«La vera libertà è dire sì a Dio»
Ieri Benedetto XVI ha dedicato la sua catechesi a san Massimo «il Confessore» definito «uno dei grandi Padri della Chiesa d’Oriente del tempo tardivo»
«La tolleranza, la libertà, il dialogo rimangono veri valori solo se hanno il punto di riferimento nella figura di Cristo, in cui impariamo la verità di noi stessi e dove collocare gli altri valori» *
Cari fratelli e sorelle, vorrei presentare oggi la figura di uno dei grandi Padri della Chiesa di Oriente del tempo tardivo. Si tratta di un monaco, san Massimo, che meritò dalla Tradizione cristiana il titolo di Confessore per l’intrepido coraggio con cui seppe testimoniare - «confessare» - anche con la sofferenza l’integrità della sua fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, Salvatore del mondo. Massimo Nacque in Palestina, la terra del Signore, intorno al 580. Fin da ragazzo fu avviato alla vita monastica e allo studio delle Scritture, anche attraverso le opere di Origene, il grande maestro che già nel terzo secolo era giunto a «fissare» la tradizione esegetica alessandrina.
Da Gerusalemme, Massimo si trasferì a Costantinopoli, e da lì, a causa delle invasioni barbariche, si rifugiò in Africa. Qui si distinse con estremo coraggio nella difesa dell’ortodossia. Massimo non accettava alcuna riduzione dell’umanità di Cristo.
Era nata la teoria secondo cui in Cristo vi sarebbe solo una volontà, quella divina. Per difendere l’unicità della sua persona, negavano in Lui una vera e propria volontà umana. E, a prima vista, potrebbe apparire anche una cosa buona che in Cristo ci sia una sola volontà. Ma san Massimo capì subito che ciò avrebbe distrutto il mistero della salvezza, perché una umanità senza volontà, un uomo senza volontà non è un vero uomo, è un uomo amputato. Quindi l’uomo Gesù Cristo non sarebbe stato un vero uomo, non avrebbe vissuto il dramma dell’essere umano, che consiste proprio nella difficoltà di conformare la volontà nostra con la verità dell’essere. E così san Massimo afferma con grande decisione: la Sacra Scrittura non ci mostra un uomo amputato, senza volontà, ma un vero uomo completo: Dio, in Gesù Cristo, ha realmente assunto la totalità dell’essere umano - ovviamente eccetto il peccato - quindi anche una volontà umana.
E la cosa, detta così, appare chiara: Cristo o è o non è uomo. Se è uomo, ha anche una volontà. Ma nasce il problema: non si finisce così in una sorta di dualismo? Non si arriva ad affermare due personalità complete: ragione, volontà, sentimento? Come superare il dualismo, conservare la completezza dell’essere umano e tuttavia tutelare l’unità della persona di Cristo, che non era schizofrenico. E san Massimo dimostra che l’uomo trova la sua unità, l’integrazione di se stesso, la sua totalità non in se stesso, ma superando se stesso, uscendo da se stesso. Così, anche in Cristo, uscendo da se stesso, l’uomo trova in Dio, nel Figlio di Dio, se stesso. Non si deve amputare l’uomo per spiegare l’Incarnazione; occorre solo capire il dinamismo dell’essere umano che si realizza solo uscendo da se stesso; solo in Dio troviamo noi stessi, la nostra totalità e completezza. Così si vede che non l’uomo che si chiude in sé è uomo completo, ma l’uomo che si apre, che esce da se stesso, diventa completo e trova se stesso proprio nel Figlio di Dio, trova la sua vera umanità.
Per san Massimo questa visione non rimane una speculazione filosofica; egli la vede realizzata nella vita concreta di Gesù, soprattutto nel dramma del Getsemani. In questo dramma dell’agonia di Gesù, dell’angoscia della morte, della opposizione tra la volontà umana di non morire e la volontà divina che si offre alla morte, in questo dramma del Getsemani si realizza tutto il dramma umano, il dramma della nostra redenzione.
San Massimo ci dice, e noi sappiamo che questo è vero: Adamo (e Adamo siamo noi stessi) pensava che il «no» fosse l’apice della libertà. Solo chi può dire «no» sarebbe realmente libero; per realizzare realmente la sua libertà, l’uomo deve dire «no» a Dio; solo così pensa di essere finalmente se stesso, di essere arrivato al culmine della libertà. Questa tendenza la portava in se stessa anche la natura umana di Cristo, ma l’ha superata, perché Gesù ha visto che non il «no» è il massimo della libertà. Il massimo della libertà è il «sì», la conformità con la volontà di Dio. Solo nel «sì» l’uomo diventa realmente se stesso; solo nella grande apertura del «sì», nella unificazione della sua volontà con quella divina, l’uomo diventa immensamente aperto, diventa «divino». Essere come Dio era il desiderio di Adamo, cioè essere completamente libero. Ma non è divino, non è completamente libero l’uomo che si chiude in sé stesso; lo è uscendo da sé, è nel «sì» che diventa libero; e questo è il dramma del Getsemani: non la mia volontà, ma la tua. Trasferendo la volontà umana nella volontà divina, è così che nasce il vero uomo, così siamo redenti.
