Analizzando tre sonetti del «Canzoniere», il critico Giorgio Bertone delinea gli «elementi sparsi» di una teoria dell’immagine e del ritratto nel grande poeta, in linea con il Secondo Concilio di Nicea: e per la prima volta un intellettuale riconosce alla pittura una qualità eccellente
Petrarca e Laura dall’icona alle foto
di BIANCA GARAVELLI (Avvenire, 08.03.2008)
Il punto di partenza è la questione del ritratto, «riassumibile, simbolicamente, nei poli del Concilio di Nicea e dell’avvento della fotografia». Questione nella quale si inscrive, sorta di pacificatore tra forze in contrasto, il poeta Petrarca. È l’affascinante percorso che Giorgio Bertone, docente e studioso letteratura italiana (per esempio di Calvino e di metrica, ma anche del rapporto fra scrittura e paesaggio), compie rileggendo tre sonetti del Canzoniere petrarchesco: il XVI, il LXXVII e il LXXVIII, nei quali individua gli «elementi sparsi» di una teoria del ritratto, non sistematica, ma significativa e sorprendente. Si parte dal celebre sonetto XVI, «Movesi il vecchierel canuto et biancho», in cui un pellegrino compie un viaggio per venerare la Veronica, la vera immagine di Cristo. Con questo pellegrino si identifica lo stesso poeta, che in un certo senso venera l’immagine della sua Laura.
E qui entra in gioco il Secondo Concilio di Nicea: nella quinta sessione, al centro della sala conciliare, «dove già la tradizione voleva in posizione d’onore i Sacri Vangeli», viene messa un’icona. Per la prima volta, l’immagine viene elevata allo stesso rango della parola divina: in effetti dai lavori del Concilio emergerà poi la prevalenza della vista sull’udito, e verrà ufficialmente attribuita alle immagini sacre la capacità di indurre i fedeli all’adorazione di Gesù incarnato, con grande vantaggio per le loro anime.
Petrarca, in tutto ciò, finisce per ricoprire il doppio ruolo di teorico e fruitore concreto della propria stessa teoria. Infatti sappiamo, per sua diretta testimonianza, che si era fatto dipingere dal famoso pittore Simone Martini un ritratto di Laura, al quale teneva moltissimo. Nel Terzo Libro del Secretum, però, dalle parole di Sant’Agostino emerge un duro rimprovero verso questa sua debolezza peccaminosa. Ma a leggere bene, osserva Bertone, si scopre che il male non sta nel ritratto, bensì nell’ossessione del pensiero continuo di Laura, che occupa e tormenta la mente del poeta anche quando la sua donna non è presente. Al contrario verso l’autore di quest’ultimo, Simone Martini, viene espresso un apprezzamento assoluto, al punto di parlare del «genio di un famoso artista».
Quindi Petrarca non si rivela affatto sulla linea dell’iconoclastia, della condanna dell’immagine in quanto inferiore rispetto alla parola, quanto piuttosto dell’idea che nel ritratto, sulla scia di quello divino della Veronica e delle icone, si ponga un fondamento di verità. L’arte del ritratto, e in generale la pittura, è dunque nobile, e in un certo senso divina, dotata com’è del potere di suggerire l’identificazione dell’immagine con la realtà che riproduce. È quanto Petrarca suggerisce nei due sonetti di ringraziamento per il ritratto di Laura, dedicati appunto a Simone Martini, il LXXVII e il LXXVIII. All’immagine, sia pure un’immagine non di per sé sacra, viene attribuito un valore del tutto positivo: la pittura è da ascrivere pienamente nel novero delle arti liberali. Da poeta, Petrarca assume qui anche un po’ il ruolo di storico dell’arte, e di pioniere di un discorso tuttora in atto sull’immagine e il suo ruolo.
Per la prima volta, un intellettuale riconosce all’immagine una potenza dirompente, esercitata attraverso l’emotività che suscita, sia nell’artista che la produce, sia nello spettatore che l’ammira: Simone Martini secondo Petrarca è salito «nel cielo» per ideare la sua opera e vedere la vera immagine di Laura, senza lo schermo ingannevole del corpo. Ecco perché ogni volta che guarda il suo ritratto il poeta tanto si commuove. Una rilettura di tre sonetti che ci fa riflettere su una sorprendente ipotesi: che l’immagine nasca nella cultura occidentale con le radici ben piantate nella dimensione della spiritualità.
Giorgio Bertone
IL VOLTO DI DIO, IL VOLTO DI LAURA
Il melangolo. Pagine 76. Euro 15,00
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LE IMMAGINI, L’IMMAGINAZIONE E LA STORIA....
DOC.:
PETRARCA E LA SUA ’STORICA’ GATTA:
#STORIA #LETTERATURA #FILOLOGIA E #STORIOGRAFIA: #DANTE, #BOCCACCIO, E #PETRARCA.
#Considerazioni #inattuali a margine della novella dei #tre #anelli (#GiovanniBoccaccio) e della scoperta di "un nuovo Livio di Petrarca":
A) IL #PRIMATO DI #ROMA (E DI #PIETRO), #BEATRICE E L’#AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE, E LA #MONARCHIA DI #DANTE:
B) BOCCACCIO CON DANTE. Nel #Decameron, Boccaccio pone il suo cammino sotto la guida di "#Filomena", sotto il segno della #Legge, della #Giustizia e della #Pace - di "#MELCHISEDECH GIUDEO CON UNA NOVELLA DI TRE ANELLA CESSA UN GRAN PERICOLO DAL SALADINO APPARECCHIATOGLI" (terza novella della “prima giornata” ), e, di #SOLONE (nel "Trattatello in laude di Dante").
C) #FRANCESCOPETRARCA FA DI #LAURA LA SUA #BEATRICE E DELLA #ROMA ANTICA (DANTE) LA BASE #POLITICA DEL SUO #SOGNO MODERNIZZATO:
"Nel capitolo intitolato a Tito Livio dei Rerum memorandarum libri (1, 18, 2-3), composti dall’estate del 1343 fino all’inizio del 1345, Petrarca lamentava che solo un’esilissima parte dei 142 libri degli Ab urbe condita era giunta alla sua epoca e rammentava come si fosse messo sulle tracce della seconda decade sollecitato da re Roberto d’Angiò:
Questa sua affannosa ricerca fu vana ma l’insuccesso non comportò una diminuzione d’interesse nei confronti dell’opera che narrava le gesta e la gloria di Roma antica e si prestava a essere utilizzata sia come fonte per la sua produzione storica sia come strumento per la sua rivendicazione politica del primato dell’Urbe presso i contemporanei. [...] (Monica Berte, "Un nuovo Livio di Petrarca: il manoscritto Arch. S. Pietro C. 132 della Biblioteca Apostolica Vaticana", Insula Europea, 24 maggio 2022).
