Benedetto XVI lascia il pontificato, Papa si dimette il 28 febbraio*
Il Papa lascia il pontificato dal 28 febbraio. Lo ha annunciato personalmente, in latino, durante il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto. "Un fulmine a ciel sereno". Con queste parole il decano del collegio cardinalizio, cardinal Angelo Sodano ha commentato la decisione di Benedetto XVI di lasciare il pontificato
Il Papa ha spiegato di sentire il peso dell’incarico di pontefice, di aver a lungo meditato su questa decisione e di averla presa per il bene della Chiesa. La "ingravescentem aetatem" cioé l’età avanzata. Questo tra i motivi addotti da Benedetto XVI, per le sue dimissioni. La sua decisione, annunciata in latino davanti al collegio cardinalizio e alla Casa Pontificia riunite per un concistoro di canonizzazione, è stata accolta nel più profondo silenzio e con smarrimento.
Il papa ha indicato il 28 febbraio per il termine del pontificato e chiesto che si indica un conclave per l’elezione del successore.
"Ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile2005". Lo ha detto Benedetto XVI annunciando le sue dimissioni.
di Guido Rossi (Il Sole-24 ore, 24 febbraio 2013)
In una giornata di straordinaria importanza per le elezioni nazionali, l’ultimo Angelus di Papa Ratzinger porta a ulteriori e ampie meditazioni, che riguardano non solo l’influenza del Vaticano sulla politica italiana, ma anche il futuro della stessa Chiesa cattolica. Sulle dimissioni di Papa Ratzinger e sulla futura convivenza di Sua Santità dimissionaria con il nuovo Papa che sarà eletto, molto è già stato scritto, forse senza tener conto della straordinaria figura di teologo e filosofo di Joseph Ratzinger. Già a partire dalla metà degli anni 80, e successivamente nel dibattito con l’altro filosofo tedesco, Jürgen Habermas, Ratzinger teorizzava il ruolo pubblico della religione nelle società secolarizzate e nelle democrazie pluraliste.
Tuttavia dalla sua nomina a Vescovo di Roma la situazione mondiale è radicalmente cambiata, poiché i centri del potere sono passati dai ristretti confini degli Stati al dominio globalizzato del capitalismo tecnocratico finanziario.
La filosofia socratica di Platone e Aristotele che aveva influenzato il grande condottiero Alessandro Magno, riuscì a fargli superare la stretta e chiusa visione della città - stato antica, per proiettarsi verso una nuova idea, cioè l’idea dell’Impero, vale a dire di uno Stato universale, senza limiti né geografici, né etnici, né di altro genere. Questa idea dell’impero universale ebbe altre imitazioni, che avevano come base non l’espressione politica di un popolo, o di una casta, o di una razza, bensì l’espressione politica di un’unica civiltà universale, con un solo logos, dove le differenze rimanevano ma si negavano in un’unica identità.
Il progetto dell’impero universale di Alessandro Magno fallì, per essere poi ripreso su una base unitaria religiosa e trascendente, adottata sia da San Paolo e dalla Cristianità, sia dall’Islam. Ciò che è rimasto, fino ai nostri giorni, non è però il Sacro Romano Impero, o il potere secolare del Papa, ma la Chiesa universale. È l’impero di coloro che sono sostenuti da una fondamentale identità nella fede in un solo Dio, sicché questa trascendente uguaglianza sovrasta, accogliendole in unica sintesi e mescolanza tutte le etnie, le razze e le disuguaglianze, senza riuscire a creare uno Stato imperiale effettivo, ma un "corpo mistico" della Chiesa universale, rappresentato in terra dal Papa, Vescovo di Roma.
Dalla elezione del 2005 di Papa Ratzinger, si è imperiosamente consolidato il dominio del mondo da parte del globalismo economico, finanziario, fino a diventare padrone effettivo della politica dei singoli Stati. È così che, aiutato da uno straordinario sviluppo tecnologico, tale globalismo ha riproposto un nuovo unico impero finanziario mondiale, senza valori fondamentali, il quale sta distruggendo via via le basi del sottofondo filosofico degli ultimi secoli, e si è violentemente contratto in modo ancora non del tutto trasparente con l’altro impero, cioè quello del trascendente della Chiesa. Quest’ultimo è rimasto a sua volta inquinato dal potere esclusivo della finanza e delle sue lobbies, come hanno di recente dimostrato sia gli scandali bancari, sia le lotte di potere all’interno della gerarchia ecclesiastica.
L’impero del trascendente, difficilmente può contrastare un impero universale che lo minaccia per la prima volta nella storia, basato sul tecnocratico e globalizzato capitalismo finanziario. Già Papa Ratzinger, annunciando le sue dimissioni, faceva riferimento all’universalismo della velocità, che corrisponde appunto al nuovo impero mondano, del tutto indifferente ai valori del trascendente da lui guidato, il quale non si è rivelato in grado né di combatterlo, né di evitarlo, né di assorbirlo. Questo e non altra, pare ad un laico l’umana sofferenza di un Papa, che nell’impossibilità di continuare la sua funzione, si è dimesso. Le parole odierne dell’ultimo Angelus potranno ancora fornire qualche chiarimento, ma dirà la storia quale dei due imperi è destinato a sopravvivere.
UN APPELLO PER LA PACE: UN NUOVO CONCILIO, SUBITO!
