vaticani. Adesso la Madonna di Raffaello è esposta a Milano, a Palazzo Marino fino al 12 gennaio. E poi? Foligno e l’Umbria potrebbero riaccoglierla, in modo definitivo o come esposizione temporanea.
Tutti in fila per la Madonna di Raffaello:
«Deve restare a Foligno»*
FOLIGNO - Il giorno della meraviglia è arrivato per Foligno e per tutta l’Umbria dell’arte e della cultura.
Sabato mattina nel monastero di Sant’Anna di Foligno è stata inaugurata la visita a una delle opere piu prestigiose mai arrivate in Umbria la Madonna di Foligno dipinta da Raffaello Sanzio.
Alla presenza del vescovo Gualtiero Sigismondi, del sindaco Nando Mismetti e di tante autorità, più Stefano Lucchini, direttore relazioni internazionali di Eni (che ha reso possibile la visita), e Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, è caduto il velo a una delle più grandi attese in tema di opere d’arte.
L’opera, che sarà visitabile fino al 26 gennaio, è collocata nel luogo in cui venne ospitata 200 anni fa, prima di essere presa dai francesi e portata a Parigi.
Molti cittadini hanno sollecitato la possibilità di far restare quest’opera non solo per un tempo limitato ma, intanto, almeno per qualche altra settimana. L’Eni e le autorita locali, tra cui il sindaco, hanno accolto con favore questa richiesta. In particolare l’Eni, che attraverso il direttore Lucchini si è resa disponibile a tenere il quadro a Foligno per molto più tempo. Ora la decisione spetta ai Musei Vaticani.