I CANI E "I GATTI D’ITALIA" ...
"LA GATTA DI PETRARCA", IL GATTO DI PANTALEONE ... mi piacerebbe che le Autrici (Lilli Garrone e Monica Cirinnà) del suggestivo lavoro su "I GATTI D’ITALIA. Storie, curiosità e avventure dei gatti più famosi che popolano e hanno popolato le città e i paesi d’Italia" (Grandi Manuali Newton, 2017) - complimenti a loro per l’attenzione anche al "gatto di Otranto" (cioè del gatto con "gli stivali" presente nel mosaico del monaco Pantaleone, nella Cattedrale della Città) - prendessero atto della storica precisazione fatta dal prof. ARMANDO POLITO (cfr: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/19/mattarella-la-cagnetta-mesagne-larcivescovo-brindisi/ e in un’augurabile riedizione del libro, nel capitoletto dedicato a "LA GATTA DI PETRARCA" (pp.13-15), aggiungessero una nota a segnalazione della scoperta.
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
Il culto di Petrarca (per se stesso)
Annotava tutto, registrava, chiosava. Senza distinguere tra vita e letteratura
di Marco Santagata (Corriere della Sera, 3.12.2016)
Centinaia e centinaia di lettere, un’autobiografia Ad posteritatem, un dialogo introspettivo, il Secretum, dominato per intero dal proprio io, una miriade di note e di postille depositate sugli autografi, sui margini dei libri, una cura maniacale, diciamo pure nevrotica, a segnare le date - giorno, mese, spesso l’ora - di eventi della sua attività di scrittore, di studioso, di uomo pubblico e perfino privato, fino al punto da giungere ad annotare anche i giorni nei quali aveva ceduto ai piaceri della carne: insomma, una costante esibizione di sé sorretta e avvalorata da un imponente apparato documentario. Una tale mole di informazioni ci consente di dire che di nessun personaggio prima di Petrarca conosciamo la biografia in modo più dettagliato.
Il problema è che tanti dettagli faticano a comporsi in un ritratto coerente e, soprattutto, fondato. Essi, infatti, ci vengono tutti da lui, e perciò, in quanto autobiografiche, sono già di per sé testimonianze da prendersi con le molle. Nel suo caso, poi, la prudenza è quanto mai necessaria, e per molte buone ragioni. Per esempio, una non da poco è che la sua necessità di fissare il tempo con puntuali indicazioni cronologiche si accompagna a una vera e propria coazione a riscriversi e a cancellare il già scritto, il che rende spesso aleatori anche paletti che sembrerebbero certi. Insomma, anche quando ci illudiamo di camminare su un terreno solido, ben presto scopriamo di essere incappati nelle sabbie mobili.
La ragione principale, però, è che Petrarca mente, o meglio, mescola in modo inestricabile realtà e finzione, verità e mistificazione, dati certi e affermazioni arbitrarie. Non per il gusto di mentire, ma si potrebbe perfino dire per necessità culturale: convinto che non ci sia alcun diaframma tra vita e letteratura e intenzionato a trasmettere di sé un ritratto ideale, un modello, ecco che costruire un’opera complessiva che abbracciasse insieme esperienze di vita ed esperienze letterarie e che fornisse una lettura unitaria del suo essere uomo, intellettuale e poeta diventava per lui una strada obbligata.
Il problema è tutto nostro, di noi che, irretiti nel suo gioco, cerchiamo a fatica di decifrarne i meccanismi, di distinguere ciò che lui non voleva distinguere. Ecco perché le pur pregevoli biografie in circolazione non possono non disperdersi in ridde di ricostruzioni minute e ipotetiche, un labirinto nel quale spesso si perdono il senso dei dati biografici e culturali e, in ultima analisi, viene a svanire la vera identità di Petrarca, sommersa da quella che lui intendeva imporci.
Forse ci voleva proprio uno studioso come Francisco Rico per fornirci un’agile biografia che con mano sicura sceverasse il certo dall’incerto, ciò che è della vita e ciò che è del progetto petrarchesco di rilettura della propria vita. Rico lo fa, in collaborazione con Luca Marcozzi, nella seconda parte del dittico in cui è suddiviso I venerdì del Petrarca (Adelphi). Il loro ritratto essenziale restituisce l’immagine più vicina all’originale, come se uscisse da un restauro. Molti tratti ci erano noti, ma altri emergono con inusuale nitidezza: penso, ad esempio, a quanta attenzione Petrarca abbia dedicato per tutta la vita ai rapporti con i protettori e i mecenati e alla sua abilità nel procurarsi sostanziose fonti di sostentamento.
Rico era la persona più adatta a operare il restauro, perché, più di ogni altro, mettendosi nella scia di Giuseppe Billanovich, ha innovato il modo di leggere Petrarca. Si deve proprio a lui, a cominciare da un libro che ha segnato una svolta negli studi petrarcheschi, quel Vida u obra de Petrarca, uscito in Italia, da Antenore, nel 1974, in castigliano, e di cui si desidererebbe come di pochi altri una traduzione in italiano, si deve a lui la ricostruzione più affascinante delle strade tortuose lungo le quali Petrarca si è costruito come personaggio mescolando vita e letteratura, lasciandoci sempre nel dubbio se ciò che leggiamo sia vita o letteratura.
Rico ha il dono, oggi sempre più raro, di coniugare rigore filologico e inventività, solidità erudita e ardire interpretativo. Sotto la sua penna la filologia diventa militanza. E la sua filologia militante ha il pregio ulteriore di cercare nuove frontiere, di misurarsi con ipotesi che la stanca filologia dei nostri tempi nemmeno saprebbe formulare.
Assodato che nei suoi scritti Petrarca «non mira tanto a narrarsi quanto a costruirsi, a esibire l’immagine ideale che vorrebbe darsi di se medesimo, o al limite l’immagine che lui ha di se medesimo», ecco che Rico, quasi mettendosi in gara, lui filologo con gli amici romanzieri e il loro culto dell’immaginazione, si chiede se per Petrarca, in non pochi momenti e comportamenti, «i fatti abbiano lo stesso valore di un testo letterario, anzi funzionino come tale, lo sostituiscano».
È una domanda complementare e opposta a quella che ha guidato l’indagine sul Petrarca che impone ai fatti l’interpretazione letteraria. Ne esce l’ipotesi di un’autobiografia segreta della quale farebbero parte «non poche pagine che il poeta non scrisse affatto, ma che piuttosto visse come se ne stesse scrivendo, oppure come se stesse ricalcando ciò che effettivamente aveva o avrebbe scritto». L’ipotesi è felicemente sperimentata nel primo dei due dittici, quello che dà il titolo al libro. Appurato che il riferimento a questo giorno della settimana si presenta con insistenza negli scritti petrarcheschi, Rico si chiede cosa rappresentasse il venerdì per Petrarca.