Caro Cardinale Martini
“Era””, “è ”: GESU’, IL SALoMONE, IL PESCE (“Ixthus”), sempre libero dalle reti del Pastore-Pescatore (del IV sec.)!
di Federico La Sala *
Karol Wojtyla, il grande Giovanni Paolo II è morto! E se è vero che “il mondo - come ha detto il nuovo papa - viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori”, è anche vero che nel IV secolo - con il ‘pallio’ ... di Roma, comincia “la grande politica” - muore il cristianesimo e nasce l’impero cattolico-romano. La religione ebraica diventa passato, archeologia, e la religione cattolico-romana diventa storia, presente e futuro. Contro ogni tentennamento, la “Dominus Jesus” non è stata scritta invano e la prima Omelia (24 aprile 2005) di Ratzinger - Benedetto XVI ha chiarito subito, senza mezzi termini, a tutti i fratelli e a tutte le sorelle, chi è il fratello maggiore (e chi sono - i fratelli maggiori)... chi è il nuovo Papa, e qual è la “nuova Gerusalemme”.
Per Ratzinger - BenedettoXVI non c’è nessun dubbio e nessun passo indietro da fare. Finalmente un passo avanti è stato fatto. Guardino pure i sudditi dell’Urbe, e dell’Orbi: il “distintivo” cattolico è qui! Ma Wojtyla? Giovanni Paolo II? La visita alla Sinagoga di Roma? Toaff? - La Sinagoga?! Toaff?! Gerusalemme?!: “Roma omnia vincit”, non Amor...! Rilegga l’Omelia (www.ildialogo.org/primopiano): la Chiesa cattolico-romana è viva, vince alla grande, im-mediaticamente! Rifletta almeno su questi “passaggi”:
"Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo [...] Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi". "Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. [...]
"E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica magari in modo anche doloroso e così ci conduce a noi stessi. [...] In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa.[...]. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore [...]. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”.
In verità, Nietzsche, uno dei tre grandi - con Marx e Freud - maestri del sospetto che stimava Gesù, ma nient’affatto il cattolicesimo - definito da lui, un platonismo per il popolo, l’aveva già detto - e anche in modo più profetico: “il deserto avanza. Guai a chi nasconde il deserto dentro di sé!” (Così parlò Zarathustra).
Cosa pensare? Che fare, intanto? Aspetterò. Sì! Aspetterò! Per amore di tutta la Terra e “per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come una lampada. Allora tutti i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria”(Isaia).
Federico La Sala
I due pontefici in Vaticano
di Vito Mancuso (la Repubblica, 12 febbraio 2013)
A partire da Pasqua la Chiesa cattolica avrà due papi, uno solo de facto, ma tutt’e due de iure? A parte il celebre caso di Celestino V e Bonifacio VIII alla fine del Duecento, una situazione del genere non si era mai verificata in duemila anni di storia, senza considerare che papa Celestino passò il tempo da ex-papa prima ramingo e poi imprigionato a molta distanza da Roma, mentre Benedetto XVI continuerà ad abitare in Vaticano a poche centinaia di metri dal successore. Costituirà per lui un’ombra o una sorgente di luce e di ispirazione? Ovviamente nessuno lo sa, neppure lo stesso Benedetto XVI, il quale certamente è una persona discreta e assai rispettosa delle forme, ma il cui peso intellettuale e spirituale non può non esercitare una pressione su chiunque sarà a prendere il suo posto. Una cosa però deve essere chiara: a Pasqua non ci saranno due papi, ma uno solo, perché Joseph Ratzinger non sarà più vescovo di Roma ed essere papa significa prima di tutto ed essenzialmente essere “vescovo di Roma”.
L’inedita situazione determinata dalle dimissioni di Benedetto XVI è di grande aiuto per comprendere che cosa significa veramente fare il papa. Fino a ieri “essere papa” e “fare il papa” era la medesima cosa. Fino a ieri la persona e il ruolo si identificavano, non c’era soluzione di continuità, ed anzi, se tra le due dimensioni doveva prevalerne una, era certamente quella di “essere papa” a prevalere, facendo passare in secondo piano il fatto di avere o no le piene possibilità di poterlo fare.
Tutti ricordano, ai tempi della conclamata malattia di Giovanni Paolo II, le ripetute assicurazioni della Sala stampa vaticana sulle sue condizioni di salute. Giovanni Paolo II non poteva più fare il papa, ma lo era, e ciò bastava. Prevaleva la dimensione sacrale, legata all’essenza, al carisma, allo status, all’essere papa a prescindere anche dal proprio corpo. E non a caso Giovanni Paolo II, quando qualcuno gli prospettava l’ipotesi delle dimissioni, era solito ripetere che «dalla croce non si scende».
Benedetto XVI vuole forse scendere dalla croce? No, si tratta di altro, semplicemente del fatto che egli ha prima riconosciuto dentro di sé e poi ha dichiarato pubblicamente che il calo progressivo delle forze fisiche e psichiche non gli permette più di “fare il papa” e quindi intende cessare di “essere papa”. La funzione ha avuto la meglio sull’essenza, il ruolo sull’identità.
Io aggiungo che la laicità ha avuto la meglio sulla sacralità. Si è trattato infatti di una decisione laica, perché opera una distinzione, e laddove c’è distinzione, c’è laicità.
La distinzione tra la persona e il ruolo introdotta ieri da Benedetto XVI con le sue dimissioni si concretizza in queste parole dette in latino ai cardinali: «Le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». C’è un ministero, una funzione, un ruolo, un servizio, che ha la priorità rispetto all’identità della persona.
La parola decisiva nell’annuncio papale di ieri è però un’altra, la seguente: «Nel mondo di oggi». Ecco le sue parole: «Nel mondo di oggi per governare la barca di san Pietro è necessario anche il vigore sia del corpo sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito». Nel mondo di ieri, fa intendere Benedetto XVI, la distinzione tra persona e ruolo poteva ancora non emergere e un Joseph Ratzinger indebolito avrebbe ancora potuto continuare a svolgere il ruolo di Benedetto XVI.
