"LA PIENA DI GRAZIA"
di Giovanni Paolo II
Udienza generale Mercoledì, 8 maggio 1996 *
1. Nel racconto dell’Annunciazione, la prima parola del saluto angelico: "Rallegrati", costituisce un invito alla gioia che richiama gli oracoli dell’Antico Testamento rivolti alla "figlia di Sion". Lo abbiamo rilevato nella precedente catechesi, enucleando anche i motivi su cui tale invito si fonda: la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, la venuta del re messianico e la fecondità materna. Questi motivi trovano in Maria pieno compimento.
L’angelo Gabriele, rivolgendosi alla Vergine di Nazaret, dopo il saluto chaire, "rallegrati", la chiama kecharitoméne, "piena di grazia". Le parole del testo greco chaire e kecharitoméne presentano tra loro una profonda connessione: Maria è invitata a gioire soprattutto perché Dio l’ama e l’ha colmata di grazia in vista della divina maternità! La fede della Chiesa e l’esperienza dei santi insegnano che la grazia è fonte di gioia e che la vera gioia viene da Dio. In Maria, come nei cristiani, il dono divino genera una profonda letizia.
2. Kecharitoméne: questo termine rivolto a Maria appare come una qualifica propria della donna destinata a diventare la madre di Gesù. Lo ricorda opportunamente la Lumen gentium, quando afferma: "La Vergine di Nazaret è, per ordine di Dio, salutata dall’angelo nunziante quale "piena di grazia"" (LG 56). Il fatto che il messaggero celeste la chiami così conferisce al saluto angelico un valore più alto: è manifestazione del misterioso piano salvifico di Dio nei riguardi di Maria.
Come ho scritto nell’Enciclica Redemptoris Mater: "La pienezza di grazia indica tutta l’elargizione soprannaturale, di cui Maria beneficia in relazione al fatto che è stata scelta e destinata ad essere Madre di Cristo" (n. 9). "Piena di grazia", è il nome che Maria possiede agli occhi di Dio. L’angelo, infatti, secondo il racconto dell’evangelista Luca, lo usa ancor prima di pronunciare il nome di "Maria", ponendo così in evidenza l’aspetto prevalente che il Signore coglie nella personalità della Vergine di Nazaret.
L’espressione "piena di grazia" traduce la parola greca kecharitoméne, la quale è un participio passivo. Per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco, non si dovrebbe quindi dire semplicemente "piena di grazia", bensì "resa piena di grazia" oppure "colmata di grazia", il che indicherebbe chiaramente che si tratta di un dono fatto da Dio alla Vergine.
Il termine, nella forma di participio perfetto, accredita l’immagine di una grazia perfetta e duratura che implica pienezza. Lo stesso verbo, nel significato di "dotare di grazia", è adoperato nella Lettera agli Efesini per indicare l’abbondanza di grazia, concessa a noi dal Padre nel suo Figlio diletto (Ef 1,6). Maria la riceve come primizia della redenzione (cf. Redemptoris Mater, 10).
3. Nel caso della Vergine l’azione di Dio appare certo sorprendente. Maria non possiede alcun titolo umano per ricevere l’annuncio della venuta del Messia. Ella non è il sommo sacerdote, rappresentante ufficiale della religione ebraica, e neppure un uomo, ma una giovane donna priva d’influsso nella società del suo tempo. Per di più, è originaria di Nazaret, villaggio mai citato nell’Antico Testamento. Esso non doveva godere di buona fama, come traspare dalle parole di Natanaele riportate dal vangelo di Giovanni: "Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?" (Gv 1,46).
Il carattere straordinario e gratuito dell’intervento di Dio risulta ancora più evidente dal raffronto con il testo lucano, che riferisce la vicenda di Zaccaria. Di questi è messa infatti in evidenza la condizione sacerdotale, come pure l’esemplarità della vita che rende lui e la moglie Elisabetta modelli dei giusti dell’Antico Testamento: essi "osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore" (Lc 1,6).
L’origine di Maria, invece, non viene neppure indicata: l’espressione "della casa di Davide" (Lc 1,27) si riferisce, infatti, soltanto a Giuseppe. Non si fa cenno poi del comportamento di Maria. Con tale scelta letteraria, Luca evidenzia che in lei tutto deriva da una grazia sovrana. Quanto le è concesso non proviene da nessun titolo di merito, ma unicamente dalla libera e gratuita predilezione divina.
4. Così facendo, l’evangelista non intende certo ridimensionare l’eccelso valore personale della Santa Vergine. Vuole piuttosto presentare Maria come puro frutto della benevolenza di Dio, il quale ha preso talmente possesso di lei da renderla, secondo l’appellativo usato dall’Angelo, "piena di grazia". Proprio l’abbondanza di grazia fonda la nascosta ricchezza spirituale in Maria.
Nell’Antico Testamento Jahweh manifesta la sovrabbondanza del suo amore in molti modi e in tante circostanze. In Maria, all’alba del Nuovo Testamento, la gratuità della divina misericordia raggiunge il grado supremo. In lei la predilezione di Dio testimoniata al popolo eletto, ed in particolare agli umili e ai poveri, raggiunge il suo culmine.
Alimentata dalla Parola del Signore e dall’esperienza dei santi, la Chiesa esorta i credenti a tenere lo sguardo rivolto verso la Madre del Redentore e a sentirsi come lei amati da Dio. Li invita a condividerne l’umiltà e la povertà affinché, seguendo il suo esempio e grazie alla sua intercessione, possano perseverare nella grazia divina che santifica e trasforma i cuori.
* http://digilander.libero.it/domingo7/gp2.htm.
Vatican.va
Il 1° novembre 1950 Pio XII definì il dogma dell’Assunzione
Segno di speranza certa nel tempo della crisi
di Salvatore Perrella *
Il 1° novembre 1950, dopo accurata e lunga preparazione, a seguito di un "concilio scritto" in cui la maggioranza dei vescovi espressero il loro assenso avvalorato da milioni e milioni di firme dei fedeli, dopo plurisecolare disputa teologica, Pio XII definì come verità da credere il dogma dell’Assunzione.
A oltre sessant’anni da quell’evento dogmatico che declina una grande e permanente opera di Dio in una sua Creatura, dinanzi a grandi mutamenti sopravvenuti così distanti da quel fausto tempo - era considerato il "tempo di Maria" -, non è peregrino e irriguardoso porsi l’interrogativo: che senso ha celebrare oggi un evento di fede così lontano nel tempo quando la terra, le culture, le società, le famiglie, le finanze e le risorse degli Stati sono in profonda crisi? Senza misconoscere che tale situazione da tempo colpisce anche la cristianità, avendo ripercussioni per la stessa fede dei cristiani.
Benedetto XVI nel motu proprio Porta fidei ha infatti rilevato: "Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone" (Porta fidei, 2).
Constatazione riaffermata dallo stesso Pontefice il 22 dicembre 2011, nel discorso alla Curia romana: "Il nocciolo della crisi della Chiesa [...] è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme [e rimedi] rimarranno inefficaci".
La crisi del nostro mondo è sotto gli occhi di tutti. Preoccupa molto "l’imperversare della "finanza Frankenstein" che è alla radice della crisi più grave e globale di tutte", precarietà, ansia e insicurezza motivate innanzitutto da "un "riduzionismo antropologico" per il quale si ritiene che ogni uomo, nel suo agire, sia mosso unicamente da un autointeresse miope che non tiene in alcun conto la motivazione della "simpatia" come passione per l’altro".
Allo stesso tempo deve preoccupare la crisi della fiducia e della speranza in Dio. Indubbia miopia antropologica e teologica che motiva il perdurare della crisi di fede di molte persone che non avvertono come dovrebbero la passione e la convinta adesione al Dio di Gesù, lasciandosi inaridire dalla fluidità, dalla transitorietà e dalla vulnerabilità di tutto (o quasi tutto) ciò che conta nella vita terrena, uccidendo così la speranza nell’Altro e in ciò che il suo futuro non effimero sa offrire.
Vi sono anche credenti stanchi, sfiduciati e depressi che hanno bisogno come Elia del "pane" del sostegno e della presenza amorosa di Dio nel momento della prova. È allora urgente per la Chiesa convincere e contagiare l’umanità credente con l’ottimismo realista del Vangelo.
Il cristianesimo non si può arrendere allo sconforto e al buio pessimismo venienti dalla policrisi contemporanea; né può accettare la tristezza e disincanto dell’uomo chiuso in se stesso, come anche non deve lasciarsi irretire da tentativi errati di "spiritualizzare" qualsivoglia povertà materiale. La fede adulta non esime dalla crudezza della storia e della vita, per cui risultano calzanti le parole di don Primo Mazzolari che nel 1934 annotava: "Occuparsi religiosamente della crisi vuol dire saper occuparsi e valutare tutte le influenze che nella pratica della religione può avere un disagio materiale". E aggiungeva: "Provate ad aver fame e poi ditemi se avete voglia di pregare". Parole sagge e vere che noi credenti dobbiamo tenere in debito conto. La Provvidenza divina, inoltre, non consiste in un assistenzialismo celeste che disabitua a renderci noi stessi suoi cooperatori.
Gesù dinanzi ai tanti bisogni dell’umanità invita a chiedere quotidianamente a Dio Padre il "pane quotidiano" indispensabile per andare avanti. Egli sfamò molta gente che lo seguiva raccomandando altresì a non sprecare quanto ricevuto in dono.
Riandando alla continuazione del brano giovanneo (cfr. Giovanni, 6, 22-34), Benedetto XVI nell’Angelus del 5 agosto 2012 ha asserito che Cristo col suo gesto e col suo ammonimento "vuole aiutare la gente ad andare oltre la soddisfazione immediata delle proprie necessità materiali, pur importanti. Vuole aprire ad un orizzonte dell’esistenza che non è semplicemente quello delle preoccupazioni quotidiane [...]. Gesù parla di un cibo che non perisce, che è importante cercare e accogliere [...]. La folla non comprende, crede che Gesù chieda l’osservanza di precetti per poter ottenere la continuazione di quel miracolo, e chiede: "Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?". La risposta di Gesù è chiara: "Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato"".
Sant’Ireneo († 208) dice che il Figlio e lo Spirito sono le due "mani" con le quali il Padre ci tocca e ci modella a sua immagine; il Verbo e il Pneuma sono stati inviati dal Padre nel mondo come i suoi diaconi volti a rendere visibile la sua provvidente e salvifica carità. Maria, grazie a queste due "Mani" del Padre, è stata messa in grado di cogliere e di esperire nella sua persona, nel suo servizio, nella sua destinazione finale, la concretezza della carità senza limiti di Dio. Concretezza che l’ha resa santa e immacolata nell’amore sin dagli inizi, intrepida e forte nella sua diaconia messianica e storica, credibile ed esemplare nella sua ecclesialità, segno luminoso della bellezza della comunione dei Santi. Maria assunta è l’esempio più perfetto di un’antropologia cristiana pienamente realizzata; in lei donna concreta e di fede si ha la realizzazione della meta finale della Chiesa pellegrinante tra le crisi del mondo e le consolazioni di Dio.
La Glorificata non è solo oggetto di contemplazione ma anche orizzonte di azione. L’assunzione di Maria diventa soprattutto in questo momento la risposta alla domanda di senso e il superamento ai vari smarrimenti venienti dalle varie crisi della vita.
* L’Osservatore Romano 13-14 agosto 2012
ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E ICONOLOGIA...
DEMETRA (ELEUSI2023). Quale rapporto tra la tradizione della dea eleusina Demetra (la Terra-Madre) e l’iconografia della tradizione cristiana della Madonna Eleusa ("colei che mostra tenerezza o che mostra misericordia")?
In omaggio ad Eleusi, capitale della cultura europea 2023, per la filologia e per l’antropologia culturale non è forse un buona occasione per dissodare la terra della storiografia esitente e rimettere la filologia al servizio delle nazioni (e non dei nazionalismi)? Se non ora, quando?