A partire da questa domanda si snoda un percorso tra archetipi culturali e privati investimenti emotivi, un viaggio critico che costeggia alcuni dei miti più tenaci dell’immaginario petrarchesco. Il viaggio, zigzagante e imprevedibile, tiene avvinto il lettore. Alla fine (ma Rico la anticipa all’inizio) emerge la risposta: «Il venerdì del Petrarca non è il venerdì nefasto della superstizione popolare, né solamente il venerdì devoto del cristiano: è il giorno che non passa inosservato, senza far sentire la propria singolarità... È uno degli archetipi e termini di paragone che servono a Francesco per situarsi nel mondo». Non una bizzarria, sia chiaro, né un vezzo, ma una necessità psicologica. Come negli scritti Petrarca cerca di proteggere la propria identità di depresso «dissimulandola sotto quella di un modello prestigioso», cioè costruendosi in personaggio, così, parallelamente, nella vita ricorre «a fissazioni, riti, schemi e paradigmi temporali». Il venerdì è uno di questi.
E Laura rispose a Petrarca. Con quattro secoli di ritardo
Ritorna il poema della letterata settecentesca Pellegra Bongiovanni che ribatte con piglio moderno verso su verso al posto dell’amata
di Mario Baudino (La Stampa, 15.01.2015)
«Voi, ch’ascoltate in rime sparse il suono/ di quei sospiri, ond’io nudriva il core», esordiva Petrarca nell’immortale «romanzo» del suo innamoramento. A distanza di qualche secolo, Laura rispose. E lo fece punto per punto, verso per verso, usando molto spesso le stesse parole e sempre le stesse rime. «Nell’ascoltar di quelle rime il suono,/ Che fuor mandasti dall’acceso core,/... Meco dentro di me così ragiono/ Perché incolpar mi vuoi del tuo dolore?». Non è che fosse bisbetica, e nemmeno seccata. Però grazie a un raffinato congegno letterario passò da donna angelicata ed eterea, muto e inconsapevole emblema, a donna in carne ed ossa, capace di innamorarsi a sua volta senza tuttavia dimenticare la propria condizione, letteraria e non.
Donna sposata
Laura de Noves era in fin dei conti sposata (con Hugo de Sade, antenato del Divin Marchese), mentre Petrarca era notoriamente celibe. Ma anche Pellegra Bongiovanni, l’autrice settecentesca che le diede voce, aveva un marito, e dunque poteva capire meglio di altri quanto il gioco fosse stato, in origine, fortemente squilibrato. Il suo canzoniere parallelo, «Riposte a nome di Madonna Laura alle rime di messer Francesco Petrarca in vita della medesima», pubblicato nel 1762, viene ora riproposto (Antenore editore) in un’edizione a cura di Tatiana Crivelli e Roberto Fedi, dopo un lungo oblio.
Pellegra Bongiovanni, nata a Palermo a inizio Settecento e morta a Roma nel 1770, figlia di un pittore, fu un personaggio di grande spicco nella società del suo tempo, soprattutto a Roma dove si trasferì ben presto.
Cancellata dai romantici
Fece parte dell’Accademia dell’Arcadia, fu lodata come pittrice e come musicista, oltre che come scrittrice. La radicale svalutazione dei petrarchisti e degli arcadi ad opera della critica romantica fece sì che ben presto scomparisse dalle storie della letteratura e quindi dal «canone», ridotta a qualche citazione qua e là, piuttosto svagata e blandamente maschilista. Ma Pellegra era una scrittrice vera, una che sapeva benissimo quel che faceva.
Nell’introduzione al suo libro ironizza sui rifacimenti troppo spirituali dell’opera petrarchesca, per esempio la riscrittura del «Canzoniere» e dei «Trionfi» a opera di Stefano Colonna (nel 1552), che fece sì parlare Laura ma le diede «il pregio» di farlo «come una Vergine Claustrale, che tutto rivolge alla divozione». La tradizione con cui si misura la Bongiovanni è ricca di apologie, imitazioni d’ogni genere, scritture parodiche o burlesche, e anche la pratica di usare le stesse rime è diffusa.
Ma le sue «Risposte» partono da un’idea radicalmente nuova: sonetti e ballate vengono riletti come fossero lettere, e dunque si tratta di ricambiare, puntualmente, componimento per componimento, con la tecnica che la poetessa definisce «dello stretto rispondere». A giro di posta.
Questa Laura settecentesca non manca di senso critico. Tutto sommato, l’attenzione del Petrarca la preoccupa. Nella prima risposta, infatti, è garbatamente spaventata dall’idea che si stia inaugurando un intero canzoniere. Se Petrarca annunciandolo scrive di aver finalmente capito «Che quanto piace al mondo, è breve sogno», lei non può che ricordargli più saggiamente, «E Amor conosco, e veggio chiaramente/ Che non è dolce, o solo è dolce in sogno». Un invito alla calma, che non può essere evidentemente raccolto. Al cuore non si comanda, e Laura, poco alla volta, cede. Si lascerà dunque adorare, senza rinunciare però a ricordare al suo poeta quanti privilegi gli siano toccati in sorte.
Sonno e tormento
«Solo e pensoso i più deserti campi/ vo misurando a passi tardi e lenti» piange il Petrarca, perseguitato dai tormenti d’amore. «Almen tu puoi per solitari campi/ Portare umidi gli occhj, e i passi lenti» gli risponde Laura. E dunque beato te, visto che io non posso nemmeno nascondermi: «Mentre eco ti fanno, ed antri, e monti e piagge/ Ai carmi tuoi sparsi di amare tempre;/ Io riso, e non pietà desto in altrui», considerato che il vulgo, che pure prova amore, se la ride beato, e dunque, i miei lamenti, io li devo nascondere. Laura ora resiste, ora cede: la sua è una strategia amorosa, che pur restando su un piano squisitamente platonico ha le grazie e le malizie del Settecento.
Petrarca è tormentato, non riesce a dormire, le notti sono piene d’angoscia: «Il sonno è ’n bando; e del riposo è nulla» scrive nel sonetto 223. E lei si prende finalmente una piccola rivincita: «Esco dal sonno, e quei che il cor m’inalba,/ Quei, che con gli occhi gli occhi mi trastulla,/ Vien dolce a serenar l’anima mia». Il suo amore, questo la Bongiovanni non lo dice, ma certo lo lascia intendere, è più vero, più autentico, femminile. Del resto, è o non è la figlia di un secolo galante?