Nel mondo di oggi, invece, non è più così. Io considero queste parole non solo una grande lezione di auto-consapevolezza e di laicità, ma anche una grande occasione di ripensamento per il governo della Chiesa. Le dimissioni di Benedetto XVI possono condurre a una riforma della concezione monarchica e sacrale del papato nata nel Medioevo, e riprendere la concezione più aperta e funzionale che il ruolo del papa aveva nei primi secoli cristiani?
È difficile che ciò avvenga, ma rimane l’urgenza di rimettere al centro del governo della Chiesa la spiritualità del Nuovo Testamento, passando da una concezione che assegna al papato un potere assoluto e solitario, a una concezione più aperta e capace di far vivere nella quotidianità il metodo conciliare. Non si tratta infatti solo delle condizioni di salute di Joseph Ratzinger che vengono meno.
Occorre procedere oltre e giungere a porsi l’inevitabile interrogativo: “nel mondo di oggi” è in grado un unico uomo di guidare la barca di Pietro? Si obietterà che il papa non è solo, ma è circondato da numerosi collaboratori. Ma si tratta di collaboratori ossequienti, spesso scelti tra plaudenti yes-men e senza capacità di istituire un vero confronto e una serrata dialettica interna, condizioni indispensabili per assumere decisioni in grado di far navigare la barca di Pietro “nel mondo di oggi”.
All’inizio però non era così. San Pietro aveva certamente un ruolo di guida nella prima comunità, come si apprende dal libro degli Atti, ma non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso l’anno 50 e l’aperta opposizione di San Paolo verso di lui nell’episodio di Antiochia.
L’annuncio papale di ieri è avvenuto nel contesto di alcune canonizzazioni, una delle quali riguardava i Martiri di Otranto, gli 800 cristiani uccisi dagli ottomani nel 1480 per non aver rinnegato la fede. Martirio è testimonianza. La tradizione della Chiesa però oltre al martirio rosso del sangue versato conosce il martirio verde della vita itinerante per l’apostolato e il martirio bianco per l’abbandono di tutti i propri beni.
Nel caso di Benedetto XVI abbiamo a che fare con un martirio-testimonianza di altro colore, quello del riconoscimento della propria debolezza, della propria incapacità, del proprio non essere all’altezza. È la fine di una modalità di intendere il papato, e può essere la nascita di qualcosa di nuovo.
Prove del fallimento di un papa
Errori e occasioni sprecate: dalla macata condanna dei tedeschi ad Auschwitz alla comunione per i divorziati
di Marco Politi (il Fatto, 13.02.2013)
E se fossero stati otto anni persi? Otto anni in cui tanti problemi già maturi ai tempi di Giovanni Paolo II sono stati semplicemente rimandati senza nemmeno essere avviati a soluzione. Dalla carenza di preti al ruolo delle donne, ad un nuovo approccio alla sessualità, alla rilancio dei rapporti ecumenici.
La cosa più sorprendente, il giorno dopo le dimissioni annunciate di Benedetto XVI, è la calma con cui il popolo cattolico le sta accogliendo. Certo c’è sorpresa e a tratti sconcerto, ma la gran massa ha digerito subito la novità e vuole semmai capire meglio dove papa Ratzinger ha sbagliato. Dove ha fallito. Perché a livello popolare si è capito da tempo che Benedetto XVI è stato “incapace” in termini di leadership e di governo dei problemi planetari della Chiesa cattolica.
D’altronde già l’anno scorso la sua popolarità era caduta al 39 per cento e quella della Chiesa nel 2013 (Eurispes) al 36. Segno di una grave disaffezione dei fedeli e dell’opinione pubblica nei confronti dell’istituzione ecclesiastica e del suo capo.
Ora, tra i difensori a oltranza del papato-idolo (dove tutto ciò che fa il pontefice è perfetto e a sbagliare sono sempre gli altri), si va diffondendo il mito della sua solitudine e di una Curia cattiva, che gli remava contro. Favole. Un papa è sempre solo, diceva Paolo VI. La questione è semmai quali collaboratori si sceglie e l’efficienza con cui realizza la sua strategia.
Le gaffe su gay e preservativi
Benedetto XVI troppe volte si è fermato a metà. Nel 2010 ha condannato con durezza gli abusi sessuali commessi dagli uomini di Chiesa e ha proclamato il dovere dei preti-criminali di recarsi davanti ai tribunali. Poi però non ha emanato un decreto per rendere obbligatorio che i vescovi denuncino i colpevoli. Né ha ordinato che si aprano gli archivi diocesani alla ricerca di denunce insabbiate, che corrispondono a migliaia di vittime inascoltate.
Lo stesso è accaduto con la trasparenza delle finanze vaticane. Nel 2010 il Papa costituisce un’alta autorità finanziaria (AIF), dotata di ampi poteri di ispezione non solo dello Ior ma di ogni movimento di denaro nella Santa Sede. Pochi mesi dopo il suo più stretto collaboratore il Segretario di Stato cardinale Bertone limita drasticamente le competenze dell’autorità finanziaria, incassando poi i rimbrotti della commissione finanziaria europea Moneyval.
Si può forse descrivere Bertone come un nemico accanito del pontefice? In realtà si possono trovare negli scritti di Benedetto XVI molti passi illuminanti sull’essere cristiani nel mondo d’oggi, ma la predicazione anche alta non basta. Serviva il governo concreto, serviva - e non c’è stata - la sensibilità geopolitica e il piglio del governante risolve le questioni aperte e non ne crea.
Troppi i passi falsi. A Regensburg nel 2006 Benedetto XVI non si rende conto che una frase sprezzante di un vecchio imperatore bizantino su Maometto offenderà milioni di musulmani.
Ad Auschwitz non si rende conto che non può attribuire solo ad una “banda di criminali” lo scivolamento della Germania nella barbarie nazista.
Volando in Africa, non si rende conto che affermare che il preservativo peggiora la diffusione dell’Aids è un affronto alla comunità scientifica e al buon senso di tante suore e missionari, che lo distribuiscono per frenare la pandemia.