Questo, in brevi parole, è il punto fondamentale di quanto voleva dire san Massimo, e vediamo che qui è veramente in questione tutto l’essere umano; sta qui l’intera questione della nostra vita. San Massimo aveva già problemi in Africa difendendo questa visione dell’uomo e di Dio; poi fu chiamato a Roma. Nel 649 prese parte attiva al Concilio Lateranense, indetto dal Papa Martino I a difesa delle due volontà di Cristo, contro l’editto dell’imperatore, che - pro bono pacis - proibiva di discutere tale questione. Il Papa Martino dovette pagare caro il suo coraggio: benché malandato in salute, venne arrestato e tradotto a Costantinopoli. Processato e condannato a morte, ottenne la commutazione della pena nel definitivo esilio in Crimea, dove morì il 16 settembre 655, dopo due lunghi anni di umiliazioni e di tormenti.
Poco tempo più tardi, nel 662, fu la volta di Massimo, che - opponendosi anche lui all’imperatore - continuava a ripetere: «È impossibile affermare in Cristo una sola volontà!» (cfr PG 91, cc. 268-269). Così, insieme a due suoi discepoli, entrambi chiamati Anastasio, Massimo fu sottoposto a un estenuante processo, benché avesse ormai superato gli ottant’anni di età. Il tribunale dell’imperatore lo condannò, con l’accusa di eresia, alla crudele mutilazione della lingua e della mano destra - i due organi mediante i quali, attraverso le parole e gli scritti, Massimo aveva combattuto l’errata dottrina dell’unica volontà di Cristo. Infine il santo monaco, così mutilato, venne esiliato nella Colchide, sul Mar Nero, dove morì, sfinito per le sofferenze subite, all’età di 82 anni, il 13 agosto dello stesso anno 662.
Parlando della vita di Massimo, abbiamo accennato alla sua opera letteraria in difesa dell’ortodossia. Ci siamo riferiti in particolare alla Disputa con Pirro, già patriarca di Costantinopoli: in essa egli riuscì a persuadere l’avversario dei suoi errori. Con molta onestà, infatti, Pirro concludeva così la Disputa: «Chiedo scusa per me e per quelli che mi hanno preceduto: per ignoranza siamo giunti a questi assurdi pensieri e argomentazioni; e prego che si trovi il modo di cancellare queste assurdità, salvando la memoria di quelli che hanno errato» ( PG 91, c. 352). Ci sono poi giunte alcune decine di opere importanti, tra le quali spicca la Mistagoghía, uno degli scritti più significativi di san Massimo, che raccoglie in sintesi ben strutturata il suo pensiero teologico.
Quello di san Massimo non è mai un pensiero solo teologico, speculativo, ripiegato su se stesso, perché ha sempre come punto di approdo la concreta realtà del mondo e della sua salvezza. In questo contesto, nel quale ha dovuto soffrire, non poteva evadere in affermazioni filosofiche solo teoriche; doveva cercare il senso del vivere, chiedendosi: chi sono io, che cosa è il mondo? All’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, Dio ha affidato la missione di unificare il cosmo. E come Cristo ha unificato in se stesso l’essere umano, nell’uomo il Creatore ha unificato il cosmo. Egli ci ha mostrato come unificare nella comunione di Cristo il cosmo e così arrivare realmente a un mondo redento. A questa potente visione salvifica fa riferimento uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo, Hans Urs von Balthasar, che - «rilanciando» la figura di Massimo - definisce il suo pensiero con l’icastica espressione di Kosmische Liturgie, «liturgia cosmica ». Al centro di questa solenne «liturgia » rimane sempre Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. L’efficacia della sua azione salvifica, che ha definitivamente unificato il cosmo, è garantita dal fatto che egli, pur essendo Dio in tutto, è anche integralmente uomo - compresa anche l’«energia » e la volontà dell’uomo.
La vita e il pensiero di Massimo restano potentemente illuminati da un immenso coraggio nel testimoniare l’integrale realtà di Cristo, senza alcuna riduzione o compromesso. E così appare chi è veramente l’uomo, come dobbiamo vivere per rispondere alla nostra vocazione. Dobbiamo vivere uniti a Dio, per essere così uniti a noi stessi e al cosmo, dando al cosmo stesso e all’umanità la giusta forma. L’universale «sì» di Cristo, ci mostra anche con chiarezza come dare il collocamento giusto a tutti gli altri valori.
Pensiamo a valori oggi giustamente difesi quali la tolleranza, la libertà, il dialogo. Ma una tolleranza che non sapesse più distinguere tra bene e male diventerebbe caotica e autodistruttiva. Così pure: una libertà che non rispettasse la libertà degli altri e non trovasse la comune misura delle nostre rispettive libertà, diventerebbe anarchia e distruggerebbe l’autorità. Il dialogo che non sa più su che cosa dialogare diventa una chiacchiera vuota.