Petrarca, «avaro» fra i Tre Grandi
Critico di Dante e sprezzante verso la lingua di Boccaccio
di Cesare Segre (Corriere della Sera, 11.12.2012)
I nostri tre massimi scrittori del Trecento, e massimi in assoluto, furono presto indicati, araldicamente, come «le Tre Corone». Primo fu Dante (1265-1321); seguirono Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375). I due ultimi, che non poterono conoscere il primo, si frequentarono e furono amici. Ma Dante, pur ormai nel mondo dei più, riuscì ad accendere tra loro un certo, persistente, dissenso. Ammiratore e imitatore di Dante, Boccaccio si era consacrato generosamente alla conoscenza della sua opera, scrivendo un Trattatello in laude di Dante e delle Esposizioni sopra la Comedia, organizzando le prime «lecturae Dantis», trascrivendo materialmente suoi codici, salvando dalla dispersione scritti, come lettere ed egloghe, e memorie.
Tutto al contrario, Petrarca cita pochissime volte, quasi con avarizia, il nome di Dante. Agli amici, come Boccaccio e Francesco Nelli, che sollecitano da lui un giudizio, risponde sempre con reticenze e ambiguità, anche se non riesce a nascondere una certa considerazione. Soprattutto, trasforma il giudizio in una constatazione, ovvia, che lui e Dante appartengono a una diversa fase culturale. Mai si lascia sfuggire una lode esplicita. La critica più chiara è il rimprovero a Dante di avere scritto la Commedia in volgare, e perciò di essere rimasto al di sotto delle sue possibilità. La situazione cambia se si esamina l’influsso esercitato da Dante sulle opere di Petrarca. Che, se le reminiscenze di Dante sono consistenti nel Canzoniere, diventano decisive nei Trionfi, sino a riecheggiare alcune scene della Commedia. Accusato di invidiare Dante, Petrarca si difese energicamente. Ma forse, per comprendere meglio il suo atteggiamento, giova partire da altre considerazioni.
Petrarca tradusse in latino l’ultima novella del Decameron, quella di Griselda. Un grande onore, che moltiplicò il successo internazionale delle cento novelle. Ma con che spirito la tradusse? La lettera con cui Petrarca spiegava a Boccaccio l’inconsueta iniziativa dice che una copia del Decameron era giunta quasi per caso nelle sue mani, e che lui «le ha dato un’occhiata» (traduzioni di L.C. Rossi), non avendo tempo per «un’attenta lettura». L’opera, dice Petrarca, probabilmente con una smorfia, è scritta in volgare (come la Commedia), dunque è «destinata al volgo e in prosa». «Inconsistente l’argomento», insiste, e purtroppo ci sono anche «eccessi di licenziosità». E così via. Più una stroncatura che una lode, a parte il giudizio sulla novella di Griselda: il racconto, dice, lo ha «avvinto al punto da volerla memorizzare», e commosse sino alle lacrime un suo amico autorevole. Insomma, la novella che ha tradotto è molto superiore alle altre; e questo vale anche per lo stile elevato, il tono eroico. E dato che Petrarca, traducendo, accentua altezza di stile e tono eroico, nasce e si fa strada il sospetto che abbia voluto insegnare a Boccaccio come avrebbe dovuto scrivere anche lui (a partire dalla scelta linguistica: ovviamente il latino).
Come per Dante, anche nel giudizio sul Decameron si fa sentire la diversità di gusto: Petrarca preferisce un pubblico, e uno stile, più aristocratico, detesta l’uso della prosa e l’attenzione a racconti popolareschi, fantasie senza rapporti con la realtà. Petrarca aveva in mente gli storici e i moralisti latini, che erano i suoi veri modelli. Ma le sue critiche non potevano essere espresse con toni meno sprezzanti, trattandosi, con Boccaccio, di un amico? La fierezza di appartenere alla nuova civiltà umanistica e di partecipare alla riscoperta del pensiero classico non poteva essere sfumata dall’affetto?
Un libriccino di Francisco Rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Padova-Roma, Antenore, pagine 160, 12, ci porta nel pieno della leggenda sull’amicizia Petrarca-Boccaccio. Rico, grande ispanista e studioso del Don Chisciotte, è anche uno dei più brillanti specialisti di Petrarca. Comincia demolendo alcuni particolari della leggenda dovuti a errori d’interpretazione: l’ospitalità offerta a Firenze (1350) da Boccaccio a Petrarca è una metafora erroneamente intesa alla lettera dagli interpreti; un’epistola di Petrarca, che dimostrerebbe l’antichità dell’affetto verso Boccaccio, sarebbe stata retrodatata ad hoc dall’autore. Petrarca, dice Rico, «vedeva Boccaccio a volte come un servitore e a volte come un fratello. Un fratello minore e meno dotato, che s’istruisce e incoraggia ma il cui talento non si apprezza». Un tipo di rapporto evidente nei prestiti e negli scambi di manoscritti, per i quali Boccaccio è estremamente liberale, e Petrarca avarissimo. Il risultato è che spesso Boccaccio ignora opere di Petrarca, e quest’ultimo trascura quelle del collega. Il lavoro di Rico è ancora in corso, ma certo questo cambio di prospettiva riserva altre sorprese.
Da brani di lettere riportati da Rico appare che la devozione di Boccaccio è indefettibile; sappiamo che Petrarca gli appariva talora negli incubi, terrorizzandolo. Eppure, al bisogno, Boccaccio seppe anche criticare prese di posizione politiche del maestro, come quando Petrarca accettò l’ospitalità di Giovanni Visconti, a Milano, nel 1353. L’espansionismo lombardo metteva in pericolo la situazione dei fiorentini, smentiva le idee espresse precedentemente da Francesco, faceva sospettare vantaggi economici consistenti. Sotto il velo di un racconto bucolico, Boccaccio si esprime con severa schiettezza. Generoso, Boccaccio, ma non succube. La lettera è ora ripubblicata da Ugo Dotti, Lettere a Petrarca (Torino, Aragno, pp. 237-51).