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A) DEMETRA: "Demetra (in greco antico: Δημήτηρ, Dēmḕtēr) è una divinità della religione greca, figlia di Crono e Rea, che presiedeva la natura, i raccolti e le messi.[1] Associata all’agricoltura, alle stagioni e alla legge sacra, lei e la figlia Persefone sono inoltre intimamente connesse con la religione misterica, e in particolare con i misteri eleusini. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Demetra)
B) ELEUSI: "[...] Nel 2021 è stata scelta per essere capitale europea della cultura, insieme a Timișoara e Novi Sad; a seguito della pandemia di COVID-19 si è deciso di modificare il calendario delle capitali europee della cultura, per cui Eleusi deterrà il titolo nel 2023 insieme a Timișoara e Veszprém. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Eleusi).
C) ELEUSA: "La Madonna Eleusa, o anche semplicemente Eleusa (dal greco bizantino Ἐλεούσα, colei che mostra tenerezza o che mostra misericordia), è un tipo di iconografia cristiana diffusa inizialmente nell’arte bizantina e poi in tutti i paesi europei del periodo medioevale. L’iconografia è costituita dalla Madonna col Bambino Gesù in braccio, e con la propria guancia appoggiata a quella del figlio. Nella classificazione data dagli iconologi moderni, l’Eleusa è una delle sei tipologie fondamentali di icona mariana assieme a Odigitria, Aghiosoritissa, Blachernitissa, Basilissa e Galactotrofusa [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Eleusa).
Maria “faccendiera del Paradiso” per una Chiesa sinodale
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
di PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO (La Stampa, 06 Dicembre 2022)
Nel giorno dell’Immacolata prendiamo spunto dal bel contributo del compianto padre Stefano De Fiores, «L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965)», dove si racconta Maria nelle pieghe della storia. La scoperta dell’America aveva spinto gli sguardi sulle terre emerse oltre i confini convenzionali. Durante il periodo barocco, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, grazie a Galileo l’universo diventa più grande. Gli orizzonti si dilatano. Tutto acquisisce termini superlativi, anche nell’arte e nella spiritualità. Nel mondo cattolico Maria è qualificata con aggettivi che le attribuiscono una esaltazione spettacolare: trionfo, regalità, eminenza, e soprattutto privilegio. Sembra un’eresia chiamarla «sorella» e «serva» come fanno i carmelitani, avversati da autori come De Bérulle e Bellarmino che ritengono che la Madre di Dio superi in dignità e grazia tutte le creature in un ordine a parte tra Cristo e la Chiesa, fra il cielo e la terra. De Convelt la pone al di sopra dei Serafini, il cui amore «paragonato all’amore della Vergine non è amore infiammato, ma appare cenere e fuoco spento». C’è chi la chiama «un Dio creato; un finito infinito; un’onnipotente debolezza... Dio increaturito o creatura deificata». È il famoso padre Mostro, il domenicano Niccolò Riccardi, chiamato così per l’eccezionale obesità o per la grande eloquenza o forse per l’incredibile memoria. Viene ripresa la dottrina di San Bernardo sulla mediazione universale delle grazie da parte di Maria, in quanto «Cristo consegna a sua madre ogni grazia da distribuire agli altri».
Le immagini mariane acquistano un valore determinante. I gesuiti se ne fanno promotori. Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, in una famosa sentenza, paragona le immagini alle spezie di un pasto, ovvero ciò che può stimolare il gusto. L’icona da lui preferita è quella presente nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, la Madonna Salus Populi Romani, che si riteneva dipinta da san Luca. Le sue accorate omelie mariane ottengono da Pio V il permesso di eseguirne una copia con uno stile leggermente diverso, sotto la supervisione di San Carlo Borromeo. Da quella poi ne vengono dipinte tante altre e inviate nei luoghi di missione, dal Brasile alla Persia.
Il trionfo di Maria non è oscurato dalla dea ragione nel secolo dei lumi. Lodovico Antonio Muratori, prete modenese, storico e letterato, invita a purificare, con buone intenzioni, le forme religiose popolari dalla superstizione pagana, e a far comprendere che non si possono mettere in competizione le varie immagini della Madonna, e che bisogna avere più fiducia nella messa che negli scapolari e nelle medaglie. Il suo sforzo non è accolto perché non nasce dalla coscienza comunitaria, ma dal mondo accademico.
Proprio durante l’Illuminismo si consolida la devozione del mese mariano, adottata immediatamente dal popolo perché legata al ciclo delle stagioni. Al primo trattato di mariologia risalente a Placido Nigido all’inizio del seicento, ne seguono ora altri: tra i più importanti quello di San Luigi Grignon de Monfort e quello di Sant’Alfonso Maria de Liguori. Per Monfort, Maria è lo «stampo di Dio, forma Dei», una madre viva e dinamica nella storia. La Vergine si trova nella categoria teologica della «relazione». Per lui è cristocentrica, e invita a correggere le espressioni tipiche del tempo: è meglio dire di essere «schiavi di Gesù attraverso Maria o in Maria», più che «schiavi di Maria». Sant’Alfonso sviluppa la teologia narrativa e orante, valorizzando il sensus fidelium per l’Immacolata Concezione. Maria «è la faccendiera del Paradiso, che continuamente sta in faccende di misericordia impetrando grazie a tutti, ai giusti e peccatori».
L’ancien régime, per sostenere la «restaurazione», rifiuta gli ideali rivoluzionari, specialmente la libertà e l’uguaglianza e ripropone le prerogative aristocratiche. Utilizza la figura di Maria. Il suo splendore mette in risalto la sua condizione eccezionale e i suoi privilegi. Ma Maria appartiene sempre al popolo, è il suo tesoro. Pio IX l’8 dicembre del 1854 definisce il dogma dell’Immacolata non tanto in favore dei privilegi aristocratici, ma piuttosto in sintonia con il sensus fidelium.
L’Italia barocca esalta Maria, la Francia dei lumi non riesce a offuscarla né la restaurazione a strumentalizzarla. L’Inghilterra romantica dipana il travaglio mariologico tra una devozione sana e una artificiale, grazie agli studi storici e patristici di San John Henry Newman, che attraverso il suo metodo peculiare si avvicina al sentire autentico della fede del popolo di Dio maturata nel tempo: «nella devozione cristiana si sono aperte due grandi correnti lungo i secoli: una centrata sul Figlio di Maria, l’altra sulla Madre di Gesù... non è necessario che l’una oscuri l’altra». Il popolo di Dio non ha mai visto Maria rivale, ma ministra del suo Figlio. Più ami Maria più ami Gesù.
Con il Concilio Vaticano II si pone fine a tutti gli iconoclasti e i mariolatri che falsano la figura della Madre di Dio. La mariologia è inserita nel cuore dell’ecclesiologia, esaltando il nesso tra la beata Vergine e il mistero della Chiesa. Lumen Gentium 53, in chiave antropologica, dichiara di lei che è la più vicina agli uomini perché è la più vicina a Dio, a Gesù Cristo: «Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo... quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza». L’unicità di Maria non la separa da noi. La sua eminenza è compresa come compenetrazione con il Figlio divino, e servizio nella missione agli altri.
Papa Francesco non nasconde il suo amore per Maria. È bello vederlo pregare davanti alla Salus populi romani, prima di partire e al ritorno dai suoi viaggi, per invocare il suo aiuto, affidarsi a lei e ringraziarla. L’identità sinodale della Chiesa richiede una riflessione teologica e antropologica sul ruolo della Madre di Dio. La sua presenza nelle comunità non soltanto ci invita a custodire, ma anche a continuare il cammino attraverso nuovi «cantieri». Ella è il modello di apertura, l’aurora che ci stimola alla «ri-recezione» della fede nel cambio epocale, «la faccendiera» che dal Paradiso ci aiuta a non aver timore di attualizzare e rendere più autentico il modo di vivere il Vangelo al servizio dell’umanità sofferente, per il Regno di Dio.
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO *
Basilica di San Pietro
Sabato, 1° gennaio 2021
I pastori trovano «Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (Lc 2,16). La mangiatoia è segno gioioso per i pastori: è la conferma di quanto avevano appreso dall’angelo (cfr v. 12), è il luogo dove trovano il Salvatore. Ed è anche la prova che Dio è accanto a loro: nasce in una mangiatoia, oggetto a loro ben noto, dimostrando così di essere vicino e familiare. Ma la mangiatoia è segno gioioso anche per noi: Gesù ci tocca il cuore nascendo piccolo e povero, ci infonde amore anziché timore. La mangiatoia ci anticipa che si farà cibo per noi. E la sua povertà è una bella notizia per tutti, specialmente per chi è ai margini, per i rifiutati, per chi al mondo non conta. Dio viene lì: nessuna corsia preferenziale, nemmeno una culla! Ecco la bellezza di vederlo adagiato in una mangiatoia.
Ma per Maria, la Santa Madre di Dio, non è stato così. Lei ha dovuto sostenere “lo scandalo della mangiatoia”. Anche lei, ben prima dei pastori, aveva ricevuto l’annuncio di un angelo, che le aveva detto parole solenni, parlandole del trono di Davide: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,31-32). E ora lo deve deporre in una mangiatoia per animali. Come tenere insieme il trono del re e la povera mangiatoia? Come conciliare la gloria dell’Altissimo e la miseria di una stalla? Pensiamo al disagio della Madre di Dio. Che cosa c’è di più duro per una madre che vedere il proprio figlio soffrire la miseria? C’è da sentirsi sconfortati. Non si potrebbe rimproverare Maria se si fosse lamentata di tutta quella inattesa desolazione. Ma lei non si perde d’animo. Non si sfoga, ma sta in silenzio. Sceglie una parte diversa rispetto alla lamentela: «Maria, da parte sua, - dice il Vangelo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19).
È un modo di fare diverso da quello dei pastori e della gente. Loro raccontano a tutti ciò che hanno visto: l’angelo apparso nel cuore della notte, le sue parole intorno al Bambino. E la gente, all’udire queste cose, è presa da stupore (cfr v. 18): parole e meraviglia. Maria, invece, appare pensosa. Custodisce e medita nel cuore. Sono due atteggiamenti diversi che possiamo riscontrare anche in noi. Il racconto e lo stupore dei pastori ricorda la condizione degli inizi nella fede. Lì è tutto facile e lineare, si è rallegrati dalla novità di Dio che entra nella vita, portando in ogni aspetto un clima di meraviglia. Mentre l’atteggiamento meditante di Maria è l’espressione di una fede matura, adulta, non degli inizi. Di una fede che non è appena nata, di una fede che è diventata generativa. Perché la fecondità spirituale passa attraverso la prova. Dalla quiete di Nazaret e dalle trionfanti promesse ricevute dall’angelo - il suo inizio - Maria si trova ora nella buia stalla di Betlemme. Ma è lì che dona Dio al mondo. E mentre altri, di fronte allo scandalo della mangiatoia, sarebbero stati presi dallo sconforto, lei no: custodisce meditando.
Impariamo dalla Madre di Dio questo atteggiamento: custodire meditando. Perché anche a noi capita di dover sostenere certi “scandali della mangiatoia”. Ci auguriamo che tutto vada bene e poi arriva, come un fulmine a ciel sereno, un problema inaspettato. E si crea un urto doloroso tra le attese e la realtà. Capita anche nella fede, quando la gioia del Vangelo viene messa alla prova da una situazione dura in cui ci si trova a camminare. Ma oggi la Madre di Dio ci insegna a trarre beneficio da questo urto. Ci mostra che è necessario, che è la via stretta per arrivare alla meta, la croce senza la quale non si risorge. È come un parto doloroso, che dà vita a una fede più matura.
Mi domando, fratelli e sorelle, come compiere questo passaggio, come superare l’urto tra l’ideale e il reale? Facendo, appunto, come Maria: custodendo e meditando. Anzitutto Maria custodisce, cioè non disperde. Non respinge ciò che accade. Conserva nel cuore ogni cosa, tutto ciò che ha visto e sentito. Le cose belle, come quello che le aveva detto l’angelo e ciò che le avevano raccontato i pastori. Ma anche le cose difficili da accettare: il pericolo corso per essere rimasta incinta prima del matrimonio, ora l’angustia desolante della stalla dove ha partorito. Ecco che cosa fa Maria: non seleziona, ma custodisce. Accoglie la realtà come viene, non tenta di camuffare, di truccare la vita, custodisce nel cuore.