Ancora poche settimane fa non si rende conto che stringere la mano all’udienza generale alla presidente del Parlamento ugandese, Rebecca Kadaga, che propugna la pena di morte per i gay, è un gesto impensabile mentre monta nelle strade di Roma l’odio anti-gay. Né la semplice lettura delle rassegne stampa gli impedisce di procedere all’annullamento della scomunica del vescovo lefebvriano Williamson, fanatico negatore dell’Olocausto. Glielo hanno tenuto nascosto? Non deve accadere per chi esercita un potere monarchico assoluto. Vuol dire che ha sbagliato nella scelta delle persone cui affida i dossier più delicati.
Le concessioni ai lefebvriani e il disamore dei cattolici
Gli ebrei sono rimasti amareggiati per la riedizione della preghiera del Venerdì Santo nella messa di Pio V, in cui si affaccia nuovamente il tema di una loro cecità rispetto alla venuta di Cristo.
I cattolici si sono disamorati per la sua decisione di reintrodurre a tutti i livelli la messa preconciliare. Ma più ancora la maggioranza dei cattolici è stata ferita dalle sue concessioni ai lefebvriani, permettendo che la retta interpretazione dei testi più importanti del Vaticano II diventassero oggetto di un negoziato con i nemici più fanatici del Concilio.
Quel Concilio che papa Ratzinger ha voluto leggere ossessivamente nell’ottica della “continuità” con la storia della Chiesa, quando i documenti conciliari più fecondi (sulla libertà religiosa, sulla fine dell’antisemitismo, sulla riforma liturgica, sull’ecumenismo, sui rapporti con l’Islam e le religioni orientali) rappresentano una svolta radicale con il passato.
Questioni irrisolte: corruzione e Ior
Iniziando il suo pontificato, Benedetto XVI ha dichiarato di non avere un programma di governo, ma di proporsi solo la sequela della parola di Dio. Non è una nota di merito. Un pontefice, che guida oltre un miliardo di fedeli, deve avere un programma di azione.
L’hanno avuto papi diversissimi come Paolo VI e Pio XII, Wojtyla e Giovanni XXIII. Non averlo ha significato lasciare marcire molte questioni. Il tema della comunione negata ai divorziati risposati papa Ratzinger si proponeva di “studiarlo” nel 2005, appena eletto, e otto anni dopo non aveva ancora una risposta.
Il tema della collegialità, cioè di un governo della Chiesa universale a cui partecipano i vescovi, lo aveva ben chiaro, quando da cardinale poche settimane prima dell’elezione disse che la Chiesa non può più essere governata in modo “monarchico”. Per otto anni ha deciso invece le strategia fondamentali del suo pontificato (verso i lefebvriani, i dissidenti anglicani o sulle questioni ecumeniche) in maniera solitaria e autoritaria.
La sua ripetizione ossessiva dei “principi non negoziabili” ha provocato uno scisma sotterraneo, silenzioso ma profondo, all’interno del Popolo di Dio. L’incapacità di reggere con mano ferma una Curia spaccata e dilaniata da forti conflitti interni, l’incapacità di andare a fondo alle denunce di corruzione di monsignor Viganò o di sostenere il presidente dello Ior Gotti Tedeschi nella richiesta di fare certificare da un’agenzia esterna i bilanci della banca vaticana, sono stati il colpo finale per l’autorità di Benedetto XVI. Il problema non è il maggiordomo infedele, il problema è che nessuno nel Vaticano di Ratzinger ha voluto discutere dei fatti maleolenti emersi dalle carte.
Non è un caso che lunedì una folla non sia precipitata in piazza San Pietro al grido di “non farlo... rimani! ”.
Chi ha il potere assoluto alla fine ne risponde senza mediazioni. Doveva essere un pontificato di transizione. Si è trasformato in una stagnazione. L’abdicazione per molti è arrivata come un sollievo.
Il Papa: “Lascio per l’età avanzata”
L’annuncio durante un discorso in Vaticano. Dal 28 febbraio inizierà la “sede vacante”. A marzo il Conclave
Città del Vaticano. Papa Benedetto XVI ha annunciato a sorpresa le sue dimissioni a partire dal prossimo 28 febbraio. L’annuncio è stato fatto direttamente dal Santo Padre, nel corso di un suo discorso in latino in Vaticano. Il conclave per eleggere il successore di Benedetto XVI si terrà a marzo.
«Il papa ha annunciato che rinuncerà al suo ministero alle 20.00 (le 19 Gmt) del 28 febbraio. Comincerà allora il periodo di “sede vacante”», ha precisato padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, con un annuncio praticamente senza precedenti nella storia della Chiesa Cattolica.
“Ben consapevole della gravità di questo atto - ha detto il Papa -, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005”
“Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio - ha detto Benedetto XVI - sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”.
IL PAPA E’ UN ELETTO E NON UN CONSACRATO!
di don Aldo Antonelli *
Diamo atto a Benedetto XVI di un gesto altamente significativo oltre che coraggioso. Il coraggio è patente: grazie a Dio (almeno in questo caso) l’attaccamento al potere non ha obnubilato la coscienza del dovere. Ma è ancor più interessante saper leggere nell’evento, veramente straordinario, la portata, diciamo, demistificatoria e desacralizzante della figura del Papa, sempre vista come una specie di “consacrazione” vita natural durante! Si è voluto ipostatizzare la figura e la funzione del Papa all’interno di un ruolo “sacro”, immune dai condizionamenti dell’età, della malattia e della salute. Ben venuto allora questo gesto a ricordarci che il papato è una “funzione” più che una “vocazione”, una “elezione” e non una “consacrazione”.
C’è ancora un lungo cammino da percorrere per sottrarre il papato alla iconografia sacrale e riconsegnarlo alle dimensioni evangeliche del servizio.