Ma alla fine, come sono andate le cose nella nostra prospettiva di posteri? Boccaccio ha puntato giustamente sulla Commedia, che continuiamo a considerare un capolavoro senza rivali. E ha lanciato strofe e generi letterari (il poema in ottave). Ha dunque influenzato profondamente da un lato la novellistica, che, iniziata con lui, è tuttora vivissima, dall’altro l’epica cavalleresca, sino ad Ariosto e Tasso. Gli spagnoli in particolare hanno amato e imitato il suo romanzo d’amore in prosa, la Fiammetta. Per contro, le scelte del Petrarca (prescindendo naturalmente dall’azione complessiva dell’Umanesimo e della nuova filologia sul piano mondiale) sono state in gran parte travolte dal tempo: le sue opere latine sono lette solo dai pochissimi specialisti, l’Africa è quasi dimenticata. Certo, c’è il sublime Canzoniere. Ma è proprio scritto in volgare... Quanto, poi, al giudizio sui comportamenti (che naturalmente non tocca la valutazione artistica), non possiamo fare a meno di contrapporre, secondo quanto suggerisce Rico, la generosità calda e fattiva di Boccaccio alla chiusura superciliosa di Petrarca.
L’ultimo tema di Carmela
«La sofferenza d’amore uccide le facoltà mentali»
di Felice Cavallaro (Corriere dela Sera, 21.10.2012)
PALERMO - Il balordo trasformatosi nel suo assassino non sa e forse non potrebbe nemmeno capire quanto Carmela Petrucci, pur a soli 17 anni, abbia riflettuto sul rapporto «fra la sofferenza amorosa e il desiderio che può uccidere le facoltà mentali». Lo ha fatto immergendosi nella letteratura, a scuola, con un saggio sul Petrarca, con un’analisi della ballata scritta per il Canzoniere, una sorta di testamento rimasto fra le carte della sua professoressa di italiano.
Un documento che fa venire i brividi dopo i due fendenti mortali subiti per difendere la sorella Lucia, la vittima designata, raggiunta da venti coltellate, ancora ignara in Chirurgia, all’ospedale Cervello, pronta a chiedere continuamente notizie di Carmela e a ricevere le bugie di genitori e medici: «È in un altro ospedale».
Pietosa menzogna per alleviare le sofferenze di tagli profondi, netti, «come quelli di un bisturi», dice il primario che l’ha salvata, Giuseppe Termine. Una carneficina. Con un coltellaccio a doppia lama recuperato ieri in via Giordano dagli uomini del questore Nicola Zito su indicazione dello stesso assassino, Samuele Caruso, il «tigrotto» di 23 anni, come si faceva chiamare su Facebook mostrando i muscoli a petto nudo. Un’arma presa da casa sabato mattina, prima di andare al liceo Umberto e poi piazzarsi nell’androne di casa di Lucia e Carmela. Quanto basta al sostituto Caterina Malagoli per contestare l’omicidio volontario premeditato, aggravato da «motivi futili e abietti». Perché tali restano anche se Samuele offre come folle attenuante «la paura che Lucia avesse un altro».
«Vedrete che gli troveranno un bell’avvocato capace di scoprire l’infermità mentale», tuonava dubbioso e schifato ieri mattina uno studente alto e biondo appena conclusa l’assemblea tenuta con tutti i compagni di scuola dal preside Vito Lo Scrudato, pronto a recepire la richiesta dei ragazzi di attribuire a Carmela il diploma di maturità alla memoria.
Prospettiva che non può consolare nemmeno la professoressa di italiano, Francesca Bucalo, depositaria dell’analisi sulla ballata dedicata da Petrarca a Laura: «Un testo che avevo deciso di stampare e distribuire per mostrare a tutti gli allievi come si analizza un poema. Un lavoro esemplare, un modello...».
Carmela sottolinea come il poeta racconti che, quando egli stesso celava i suoi pensieri d’amore, «l’atteggiamento della donna verso di lui era gentile e il suo volto pieno di pietà», mentre «dopo la rivelazione del desiderio, Laura vela il volto e non osa più guardare il poeta». Un velo che domina, strazia e distrugge chi è privato «del "dolce lume" degli occhi dell’amata». Al centro della poesia campeggia proprio l’oggetto del desiderio sottratto al poeta, mentre chi legge oggi, dopo il massacro di via Uditore, può correre agli equivoci, all’ambivalente interpretazione di un sorriso, all’ossessione del rifiuto culminata nel disegno della vendetta per una malintesa idea di amore non corrisposto. E, mentre lievitava il perverso atteggiamento di quel ragazzotto verso Lucia, ecco Carmela analizzare il dramma del poeta, «la profonda sofferenza provata da Petrarca perché Laura non gli rivolge più lo sguardo». Un dramma in due fasi: dai «suoni aspri, usati per mettere in evidenza il tormento e l’angoscia di Petrarca», si passa «a toni meno aspri che simboleggiano la rassegnazione del poeta, abbandonato ormai al suo dolore». Ecco la rassegnazione che l’assassino non ha mostrato, scagliandosi contro Lucia, l’«oggetto» dello sconforto, brandendo il coltello che ha ferito a morte Carmela, la sorellina pronta a fare scudo.
È il momento della riflessione, ma anche della paura che ieri ha fatto comparire tanti genitori ai cancelli per accompagnare i figli, prova di dialogo sempre più complesso. «Dobbiamo aprirci, se avessimo raccontato quel che sapevamo...», ha ammesso una compagna di classe ieri mattina, «pentita di non avere avvertito i genitori».
Tema anche questo affrontato da centinaia di palermitani scesi in piazza ieri sera a piazza Politeama, presenti i giovani dell’Umberto pronti a una fiaccolata organizzata per domani sera e a interrogarsi sulla voce rilanciata da Bianca Giammanco, leader del Movimento studentesco a Palermo, su una presunta denuncia fatta da Lucia ma rifiutata in una caserma. È solo una voce. Smentita da polizia e carabinieri. Ma basta ad alimentare l’ansia sull’ultima vittima del «femminicidio» e su minacce spesso sottovalutate.
Il delitto di Carmela
Cultura e coraggio per fermare la violenza
di Alessandro D’Avenia (La Stampa, 21.10.2012)
Conosco quel quartiere e quella via. Conosco la scuola di Carmela, uno dei licei classici migliori di Palermo, nel quale l’anno scorso ho incontrato gli studenti e chissà che non ci fosse anche lei, Carmela, con quel suo viso pulito, sereno, pieno di sogni, dilaniati e dissanguati dal fendente di chi, per spiegare l’accaduto, dice: «Ho perso la testa». Non avevo dubbi. Ma il punto è che quella testa non c’è mai stata. Non è stata persa. Piuttosto nessuno ti ha aiutato a entrarci dentro. La violenza è dentro ciascuno di noi e in questo non siamo diversi da Samuele. Tutto le volte che l’uomo non accetta di averla in se stesso, la esteriorizza, la proietta sugli altri.