E poi c’è il secondo atteggiamento. Come custodisce Maria? Custodisce meditando. Il verbo impiegato dal Vangelo evoca l’intreccio tra le cose: Maria mette a confronto esperienze diverse, trovando i fili nascosti che le legano. Nel suo cuore, nella sua preghiera compie questa operazione straordinaria: lega le cose belle e quelle brutte; non le tiene separate, ma le unisce. E per questo Maria è la Madre della cattolicità. Possiamo, forzando il linguaggio, dire che per questo Maria è cattolica, perché unisce, non separa. E così afferra il senso pieno, la prospettiva di Dio. Nel suo cuore di madre comprende che la gloria dell’Altissimo passa dall’umiltà; accoglie il disegno della salvezza, per il quale Dio si doveva posare su una mangiatoia. Vede il Bambino divino fragile e tremante, e accoglie il meraviglioso intreccio divino tra grandezza e piccolezza. Così custodisce Maria, meditando.
Questo sguardo inclusivo, che supera le tensioni custodendo e meditando nel cuore, è lo sguardo delle madri, che nelle tensioni non separano, le custodiscono e così cresce la vita. È lo sguardo con il quale tante madri abbracciano le situazioni dei figli. È uno sguardo concreto, che non si fa prendere dallo sconforto, che non si paralizza davanti ai problemi, ma li colloca in un orizzonte più ampio. E Maria va così, fino al calvario, meditando e custodendo, custodisce e medita. Vengono in mente i volti delle madri che assistono un figlio malato o in difficoltà. Quanto amore c’è nei loro occhi, che mentre piangono sanno infondere motivi per sperare! Il loro è uno sguardo consapevole, senza illusioni, eppure al di là del dolore e dei problemi offre una prospettiva più ampia, quella della cura, dell’amore che rigenera speranza. Questo fanno le madri: sanno superare ostacoli e conflitti, sanno infondere pace. Così riescono a trasformare le avversità in opportunità di rinascita e in opportunità di crescita. Lo fanno perché sanno custodire. Le madri sanno custodire, sanno tenere insieme i fili della vita, tutti. C’è bisogno di gente in grado di tessere fili di comunione, che contrastino i troppi fili spinati delle divisioni. E questo le madri sanno farlo.
Il nuovo anno inizia nel segno della Santa Madre di Dio, nel segno della Madre. Lo sguardo materno è la via per rinascere e crescere. Le madri, le donne guardano il mondo non per sfruttarlo, ma perché abbia vita: guardando con il cuore, riescono a tenere insieme i sogni e la concretezza, evitando le derive del pragmatismo asettico e dell’astrattezza. E la Chiesa è madre, è madre così, la Chiesa è donna, è donna così. Per questo non possiamo trovare il posto della donna nella Chiesa senza rispecchiarla in questo cuore di donna-madre. Questo è il posto della donna nella Chiesa, il gran posto, dal quale derivano altri più concreti, più secondari. Ma la Chiesa è madre, la Chiesa è donna. E mentre le madri donano la vita e le donne custodiscono il mondo, diamoci da fare tutti per promuovere le madri e proteggere le donne. Quanta violenza c’è nei confronti delle donne! Basta! Ferire una donna è oltraggiare Dio, che da una donna ha preso l’umanità, non da un angelo, non direttamente: da una donna. Come da una donna, la Chiesa donna, prende l’umanità dei figli.
All’inizio del nuovo anno mettiamoci sotto la protezione di questa donna, la Santa Madre di Dio che è nostra madre. Ci aiuti a custodire e meditare ogni cosa, senza temere le prove, nella gioiosa certezza che il Signore è fedele e sa trasformare le croci in risurrezioni. Anche oggi invochiamola come fece il Popolo di Dio a Efeso. Ci mettiamo tutti in piedi, guardiamo la Madonna, e come fece il popolo di Dio a Efeso, ripetiamo tre volte il suo titolo di Madre di Dio. Tutti insieme: “Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!”. Amen.
* Fonte: Vatican.va
IL SI’ DELLA «MEDIAZIONE MATERNA» (e .. quello della «mediazione paterna»?) , LA GLORIFICAZIONE DI MARIA (e... di Giuseppe?), E IL "SOGGETTIVO ATTIVO DELL’ASSUNZIONE"?
La Gloriosa
Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria
di Michele Giulio Masciarelli *
Il rapporto di Maria con la Trinità è continuo; tutti gli aspetti della sua esistenza appartengono a quel mistero: l’ideazione della sua singolare vocazione, la sua concezione immacolata, la sua perpetua condizione verginale, la sua divina maternità, la sua compagnia materna data al Figlio in ogni passaggio della sua missione messianica, la sua maternità ecclesiale. È certamente vero che nessuna creatura ha avuto né avrà tanta relazione con la Trinità. Ciascuna delle tre divine Persone ha posto sull’esistenza di Maria, in modo proprio, l’impronta della sua somiglianza.
Il Padre, come è all’origine di tutta l’opera salvifica, è anche all’inizio dell’avventura di grazia vissuta da Maria come madre messianica: la grazia di Maria viene dal Padre e porta al Padre, che la glorifica chiamandola vicino al Figlio che siede alla sua destra. Maria è stata assunta: non si è auto-elevata in cielo; non è ascesa al cielo per forza propria. Occorre perciò indicare il soggetto attivo dell’Assunzione, per comprendere e spiegare, nella fede, tale privilegio mariano. Quel soggetto attivo è il Padre. È lui che ha chiamato e portato in cielo la madre del Figlio.
Maria, con l’Assunzione, rivive in modo inverso, la grazia e la gioia dell’incarnazione; lei, per così dire, esperimenta un nuovo rapporto con Gesù, quasi una restituzione dell’amore che egli le riserba accogliendola in Cielo: «Così com’ella l’ha accolto nell’ambito delle cose umane, allo stesso modo egli ora la fa entrare nella sua vita divina ed eterna. Entrambi gli atti sono in sé completi ed includono globalmente l’uomo, l’anima e il corpo. [...] È un ciclo anche quello tra la Madre e il Figlio, in quanto come una volta la Madre ha pronunciato un sì nei riguardi del Figlio e di tutto ciò che lo riguarda, allo stesso modo è il Figlio che oggi pronuncia un grande sì verso la Madre» (A. von Speyr, L’ancella del Signore. Maria, Milano, Jaca Book, 1986, p. 145).
La glorificazione di Maria con l’Assunzione al cielo è, con ogni evidenza, tema immediatamente mariano, ma fondamentalmente essa è tema teologico, nel senso che è una delle iniziative del Padre su Maria. La Vergine riceve la grazia dell’Assunzione, come aveva ricevuto quelle dell’Immacolata concezione, dell’annunciazione, della maternità divina. Tenendo conto questo grande aspetto del mistero cristiano (l’attività di Dio e la passività della creatura), è proprio il caso di dire che il cosiddetto “autogiudizio”, su cui tanto s’insiste in questi anni, non si dà nel senso più serio in cui si deve dire dell’ultimo giudizio di Gesù sui singoli uomini e sulla storia. Il giudizio ultimo è l’estremo atto salvifico che Gesù, quale fratello necessario, porrà come Redemptor hominis e come Salvator mundi. In quanto iniziativa del Padre, l’Assunzione conferma in modo chiaro che nel cristianesimo non esiste l’auto-redenzione e, perciò, neppure l’auto-giudizio e l’auto-glorificazione. Maria non si è auto-redenta (è il senso dell’Immacolata concezione); perciò non si è neppure auto-glorificata (è il senso dell’Assunzione). Gesù salva lei e i suoi tre popoli: il popolo di Adamo di cui è la figlia migliore; il popolo d’Israele, di cui è il “resto santo”; il popolo della Chiesa, di cui è il beato inizio.
Fede escatologica e mariana
C’è una dimensione mariana nella vittoria redentiva di Cristo ottenuta nell’evento passato della Pasqua, che determina l’intero futuro? e se c’è, dov’è? Maria, profetizzata come uno dei soggetti della lotta contro Satana (cfr. Gn 3, 15), quale nuova Eva partecipa a tale lotta con la presenza attiva sotto la Croce.
I rapporti Adamo-Eva e Cristo-nuova Eva non possono non essere compresi nel contesto dell’evento staurologico: la Croce è il nuovo “albero della vita” sul quale (Cristo) e intorno al quale (Maria) ricomincia la storia della salvezza nel segno della fedeltà e dell’ubbidienza.
Maria, con il Sì della «mediazione materna», come san Giovanni Paolo II s’esprime nella terza parte della Redemptoris Mater, ha partecipato a escatologizzare la storia, prima permettendo l’ingresso in essa del Salvatore come causa escatologica, poi ha continuato la collaborazione all’opera messianica del Figlio, permanendo al fianco di lui fino all’apice della lotta messianica, ossia fin nel cuore del mistero dell’ora pasquale. La nostra fede escatologica è dunque anche mariana perché riguarda un futuro, la cui causa è stata posta in un passato (incarnazione e croce) nel quale Maria ha preso parte in modo attivo ed essenziale. Questo - non stupisca - esige anche che perfino la “teologia della storia” si connoti in modo mariano.
La partecipazione di Maria alla strutturazione della storia della salvezza, ossia alla sua escatologizzazione, è stata così profonda ed essenziale che la sua esistenza può essere considerata una «microstoria della salvezza» (S. De Fiores): essa ha infatti sintetizzato l’intero progetto di grazia che il Dio trinitario ha disegnato e realizzato per la famiglia umana. Nella sua esistenza si inverano, in modo essenziale e nuovo, i maggiori passaggi della storia di grazia: «Per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede» (Lumen gentium, n. 65). In particolare, nel suo mistero sfocia l’evento dei nostri primordi (è la “nuova Eva”); si concentra il mistero del primo Israele (è la “Figlia di Sion”); ha principio il mistero del secondo Israele (è la “Chiesa nascente”).
La connessione del mistero mariano col mysterium salutis è tale che l’esistenza della Vergine-Madre è segno di tutti i misteri cristiani: del mistero trinitario (per essere figlia eletta del Padre, madre santa del Figlio, sposa amorosa dello Spirito); del mistero dell’incarnazione (per la sua maternità divina); del mistero pasquale-pentecostale (per il suo essere stata “socia del Salvatore” sotto la croce e compagna degli apostoli nel cenacolo); del mistero della Chiesa (per essere sua madre e suo modello); del mistero della fine (per essere assunta nella gloria trinitaria ed essere glorificata come regina, divenendo in pienezza “La Gloriosa”).
La salvezza completa
Con la sua Assunzione Maria anzitutto ci presenta il cristianesimo come religione del futuro assoluto. Parla anche all’uomo contemporaneo, quasi ammonendolo, perché questi consuma la sua esistenza nel quotidiano e pone le sue scelte nella breve terra dell’oggi, senza pretendere che esse debbano scaturire da lontano (assenza della tradizione) o debbano portare lontano (assenza dell’apertura al futuro ultimo), restando così irretito nelle forre del presentismo.
D’altra parte, il presentismo non è il tempo buono per l’uomo del nostro “tempo debole”, né la storia, nel suo insieme, è adeguata risposta al radicalismo della tensione al futuro che è dentro il suo cuore: «L’istinto del cuore - afferma la Gaudium et spes - lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea [...] di un annientamento definitivo della sua persona» (n. 18). Perciò dice bene il filosofo Michele Federico Sciacca, quando afferma, con amabile ironia: «Io con la storia mi accendo la pipa» (Come si vince a Waterloo, Milano 1965, p. 12).
Purtroppo, l’uomo contemporaneo sembra farsi bastare quanto entra nelle strette stive di una “nave“ che solca un mare senza orizzonti lunghi. Al cristianesimo ciò non basta: l’Assunzione di Maria ricorda quanto esso pensa sul destino ultimo dell’uomo, che è chiamato a realizzarsi in pienezza e per sempre. È questo il senso della “gloria”, parola che Hans Urs von Balthasar ha genialmente scelto per dire tutto il cristianesimo nella sua monumentale teologia.