A cominciare dallo stesso linguaggio che ancora negli anni del terzo millennio di cristianesimo continua a coniugare la figura del papa con il Voi Maiestatico e con appellativi che sono delle vere eresia. Per esempio il titolo di "Vicario di Cristo", che è quanto meno sconcertante. Nel diritto canonico la nozione di potestà vicaria è molto chiara. Mentre il potere delegato si può usare anche in presenza del delegante, il potere vicario si esercita in assenza di colui che esercita la potestà diretta e sovrana. Dire che il papa è il vicario di Cristo pone i cattolici di fronte a un dilemma angosciante: o Cristo è presente nella Chiesa mediante lo Spirito e allora il potere del papa è praticamente nullo, o almeno strettamente amministrativo, oppure Cristo è assente dalla Chiesa, e allora sorgono gravi problemi teologici.
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Chi lascia orfani Benedetto XVI
di Massimo Faggioli (“L’Huffington Post”, 11 febbraio 2013)
Papa Benedetto XVI si è dimesso ed è un fatto senza precedenti nella storia del pontificato globale moderno: non è chiaro se queste dimissioni inaugureranno un precedente, al contrario delle poche dimissioni avvenute in epoca medievale.
La chiesa non è una dittatura in cui il pontefice è un sovrano che agisce in uno “stato di eccezione”: il canone 332 del Codice di diritto canonico prevede questa possibilità. Ma c’è un altro modo di interpretare le dimissioni, suggerito dalla formula usata da Benedetto XVI per spiegare la decisione: “ingravescentem aetatem”. Questa formula latina non è solo usata per spiegare il peso degli anni, ma richiama parola per parola un motu proprio di Paolo VI, la Ingravescentem aetatem, che nel 1970 introduceva il limite di età di 75 anni per i cardinali di curia romana (e di 80 anni per entrare in conclave ed eleggere il nuovo papa), dopo che un documento del concilio Vaticano II nel 1965 aveva introdotto il limite di età a 75 anni per i vescovi diocesani.
C’è una lettura personale di queste dimissioni: gli osservatori non sarebbero stati sorpresi dalle dimissioni di Benedetto XVI nei primi anni del pontificato, specialmente tra 2006 e l’inizio del 2009, quelli più difficili, punteggiati dagli incidenti diplomatici del discorso di Regensburg e del caso del vescovo lefebvriano antisemita Williamson.
Poi nel 2010 sono iniziati i riverberi degli scandali degli abusi sessuali in America e in Europa che hanno elevato Benedetto XVI ad obbiettivo primario (in qualche caso, anche nelle corti di giustizia). Un papa eletto quasi sette anni fa già con un “brand” molto preciso di conservatore ha dovuto far fronte a venti contrari come nessun papa dell’era mediatica, dentro e fuori la chiesa. A questo si sono aggiunti esempi di grossolano mismanagement della Curia romana da parte del suo inner circle che hanno complicato una situazione prodotta da un conclave che elesse un teologo eminente quanto divisivo.
Ma c’è anche una lettura funzionale di queste dimissioni, che in un certo senso sono testimonianza dell’esperienza conciliare di Joseph Ratzinger. Il concilio Vaticano II fu l’inizio della ridefinizione della “job description” per tutti i ministri della chiesa, ma specialmente per i vescovi cattolici di tutto il mondo: un lavoro sempre più complesso, che richiede competenze tipiche di un leader, di un mediatore, di un comunicatore esperto dei media, e di un amministratore delegato - ma sempre soggetti al Vaticano e con un mandato che termina sempre a 75 anni di età, per i vescovi.
Da oggi in poi, nella teologia del papato e nella scienza canonistica qualcuno potrebbe affermare, senza tema di smentita, che quella legge della chiesa sulle dimissioni dei vescovi si applica anche al papa, vescovo di Roma. Ma restano aperte moltissime questioni. Sul conclave, ovvero quale sarà il ruolo del papa in esso e nella sua preparazione. Sul futuro di Joseph Ratzinger - già Benedetto XVI, primo papa emerito. Sull’agenda Ratzinger, se essa rimarrà valida per il conclave e per il futuro papa.
Le dimissioni lasciano teologicamente, spiritualmente e politicamente orfani parecchi cattolici, ecclesiastici e laici, in questo momento: nella curia romana, tra i vescovi, tra i teologi, and last but not least tra i neo-conservatori italiani e americani (e anche tra qualche ex marxista ora ratzingeriano). Quanto all’Italia, questo pontificato aveva scelto fin dall’inizio di non farsi coinvolgere più di tanto nella politica italiana, sfiorando più volte il peccato di omissione.
Le elezioni politiche italiane del 2013, che si terranno con la sede apostolica sostanzialmente vacante, sono l’epigrafe di un pontificato che - va detto - ha sempre visto nella dimensione politica e giuridica della chiesa e del papato due elementi di disturbo più che di aiuto alla missione della chiesa.
In questo senso, un pontificato più post-conciliare che conciliare, e nel caso di Ratzinger questa è una somma ironia. C’è da chiedersi quanto la chiesa cattolica romana mondiale possa permettersi, oggi, una visione così spiritualista di se stessa
Lo strappo definitivo tra la Chiesa e il Pdl
di Claudio Tito (la Repubblica, 11 febbraio 2013)
L’ultimo strappo tra i vertici della Chiesa italiana e il Pdl si è consumato proprio in queste ore. Con uno sgarbo che Segreteria di Stato e presidenza della Cei considerano poco digeribile. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano, infatti, dopo aver disertato il concerto con il Papa, non prenderà parte nemmeno al tradizionale ricevimento che celebra l’anniversario dei Patti Lateranensi. Ci sarà Mario Monti, in qualità di presidente del consiglio, e il leader Udc, Pier Ferdinando Casini. Pierluigi Bersani, invece, presente al concerto con Benedetto XVI ha fatto sapere per tempo di non poter partecipare all’appuntamento.