Così è sempre stato e sarà, da Caino e Abele a Samuele e Carmela. Come spiega il grande antropologo René Girard, la violenza e il capro espiatorio (la sua vittima) sono un meccanismo da cui l’uomo non può liberarsi da solo e, infatti, proprio per salvarsi dall’autodistruzione costruisce attorno alla violenza le regole del sacro (i comandamenti) e del profano (le leggi), per arginarne (non risolverne) il deflagrare. La vittima perfetta, oggi più che mai, è la donna, innalzata da photoshop a icona di perfezione irraggiungibile e quindi a oggetto da dominare. Nella storia, per tentare di liberarsi dalla violenza che ha dentro, l’uomo ha sempre cercato di distruggere il nemico inventato all’occorrenza come bersaglio, quando invece di proiettarla fuori, questa violenza dovrebbe riconoscerla dentro se stesso e guardarla con coraggio, per poterla sgretolare da dentro, grazie a quella pietas (il riconoscimento della dignità altrui e propria), sempre più debole nella nostra cultura. Come recuperare la pietas, l’empatia per l’altro?
Purtroppo l’incapacità di dare senso alla propria vita porta inevitabilmente a cercarne la soluzione nel consenso. Il consenso dello sguardo altrui. L’altro viene investito di una carica di assoluto che si spera possa redimere e salvare la propria mancanza di identità: dal grande fratello con il suo occhio senza pietà, alle relazioni (di lavoro, d’amore...) senza pietà.
Perdere il consenso dell’altro, significa perdere in qualche modo se stessi. Senza l’altro non si è più nessuno. Questo porta all’ossessione in cui lo stesso Samuele è precipitato, con sms e minacce, precedenti al suo raptus. La sorella di Carmela, Lucia, sua ex-ragazza per lui aveva una colpa senza remissione possibile: essersi portato via Samuele, non solo se stessa, interrompendo la loro relazione. Samuele, forse, si sentiva qualcuno solo grazie o a spese di quella ragazza, non voleva tornare nel nulla di prima.
La beffa blasfema dell’amore, come l’ha definito perfettamente ieri su queste colonne Mariella Gramaglia, è il potere, il controllo, il dominio. L’amore dice «per me è bello che tu esista» e accetta anche di non essere ricambiato, magari. Il potere invece dice «è bello che tu esista solo per me» e con tutti i mezzi è pronto a nutrirsi dell’altro, pur di sopravvivere, senza alcuna pietà.
Ma perché arrivare alla follia della distruzione dell’oggetto amato o dell’autodistruzione di sé? Sono storie che assomigliano alle mantidi che decapitano il partner dopo l’accoppiamento o alle falene che trovano la morte nella luce che le attira. Non siamo falene né mantidi, abbiamo l’anima, ma assomigliano a mantidi e falene quando l’anima si svuota. Dove manca il senso da dare alla propria vita, si pretende che siano le cose e le persone a determinarlo, dall’esterno, generando dipendenze e schiavitù di ogni tipo, che spesso culminano in un’overdose che distrugge o chi dipende o ciò da cui si dipende, o entrambi. È la ferrea e drammatica logica degli amori che non liberano.
Samuele ha rovinato la vita di due famiglie e la sua. Il bilancio finale non sembra razionalizzabile, ma io testardamente ho bisogno di provare a trovarne uno, per arginare il dolore della morte di una ragazza che poteva essere una mia alunna, per non ripetere gli stessi errori. Chiunque, se è stato scaricato, vorrebbe costringere l’altro a tornare (e magari userebbe la violenza fisica o psicologica, tanto fa male, se non si vergognasse di averlo anche solo pensato): il «funerale» di una storia d’amore viene rimandato tanto più quanto più quella storia d’amore dava senso ad un’esistenza personale priva di autonomia ed equilibrio.
Dico sempre ai miei studenti di «mettersi» con se stessi, prima che con un ragazzo o una ragazza, altrimenti useranno l’altro per riempire i propri buchi e non per amarlo. Sono storie d’amore con il conto alla rovescia e spesso ad esserne vittime sono proprio le ragazze (più raramente i ragazzi), disposte a passare sopra uno strattone, uno schiaffo, una minaccia, pur di non perdere quell’amore che le protegge dalle loro debolezze, con le quali invece imparare a convivere anche da sole. È una dinamica interna all’amore, quella di poter regredire a «potere», e da questa possibilità non ci libereremo mai, se non cresciamo in autonomia e in cultura. E non è facile per nessuno, a partire da chi scrive.
Vorrei dire, soprattutto ai ragazzi che leggono queste righe, che un solo episodio di violenza in una relazione è un avvertimento: peggiorerà. L’unica cosa da fare è trovare il coraggio per troncarla, subito. L’altro non sarà salvato, cambiato, dall’amore: è quasi sempre un’illusione. Chi ha compiuto una violenza una volta, lo farà di nuovo. Ho ricevuto il racconto di una ragazza che, dopo aver rischiato di morire per le percosse ricevute dal suo ragazzo, ha accettato la proposta di lui: sparisco dalla tua vita se non mi denunci. Lei per paura di subire altro male, ha detto di sì. Quel ragazzo ora è la fuori a ripetere il giochetto con la prossima vittima.
Samuele è un ragazzo come tanti. Per lo più un sacco vuoto, muscoli da mostrare su Facebook e poca anima, un vuoto riempito momentaneamente da una ragazza più piccola e matura di lui, che magari sperava di cambiarlo. Ma poi lo aveva lasciato.
Il nichilismo affama le vite di un senso impossibile da trovare, e le nutre di risentimento, da scatenare contro la vittima più debole. E in una cultura maschilista ed erotizzata come la nostra, la donna è la vittima sacrificale perfetta, per redimersi dal vuoto in cui galleggiamo. Forse possiamo stupirci se a Mr. Grey, il personaggio più amato nelle classifiche librarie nostrane, sia possibile dire tra gli applausi: «Devi sapere che appena varchi la mia soglia per essere la mia Sottomessa, io farò di te quello che voglio. Devi accettarlo e desiderarlo... Ti punirò quando mi ostacolerai. Ti addestrerò a compiacermi»?
Violenza e possesso: se questi sono gli uomini
di Sara Ventroni (l’Unità, 21.10.2012)
«Ti sto osservando, stai studiando Kant», scrive Samuele a Lucia in un sms. Siamo a Palermo. I due ragazzi da qualche tempo hanno smesso di flirtare. Lucia ha rotto con Samuele ma lui non ci sta. Allora lui la controlla, la segue, la osserva anche durante l’ora di filosofia. La minaccia con frasi cariche di presagio: «cenere sei e cenere ritornerai». Il resto è cronaca.
Leggendo i dettagli che hanno portato all’omicidio di Carmela, 17 anni, la sorella minore di Lucia che si è frapposta con il proprio corpo alla furia di Samuele, in agguato per colpire l’ex fidanzata, ci sentiamo tutti un po’ «lurker», come si dice in gergo: guardoni affamati di storie, di litigi al sangue, di tragedie.