Tutti questi valori sono grandi e fondamentali, ma possono rimanere veri valori soltanto se hanno il punto di riferimento che li unisce e dà loro la vera autenticità. Questo punto di riferimento è la sintesi tra Dio e cosmo, è la figura di Cristo nella quale impariamo la verità di noi stessi e impariamo così dove collocare tutti gli altri valori, perché scopriamo il loro autentico significato. Gesù Cristo è il punto di riferimento che dà luce a tutti gli altri valori. Questa è il punto di arrivo della testimonianza di questo grande Confessore. E così, alla fine, Cristo ci indica che il cosmo deve divenire liturgia, gloria di Dio e che la adorazione è l’inizio della vera trasformazione, del vero rinnovamento del mondo.
Perciò vorrei concludere con un brano fondamentale delle opere di san Massimo: «Noi adoriamo un solo Figlio, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, come prima dei tempi, così anche ora, e per tutti i tempi, e per i tempi dopo i tempi. Amen!» ( PG 91, c. 269).
* Avvenire/l’udienza del mercoledì, 26.02.2008
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!!
Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico ....
FLS
Così Gesù rifiutato continua ad amarci
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 1 luglio 2021)
«Ma non è il falegname, il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone?» Poche pagine prima questi stessi fratelli sono scesi a Cafarnao per riportarselo a casa, il loro cugino strano, perché dicevano: è andato, è fuori di testa; lo danno per eretico, dobbiamo proteggerlo anche da se stesso. E adesso a Nazaret, dove si conoscono tutti, dove si sa tutto di tutti (o almeno così si crede), la gente si stupisce di discorsi mai sentiti, di parole che sembrano venire non dalla sacra scrittura, come l’hanno sempre ascoltata in sinagoga, e forse neppure da Dio: da dove mai gli vengono queste cose?
Ed era per loro motivo di scandalo. Che cosa li scandalizza? L’umanità, la familiarità di un Dio che abbandona il tempio ed entra nell’ordinarietà di ogni casa, diventando il "God domestic" (Giuliana di Norwich, sec. XIII), il Dio di casa. Gesù, rabbi senza titoli e con i calli alle mani, si è messo a raccontare Dio con parabole che sanno di casa, di terra, di orto, dove un germoglio, un grano di senape, un fico a primavera diventano personaggi di una rivelazione. Scandalizza l’umiltà di Dio. Non può essere questo il nostro Dio. Dov’è la gloria e lo splendore dell’Altissimo?
E i suoi discepoli, questi ragazzi di fuori, pratici solo di barche, cos’hanno di più di Joses, Giacomo, Giuda e Simone? Non erano meglio i giovani del paese? Un profeta non è disprezzato che in casa sua... Osservazione che ci raggiunge tutti, circondati come siamo da sillabe di Dio, gocce di profezia sulla bocca e nei gesti di mille persone, in casa, per strada, al lavoro, o in un’altra parte del mondo.
Ma noi: non sono all’altezza, diciamo; e li misuriamo, li soppesiamo, diamo loro i voti, troviamo scuse, anziché aprirci. E Dio si stupisce, ma non desiste e ripete: "ascoltino o non ascoltino, sappiano che un profeta almeno si trova in mezzo a loro" (Ez. 2,5). Siamo circondati da profeti, magari piccoli, magari minimi, ma continuamente inviati. E noi, come gli abitanti di Nazaret, dilapidiamo e sperperiamo i nostri profeti, senza ascoltare l’inedito di Dio.
Anche Gesù al rifiuto dei suoi compaesani si stupisce, ma non desiste. La sua risposta non è né rancore, né condanna, tanto meno depressione, ma una meraviglia che rivela come Dio ha un cuore di luce: "Non vi poté operare nessun prodigio". Ma subito si corregge: "Solo impose le mani a pochi malati e li guarì".
Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’innamorato respinto continua ad amare, anche senza ritorno. Di noi Dio non è stanco: è solo stupito. E allora"manda ancora profeti, uomini certi di Dio, uomini dal cuore in fiamme, e Tu a parlare dai loro roveti" (Turoldo).
(Letture: Ezechièle 2,2-5; Salmo 122; Seconda Lettera ai Corìnzi 12,7-10; Marco 6,1-6)
La Carità Pelosa
di Aldo Antonelli *
Così si chiamava, dalle nostre parti, l’amore prigioniero del gesto pietoso e cieco della responsabilità adulta: "Carità Pelosa".
L’espressione mi è tornata in mente di fronte all’uscita geniale del Tremonti che reistaura, in chiave moderna, la vecchia "tessera annonaria"...in piena linea con la cultura fascista e con la morale doppiopettista della destra.
Sì: carità pelosa!
Si tratta di un sentimento epidermico di compassione emotiva che però, oltre alle distanze dalla miseria, mantiene anche le cause che la generano. Si tratta dell’ipocrisia propria di chi ti fa dono del superfluo dopo averti rapinato del necessario.
"La Carità, ebbe a scrivere il grande Paul Ricoeur, non è forzatamente là dove la si esibisce...essa è molto spesso il senso nascosto del sociale".