A meno di un cambio di programma dell’ultima ora da parte di Alfano (che comunque verrebbe considerato tardivo dal punto di vista dei rapporti “politici”), domani pomeriggio nella sede dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede non ci sarà quindi nessuno dei “big” del Pdl. Non essendo previsto neanche Silvio Berlusconi. Non mancherà l’“ambasciatore” del Cavaliere, Gianni Letta, ma si tratta comunque di una lesione nei contatti tra Chiesa e centrodestra mai così evidente. Anzi, la “fotografia” nei saloni di Palazzo Borromeo dei cosiddetti “colloqui in piedi” senza una “presenza berlusconiana” non ha di fatto precedenti dal 1994. Del resto l’allontanamento delle attuali gerarchie ecclesiastiche dai rappresentanti pidiellini negli ultimi due anni è stato progressivo.
Eppure la “foto” di domani è anche il frutto di un ultimo scontro che si sta consumando all’interno della Conferenza episcopale italiana e con la Segreteria di Stato. Una battaglia che in questo caso vede alleati Tarcisio Bertone, numero uno della Curia, il presidente della Cei Angelo Bagnasco e l’Appartamento papale. Sull’altro fronte la “destra curiale” che sul versante della Cei si basa sull’asse cosrtuito da Ruini con il Patriarca di Venezia Moraglia e all’interno del Vaticano sulla convergenza tra il prefetto della Congregazione per il Clero Mauro Piacenza e monsignor Balestrero.
L’ultimo affondo della “corrente” ruiniana, infatti, c’è stato in occasione delle formazione delle liste elettorali. Secondo Don Camillo, il Cavaliere resta il «male minore» e lo strumento per conseguire un «risultato utile», al punto di benedire nel Lazio il patto tra Francesco Storace e Eugenia Roccella. «Berlusconi - va ripetendo da settimane - i voti ancora ce li ha». L’ipotesi di un’intesa tra il centrosinistra e la lista di Monti viene considerata «inappropriata». Non a caso, proprio i “bracci armati” di Ruini - a cominciare da Monsignor Fisichella - avevano chiesto a gennaio ai rappresentanti di Scelta Civica e al leader centrista Casini di mettersi alla guida di un nuovo centrodestra cercando di replicare una sorta di “Operazione Sturzo”. Con l’obiettivo, appunto, di rendere impossibile la successiva alleanza con lo schieramento di Bersani in virtù dei «valori non negoziabili».
Una linea contestata dall’asse Bertone-Bagnasco. Entrambi, infatti, considerano la presenza del Cavaliere nella corsa elettorale un ostacolo insormontabile sia a causa delle vicende Noemi e Ruby, sia per l’immagine internazionale dell’ex premier. Dopo le tensioni piuttosto vistose dei mesi scorsi, quindi, tra Segreteria di Stato e Cei è stata siglata una sorta di «tregua operosa». Resa plasticamente visibile alla presentazione alcune settimane fa del libro “La porta stretta” che raccoglie le prolusioni del presidente della Cei.
Un patto che, secondo gli uomini più vicini ai vertici episcopali e della Curia, si basa anche sui nuovi orientamenti dei credenti praticanti. L’attivismo “ruiniano”, infatti, non sembra aver preso piede tra i cattolici di base se si considera il recente sondaggio pubblicato dal mensile Jesus: Pd e Scelta Civica sono in cima alle loro preferenze e il centrodestra scivola sempre più dietro. Anzi, tra quelli che un tempo votavano per il Cavaliere emerge la tentazione-Grillo. Per di più i «valori non negoziabili» non vengono considerati un criterio fondamentale per le scelte politiche.
La disposizione verso il superamento del “rapporto esclusivo” con il centrodestra sta diventando quindi il perno di quella ricucitura di rapporti tra Bertone, Bagnasco e l’Appartamento papale. Basti pensare all’appello lanciato pochi giorni fa proprio dal capo della Cei che tutti hanno interpretato come un ulteriore stop al Cavaliere: «Gli italiani hanno bisogno della verità delle cose, senza sconti, senza tragedie ma anche senza illusioni. La gente non si fa più abbindolare da niente e da nessuno».
Ma questa scelta viene appunto criticata dalla componente “ruiniana” e dai conservatori. Al punto di tentare un accordo con l’ala più conservatrice della Chiesa. Non è un caso che di recente sia partita un’offensiva diplomatica con il Cardinale Piacenza (che aspirava alla successione di Bertone in Segreteria di Stato), con Moraglia (Patriarca di Venezia), e con l’arcivescovo di Ferrara Luigi Negri (vicino a Cl) e monsignor Balestrero (Sottosegretario per i Rapporti con gli Stati). A loro è offerta una sponda per creare un nuovo rapporto di forze. Si tratta di uno scontro che dentro la Curia richiama alla memoria il vecchio duello tra Papa Montini, Paolo VI, e l’arcivescovo Roberto Ronca, esponente della destra romana e della corrente più tradizionalista di Coetus Internationalis Patrum.
Ma soprattutto ha aperto con un certo anticipo la scacchiera per il futuro Conclave. Sta di fatto che in questa fase Bertone e Bagnasco non intendono accettare l’idea di una nuova concessione a Berlusconi né giustificare alcune sue gaffe con il pricipio della “contestualizzazione”.
I vertici della Cei, prima di optare per l’addio definitivo, avevano chiesto proprio ad Alfano - ottenendole - garanzie sulla necessità che Berlusconi non sarebbe ricandidato come guida. Assicurazioni che poi sono state smentite. Le differenze tra il Segretario di Stato e il presidente della Cei riguarderanno semmai la gestione delle scelte per il dopo voto. Ma al momento c’è un anello che li unisce: guardare al dopo-Berlusconi.