I lurker non si manifestano, non si espongono, non intervengono ma osservano, nutrendosi della vita degli altri. Un po’ come accade nel pomeriggio televisivo italiano, quando milioni di telespettatori si appassionano alle furiose litigate tra Teresanna e Francesco a «Uomini e donne» di Maria De Filippi o negli interminabili aggiornamenti di cronaca nera del primo pomeriggio di Raidue. I criminologi studiano i moventi dai profili facebook. Analizzano gli sms e la posta elettronica. Il pubblico in sala sbotta, applaude, parteggia, si indigna poi corre a dimenticare quello che non ha capito. Gli opinionisti adducono moventi, ma non hanno opinioni sulle cause dei fatti. Da un buon ventennio abbiamo l’impressione di assistere a una grottesca messa in scena delle relazioni tra uomini e donne. Lo diciamo senza giudicare, lo diciamo sentendoci tutti parte in causa, consapevoli che a questo siamo ormai abituati, anche se questo non ci corrisponde. In prima serata i tiggì non lesinano dettagli nell’annunciare la morte sensazionale, la numero 100, di una ragazza di Palermo che ha difeso la sorella dalla furia omicida dell’ex moroso. La cosa fa notizia.
Femminicidio è una parola che pronuncia anche Salvo Sottile nel suo popolare «Quarto Grado». Fa piacere constatare che gli anchor-man si aggiornino, ma non vorremmo che l’espressione diventasse ora rubrica di palinsesto: apprendiamo che su facebook Samuele si faceva chiamare «Tigrotto» in omaggio a un peluche comprato con Lucia; guardiamo le sue foto a torso nudo, gli addominali perfetti, una leggera miopia che lo costringe agli occhiali, scaviamo nella sua storia familiare: il ragazzo è diplomato ma disoccupato. Carmela sognava di diventare medico. Aveva le media del 9. Ci concentriamo su di lei. Era una brava ragazza.
Infine torniamo su Lucia: la studentessa voleva mollare Samuele, non ne poteva più delle sue attenzioni, per questo si era rivolta ai carabinieri e loro le avevano consigliato: cambia la scheda del cellulare. Noi che siamo semplici spettatori e, all’occorrenza, improvvisati ispettori di polizia sappiamo che la misura non è sufficiente. Un giorno forse ce lo spiegherà anche Barbara D’Urso, su «Pomeriggio Cinque», che interrompere la comunicazione non significa necessariamente spezzare una nèmesi culturale che vuole il maschio padrone della femmina. Giusto una settimana fa, a Torino, c’è stato un incontro sul tema del violenza sulla donne. Non si è parlato solo di femminicidio (esito estremo che giunge quando una donna decide di interrompere una relazione) ma del fondamento di possesso, di violenza e di esclusione che interroga gli uomini, le donne e la nostra democrazia.
«L’amavo più della sua vita», è il titolo della piéce teatrale scritta per l’occasione da Cristina Comencini. Il titolo si spiega da sé. Il suggerimento che ci arriva dalla due giorni torinese è di spostare lo sguardo. Come ha fatto Riccardo Iacona, che già anni fa si fece sentire con un’installazione alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, e ora prova a fare un bilancio con il suo ultimo libro:«Se questi sono gli uomini». Nella discussione, evidentemente, va messo in conto che le donne non sono più disposte a vestire i panni delle vittime sacrificali. Lo sapeva bene Stefania Noce, giovane femminista di Se non ora quando, uccisa lo scorso 26 dicembre dall’ex fidanzato: «Le donne non appartengono a nessuno», diceva Stefania. Meditate, uomini, meditate.
L’intervista. Amedeo Quondam anticipa il suo intervento sul saggio del poeta
Il più classico dei rimedi nella ricetta di Petrarca
De remediis utriusque fortunae, un trattato sui diversi modi di affrontare sia la buona che la cattiva sorte
di Federico Pagliai (la Repubblica, 11.09.2010)
La conoscenza doveva salvarci, la conoscenza ci ha travolti come un fiume in piena. Declassata al rango di informazione, globalizzata, enfatica, tendenzialmente istantanea, ha snudato l’uomo davanti all’urto della storia. Una storia che ha la forza di sempre; l’identica cieca ineluttabilità. Perciò non sorprende che volentieri si torni ai pensatori del passato, alle loro domande fondamentali, alle poche ma solide risposte disponibili. Tanto meno sorprende il successo che - un’edizione dietro l’altra - riscuote la sezione che il Festivalfilosofia di Modena dedica alla Lezione dei classici.
Francesco Petrarca, con il suo De remediis utriusque fortunae, è uno dei grandi maestri della cultura occidentale che viene schierato quest’anno. Ad Amedeo Quondam il compito di renderlo accessibile al vasto pubblico della manifestazione. Grande esperto di cultura umanistica, Quondam dal 1978 è professore ordinario di Letteratura italiana all’università La Sapienza di Roma. è tra i fondatori dell’Associazione degli italianisti italiani, nonché suo presidente dal 2005. Tra le altre cose, è direttore del Centro interuniversitario biblioteca italiana telematica.
Ascoltarlo, nel pomeriggio di sabato 18 settembre, non sarà un’occasione da poco, vista anche la scarsa diffusione di questo testo di Petrarca. In maniera meno sintetica - dice Quondam - il titolo De remediis utriusque fortunae potremmo tradurlo con l’espressione "quali possono essere i rimedi per fronteggiare sia la buona che la cattiva sorte". Aldilà di tutte le possibili banalizzazioni e semplificazioni, di questo si tratta e non è affatto poco. Siamo davanti alla domanda fondamentale dell’uomo davanti al senso della propria esistenza.
Tra i testi di Petrarca, si tratta certamente di uno dei meno noti. Come lo ha incrociato?
«Sono arrivato al De remediis andando a ricostruire la tradizione dei moralisti e devo dire che è stata una scoperta per certi versi sconvolgente. Quando parlo di moralista, intendo non tanto un filosofo o un teologo quanto un letterato o in generale un intellettuale che riflette sulla condizione umana. Si tratta di una tradizione che normalmente viene riferita, in termini di primato, alla Francia».
E invece cosa ha scoperto?
«Ho scoperto che la paternità di questo tipo di testi, nella forma aforistica che per esempio rintracciamo in molti autori francesi o anche nello stesso Leopardi, è senza dubbio riconducibile al Petrarca. Nella forma, certamente. Ma anche nella sostanza. Nel tentativo di dare un certo tipo di risposta ai grandi dilemmi della vita».
Davanti ai colpi della sorte, quali rimedi offre Petrarca?