Nel primo dopoguerra, nel febbraio del 1950, ad una "pia donna" scandalizzata per la durezza del suo linguaggio contro le facili e inutili elemosine, don Primo Mazzolari rispondeva lapidariamente:
"Ma cos’è la Carità? La prego a non voler rimpicciolire fino alla pusillanimità più meschina questo termine sacro. La Carità è anche violenza (violenza d’amore), la Carità è anche rampogna. Legga S.Paolo, legga S.Girolamo, legga santa Caterina da Siena o rilegga semplicemente - ma più attentamente - il Vangelo. Quando Cristo dice "guai a voi", "ipocriti", "sepolcri imbiancati" era mosso da carità come quando guariva i lebbrosi o sbendava Lazzaro richiamato dal sepolcro. La carità esige anche le parole dure, quando sono necessarie. Altrimenti, col bruciarci l’incenso l’un l’altro, finiremo con l’accecarci di più. Non si scandalizzi dunque, brava signora, delle parole forti, della carità che grida. Si scandalizzi piuttosto del quieto e sonnolente conformismo che ci sta prendendo...".
Segno di questo "sonnolente e quieto conformismo" è anche il silenzio che ha accompagnato la grande trovata del ministro Tremonti nel voler reintrodurre la "Poverty Card". Non vi pare?
Contro questo imbecille silenzio, ho trovato interessante un articolo di Roberta Carlini sull’ultimo numero di Rocca.
Scrive, tra l’altro:
«C’è molto del ministro Tremonti, in questa "poverty card": un certo clima emergenziale da economia di guerra, un grande fiuto per le politiche di immagine, una forte spregiudicatezza nel vendere la propria merce politica (in fondo, di ben pochi soldi si tratta nel bilancio familiare di un anno, e anche nel bilancio pubblico italiano). E soprattutto, c’è una concezione del welfare che salta a pié pari il Novecento per tornare all’Ottocento: la carità, sentimento privato che si fa politica pubblica e cancella i diritti dei cittadini per riconoscere solo, in modo compassionevole e discrezionale, i bisogni dei poveretti. Le dame di San Vincenzo assunte dallo Stato e infilate in un chip elettronico».
In allegato l’articolo per intero.
Aldo
Dietro la Politica del Consenso Facile
(Roberta Carlini - Rocca 14/2008)
In alcune catene di supermercati in Italia già esiste il giorno del nonno. Un giorno - a volte due - a settimana, durante i quali i pensionati fanno la spesa con lo sconto. Gli strateghi del marketing di quei supermercati non hanno messo tetti di reddito o carte di identificazione: sanno che difficilmente un manager in pensione si metterà in coda per comprare pasta e scatolame col 10% di sconto. E comunque quel che a loro interessa è attrarre il cliente, non è che hanno tra i loro scopi quello di fare giustizia sociale. Forse Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, si è ispirato al marketing della grande distribuzione più che ai ricordi delle tessere annonarie del passato, quando ha introdotto nella manovra economica del governo la «card» per la spesa dei pensionati poveri. 400 euro di spesa l’anno, per un milione e duecentomila pensionati. Nessun aumento di pensioni troppo basse, nessun intervento su prezzi impazziti: ma soldi, in contanti o meglio in moneta elettronica, da spendere in beni di prima necessità. Seguiranno accordi con la grande distribuzione per promozioni ulteriori. Ma intanto il marchio commerciale della manovra è impresso: carità per i poveri.
Ritorno all’ 800
«La manovra approvata in soli 9 minuti dal consiglio dei ministri ha lanciato un messaggio eloquente e forte: non esiste più uno stato sociale; d’ora in poi esisteranno solo politiche di soccorso per i bisognosi», ha scritto Nadia Urbinati su La Repubblica all’indomani dell’annuncio della «tessera di povertà». La controprova più evidente è nella rassicurazione, fatta dallo stesso governo, sul fatto che la tessera sarà distribuita dalle Poste con garanzie di riservatezza. Eh già: a nessuno piace esporre l’etichetta di «povero» sul portone della propria dignitosa abitazione o sul bavero della propria vecchia giacca. Soprattutto se a questa condizione di povertà si è giunti dopo una vita di lavoro duro. Ma questo fa la tessera: dà la qualifica burocratica al povero, che, privacy o non privacy, dovrà tirarla fuori al supermercato per pagare il pacco di pasta. E difficilmente la camufferà porgendola alla cassiera con disinvoltura insieme alla carta di credito.
C’è molto del ministro Tremonti, in questa «poverty card»: un certo clima emergenziale da economia di guerra, un grande fiuto per le politiche di immagine, una forte spregiudicatezza nel vendere la propria merce politica (in fondo, di ben pochi soldi si tratta nel bilancio familiare di un anno, e anche nel bilancio pubblico italiano). E soprattutto, c’è una concezione del welfare che salta a pié pari il Novecento per tornare all’Ottocento: la carità, sentimento privato che si fa politica pubblica e cancella i diritti dei cittadini per riconoscere solo, in modo compassionevole e discrezionale, i bisogni dei poveretti. Le dame di San Vincenzo assunte dallo Stato e infilate in un chip elettronico.