Un esempio di latino moderno
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 12 febbraio 2013)
Il testo originale del comunicato con cui Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni è scritto, come è ovvio, in un latino costruito con prestiti ricavati da autori delle più diverse epoche. È una specie di mosaico che abbraccia quasi due millenni di latinità: dal ciceroniano «ingravescente aetate» al disinvolto «ultimis mensibus» che figura in scritti ottocenteschi (addirittura del calvinista Bachofen), fino al «portare pondus» che ricorre in Flavio Vegezio, Epitoma rei militaris, ma più frequentemente in autori quali Raimondo Lullo (Ars amativa boni), Tommaso da Kempis o anche nei sermoni di Bernardo di Chiaravalle.
Spicca come prelievo dal dotto e audace Rufino traduttore di Origene, l’espressione «incapacitatem meam». Per altro verso solide attestazioni di epoca classica, da Quintiliano a Plinio, sorreggono la frase più importante di tutto il testo e cioè: «declaro me ministerio renuntiare» («dichiaro di rinunciare al mio ruolo di Papa»).
Peccato però che, per una svista imputabile a qualche collaboratore turbato dalla gravità dell’annunzio, proprio nella frase cruciale sia stata inferta una ferita alla sintassi latina, visto che al dativo ministerio viene collegato l’intollerabile accusativo commissum («incombenza affidatami»). Avrebbe dovuto esserci, per necessaria concordanza, il dativo commisso.
Come consolarsi di questo lapsus? Pensando per esempio ai rari ma disturbanti errori di latino che macchiavano le Quaestiones callimacheae di un grande filologo come Giorgio Pasquali, rettificate però nella ristampa realizzata poi dal bravissimo Giovanni Pascucci, grammatico fiorentino. Ma non è impertinente comparare un filologo laico con un Pontefice regnante? L’errore - si sa - si insinua sempre. Come il periodo tedesco, così il periodo latino è «ein Bild» (un quadro), in cui ogni tassello ha un suo posto e la ferita inferta alle concordanze risulta tanto più dolorosa.
Analogo incidente è avvenuto addirittura nella frase di apertura, dove il Pontefice dice ai «fratelli carissimi» che li ha convocati «per comunicare una decisione di grande momento per la vita della Chiesa»: ma si legge pro ecclesiae vitae laddove avremmo desiderato pro ecclesiae vita.
Sia stato il turbamento o sia stata la fretta, resta il disagio per le imperfezioni di un testo destinato a passare alla storia. È bensì vero che il latino dei moderni riflette la ricchezza e la novità della lingua dei moderni, ma alcuni pilastri della sintassi non possono, neanche in omaggio al «nuovo che avanza», essere infranti.
Sesso e carriera i ricatti in Vaticano dietro la rinuncia di Benedetto XVI
di Concita De Gregorio (la Repubblica, 21 febbraio 2013)
"In questi 50 anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste, si traduce sempre in peccati personali che possono divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre la zizzania. Che nella rete di Pietro si trovano i pesci cattivi".
La zizzania. I pesci cattivi. Le "strutture del peccato". È giovedì 11 ottobre, Santa Maria Desolata. È il giorno in cui la Chiesa fa memoria di papa Giovanni XXIII, cinquant’anni dal principio del Concilio. Benedetto XVI si affaccia al balcone e ai ragazzi dell’Azione cattolica raccolti in piazza dice così: «Cinquant’anni fa ero come voi in questa piazza, con gli occhi rivolti verso l’alto a guardare e ascoltare le parole piene di poesia e di bontà del Papa. Eravamo, allora, felici. Pieni di entusiasmo, eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa». Breve pausa. Eravamo felici, al passato. «Oggi la gioia è più sobria, è umile. In cinquant’anni abbiamo imparato che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa». Che c’è la zizzania, ci sono i pesci cattivi.
Nessuno ha capito, in quel pomeriggio di ottobre. I ragazzi in piazza hanno applaudito e pianto il ricordo di papa Giovanni. Nessuno sapeva che due giorni prima Benedetto XVI aveva di nuovo incontrato il cardinale Julian Herranz, 83 anni, lo spagnolo dell’Opus Dei da lui incaricato di presiedere la commissione d’indagine su quello che i giornali chiamano Vatileaks. Il corvo, la fuga di notizie, le carte rubate dall’appartamento del Papa.
Herranz ha aggiornato Ratzinger con regolarità. Ogni settimana, in colloquio riservato, da aprile a dicembre. Il Papa ha appreso con crescente apprensione gli sviluppi dell’inchiesta: decine e decine di interviste a prelati, porporati, laici. In Italia e all’estero. Decine e decine di verbali riletti e sottoscritti dagli intervistati. Le stesse domande per tutti, dapprima, poi interviste libere. Controlli incrociati. Verifiche. Un quadro da cui veniva emergendo una rete di lobby che i tre cardinali hanno diviso per provenienza di congregazione religiosa, per origine geografica. I salesiani, i gesuiti. I liguri, i lombardi.
Infine, quel giorno di ottobre, il passaggio più scabroso. Una rete trasversale accomunata dall’orientamento sessuale. Per la prima volta la parola omosessualità è stata pronunciata, letta a voce alta da un testo scritto, nell’appartamento di Ratzinger. Per la prima volta è stata scandita, sebbene in latino, la parola ricatto: «influentiam», Sua Santità. Impropriam influentiam.