È un fatto che molti uomini d’oggi, come denunciava Benedetto XVI, sono scivolati dentro l’anello nero e soffocante del nichilismo, che è filosofia debole, ma che ha certamente la forza di stringere al collo la «bambina speranza», di cui parlava Péguy, e di soffocarla. Dinanzi al labirinto nichilistico che smarrisce l’uomo di oggi disarcionandolo dalle “grandi narrazioni”, inchiodandolo al solo presente, convincendolo che gli possano bastare i futuri brevi, allevandolo soprattutto alla malsana idea di una vita senza “giudizio ultimo”, il cristianesimo, preoccupato, s’impegna ad aiutare l’uomo della post-modernità a uscirne per evitare che finisca nelle fauci della tigre cinica.
Maria è imitabile sempre, lo è anche la sua Assunzione. Ma che cosa significa, oggi, essere «assunti» a imitazione di Maria? È presto detto: significa elevare, in un vortice aspirante di grazia, le nostre persone, le nostre «opere» e i nostri «giorni», la nostra vita cristiana ed ecclesiale, la nostra missione, la nostra animazione evangelica delle realtà temporali.
Dinanzi a Maria assunta in cielo il grido dei pellegrini verso la Patria trinitaria dev’essere più acuto e più radicale: l’intero tuo spirito diventi nostro. Il cristianesimo, anche con l’ostensione dell’“icona della Gloriosa”, dinanzi a un uomo, quello contemporaneo, che ama raccontarsi come un essere senza radici e senza promesse, invita a non aver paura del futuro, ma a riassumerlo con fiducia e serietà, a interrogarlo con radicale rigore.
Sfida alla gioia
C’è una vena di tristezza che connota la nostra ora storica, ed è così profonda da non poter essere nascosta dal frastuono del suo vitalismo. L’epoca contemporanea, nonostante tutto, è triste. La sua è una tristezza che ne segna vistosamente il volto fino a contraddistinguerla. La nostra epoca, fra l’altro, sarà ricordata come un tempo che ha conosciuto la tentazione della disperazione. C’è stato nell’Occidente del Novecento, il terribile “secolo breve”, una venatura amara nella vita privata, nella vita sociale e politica, e perfino nella cultura: Baudelaire, Mallarmé, Camus, Gide, Bernanos, Pavese, Tomasi di Lampedusa sono solo alcuni nomi di quel filone nerastro della sua letteratura che tinge di tristezza il frontespizio del tempio della cultura contemporanea.
Senza dire delle correnti malinconiche, tristi, disperanti della filosofia contemporanea, che in tanta parte è filosofia nichilista o comunque della crisi della ragione e dei comuni valori. Tristissimo, poi, è lo scenario se guardiamo all’ambito socio-politico su scala planetaria: sono vistosi i segni di tristezza causati dalla fame e dalla guerra sul volto dei popoli, specie su quello dei cosiddetti “popoli ultimi”, e dal terrorismo che rattrista e getta nel panico tutti con i suoi progetti di violenza e di morte.
C’è oggi una «difficoltà a dir di sì», affermava anni fa Johann Baptist Metz. Si constata una marcata indisponibilità alla gioia e, ciononostante, le ostentazioni vitalistiche del nostro tempo, e nonostante le grandi vittorie che l’uomo d’oggi indubbiamente si è date in campo scientifico e tecnologico. Paradossalmente, tanta parte della tristezza patita dall’uomo di oggi dipende proprio da quelle presunte e improprie “vittorie”: basti il solo cenno al guasto ecologico per intenderci.
La Chiesa osserva ed è preoccupata. Essa sa che nel lungo elenco dei «prodotti» dell’Homo faber d’oggi non si trova la gioia. Si constata anche una tacita confessione di debolezza e d’impotenza da parte di una civiltà che pure mostra di poter tanto; basti pensare all’incapacità di questa a fronteggiare serenamente la morte, intorno a cui non sa fare altro che organizzare una specie di congiura del silenzio. Scriveva Paolo VI: «La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale» (Esort. ap. Gaudete in Domino [9.5.1975], i).
Ora, di fronte a questa profonda e vasta tristezza che permea dei suoi neri umori un’intera epoca, la Chiesa sente di dover reagire: presenta, anzitutto dinanzi ai suoi occhi, ma anche in faccia al mondo, un segno di speranza, ed è Maria Assunta (cfr. Lumen gentium, n. 68): «La solennità del 15 agosto celebra la gloriosa Assunzione di Maria al cielo: è, questa, la festa del suo destino di pienezza e di beatitudine, della glorificazione della sua anima immacolata e del suo corpo verginale, della sua perfetta configurazione a Cristo risorto; una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: ché tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli» (Paolo VI, Esort. ap. Marialis cultus, [2.2.1974], n. 6).
Nella vita della Chiesa
La presenza di Maria nella Chiesa non proviene solo dal passato (come se vi fosse solo ben ricordata), ma proviene anche dal futuro: l’attende nella gloria e realizza in essa una misteriosa presenza soprattutto come sua permanente madre. Maria, donna di futuro, è presente nella Chiesa da sempre, perché ne fa parte in modo costitutivo: senza di lei la Chiesa sarebbe una comunità religiosa senza prototipo e senza modello ispirativo, sarebbe un popolo pellegrino senza il segno di sicura speranza dinanzi ai suoi occhi, sarebbe una famiglia senza madre, ma non al modo di una famiglia restata senza madre (cosa che è possibile), ma al modo di una famiglia che non avrebbe avuto mai la madre (cosa che non riusciamo a concepire).
La Chiesa senza Maria dovrebbe spiegare diversamente le sue origini (è stata la Chiesa nascente), dovrebbe spiegare diversamente l’ingresso nel mondo del suo fondatore (Cristo è nato da donna: cfr. Gal 4, 4), dovrebbe spiegare diversamente la sua attuale unione con Cristo che rende salvifico il suo agire (è sacramento in Cristo, la cui sacramentalità è legata all’incarnazione del Verbo avvenuta nel seno della Vergine Madre).
Glorificazione regale
L’Assunzione non è l’ultimo mistero di Maria, che è già la sua glorificazione, ma ad essa segue un’altra forma di glorificazione, quella regale. Come si sa, Pio XII al termine dell’Anno mariano del 1954, dedicato al centenario alla definizione dommatica sull’Immacolata, l’11 ottobre pubblica l’enciclica Ad coeli reginam. In essa Papa Pacelli portava le motivazioni della nuova festa liturgica di Maria regina, fissandola a conclusione del mese di maggio, legandola perciò alla pietà popolare. Invece, nel riformato Calendario romano del 1969 la festa della regalità della Vergine viene spostata al 22 agosto, all’ottava dell’Assunta. In tal modo si fa una scelta teologica molto saggia e intelligente: infatti, è evidenziato il legame misterico che esiste fra Assunzione e glorificazione regale di Maria.
Questo legame è mostrato e reso esplicito dalla liturgia del 15 agosto, quando nell’antifona del Magnificat di quel giorno, così si canta: «Rallegratevi, perché Maria è salita nei cieli: / con Cristo regna per sempre». La “logica dei misteri” è evidente: il “salire in Cielo” e il “regnare in Cielo” si legano, come sono connessi l’ascendere di Gesù al Cielo e il suo regnare avendo ricevuto la glorificazione regale da parte del Padre. Con lucidità magisteriale Paolo VI afferma rispetto alla memoria mariana del 22 agosto: «La solennità dell’Assunzione ha un prolungamento festoso nella celebrazione della beata vergine Maria regina, che ricorre otto giorni dopo, nella quale si contempla colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre» (Esort. Ap. Marialis cultus, n. 6).
In questo testo pontificio non si afferma solo l’essenziale legame tra Assunzione e regalità di Maria, ma anche un ordine fra i due eventi della sua glorificazione. «Giustamente il testo sottintende che per la liturgia romana la solennità del 15 agosto costituisce, a rigor di termini, la celebrazione più piena della regalità di Maria: nella luce dell’Assunzione la festa del 22 agosto appare solo come un “prolungamento festoso” di essa come peculiare contemplazione di “colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre”» (D. M. Sartor, Le feste della Madonna. Note storiche e liturgiche per una celebrazione partecipata, Bologna, Dehoniane, 1987, p. 136).
Però, è anche vero che, in un’ottica teologica rigorosa, il culmine della glorificazione di Maria e, perfino il senso ultimo di essa, si ha nella sua glorificazione regale. È lì che lei diviene, in senso pienissimo, “La Gloriosa”.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 13 agosto 2020
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA!!!
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... Commenti a De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PER IL “futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala”. Alcuni “vecchi” appunti sul tema...
“GIUSEPPE”, L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI “TRE” MONOTEISMI. Un importante studio di Massimo Campanini sul patriarca d’Israele e sul profeta del Corano. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica dell’altro Giuseppe, quello ev-angelico?! Freud e Pirandello aspettano ancora.
Federico La Sala
L’anima e la cetra /19.
Il grembo del seme diverso
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 agosto 2020)
La reciprocità è la benedizione e la maledizione dei nostri patti e delle nostre promesse. Siamo impastati di reciprocità, la desideriamo e la speriamo dopo i nostri doni, l’attendiamo sotto forma di stima dopo aver consegnato l’opera del nostro lavoro, e nessun amore riesce a fiorire in pienezza se ad un certo punto non diventa amore reciproco.
Quando il cristianesimo volle sintetizzare il messaggio di Gesù in un’unica legge non trovò nulla di meglio di un comando di reciprocità - "amatevi gli uni gli altri". Nell’umanesimo cristiano l’amore è ancora imperfetto finché non produce altro amore in ritorno.
L’agape, nel suo dover-essere, è amare ed essere amati. Questo sigillo di mutualità iscritto, indelebile, nel cuore della persona e delle comunità, genera un’indigenza radicale di riconoscenza e di riconoscimento, e quindi di attese e aspettative di reciprocità che non di rado sfiorano la pretesa. Non controlliamo la stima degli altri né la loro gratitudine, ma senza ci sentiamo parziali, insoddisfatti e incompiuti.
Ecco allora che molta infelicità, frustrazione e persino violenza si gioca sul confine tra desiderio e attesa, sperare e pretendere, libertà ed obbligo. Impara bene il mestiere del vivere chi, dopo aver appreso per tutta la vita la grammatica delle molte reciprocità, dopo averla infinitamente amata e compresa come il pane e l’acqua dei rapporti importanti, riesce un giorno ad imparare ad andare oltre la reciprocità, a vivere anche senza quel pane e quell’acqua. E lì inizia l’età di una nuova povertà e di una mitezza adulta, comincia il tempo della mansuetudine lieta. Perché capiamo che la nostra dignità è più grande della reciprocità, e che nessuna reciprocità può saziare la nostra sete e fame d’infinito, che ci accompagneranno, in crescendo, per tutta la vita. Ed ad accogliere le poche reciprocità come puro dono e stupore.
«Canterò in eterno la lealtà del Signore, di generazione in generazione farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: "È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà". "Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza"» (Salmo 89,2-5).
L’inizio del Salmo ricorda un rito nuziale, o un’alleanza tra due popoli, dove ciascuno dice la sua promessa e edifica il patto come incontro di due "per sempre". Poi, in nome del popolo, si eleva l’inno d’amore: «I cieli cantano le tue meraviglie, oh YHWH, la tua fedeltà nell’assemblea dei santi... Beato il popolo che ti sa acclamare» (89,6-17). Quindi il salmo ricorda a Dio la sua promessa: «Un tempo parlasti in visione ai tuoi leali, dicendo: "Ho portato aiuto a un prode, ho esaltato un eletto tra il mio popolo. Ho trovato Davide, mio servo, con il mio santo olio l’ho consacrato... Stabilirò per sempre la sua discendenza, il suo trono come i giorni del cielo... Non annullerò il mio amore e alla mia fedeltà non verrò mai meno. Non profanerò la mia alleanza, non muterò la mia promessa"» (89,20-36). Parole simili a quelle che ritroviamo sulla bocca del profeta Natan nel Secondo Libro di Samuele (cap. 7), alle quali forse il salmista si è ispirato, insieme ai poemi babilonesi (tra questi l’Enuma Elis).