Populismo al governo
Però piace, si dice. Quei pensionati che avranno la carta magari cercheranno di andare a fare la spesa in orari non di punta per non farsi vedere, ma saranno contenti di risparmiare qualcosa. Così come piace - si dice - la voce grossa del ministro con petrolieri e banche. E piace, certo che piace, l’eliminazione della tassa sulla prima casa. Tutti pezzi singoli di un quadro più generale di politica del consenso facile, della quale poco si studiano e si sanno gli effetti di medio periodo ma si esaltano quelli di brevissimo periodo: l’indice di popolarità del governo cresce. È il populismo, bellezza. Ma poiché non tutti si accontentano degli annunci, e c’è molta gente desiderosa di andare a guardare dentro i contenuti delle politiche - al di là dell’effetto immediato sui propri portafogli, e al di là dei titoli acritici dei Tg -, sarà meglio cercare di capire, misura per misura, cosa c’è sotto l’abito scin-tillante del populismo al governo.
Una piccola mancia
La Carta per i poveri, per cominciare. Suo scopo è quello di alleviare la situazione economica delle famiglie con anziani, di fronte al crescente carovita. È chiaro che all’origine del problema di quelle famiglie c’è la combinazione di due fattori: pensioni troppo basse, prezzi che crescono troppo. Alle prime non ha posto rimedio nessuna riforma delle pensioni delle tante che si sono succedute negli ultimi decenni, né ovviamente porrà riparo la carta elettronica. Quanto ai prezzi, la ripresa dell’inflazione degli ultimi mesi è dovuta alla combinazione di fattori esterni - lo choc mondiale dovuto all’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime - e interni. Tra questi ultimi, la catena della produzione e distribuzione in Italia, che ha speculato sulle tensioni internazionali aumentando i prezzi assai prima e assai più di quanto i costi lo giustificassero. Cose complicate, troppo lunghe da spiegare figuriamoci da risolvere. E infatti non ci si prova nemmeno, e in teoria la carta per i poveri - ove funzionasse a pieno, cioè fosse assai più estesa e consistente - potrebbe addirittura alimentare il meccanismo perverso delle speculazioni sui prezzi.
Ma il governo di destra stravittorioso alle elezioni non si limita a «dare» ai poveri una piccola mancia. Fa di più: dice che l’ha presa dai ricchi, dalle categorie più odiate del momento, ossia petrolieri e banchieri. I primi, perché identificati con i beneficiari di tutti i soldi che paghiamo quando facciamo il pieno. I secondi, perché stanno strozzando tante famiglie italiane con mutui a tassi crescenti. Della tassa sul petrolio si aspetta di capire quando e quanto sarà trasferita sui prezzi.
Un grosso regalo
Quanto alla velleità di tagliare le unghie alle banche, più che di un dispetto pare si sia trattato di un manicure. Dopo i primi fumi - che hanno garantito una giornata di grande pubblicità per il governo, che pareva avesse con una bacchetta magica riportato le rate del mutuo ai livelli di due-tre anni fa. In realtà, l’unica novità che le famiglie indebitate si sono trovate davanti - anzi si troveranno, perché ancora l’annuncio si deve tradurre in realtà - è una nuova offerta commerciale da parte della propria banca. Un’offerta standard per rinegoziare il mutuo: abbassando la rata e allungando la durata. Così, la banca mette al sicuro un credito a rischio e il cliente diluisce il problema negli anni. Ma alla fine paga di più. Dal punto di vista individuale, può essere un’offerta di quelle che non si possono rifiutare: chi non ha i soldi per pagare accetta la rinegoziazione non perché la trova conveniente ma per necessità. Ma dal punto di vista collettivo, l’aver inventato una convenzione-standard, una megasoluzione uguale per tutti ha salvato le banche da effetti spiacevoli di quella strana bestia chiamata concorrenza. Quella per cui, magari, può arrivare un’altra banca a sostituirti il vecchio mutuo con un altro a condizioni migliori. Quella che le banche non si sono fatte nel momento delle vacche grasse, e grazie all’accordo col governo non si faranno adesso.
Tutti i giornali, che fossero a favore o contro, e prima ancora di sapere esattamente cosa ci fosse dentro, hanno accettato di battezzare come «Robin tax» la nuova tassa sui profitti dei petrolieri. Altrettanto hanno fatto tg e radio. Certo quella di Robin Hood è un’immagine forte, e simpatica anche. E i tempi cambiano, e anche i comportamenti umani, per cui è perfettamente possibile che il fiscalista dei ricchi diventi il loro rapinatore (fiscale). Però è strana, la fretta e la unanimità con cui si è accettata quest’immagine, invece di andare a indagare sull’esatto contenuto del «furto» di Robin Tremonti ai «ricchi». E invece di chiedersi come mai i «poveri» sono tornati così ufficialmente tra noi, cessando di fare scandalo per diventare poveri di Stato.
Benedetto XVI da Castel Gandolfo: "Mettano al centro delle deliberazioni le necessità delle popolazioni più bisognose. Basta speculazioni sui prezzi di alimenti ed energia"
L’appello del Papa ai leader del G8
"Si occupino di poveri e deboli"
"Occorre rilanciare un equo processo di sviluppo integrale a tutela della dignità umana"
CASTEL GANDOLFO - Il papa si appella ai capi di Stato e di governo dei paesi membri del G8, che si apre domani in Giappone, perché "al centro delle loro deliberazioni mettano i bisogni delle popolazioni più deboli e più povere" ed esorta la comunità internazionale "a prendere decisioni atte a rilanciare un equo processo di sviluppo integrale, a salvaguardia della dignità umana".