17 dicembre 2012, San Lazzaro. I tre cardinali consegnano nelle mani del Pontefice il risultato del loro lavoro. Sono due tomi di quasi 300 pagine. Due cartelle rigide rilegate in rosso, senza intestazione. Sotto "segreto pontificio", sono custodite nella cassaforte dell’appartamento di Ratzinger. Le conosce soltanto, oltre a Lui, chi le ha scritte. Contengono una mappa esatta della zizzania e dei pesci cattivi. Le «divisioni nel corpo ecclesiale che deturpano il volto della Chiesa», dirà il Papa quasi due mesi dopo nell’Omelia delle Ceneri.
È quel giorno, con quelle carte sul tavolo, che Benedetto XVl prende la decisione tanto a lungo meditata. È in quella settimana che incontra il suo biografo, Peter Seewald, e poche ore dopo aver ricevuto i tre cardinali gli dice «sono anziano, basta ciò che ho fatto». Quasi le stesse parole, in quell’intervista poi pubblicata su Focus, che dirà a febbraio al concistoro per i martiri di Otranto: «Ingravescente aetate». «Noi siamo un Papa anziano», aveva già allargato le braccia molte volte, negli ultimi mesi, in colloqui riservati.
Dunque nella settimana prima di Natale il Papa prende la sua decisione. Con queste parole la commenta il cardinale Salvatore De Giorgi, un altro dei tre inquisitori che redigono la "Relationem", presente al momento della rinuncia: «Ha fatto un gesto di fortezza, non di debolezza.
Lo ha fatto per il bene della Chiesa. Ha dato un messaggio forte a tutti quanti nell’esercizio dell’autorità o del potere si ritengono insostituibili. La Chiesa è fatta di uomini. Il Pontefice ha visto i problemi e li ha affrontati con un’iniziativa tanto inedita quanto lungimirante». Ha assunto su di sé la croce, insomma. Non ne è sceso, al contrario. Ma chi sono «coloro che si ritengono insostituibili?». Riecheggiano le parole dell’Angelus di domenica scorsa: bisogna «smascherare le tentazioni del potere che strumentalizzano Dio per i propri interessi».
La "Relationem" ora è lì. Benedetto XVI la consegnerà nelle mani del prossimo Papa, che dovrà essere abbastanza forte, e giovane, e «santo» - ha auspicato - per affrontare l’immane lavoro che lo attende. È disegnata, in quelle pagine, una geografia di «improprie influenze» che un uomo molto vicino a chi le ha redatte descrive così: «Tutto ruota attorno alla non osservanza del sesto e del settimo comandamento». Non commettere atti impuri. Non rubare. La credibilità della Chiesa uscirebbe distrutta dall’evidenza che i suoi stessi membri violano il dettato originario. Questi due punti, in specie. Vediamo il sesto comandamento, atti impuri. La Relazione è esplicita. Alcuni alti prelati subiscono «l’influenza esterna» - noi diremmo il ricatto - di laici a cui sono legati da vincoli di "natura mondana".
Sono quasi le stesse parole che aveva utilizzato monsignor Attilio Nicora, allora ai vertici dello Ior, nella lettera rubata dalle segrete stanze al principio del 2012: quella lettera poi pubblicata colma di omissis a coprire nomi. Molti di quei nomi e di quelle circostanze riaffiorano nella Relazione. Da vicende remote, come quella di monsignor Tommaso Stenico sospeso dopo un’intervista andata in onda su La 7 in cui raccontava di incontri sessuali avvenuti in Vaticano.
Riemerge la vicenda dei coristi di cui amava circondarsi il Gentiluomo di sua Santità Angelo Balducci, agli atti di un’inchiesta giudiziaria. I luoghi degli incontri. Una villa fuori Roma. Una sauna al Quarto Miglio. Un centro estetico in centro. Le stanze vaticane stesse. Una residenza universitaria in via di Trasone data in affitto ad un ente privato e reclamata indietro dal Segretario di Stato Bertone, residenza abitualmente utilizzata come domicilio romano da un arcivescovo veronese.
Si fa menzione del centro "Priscilla", che persino da ritagli di stampa risulta essere riconducibile a Marco Simeon, il giovane sanremese oggi ai vertici della Rai e già indicato da monsignor Viganò come l’autore delle note anonime a suo carico. Circostanze smentite dai protagonisti sui giornali, ma approfondite e riprese dalla Relazione con dovizia di dettagli.
I tre cardinali hanno continuato a lavorare anche oltre il 17 dicembre scorso. Sono arrivati fino alle ultime vicende che riguardano lo Ior - qui si passa al settimo comandamento - ascoltando gli uomini su cui confida Tarcisio Bertone a partire dal suo braccio destro, il potentissimo monsignor Ettore Balestrero, genovese, classe 1966. Sono arrivati fino alla nomina del giovane René Bruelhart alla direzione dell’Aif, l’autorità finanziaria dell’Istituto.
Il terzo dei cardinali inquirenti, Josef Tomko, è il più anziano e dunque il più influente della triade. Ratzinger lo ha richiamato in servizio a 88 anni. Slovacco, era stato con Woijtyla a capo del controspionaggio vaticano. Aveva seguito di persona la spinosa questione dei contributi anche economici alla causa polacca come delegato ai rapporti con l’Europa orientale. Dopo monsignor Luigi Poggi, scomparso nel 2010, è l’ultimo custode di quella che ancora oggi si chiama l’Entità, il "Sodalitium pianum" di antica memoria, il servizio segreto vaticano formalmente smantellato da Benedetto XV, nel nome predecessore di Ratzinger.
Poiché i simboli e i gesti, a San Pietro, contano assai più delle parole chi è molto addentro alle liturgie vaticane fa notare questo. Nell’ultimo giorno del suo pontificato, Benedetto XVI riceverà i tre cardinali estensori della Relationem in udienza privata. Subito dopo, al fianco di Tomko, vedrà i vescovi e i fedeli slovacchi in Santa Maria Maggiore. La sua ultima udienza pubblica. 27 febbraio, San Procopio il Decapolita, confessore. Poi il conclave.