Ed è qui, precisamente al versetto 39, dove si trova il centro drammatico del salmo. Quando, dopo aver ridetto il proprio amore e ricordato a Dio il suo, la preposizione avversativa "ma tu" imprime una svolta al canto e ne svela il senso: «Ma tu lo hai respinto e disonorato, ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai spezzato l’alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona... Hai posto fine al suo splendore, hai rovesciato a terra il suo trono. Hai abbreviato i giorni della sua giovinezza» (89,39-46).
Ecco l’esilio, la roccia dove si è infranta la storia della salvezza, il fumo-vanitas che ha avvolto la promessa, la spada che ha reciso quel patto di reciprocità. Un Salmo composto in Babilonia, quando la grande prova d’Israele fu la (quasi) certezza che il suo Dio si fosse dimenticato dell’alleanza. I profeti lessero l’esilio come conseguenza necessaria dell’infedeltà del
popolo - a ricordarci che è sempre molto difficile attraversare i nostri esili ed uscirne innocenti nell’anima. Ma tra quelle rovine religiose nacque anche la preghiera più sublime della Bibbia, Israele imparò a pregare diversamente.
Le parole che formano l’ossatura del canto sono hesed e emét. Hesed è una dimensione dell’amore che ricorda soprattutto la lealtà dentro rapporti durevoli. È l’amore leale, che quindi confina con fedeltà e affidabilità, cioè con emét. Emét rimanda a verità e fedeltà, e ha la stessa radice di ’aman (credere), emunah (fede) e amen (è vero, ci credo) la parola con cui si chiude questo salmo. Alla base di emét c’è un’idea di solidità, di verità in quanto evidenza, di "puntellare" (che è il primo significato del verbo ’aman).
Un senso nascosto anche nell’alfabeto ebraico: emét è composto da tre lettere che poggiano saldamente ciascuna su due "gambe", mentre la parola "falso", seqer poggia su un solo punto, barcolla, è instabile. È questa la fede biblica, che a differenza di quella greca e poi illuminista non è un atto cognitivo della ragione teso a credere in principi o enti, ma un prendere atto di una realtà che ha la sua evidenza-verità intrinseca e concreta. Sono le mani e i piedi i primi strumenti di questa fede.
La sovrapposizione tra queste due parole, che si muovono dentro il perimetro semantico di verità-fede-fedeltà-lealtà, è la chiave per entrare nel segreto di questo salmo. Il salmista chiede al suo Dio, che è il Dio dell’alleanza e quindi il Dio del patto reciproco, di essere più grande della reciprocità. E la possibilità di questa operazione paradossale sta soprattutto nella semantica della bellissima parola emét, che significa ad un tempo: verità e fedeltà. Torna di nuovo quel "ricordati di te" così comune nei salmi. Quando seduti sulle macerie del passato, nel tempo del fallimento e della sventura, la prima preghiera non è più quella dei tempi ordinari: «Dio ricordati di me». Nei tempi tremendi l’esercizio della memoria diventa radicale e stupendo. L’uomo fa ricorso alla risorsa di ultima istanza e osa dire a Dio: "ricordati di te", ricordati di chi sei. E nasce la preghiera più bella, quella che diciamo a Dio ma anche quella che ci diciamo tra di noi quando, seduti sul mucchio di spazzatura di ciò che resta dei nostri patti, troviamo ancora le forze per un’ultima richiesta: "ricordati chi eri, ricordati chi sei".
La fedeltà ad un patto ha quindi la sua radice e ragione nella verità. Un’espressione simile che si legge in altri salmi è: "per amore del tuo nome". Come a dire: "Tu YHWH non sei come noi, che siamo legati e imprigionati dentro la legge di reciprocità e di condizionalità dei nostri patti. Tu sei più grande perché sei capace di continuare ad essere fedele ad un patto anche quando noi lo tradiamo, tu sei Dio vero perché sei libero anche dalla reciprocità. Per questo devi essere fedele al tuo nome, devi essere leale al tuo ’per sempre’ proprio e perché noi non lo siamo più. Sii più grande della libertà che ci hai donato". Ed è stato così, ripetendo queste preghiere, che anche noi abbiamo imparato a pronunciare i nostri "per sempre". Ricordando a Dio i suoi "per sempre" siamo diventati capaci di dirli anche noi. E quindi abbiamo imparato il perdono, anche noi abbiamo appreso una fedeltà più grande per amore del "nostro nome", per una misteriosa fedeltà vera a noi stessi che ci ha fatto diventare, qualche volta, migliori delle nostre reciprocità.
Nei secoli, questo salmo è stato pregato da molti uomini e donne che davanti alle macerie della vita adulta hanno ricordato a Dio la verità della prima alleanza e della prima vocazione; e mentre la ricordavano a Dio l’hanno ricordata a se stessi, in una nuova esperienza di reciprocità - da adulti la verità-fedeltà al nostro "nome" può risorgere solo se qualcun altro ce la ricorda. Sappiamo che all’inizio c’era stata una voce vera, una chiamata e un’alleanza. Abbiamo risposto con generosità, abbiamo creduto a quella verità più vera. E abbiamo iniziato il cammino, ci siamo impolverati lungo la strada, e un giorno ci siamo ritrovati in esilio in una terra straniera, anche quando non eravamo mai usciti da una casa o da un convento. Si diventa adulti dentro una vocazione quando si riesce a capire che la vita che stiamo facendo non è quella che volevamo fare, e nasce una profonda sensazione di infedeltà, una infedeltà che non è tradimento ma svelamento della verità della prima voce. Qualche volta, lungo questi fiumi, riusciamo anche noi a gridare a Dio "ricordati di te", per dirgli: "io non ce l’ho fatta a custodire la fedeltà del primo patto, ma tu devi essere fedele. E se tu sei fedele al patto con me non mi manca nulla, è un bel modo di invecchiare e di morire". Se la fede è anche corda (fides) allora si continua la scalata e non si precipita finché uno dei due non molla la presa.
Molto bella e misteriosa è la conclusione del salmo, il suo ultimo "ricordati": «Ricorda mio Signore: nel mio ventre io porto dei popoli il disonore» (89,51). Come non leggere qui una eco del canto del servo di Isaia?! («Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori»: 53,4). Il poeta diventa nelle sue viscere (in sinu) immagine del popolo sofferente, esiliato, umiliato. Molto bello il commento di Guido Ceronetti a questo verso: «Se c’è un principio unificatore non d’invenzione teologica è questo disonore che ci accomuna. Ma in questo testo è anche la Scrittura stessa che parla, e dice di sé, con implacabile spudoratezza sacra, quel che ha portato del mondo e nel mondo» (Il libro dei salmi, p. 274).
Tutti i grembi dei servi e delle serve sofferenti della storia sono stati il luogo dove è maturato un seme diverso, che un giorno si raccolse nel seno di una vergine. Il "rallegrati o Maria" è la risposta ai tanti "ricordati o Dio".
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Cosa leggeva la Madonna? Dalla pittura una ricerca-romanzo di Michele Feo
Professore alle Università di Pisa e di Firenze, il filologo lucano adesso si cimenta nella storia dell’Abbazia benedettina di Santa Maria che si trova a Banzi, il suo paese
da Emilio Chiorazzo (Storie Oggi - Marzo 1, 2020)
Avete presente la raffigurazione pittorica dell’Annunciazione? Su questo evento biblico si sono cimentati i più grandi maestri dell’arte. Tutti - o quasi - allo stesso modo: la Vergine intenta, prima a filare o ad attingere acqua alla fonte, poi, dal IX secolo, a leggere un libro aperto su un leggìo o chiuso col dito fra le pagine per non perdere il passo, mentre l’Angelo arriva ad annunciarle che diventerà madre. Ma Antonello da Messina dipinge una scena differente. Maria è sola nella notte, non c’è l’Angelo. Ma il libro sì. La sua Annunciata, come tutte le altre ritratte dai pittori, ha un libro davanti a sé, su un leggìo, aperto. Già. Ma cosa legge in quel momento, quella fanciulla che presto diventerà la madre del figlio di Dio?
Se lo è chiesto anche il professor Michele Feo, che ne ha fatto oggetto di una ricerca e poi di un libro, Cosa leggeva la Madonna? Quasi un romanzo per immagini, pubblicato da Polistampa di Firenze per l’Accademia Toscana «La Colombaria».
Michele Feo, nato a Banzi, piccolo centro in provincia di Potenza, nel 1938, allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, è stato per mezzo secolo docente di Letteratura e Filologia medievale e umanistica nelle Università di Pisa e di Firenze. Nel 1985 ha scoperto, nella allora DDR - la Germania dell’Est - una corrispondenza poetica, inedita e sconosciuta, del Petrarca. Ha fondato e diretto la rivista «Quaderni petrarcheschi», ha presieduto la Commissione per l’edizione nazionale delle opere di Francesco Petrarca e il Comitato per le celebrazioni centenarie del 2004. Ha pubblicato i volumi Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine (Firenze 1991), Petrarca nel tempo (Roma-Firenze 2003), Térata (Messina 2009), Persone (Santa Croce sull’Arno 2012), Nascon fiori dove cammina (Pontedera 2015). Nel 2004 è stato insignito dal presidente della Repubblica dell’onorificenza di Grande Ufficiale al merito della Repubblica.
Ha due grandi amori, Michele Feo: uno per il Petrarca e l’altro per la ricerca. E li unisce con la scrittura, oltre che con una visione umanistica della vita. Da tutto questo nasce il suo ultimo libro.
Premetto che questo tema impressiona i miei amici che sanno che mi professo ateo, anche se da bambino ho fatto il chierichetto, come tanti al Sud. Mi chiedono, anzi mi obiettano: come mai ti metti a studiare la Madonna? Rispondo che ci sono arrivato dal mio mestiere. Nei dipinti la Madonna sta quasi sempre a leggere. Un giorno mi sono chiesto: perché legge? cosa legge? Dopo aver cercato, analizzato e decifrato centinaia di raffigurazioni, mi sono reso conto che Maria legge sostanzialmente la propria storia. La storia di una predestinata, contro la sua stessa volontà, a risarcire il peccato originale dell’uomo. Dal libro sacro che ha davanti a sé apprende che verrà una vergine, che genererà un bambino. Comincia a sospettare di essere lei quella vergine. Arriva l’angelo, lei si schermisce, l’angelo la incalza, alla fine lei si piega alla volontà di Dio. Questo fa scattare in me un altro pensiero: il nostro destino non lo scegliamo, ci viene dato dalla sorte. Nasci povero e devi lottare per vivere, nasci figlio del re e devi fare il re volente o nolente. In ogni caso devi fare i conti col tuo destino. Lo hanno scoperto i greci con la tragedia: la lotta dell’uomo contro il destino, che finisce con la sua sconfitta. L’uomo perde davanti al destino, ma può vincere moralmente. Questa è la storia della Madonna: contro la sua volontà subisce un destino che non voleva. Aveva 12 anni, voleva restare bambina, giocare. Le dicono che deve fare un figlio, addirittura il figlio di Dio. Le dicono che il figlio sarà importante, ma non che morirà in croce. Da qui si sviluppa una ricerca, che ambisce a percorrere tutta la letteratura e l’arte europea, ma anche la immensa fortuna di questa storia presso gli strati popolari più semplici, che vedono in lei la madre di tutti e ne fanno un archetipo antropologico che assorbe e supera anche le divinità femminili della civiltà mediterranea pre-cristiana.
A questo punto davvero gli aspetti ‘romanzeschi’ dilagano, con la descrizione della vita quotidiana della famiglia di Giuseppe, l’educazione del figlio, l’insegnamento della scrittura e della lettura, i deliziosi giochi d’amore fra la madre e il bambino, e la persistenza nella lettura di un libro. Il destino finisce per compiersi, il figlio muore sulla croce e Maria scopre cosa significa esser madre. I discepoli la poseranno sul letto di morte col libro in grembo e finalmente la madre sarà risarcita ascendendo al cielo, dove sarà accolta dal Figlio come la sposa del Cantico dei cantici. Secondo Andrea Mantegna in Paradiso la madre diventa bambina ed è tenuta sulle ginocchia dal Figlio. È una conclusione bellissima di una storia bellissima. Tutti i bambini sognano di potere un giorno invertire i ruoli e tenere in braccio la mamma.