Recitando l’Angelus dalla residenza estiva sulle pendici del lago di Albano, Benedetto XVI ha salutato prima la comunità di Castel Gandolfo, "che mi riserva sempre, durante il mio soggiorno, una cordiale e premurosa accoglienza", per poi occuparsi del vertice economico che si apre nell’isola di Hokkaido in Giappone lunedì.
"In questi giorni si sono alzate numerose voci, tra cui quelle dei presidenti delle Conferenze episcopali delle citate nazioni - ha detto il papa - per chiedere che si realizzino gli impegni assunti nei precedenti appuntamenti del G8 e si adottino coraggiosamente tutte le misure necessarie per vincere i flagelli della povertà estrema, della fame, delle malattie, dell’analfabetismo, che colpiscono ancora tanta parte dell’umanità. Mi unisco anch’io - ha detto Ratzinger - a questo pressante appello alla solidarietà".
"Mi rivolgo quindi ai partecipanti all’incontro di Hokkaido, affinché al centro delle loro deliberazioni mettano i bisogni delle popolazioni più deboli e più povere, la cui vulnerabilità è oggi accresciuta a causa delle speculazioni e delle turbolenze finanziarie e dei loro effetti perversi sui prezzi degli alimenti e dell’energia. Auspico - ha concluso - che generosità e lungimiranza aiutino a prendere decisioni atte a rilanciare un equo processo di sviluppo integrale, a salvaguardia della dignità umana".
* la Repubblica, 6 luglio 2008.
Oggi, giorno dei SS.Pietro e Paolo, il Pontefice ha inaugurato la nuova stola
- Dall’inizio del Pontificato modificati anche il bastone e l’eucarestia
Pallio, pastorale e trono papale
Benedetto XVI rifà il look al rito
Monsignor Marini, responsabile delle celebrazioni liturgiche pontificie,
spiega all’Osservatore Romano il motivo di questa rivoluzione di simboli
di CLAUDIA FUSANI *
ROMA - Le grandi rivoluzioni s’intravedono sempre nelle piccole cose. E la difesa di un credo riparte sempre dai suoi simboli, più o meno antichi, più o meno dimenticati, per questo, magari, più forti. Seguendo, a modo suo, il filo che lega spiritualità e fisicità Benedetto XVI sta compiendo una grande rivoluzione con piccoli gesti: tentare il rilancio della religione cattolica utilizzando la forza fisica e simbolica del rito, degli oggetti, dei simboli e dei paramenti. Se una liturgia è stanca - come può essere quella cattolica e della SS.Messa - il suo rilancio, la sua ripartenza, passa dalla celebrazione della messa in latino ma anche dalla stola di lana bianca riveduta e corretta, dai cappelli a larghe tese ai mocassini dello stesso punto di rosso antico, da altri copricapi e coprispalla ai grandi crocifissi pettorali. Come quello d’oro con diamanti e zaffiri che Silvio Berlusconi ha regalato a Sua Santità nel giorno della visita in Vaticano.
Oggi, giorno dei SS.Pietro e Paolo, celebrando messa in S. Pietro, il Pontefice ha realizzato un altro passo di un percorso in realtà iniziato con l’avvio del suo pontificato. Percorso spirituale ma soprattutto "politico", massmediatico, qualcuno osa anche dire "modaiolo". Si faceva notare, giovedì 26 giugno, la pagina con foto a colori su L’Osservatore romano dedicata alle vesti liturgiche, quasi una concessione alle vanità di un magazine di moda. E comunque Esquire, magazine americano di moda e costume, ha indicato Benedetto XVI come l’uomo che meglio sceglie gli accessori di abbigliamento. Molti avranno notato, poi, con quale attenzione il Pontefice leva appena può gli occhiali. Insomma, studioso, scrittore (due milioni di copie di libri venduti), politico, attento all’ecumenismo, legato alla tradizione e... così umanamente vanesio.
Il Credo Niceno. Cominciamo dall’ecumenismo. Con un gesto "rivoluzionario", nella messa di questa mattina in San Pietro, Benedetto XVI ha ceduto la parola al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, chiedendo che fosse lui a tenere l’omelia "per la grande festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni di questa Chiesa di Roma e posti a fondamento, insieme agli altri Apostoli, della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica".
Per tradizione il 29 giugno una delegazione della Chiesa di Costantinopoli è presente in Vaticano. Quest’anno la delegazione è guidata dallo stesso Patriarca, Sua Santità Bartolomeo I. Il Santo Padre lo ha atteso sul sagrato della Basilica, insieme sono entrati in S. Pietro, hanno rivestito i paramenti e sono saliti all’altare. Insieme poi, i "capi" delle due chiese, hanno recitato la professione di fede, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca, secondo l’uso liturgico delle Chiese bizantine. Poi l’omelia e infine anche un’unica benedizione nel nome di San Paolo, apostolo delle genti.