«La tradizione li ha spesso banalizzati, ma i suoi rimedi sono quelli di una forma del vivere fondata sulla consapevolezza, con tutte le tipiche categorie della tradizione stoica. Pur muovendosi in una prospettiva cristiana, che assegna all’uomo un destino eterno, Petrarca fa soprattutto riferimento alla lezione dei classici, prospettando un transito terreno con poche consolazioni, se non quella di un agire razionale e sempre consapevole».
Un nuovo Livio di Petrarca: il manoscritto Arch. S. Pietro C. 132 della Biblioteca Apostolica Vaticana
di Monica Berte *
Nel capitolo intitolato a Tito Livio dei Rerum memorandarum libri (1, 18, 2-3), composti dall’estate del 1343 fino all’inizio del 1345, Petrarca lamentava che solo un’esilissima parte dei 142 libri degli Ab urbe condita era giunta alla sua epoca e rammentava come si fosse messo sulle tracce della seconda decade sollecitato da re Roberto d’Angiò:
Questa sua affannosa ricerca fu vana ma l’insuccesso non comportò una diminuzione d’interesse nei confronti dell’opera che narrava le gesta e la gloria di Roma antica e si prestava a essere utilizzata sia come fonte per la sua produzione storica sia come strumento per la sua rivendicazione politica del primato dell’Urbe presso i contemporanei.
Come è noto, sono due i manoscritti contenenti gli Ab urbe condita in cui è stata riconosciuta la mano di Petrarca: Paris, Bibliothèque Nationale de France, Latin 5690 e London, British Library, Harley 2493. Il Parigino è un monumento librario che accoglie le storie di Troia e di Roma, Ditti Cretese, il compendio di Floro e la prima, la terza e la quarta decade di Livio, con un suntuoso apparato decorativo. Ne furono proprietari prima il canonico di Chartres Landolfo Colonna, esponente di una delle famiglie allora più potenti del partito romano in curia (partito, non a caso, impegnato ad affermare la supremazia culturale dell’Urbe), e poi Petrarca, che riuscì ad acquistarlo ad Avignone nel 1351 ma che - come lui stesso dichiara in una nota autografa vergata sul codice - lo possedette a lungo già in precedenza, e vi lasciò una ricca e varia messe di postille. Quanto all’Harley 2493, in un celebre articolo del 1951 Giuseppe Billanovich attribuiva a un giovanissimo Petrarca, negli anni compresi fra 1326 e il 1328-’30 in cui era a casa dei Colonna, non solo una serie di annotazioni presenti nei margini del codice ma anche ampie sezioni del testo liviano, il cui nucleo più antico (la trascrizione della terza decade) venne copiato in Italia nel XII secolo. Questo esemplare, sul quale l’araldo dell’Umanesimo avrebbe messo a frutto per la prima volta la sua acribia filologica con un’intensa attività di collazione e congettura, finì poi nelle mani di Lorenzo Valla, che ne proseguì il restauro e per primo assegnò a Petrarca il lavoro pregresso di emendazione. Tuttavia, il ruolo dell’Harleiano nella tradizione degli Ab Urbe condita è stato radicalmente ridimensionato da Michael Reeve, che ha evidenziato sul fronte ecdotico tutte le incongruenze della ricostruzione di Billanovich, e la presenza della mano di Petrarca al suo interno è stata decisamente messa in discussione da Marco Petoletti con argomenti più che convincenti sul piano paleografico e ortografico (Petoletti, Episodi della fortuna di Tito Livio nel Trecento 2019, pp. 269-294).
Se l’Harleiano andrà perciò una volta per tutte sottratto a Petrarca, d’ora in avanti gli si potrà, anzi gli si dovrà assegnare un nuovo Livio. Ho infatti identificato un altro esemplare degli Ab urbe condita che reca suoi marginali autografi. Si tratta di un manoscritto trecentesco, copiato su pergamena in Italia settentrionale, contenente il corpus completo dell’opera (in ordine inverso: terza, quarta e, in coda, prima decade), oggi conservato nel fondo dell’Archivio del Capitolo di San Pietro con segnatura C. 132 e, incredibilmente, ben noto agli studiosi sia di Livio che di Petrarca. Approdò alla Biblioteca Vaticana come lascito testamentario del cardinale Giordano Orsini, che ne entrò in possesso dopo aver assunto la porpora nel 1405: nelle quattro splendide miniature che si trovano ai ff. 2r, 65r, 107r, 193r il suo stemma cardinalizio con l’aquila ad ali spiegate è sovrapposto a quello di Francesco I da Carrara, signore di Padova dal 1350 al 1388. Il legame fra quest’ultimo e il codice è confermato dalla presenza della coppia di iniziali FF, in foglia d’oro, che solitamente accompagna il suo stemma; in ragione di ciò Billanovich ha dedotto che il Livio padovano fosse stato commissionato dal Carrarese e dunque allestito nella seconda metà del Trecento. Successivamente, invece, Giordana Mariani Canova ha anticipato fra il terzo e il quarto decennio del XIV secolo la realizzazione del corredo illustrativo, dopo averla analizzata a più riprese (Mariani Canova, La miniatura a Padova 2011, pp. 63-64). Dato, però che Francesco I diventa signore di Padova nel 1350 una datazione posteriore a questa sua nomina sembrerebbe più persuasiva, a meno di non supporre che gli stemmi siano stati aggiunti in un secondo momento.
f. 65r
L’imponente volume reca nei margini e nell’interlineo molti interventi appartenenti a lettori differenti. Fra questi un numero abbastanza consistente è da ricondurre con ogni probabilità a Petrarca per scrittura, tipologia, disposizione nella pagina. Si tratta per lo più di notabili, postille esegetiche (con pochissimi rimandi ad altri auctores) e segni d’attenzione (i suoi elegantissimi “fiorellini”), che sono tutti accostabili per grafia ai marginalia del Vat. Pal. lat. 899 con l’Historia Augusta e per mise en page al Livio parigino e che potrebbero quindi risalire agli anni del soggiorno del poeta a Padova, come la storia del manoscritto sembra peraltro suggerire. Al momento, però, non posso aggiungere niente di più sulla lettura petrarchesca di questo nuovo Livio sia perché la scoperta è recentissima sia perché la mole del testo è immensa (e occorrerà preliminarmente distinguere le diverse mani).
f. 158vf. 45v
Di certo si prospetta uno studio lungo e impegnativo che spero di portare avanti nel prossimo futuro non senza qualche timore ma, nel contempo, con grande emozione, quell’emozione che ho imparato a sentire grazie a Silvia Rizzo e che lei avrebbe ora pienamente condiviso.
* Insula europea, 24 maggio 2022 (ripresa parziale, senza immagini).