Ecco dunque uno dei motivi di attrazione per un laico di una storia che non è solo religiosa, ma interpreta vicende emozioni e desideri, gioie e dolori di tutti gli uomini. Per dirla con le parole di un poeta della mia terra, Albino Pierro, questo per me è nu belle fatte, una favola bella, di quelle che si raccontavano davanti al focolare. In questo cammino ci sono in realtà tante altre storie particolari: Cosa va a dire l’angelo? Ci sono nell’annunciazione più angeli e perché? Ci sono più libri? La ragazzina Maria vive in una casa lussuosa come una signora rinascimentale o in una miserabile catapecchia? Antonello da Messina dipinge l’Annunciazione senza angelo: perché? È arrivato davvero l’angelo o Maria se l’è immaginato? Letteratura e pittura si sono appassionati alla storia della nascita e della crescita del bambino: Maria madre di Dio diventa la madre che allatta il piccolo, e intanto vorrebbe continuare a leggere, e poi insegna al bambino a leggere e a scrivere. Insomma la storia esce dalla religione e diventa la storia di tutte le madri qualsiasi e senza nome, che possono essere ricche o poverissime, che - come ho scritto nel libro a p. 222 - «su questa terra nascono inter faeces et urinas, attendono il loro angelo messaggero, generano nel piacere e nel dolore, allevano i loro cuccioli e li piangono amaramente o sono da essi amaramente piante».
Attraverso questa storia - ripeto - la Madonna diventa la madre di tutti gli uomini, l’avvocatessa di tutti i disgraziati, e la sua storia sacra diventa una storia profana, che ha una fortuna sterminata, e in certa misura intacca il primato stesso di Cristo. La chiesa cerca di contenere questo processo, ma non ci riesce, e la vicenda di Maria diventa una rappresentazione della vita civile: Maria stessa rischia di diventare la divinità più forte di tutto il cristianesimo. La nostra Madonna non è solo Maria di Nazareth, è anche Iside, Cibele, Venere: assorbe, metabolizza, scalza tutte le divinità femminili pagane. Ma la Chiesa non la fa salire a livello della Trinità, la mantiene a livello di donna umana: una divinità che è anche essere umano. Tutto questo mi ha affascinato: ci ho sentito il destino di una santa ma anche e soprattutto di una donna.
La ricerca è un divertimento: il bello della ricerca è nel cercare, non nel trovare. A volte è frustrante. Ma può capitare di trovare, come mi è successo, un pezzo sconosciuto, del 1336, di Petrarca in Germania. Fortuna? Certo. Ma se non fai un’ipotesi, anche avventurosa, non trovi nulla. Quelli che a Banzi, il mio paese natale, scavano e portano alla luce importanti reperti archeologici è perché sono arrivati alla convinzione che anticamente era una città importante. Sa quanto hanno scavato? Ottocento tombe. Hanno scoperto spesso solo ossa, ma poi si sono trovati davanti a tre splendidi vasi. Se non investi nella ricerca, nella curiosità, non arrivi a niente. I milioni di giovani che stanno nei laboratori a studiare le cellule per cercare una soluzione a Aids e cancro perdono la loro vita? No. Non è così. La società non può farne a meno. Ha bisogno anche di persone che fanno il lavoro apparentemente improduttivo e inutile della ricerca.
Se sono immerso in una nuova ricerca? Sì, è così. Oggi, alla mia veneranda età, non ho tirato i remi in barca e continuo ostinatamente a lavorare. Petrarca non mi basta più. Non intendo né dimenticarlo né tradirlo. Ho pronto un libro su Petrarca e la favola, che è il più povero dei generi letterari: Petrarca diceva di non praticarlo e invece io dimostro che percorre tutta la sua opera, come una sorta di brutta coscienza che riemerge continuamente e lo riporta al rapporto rimosso con la gente comune, con la cultura popolare, con le favole dei bambini, con le leggende e i miti, con la letteratura bassa. Ma accanto a questo Petrarca apro spazi sempre più generosi per la tradizione cristiana: San Francesco e la storia di una Bibbia monumentale costruita a Pisa con le libere offerte dei cittadini, ricchi e poveri. E anche le arti figurative mi chiamano, mi ferve dentro un libro con la soluzione (spero) del mistero della Tempesta di Giorgione.
Sono partito da bambino dalla Lucania, dove ho passato i primi anni di vita. Ma della Lucania non conoscevo quasi nulla. Vivevo a Banzi e non avevo mai visto né Acerenza né Venosa, due famose cittadine che erano a due passi dal mio paese. Acerenza, nido di aquila, la vedevo svettare e sfumare nel cielo a pochi kilometri. Noi bambini giocavamo nella polvere, nelle acque cristalline del ruscello cantato da Orazio, nel bosco misterioso, nell’orto fruttifero del nonno. Stavamo ai margini del mondo, ci mancava tutto, ma non sentivamo il bisogno di alcunché. Non c’erano macchine, non c’era la radio, solo ogni tanto arrivava un postale, che portava la corrispondenza e trasportava qualche viaggiatore. Ma era terra di emigrazione verso le Americhe, da cui si poteva tornare richiamati dall’amore per la famiglia, o dove si poteva perdersi per sempre. Sono migrato anch’io con la famiglia ad Altamura in Puglia, dove ho fatto tutte le scuole. Mio padre, operaio delle ferrovie, si era battuto per il trasferimento, con lo scopo preciso di avvicinarsi a una città dove i figli potessero andare a scuola. Da Altamura a Pisa, dove sono rimasto.
Era il 26 ottobre 1958: sono arrivato a fare il concorso alla Normale. Ero terrorizzato, gli occhi sbarrati, un cappottone addosso, come Totò e Peppino quando arrivano a Milano a caccia della malafemmina. Vinsi il concorso in Normale, perché gli esaminatori dovettero valutare più quello che potevo fare che non quello che sapevo. A Pisa mi sono laureato, ho fatto l’assistente e il professore incaricato. Vinto nel 1980 il concorso per ordinario, sono passato a Firenze.
In realtà cominciai con la filologia classica. Nei nostri licei, al Sud, non riuscivamo a studiare neppure la Seconda Guerra Mondiale, pur avendola vista passare davanti agli occhi. Il programma si fermava alla prima, 1918. Poi silenzio. La letteratura a malapena arrivava a Pascoli. Toccare la modernità era scandaloso. Ma eravamo preparati sul mondo classico, la nostra cultura era quella. La modernità era cosa lontana. Arrivai all’università con ambizioni letterarie, contro il parere della famiglia che mi voleva ingegnere, e decisi di impadronirmi del mondo classico. Poi piano piano me ne allontanai, più per incompatibilità coi docenti che con le discipline. Se avessi incontrato subito Antonio la Penna, un professore meridionale, uomo di grande umanità, militante di sinistra, storico filologicamente ferrato e nello stesso tempo pervaso da una forte coscienza civile, forse sarei rimasto nella filologia classica. Cercai altre strade e mi trasferii nel Medioevo e nell’Umanesimo, che mi sembrarono età tutt’altro che buie e tenebrose, portatrici invece di una cosmica spiritualità, di un soffio di amore e di battaglia, ansiose di bellezza. Non avevo capito bene che quella era civiltà cristiana nata sulle radici della pagana. Alla Normale arrivò un professore che mi piaceva. Seguii le sue lezioni anche se ero già laureato. Lui capì che c’era in me qualcosa di buono e mi promise, se ne avesse avuto l’opportunità, un posto di assistente. Era un petrarchista Guido Martellotti, persona saggia, mite, poco accademica. Per me fu una congiuntura delle stelle. Cominciai a studiare la figura dei contadini nella letteratura italiana e mi imbattei in un passo in cui Petrarca li maltrattava. Ne parlai in un seminario di La Penna, lui fu impressionato e mi chiese di approfondire. Era il 1967-68, un tempo in cui l’università italiana era in ebollizione. Il mio articolo, pieno di fiamme e fuoco contro le ingiustizie sociali, fu pubblicato nella prestigiosa rivista di La Penna. Ma non capii lì per lì che ero stato catturato come una mosca in una tela di ragno. Quella tela era il mondo del Petrarca. Certo, è una figura che incute rispetto e perfino un po’ di paura, non ispira di colpo simpatia; ma se ci si avvicina troppo, si finisce dentro la sua tela e non se ne esce più.
Petrarca è tutto ciò che non sono io: lui è un grande intellettuale, ha avuto tutte le fortune, è riuscito a tenere testa a imperatori, a principi, a comandanti di eserciti, a papi. Ha avuto un successo immediato in tutta l’Europa, ha scalzato perfino l’assoluto principato di Dante. Davanti a una figura così si resta incantati. Ci si chiede come abbia fatto. Ti rendi conto che ci sono in lui cose “vive”, che si possono riassumere nella lezione umanistica, di cui oggi come mai si sente il bisogno. Io sono radicato nella cultura umanistica, che considero la più grande espressione della cultura italiana, quella con cui abbiamo dominato l’Europa per due secoli, producendo arte e cultura, filosofia, architettura, poesia, anche se eravamo sgangherati politicamente. Questo era l’Umanesimo: rifondare la natura dell’uomo dentro un senso profondo di quella che è l’umanità, la formazione dell’uomo poggiata su alcuni principi, a cominciare dalla dignità, fino al rispetto di tutti, degli amici e dei nemici, alla critica delle fonti nel mestiere di storico e di politico, alla necessità di verificare e diffidare, al principio della ricerca disinteressata. Si fa fatica a trasmettere tutto questo ai giovani oggi. L’obiezione continua sta nel pragmatismo e nello sciocco utilitarismo di corte vedute della domanda: A che ti serve?
Le dico una cosa scandalosa: credo che il mondo vada avanti perché c’è una strettissima minoranza che crede in questi valori. C’è un principio della filologia, convalidato anche da Piero Calamandrei sul piano giuridico: messe a confronto le testimonianze, una può valere più di mille. Un principio da tenere in considerazione anche oggi, quando il pensiero di un intellettuale, di uno studioso, basato su ricerca e confronto, viene messo in discussione dall’opinione contraria della maggioranza che, magari, si basa su luoghi comuni. La filologia è l’asse portante dell’Umanesimo, la verifica delle fonti, il controllo scientifico di quel che si afferma e il dubbio metodico. Non è solo un meccanismo che si usa nella ricostituzione dei testi. È un modo di vivere. Chi non paga le tasse non è filologo, chi passa col rosso non rispetta le regole. Vale per tutta la via sociale. La nostra struttura di vita, la grammatica non è cosa ristretta solo alle regole del parlare e dello scrivere. Chi non impara la grammatica a scuola poi non impara neppure la grammatica della vita (il buongiorno, il rispetto per gli altri, il metodo democratico ecc.). Purtroppo nessuno insegna più i principî della grammatica del vivere civile. Ai bambini occorre insegnare che, come non si può sbagliare il verbo, così al semaforo non si può passare col rosso.
Un rapporto difficilmente definibile: a un certo momento avevo il desiderio forsennato di andare via. Ce ne dobbiamo andare, dicevo a un mio amico col quale studiavo: in un luogo dalle praterie sconfinate o in una città con i merli. Con quell’amico sono poi approdato a Pisa (e lui fa il medico). La fuga dal mio paese è stata una sofferenza. Ma Pisa è stata una città accogliente: piccola, colta e aperta al mondo. In Pisa non mi sono rintanato. Da questo porto sicuro e confortevole sono andato per le vie del mondo: Francia, Inghilterra, Polonia, Germania, Spagna, Cecoslovacchia, Grecia, Giappone, Danimarca, New York. Ma soprattutto la Germania è diventata una mia seconda patria di elezione, ci ho trascorso quasi tre anni, e la confidenza con la grande tradizione culturale di quel paese mi fa sentire veramente europeo.