Il pallio. Come annunciato tre giorni fa da L’Osservatore Romano che ha ospitato una lunga intervista a monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, stamani il Papa ha inaugurato un nuovo pallio, il simbolo del vescovo buon pastore e insieme dell’Agnello crocifisso, il paramento che più di tutti fa chiesa in quanto comunità. In realtà si tratta del recupero del vecchio pallio che ha una forma circolare chiusa, con i due estremi pendenti sul petto e sulla schiena. Le croci che lo adornano restano rosse, ma la forma è più grande e lunga. "Si recuperano alcuni aspetti della forma precedente al pontificato di Giovanni Paolo II" ha spiegato monsignor Marini.
Il pallio pontificio, paramento liturgico utilizzato fin dall’antichità, è un panno di lana bianca che usano solo il Papa e i metropoliti (quello del Pontefice è diverso da quello degli Arcivescovi). Finora Benedetto XVI ha indossato una stola simile a quelle usate prima del X secolo, incrociato sulla spalla e con cinque croci rosse, simbolo delle piaghe di Cristo. "Ma era scomodo - confessa monsignor Marini senza però dire perchè - e ha creato diversi e fastidiosi problemi dall’inizio del Pontificato".
Si rinnova anche il pastorale. Da alcuni mesi, ha spiegato monsignor Marini, il Papa ha deciso di cambiare anche il pastorale, il modello Pio IX ha vinto su Paolo VI: quello dorato a forma di croce greca usato da Pio IX al posto di quello argentato con la figura del crocifisso introdotto da Paolo VI. Questa scelta, ha spiegato il monsignore "non è solo un ritorno all’antico, ma testimonia uno sviluppo nella continuità, un radicamento nella tradizione che consente di procedere ordinatamente nel cammino della storia". Il nuovo pastorale si chiama ferula ed è "più fedele alla forma del pastorale papale tipico della tradizione romana, che sempre stato a forma di croce e senza crocifisso". E’ anche more comfortable, più leggero e maneggevole. Lo dice il monsignore, perché c’è lo spirito ma anche il corpo vuole le sue.
Paramenti liturgici. L’attenzione di Esquire al papa modaiolo scatta in inverno quando Benedetto recupera da armadi e vetrinette vaticane indumenti che non si vedevano più da anni. Ad esempio il camauro (berretto rosso dal bordo bianco portato solo in inverno), mai più visto dai tempi di Giovanni XXIII. "Le vesti liturgiche adottate, come anche alcuni particolari del rito, intendono sottolineare la continuità della celebrazione liturgica attuale con quella che ha caratterizzato nel passato la vita della Chiesa", ha spiegato monsignor Marini. La parola chiave, "l’ermeneutica", per comprendere tutto questo quindi è la continuità "nei simboli, nei paramenti e nel rito tra il prima, il dopo e il presente". L’importante, ha osservato, non è tanto l’antichità o la modernità dei paramenti liturgici, "quanto la bellezza e la dignità, componenti importanti di ogni celebrazione liturgica". Dopodichè ci sarebbe anche da dire cosa tutto questo significa e implica nell’epoca dove il visivo e l’immagine sono quasi un sesto senso.
Alto trono papale. Cambia anche quello. Anzi, ritorna, al centro dell’altare. "Vuole semplicemente mettere in risalto la presidenza liturgica del Papa, successore di Pietro e vicario di Cristo" spiega monsignor Marini. E la croce tornata al centro dell’altare, indica "la centralità del crocifisso nella celebrazione eucaristica e l’orientamento esatto che tutta l’assemblea chiamata ad avere durante la liturgia eucaristica: non ci si guarda, ma si guarda a Colui che nato, morto e risorto per noi, il Salvatore".
Modifiche anche alla comunione. C’è anche la distribuzione della comunione in bocca e in ginocchio (viaggio del Papa a Brindisi) che, rispetto all’ostia in bocca, "sottolinea - dice monsignore - la verità della presenza reale nell’eucaristia, aiuta la devozione dei fedeli, introduce con più facilità al senso del mistero". L’ostia in bocca, in fondo, è e resta "un indulto alla legge universale concesso dalla Santa Sede".
Nella società dell’immagine anche la Chiesa rafforza il suo rito recuperando i simboli. E come ha scritto Juan Manuel de Prada su L’Osservatore, "il Papa non veste Prada ma Cristo. E questa sua preoccupazione non riguarda l’accessorio ma l’essenziale. Benedetto XVI recupera gli ornamenti liturgici per rendere più comprensibile agli uomini del nostro tempo la realtà più vera della liturgia". Guardandoli, si riscopre cosa significa pallio, cosa pastorale, il trono e l’eucarestia.
* la Repubblica, 29 giugno 2008
Ansa» 2008-06-29 15:13
PAPA: CHIESA NON SIA DI UN SOLO STATO MA DI TUTTI
CITTA’ DEL VATICANO - La "missione permanente di Pietro" capo della Chiesa è "far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura, con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore". Lo ha affermato il Papa nella omelia per la messa di san Pietro e Paolo, celebrata nella basilica vaticana con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e con gli arcivescovi metropoliti ai quali imporrà il pallio.