Ma ha sempre covato l’amore non risolto col paese natìo. Una volta laureato mi sono chiesto: Che faccio? Torno, non torno? Mi riemergeva nella memoria la casa di mio nonno, senza riscaldamento, con pochissimo spazio per uomini e bestie, oppure il mio Liceo dove il vecchio allievo coi vestiti rattoppati poteva tornare da professore. Ma non sono riuscito a sradicarmi da Pisa: perché Pisa, da fauno che ero, mi aveva fatto diventare uomo. Eppure quando sono diventato assistente alla Normale, piangevo. È incomprensibile oggi ai giovani assillati dalla disoccupazione e dal precariato, ma io in quel momento sentivo che morivano tutte le mie radici. Da lì è nato un desiderio di nostalgia terribile, di tornare, ridare qualcosa. Per la nascita della mia bambina pubblicai una raccolta di canti popolari di Banzi; ogni tanto devo scrivere il necrologio per i miei morti e riemerge sempre in essi un frammento di autobiografia; la piazza del paese reca sotto il monumento ai caduti un’epigrafe inneggiante alla pace dettata da me; durante gli anni delle celebrazioni petrarchesche ho portato a Banzi una mostra; ho restaurato la casetta nella quale sono nato. Ma tutto questo è come un amore senza possesso.
Ora ho momentaneamente messo il Petrarca in stand-by per tuffarmi dentro la storia dell’Abbazia di Banzi: un libro l’ho già scritto (La relazione bantina di Arcasio Ricci (1634), Roma 2018). E vorrei affrontare un altro tema: la sorte dei beni sterminati dell’Abbazia, dal momento in cui le leggi antifeudali dei rivoluzionari napoleonici, li hanno espropriati; contro le leggi e contro le lotte nobilissime di menti illuminate quei beni sono finiti nelle mani dei latifondisti anziché dei poveri. Vorrei ricostruire questa storia, perché Banzi l’ha vissuta in modo terribile: i rivoluzionari che dovevano attuare la rinascita del Mezzogiorno hanno finito per distruggerlo, e questo racconto vorrei che fosse l’ultimo dono alla terra che mi ha dato i natali e che continua a produrre in me un sentimento di nostalgia e anche un senso di colpa per averla lasciata.
Con tutta l’ammirazione e l’amore per Gramsci, non sento più l’urgenza di essere un intellettuale integrato. Ma si ascolta ancora in giro l’invito: «Vieni con noi». Quell’invito rigettarono già meridionalisti come Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Carlo Levi e Guido Dorso. Oggi quella integrazione nelle strutture di un partito ha fatto la sua storia e potrebbe persino produrre guai. È valida invece più che mai la necessità per gli intellettuali, e per il loro ceto del piano inferiore che sono i professori, di essere integrati in una visione del mondo più ampia della propria casa, attenta a realizzare il bene e la felicità di tutto il genere umano, conservando tuttavia, come diceva Ernesto De Martino, un villaggio nel cuore.
PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE...
GESU’, GIUSEPPE, SACRA FAMIGLIA?! RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE... E ANNUNCIARE LA BUONA NOTIZIA!!! PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO. La ’buona’ novella di Luigi Pirandello
PER UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA E PER UNA NUOVA CHIESA. L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MARIA MANTELLO -L’8 dicembre, l’Immacolata Concezione, tra paganesimo e controllo sociale *
Apuleio, nelle Metamorfosi ci presenta questa apparizione:
È Iside che appare al protagonista Lucio, al momento della sua iniziazione-rinascita, ma la descrizione potrebbe tranquillamente riferirsi alle tante raffigurazioni di Maria, la madre del dio fatto uomo, La Vergine dall’Immacolata Concezione.
L’inno di s. Ambrogio
Nel suo inno di Natale, s. Ambrogio loda Il Redentore che ha fecondato Maria col suo "mistico soffio": «Veni, Redemptor Gentium, / Ostende partum virginis/ ...Non ex virili semine/ Sed mystico spiramine/ Verbum Dei factum est caro/ Fructusque ventris floruit» (Vieni Salvatore delle Genti, Rivelaci il parto verginale... non da seme umano/ ma da soffio mistico/ il Verbo di Dio si è fatto carne/ e il Frutto del ventre maturò). Si tratta del mito della fecondazione attraverso l’orecchio ("conceptio per aurem") usata dai padri della Chiesa per spiegare la verginità della Madonna e che richiama il mito pagano dove si credeva che la donnola, fosse fecondata attraverso l’orecchio. E questo molto probabilmente, come ha osservato uno dei più grandi esperti di mitologia, Karoly Kerenyi, suggerì ai padri della Chiesa che Maria fosse stata fecondata da dio attraverso le parole dell’angelo annunciatore.
Simone Martini, nella sua celebre "Annunciazione" conservata agli Uffizi, fa spiccare sul fondo oro della tavola, su cui si stagliano le figure dell’Angelo e della Madonna, le parole del versetto del Vangelo di Luca: Ave gratia plena, Dominus tecum, che si dipartono dalla bocca dell’angelo fino all’orecchio di Maria. E ancora, in un’altra celebre "Annunciazione" del 1486 di Carlo Crivelli (conservata alla National Gallery di Londra), c’è un raggio che dal cielo si dirige all’orecchio della Madonna.
Dalla Dea madre alla Madre di Cristo
La grande dea madre, che simboleggiava la nascita della natura tutta, con Maria, diviene la piena di grazia, l’ancella del Signore, la madre "puro spirito" di un figlio "puro spirito".
Tuttavia, nella società contadina dove la fertilità era considerata un valore primario, Maria sostituisce questi culti, prendendo il posto di Demetra, nel caso della madonna del frumento a Milano o quella del melograno di Pestum, al pari di tante altre Madonne sparse nel mondo dall’evangelizzazione cattolica.
A Capo Colonna, vicino Crotone, su una scogliera che domina il Golfo di Taranto, si ergeva un maestoso tempio dedicato ad Era Lacinia, protettrice dei matrimoni. Qui nel mese di maggio le donne di Crotone si recavano in processione per chiedere grazie alla dea. Oggi questa stessa processione si svolge, ma in onore di Maria Theotokos, la Madre di Dio.
Nell’"Apocalisse", Maria è la donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di stelle sul capo. E così è raffigurata nella stragrande maggioranza dell’iconografia che ha accompagnato fino ai nostri giorni il suo culto.
Una divinità lunare, dunque, come anche s. Bonaventura nei Proverbi la definiva: «che bella luna deve essere stata Maria quando quell’eterno Sole fu da lei pienamente ricevuto e in lei concepito (7.20)». Le divinità lunari, per la relazione della luna con le maree, erano associate al mare, ma anche alle stelle, come guida nella navigazione, impresa certamente non facile nell’antichità.
E Maria diviene la Stella maris, che guida nelle tempeste, e nel buio della notte del peccato (d’ogni fedel nocchier fidata guida, come la definì anche Petrarca), ma anche la protettrice dei marinai.
Originariamente, stella del mare (stella maris) era Afrodite, la prima a comparire sul far della sera, e la prima a scomparire alle prime luci dell’alba. Al Vespro era detta Espero, e all’alba Fosforo. Un canto mariano assai noto ne conserva la memoria nella metabolizzazione della stella Maria: De l’aurora tu sorgi più bella, coi tuoi raggi a far lieta la terra. E fra gli astri che il cielo rinserra/ Non vi è stella più bella di te...
Attraverso Maria, la piena di grazia, quindi, i simboli cosmici della fertilità della terra e delle acque, legati alle dee madri continuano a veicolare.
A ricordo della vita cosmica, l’Immacolata Concezione conserva sul suo mantello il colore azzurro del cielo e del mare; il serpente sotto i suoi piedi. Il serpente cosmico, da simbolo di perenne vitalità e di conoscenza, è stato però trasformato dal cattolicesimo in emblema di peccato, e, primo su tutti, quel peccato originale di cui tutta l’umanità sarebbe macchiata, e sul quale si è costruita e incentrata l’ideologia del riscatto attraverso la grazia del cattolicesimo (cfr: Maria Mantello, Sessuofobia e caccia alle streghe nella storia della chiesa, in "Lettera Internazionale", n°69).
Ecco allora, che alla Vergine Maria si fa schiacciare il serpente, il peccato di unione sessuale. Ma nello schiacciare la vita concreta terrena, tuttavia, sono proprio quei simboli evocativi così carnali, che continuano a veicolare.
L’Immacolato concepimento della Madonna e di Cristo...
Il peccato originale, com’è noto, costituisce la base e il punto di partenza del Cristianesimo. Il sacrificio sulla croce del Dio-uomo, infatti, sarebbe inconcepibile sul piano dottrinario senza la presupposizione di un tale peccato, che quel sacrificio giustifica ai fini della salvezza escatologica di un’umanità “macchiata” e altrimenti condannata dal Dio padre alla dannazione eterna.
Poiché “il peccato” imbratta ogni nato bisogna che Cristo, il Dio-uomo, che proprio al riscatto da quella colpa originaria è stato preposto ne deve essere assolutamente immune.
Teologi ed ecclesiastici si preoccupano, allora, che sia concepito in un grembo immacolato.
Così in suo Decretale del 392 scriveva Papa Siricio: «Gesù non avrebbe deciso di nascere da una vergine, se non fosse stato certo della sua assoluta castità: che il suo grembo, in cui il corpo del Signore si sarebbe formato, dominio dell’Eterno Re, fosse stato insudiciato da seme maschile. Chi sostenesse questo non penserebbe in modo difforme dai perfidi ebrei».
Il concepimento ebraico narrato nella Bibbia da Isaia, dove «una giovane donna concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele» (7,14) è pertanto, trasformato dalla Chiesa in parto virginale.
Il mito pagano della partenogenesi lo si trova anche nel mondo classico e serviva a conferire una sorta di eccezionalità a personaggi illustri: si pensi a Platone (fonte: Diogene Laerzio) e ad Augusto (fonte: Svetonio) figli di Apollo, o ad Alessandro figlio del fulmine (fonte: Plutarco). Ma il cristianesimo, spogliatolo d’ogni significato metaforico, lo assume come fatto biologico reale.
La giovane donna fertile, l’alma della narrazione ebraica d’Isaia, diverrà allora Vergine: prima, durante e dopo il parto.
In tanta ossessione virginale, però, si trascura, ad esempio, che il vangelo di Marco, scritto attorno agli ultimi trenta anni del I secolo, parli esplicitamente di fratelli e sorelle di Gesù: «Non è costui il falegname, il figliuolo di Maria, e il fratello di Giacomo e di Giosè, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» ( Marco, 6.3).
Del resto il vangelo di Matteo, non escluderebbe rapporti matrimoniali tra Maria e Giuseppe, ma rinviarli semmai a dopo la nascita di Gesù: «ma egli (Giuseppe, ndr.) non ebbe con lei rapporti coniugali, finché ella ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù. » (Matteo, I. 25). Ma per la Chiesa romana, la madre del Cristo sarà la sempre vergine, secondo la definizione della Volgata di s. Gerolamo (morto nel 420 ca.), dove gli originari termini ebraici di fratelli e sorelle sono opportunamente sostituiti con quelli di cugini e cugine.
L’ossessione della castità e il fiat mariano
La difesa della castità nella terrena famiglia del Gesù cristiano è talmente importante per la dottrina cattolica che la stessa Vergine Maria si vuole concepita senza macchia e lo stesso Giuseppe, suo sposo, è fatto vergine, nonostante il protovangelo di Giacomo (del II secolo), seppure allo scopo di salvaguardare inviolato l’imene della Madonna, parli di fratellastri di Gesù (evidentemente, i figli avuti da Giuseppe da precedenti nozze).
Ma la madre del Redentore non è solo la Vergine, è anche l’Ancilla Domini.
Mentre in tutti gli altri casi il “miracolo” creazionistico, il “dono divino” della vita avviene, infatti, servendosi di un maschio, nel caso di Gesù esso è realizzato direttamente da dio.
Anzi, il dio-maschio evidenzia tutta la sua forza di dominio e d’onnipotenza proprio in virtù di questo concepimento virginale, dove la partecipazione all’evento della “prescelta Maria” è risolta nella comunicazione del fatto avvenuto e, per giunta, attraverso terzi: l’angelo. Alla donna-Maria, allora, non resta che far pronunciare il famoso fiat.
Un fiat ed una verginità che percorrono tutta la dottrina cattolica, e che ai giorni nostri in particolare papa Wojtyla ha riaffermato con forza con l’enciclica Redemptoris Mater.