MONDO UNITO SU COSE MATERIALI CONFLIGGE.SERVE PACE DIO
Il mondo globalizzato, unito "sulle cose materiali" che fanno spesso "esplodere nuovi contrasti" ha sempre più "bisogno di unità interiore, che proviene dalla pace di Dio". E "missione permanente" del Papa e "compito particolare affidato alla Chiesa" è ricondurre a questa unità l’umanità. Lo ha affermato il Papa, nella omelia per la messa di san Pietro e Paolo che celebra nella basilica vaticana. "Grazie alla tecnica dappertutto uguale, grazie alla rete mondiale di informazioni, come anche grazie al collegamento di interessi comuni, - ha detto - esistono oggi nel mondo nuovi modi di unità, che però fanno esplodere anche nuovi contrasti e danno nuovo impeto a quelli vecchi". "In mezzo a questa unità esterna, basata sulle cose materiali, - ha sottolineato papa Ratzinger - abbiamo tanto più bisogno dell’unità interiore, che proviene dalla pace di Dio, unità di tutti coloro che mediante Gesù Cristo sono diventati fratelli e sorelle. E’ questa - ha rimarcato - la missione permanente di Pietro e anche il compito particolare affidato alla Chiesa di Roma".
PAPA CON BARTOLOMEO CELEBRA MESSA PER IMPOSIZIONE PALLIO
CITTA’ DEL VATICANO - Con a fianco il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I il Papa, nella basilica vaticana, ha dato inizio alla celebrazione per la festa di San Pietro e Paolo, durante la quale distribuirà il pallio - una stola simbolo della dignità arcivescovile e della unione con il Papa - a 40 arcivescovi metropoliti. Concelebrano con Benedetto XVI i 40 nuovi arcivescovi metropoliti nominati nell’ultimo anno. Ad altri 2 arcivescovi (William D’Souza, S.I., di Patna, India, e Edward Tamba Charles, di Freetown and Bo, Sierra Leone), il pallio verrà consegnato nelle loro sedi metropolitane.
Gli arcivescovi che riceveranno l’insegna, per l’Europa sono: Francisco Pérez Gonzàlez, di Pamplona y Tudela (Spagna); Paolo Pezzi, della Madre de Dio a Mosca (Federazione Russa); Tadeusz Kondrusiewicz, di Minsk-Mohilev (Bielorussia); Giancarlo Maria Bregantini, di Campobasso-Boiano (Italia); Reinhard Marx, di Munchen und Freising (Repubblica Federale di Germania); Willem Jacobus Eijk, di Utrecht (Paesi Bassi); José Francisco Sanches Alves, di E’vora (Portogallo); Giovanni Paolo Benotto, di Pisa (Italia); Stanislav Zvolensky, di Bratislava (Slovacchia); Francesco Montenegro, di Agrigento (Italia); Laurent Ulrich, di Lille (Francia);S?awoj Leszek G?odz, di Gdansk (Polonia); Marin Sraki, di Djakovo-Osijek (Croazia). Per l’Africa invece saranno: il card. John Njue, Arcivescovo di Nairobi (Kenya); Michel Christian Cartatéguy, di Niamey (Nìger); Matthew Man-Oso Ndagoso, di Kaduna (Nigeria); Laurent Monsengwo Pasinya, di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo); Richard Anthony Burke, di Benin City (Nigeria); Thomas Kwaku Mensah, di Kumasi (Ghana); Peter J. Kairo, di Nyeri (Kenya). Ancora per l’Asia: Sua beatitudine Fouad Twal, Patriarca di Gerusalemme dei Latini; John Hung Shan-Chuan, di Taipei (Taiwan); John Lee Hiong Fun-Yit Yaw, di Kota Kinabalu (Malesia).
Gli arcivescovi metropoliti americani che avranno il pallio sono: Edwin Frederick O’Brien, di Baltimore (Stati Uniti d’America); Lorenzo Voltolini Esti, di Portoviejo (Ecuador); Andrés Stanovnik, di Corrientes (Argentina); Anthony Mancini, di Halifax (Canada); Martin William Currie, di Saint John’s, Newfoundland (Canada); Mauro Aparecido dos Santos, di Cascavel (Brasile); O’scar Urbina Ortega, di Villavicencio (Colombia); Antonio José Lòpez Castillo, di Barquisimeto (Venezuela); Agustìn Roberto Radrizzani, di Mercedes-Lujàn (Argentina); Robert Rivas, di Castries (Santa Lucia); Louis Kébreau, di Cap Haitien (Haiti); Joseph Serge Miot, di Port-au-Prìnce (Haiti); Thomas John Rodi, di Mobile (Stati Uniti d’America); Donald James Reece, di Kingston in Jamaica (Giamaica); John Clayton Nienstedt, di Saint Paul and Minneapolis (Stati Uniti d’America). Luìs Gonzaga Silva Pepeu, O.F.M. Cap., di Vitòria da Conquista (Brasile). Infine per l’Oceania c’é l’arcivescovo John Ribat, M.S.C., di Port Moresby (Papua Nuova Guinea). Il pallio è una larga striscia di lana bianca a forma circolare chiusa, con i due capi che pendono nel mezzo del petto e del dorso, con ricamate delle piccole croci, che gli arcivescovi metropoliti indossano sopra la casula. E’ simbolo del vescovo buon pastore e insieme dell’Agnello crocifisso per la salvezza dell’umanità.