Il dualismo Eva la strega - Maria la santa
Il mito dell’Incarnazione e della Madre Vergine, risponde ad un ben preciso criterio d’economicità asessuata: sostituire e contrapporre alla prima donna, Eva, una nuova prima donna, Maria.
Assai esplicite, già nel III secolo, le affermazioni in tal senso.
Ad esempio, s. Ireneo (morto intorno al 202) dichiara: «Come la razza umana fu condannata alla dannazione per colpa di una vergine (Eva, ndr.) [...] l’astuzia del serpente fu vinta dalla semplicità di una colomba». (Adversus Haereses, I, 5-19).
Ma è tutto il mito dell’incarnazione cristiana per il riscatto dell’umanità dal peccato originale a strutturarsi su una sorta d’incontaminata purezza: con la casta Maria, che si contrappone alla peccatrice Eva; col casto Cristo, il nuovo capostipite di un’umanità redenta, che già s. Paolo aveva sostituito ad Adamo per la fondazione della primigenia eternità cristologia (cfr: I Corinzi 15-22; II Corinzi 5-17; Romani 5-14).
Un uomo nuovo ed una donna nuova, dunque, servono per riscrivere il Genesi ed annunciare il Verus Israel. Solo così il cristianesimo può porsi come Verità superiore, Eterna, Rivelata, Unica ed Universale, quindi Cattolica, da kata olou (katà òlou) che significa “in tutto”, “su tutto”.
Come nasce il dogma della Madre di Dio immacolata
La questione dell’incarnazione divina di Cristo ha lacerato il mondo cristiano fin dai primi secoli. Tra il IV e V secolo, sulle controversie cristologiche si giocano non solo le lotte di potere dei vescovi, ma anche quelle per la superiorità del cristianesimo sull’ebraismo e sul mondo pagano. E’ in questo contesto che Maria prende il posto delle Grandi Dee della classicità e, seppure tra forti contrasti teologici, diventa la madre di Dio.
Nel V secolo il vescovo di Costantinopoli, Nestorio, faceva notare come Maria non potesse essere generatrice di Dio, ma solo madre dell’uomo: anqrwpotòkos (anthropotòkos). Affermare il contrario avrebbe significato, infatti, negare la preesistenza di Dio all’evento e, quindi, la Sua stessa eternità. Una questione non soltanto logica ma inerente alla sostanza dell’unico dio: «se dio avesse una madre - scriveva Nestorio al Vescovo di Roma Celestino I - la vera fede non ne risentirebbe? Maria non ha messo al mondo una divinità perché l’essere creato non può essere madre di colui che l’ha creato».
Come andò a finire è cosa nota: il Concilio di Efeso, nel 431, condannò come assurde ed eretiche le posizioni di Nestorio. L’artefice di tutta l’operazione era stato il patriarca di Alessandria, s.Cirillo. Questi si era distinto nella persecuzione contro gli ebrei: in Egitto si era impadronito di tutte le sinagoghe e aveva scacciato più di 100.000 ebrei da Alessandria, era stato il mandante dell’assassinio della filosofa Ipazia, violentata e fatta a pezzi dai suoi monaci analfabeti... E che adesso voleva affermare la sua supremazia tra le chiese d’Oriente e, pertanto, si affannava ad organizzare le sue orde di monaci fanatici, tutori della “pubblca morale” e processioni di fedeli osannanti alla Madonna, quella Vergine Maria che, proprio ad Efeso, la capitale del culto di Artemide, verrà proclamata madre di Dio: qeotòkos (theotòkos).
La questione della Verginità, però, non si chiudeva ad Efeso, giacché il V Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 si preoccupava ancora di onorare Maria col titolo di "sempre vergine" e il Concilio Lateranense del 649 ne sanciva infine il dogma. Qualche secolo dopo, di fronte alla rivoluzione della Riforma protestante, Paolo IV, nel 1555, anno in cui egli istituisce anche gli obbligatori ghetti per gli ebrei, riaffermava con forza la verginità di Maria (ante partum, in partu, post partum).
Del resto, di fronte a fermenti rivoluzionari che pongono in crisi il cattolicesimo e i suoi poteri, non ci sarà sempre una Madonna, magari piangente, posta a vestale di Controriforme e Restaurazioni?
La purezza della Vergine Maria come potente baluardo per la riaffermazione della dommatica cattolica!
Per le donne, un modello di castità cui conformarsi che la mitologia cattolica amplifica nella moltiplicazione di sante, quasi sempre vergini e, comunque, in lotta contro il “peccato della carne” al quale non cedono, a costo di torture e sofferenze tremende.
Pio XII e Santa Maria Goretti
Da quest’ampia schiera citiamo s. Maria Goretti anche perché riproposta ai nostri giorni da Wojtyla, nonché dalla televisione pubblica italiana che alla vicenda della giovinetta, forse in omaggio al Vaticano, ha dedicato una propria produzione filmica.
La poveretta, morta nel 1902 sotto i colpi del pugnale del seduttore a cui non aveva ceduto, veniva santificata nel 1950 da Pio XII con queste parole: “Dio è meraviglioso nei suoi santi...Egli ha dato alle giovani del nostro mondo crudele e degradato un modello e una protettrice, la piccola vergine Maria che ha santificato l’inizio del secolo col suo sangue innocente”.
Maria Goretti era continuamente portata ad esempio - come papa Pacelli voleva - e la visita alla sua casa era considerata una tappa importante per la formazione di una ragazza perbene.
Erano gli anni dell’avanzata delle sinistre e della partecipazione delle donne alla politica, “una deriva di degradazione” a cui la Chiesa cercava di contrapporre come deterrente il modello virginale mariano di cui la povera Maria Goretti rappresentava un fulgido esempio.
Pio IX l’Immacolata Concezione, Pio XII l’Assunzione in cielo della sempre Vergine
Del resto, circa un secolo prima, quando il processo risorgimentale italiano stava ponendo irreversibilmente in crisi la teocrazia pontificia, un altro papa oggi santo, Pio IX, non aveva utilizzato anch’egli ad efficace fortilizio il mito della purezza mariana, stabilendo nel 1854 il dogma dell’Immacolata Concezione della Madonna?
Pertanto, rientra perfettamente nella logica ecclesiale che Pio XII, nello stesso anno della santificazione di Maria Goretti, si sia preoccupato anche di definire il dogma dell’Assunzione della Madre di Cristo in cielo: “Era necessario che il corpo di colei, che anche nel parto aveva mantenuto la verginità, rimanesse incorrotto anche dopo la morte”. (Munifecentissimus Deus, definizione del dogma dell’Assunzione in anima e corpo alla gloria dei cieli di Maria, Vergine Madre di Dio)
Così la Madonna, che aveva avuto la patente del Concepimento Virginale, di essere rimasta sempre Vergine, di essere stata essa stessa generata senza contaminazione sessuale (Immacolata Concezione), proprio per la garanzia di castità sua e familiare, aveva assicurato anche il dogmatico lasciapassare d’incorruzione corporea per il cielo.
Maria Mantello
PAROLA A RISCHIO
Risalire gli abissi
La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti.
Perché è sorriso, liberazione, gioia.
di Giovanni Mazzillo (Teologo) *
G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.
Salvezza
Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro.
Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.
La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.
Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).
Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.
La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.
Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.
La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.
In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.
L’inchiesta non ha finora portato alla scoperta di un movente
Vatileaks, Benedetto XVI vuole chiarezza sui complici di Gabriele
Benedetto XVI ha scelto di proseguire la linea della trasparenza sull’inchiesta
Dopo il rinvio a giudizio del maggiordomo l’indagine punta sui possibili "manovratori"
di Marco Tosatti (La Stampa, 15/08/2012) -
Città del Vaticano
La sentenza di rinvio a giudizio di Paolo Gabriele e di Claudio Sciarpelletti è un documento di grande importanza e interesse; perché rivela, o lascia intravedere aspetti e dettagli di tutta la vicenda che meriterebbero di essere approfonditi. E c’è da sperare che ulteriori fasi dell’inchiesta giudiziaria, annunciate, e la pubblicazione dell’inchiesta compiuta dai cardinali Herranz Tomko e De Giorgi, che dovrebbe avvenire nel prossimo futuro, portino luce su tutti gli aspetti di una storia dai molti contenuti ancora oscuri. Questi dettagli fanno pensare che fra due linee, una più insabbiatrice e l’altra più inquisitiva, abbia prevalso la volontà del Papa, di far luce fino in fondo, in tutti gli aspetti, e non solo nei reati, in questa straordinaria vicenda.
Se alcuni dei lettori hanno familiarità con Agata Christie e Rex Stout, capiranno che in questo thriller di cui conosciamo l’«assassino» (Gabriele & C.) e il cadavere (i documenti trafugati) manca ancora un movente forte e credibile. Finora è stato indicato in una sorta di degenerazione psicologica, in disturbi emozionali, e nel desiderio vago di aiutare il Papa con uno «choc» mediatico a far pulizia di certi comportamenti discutibili.
C’è da chiedersi però come sia possibile che una persona affetta «da un’ideazione paranoide con sfondo di persecutorietà», «un’identità incompleta e instabile», un uomo «soggetto a manipolazioni», e incapace di capire i suoi limiti «fino a sviluppare sentimenti di grandiosità e disorganizzazione ideativa» (così lo descrive la perizia psicologica) possa diventare la persona più vicina fisicamente al Papa.
E, inoltre, oggetto di fiducia molto grande. Tanto da ricevere l’incarico di rispondere a lettere dirette al Papa, e di avere fra le mani un appunto di padre Lombardi (probabilmente quello relativo al caso di Emanuela Orlandi). Per non parlare dell’assegno di centomila euro donato al Papa, scomparso e poi ritrovato casualmente fra le sue carte, o della pepita d’oro donata da un sudamericano. Sono sparizioni inconcepibili, e sollevano pesanti interrogativi sull’efficacia dei più diretti collaboratori del Papa. È sicuro che le persone in Vaticano che da tempo si sforzano di gettare cattiva luce sul Segretario di Stato e sul segretario privato di Benedetto XVI, monsignor Gaenswein, si staranno fregando le mani.
Sono gli stessi che, tramite l’esperto informatico rinviato a giudizio con il maggiordomo mandavano e ricevevano lettere a Gabriele, e forse contribuivano ad alimentare in lui la «degenerazione»? La loro identità è, per ora, celata sotto lettere dell’alfabeto: W, Y, X. Quando in autunno si celebrerà il processo i loro nomi appariranno in chiaro; e forse l’inchiesta si sarà rimessa in moto, su altre strade, e forse sarà reso pubblico il rapporto dei cardinali. Si saprà allora chi, nella Curia, ha giocato a far credere a Gabriele di esser qualche cosa che non era, e l’ha usato per sue piccole, o grandi, manovre.
Gabriele aveva consuetudine con alcuni giornalisti; prima di arruolarsi sulla nave di Nuzzi, in un viaggio votato al disastro (per lui). Nessuno si è mai accorto di nulla, o ha sospettato nulla? Certo, in un Appartamento in cui possono scomparire assegni da centomila euro e pepite d’oro non si può pretendere un’occhiuta sorveglianza.
Ma si potrebbe anche ipotizzare che Paolo Gabriele fosse un punto di riferimento non ufficiale, «alternativo» alla Sala Stampa vaticana, utile per far uscire documenti e informazioni dedicate a professionisti giudicati «vicini» alla Chiesa. E forse è possibile che su questa sua attività si chiudesse un occhio, e anche un occhio e mezzo. Fino al momento in cui il delirio di onnipotenza - o qualcos’altro - non ha prevalso nella testa del maggiordomo, e la situazione è degenerata in maniera drammatica. Il che non vuole dire che i corvi che Gabriele ha «tollerato» nella sua attività di informatore pro-Chiesa abbiano una responsabilità - fino a prova contraria - nella deriva folle che ha portato allo scandalo e alle inchieste.
CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione...
PER UNA NUOVA TEOLOGIA E PER UNA NUOVA CHIESA, RIPRENDERE IL GESTO E L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A SAN GIUSEPPE. Il loro successore, al contrario, ha il cuore di pietra e se lo tiene ben stretto. Per lui Dio è Valore e tutto ha un "prezzo-caro" ("Deus caritas est")!!!