Pubblicato il corso accademico del 1934 in cui il filosofo eliminò i riferimenti alla politica
Heidegger, l’uscita di sicurezza
Le lezioni su logica e linguaggio che segnano il distacco dal nazismo
di Armando Torno (Corriere della Sera, 14.12.2008)
Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger diventa rettore all’Università di Friburgo. Wilhelm von Möllendorf, noto socialdemocratico, appena eletto a quella responsabilità accademica, è costretto dal partito nazista a dimettersi.
La votazione che conferirà l’alta dignità al filosofo, ormai noto in tutto il mondo (Essere e tempo è del 1927), avrà una sola astensione: dei 93 professori, 13 furono esclusi perché ebrei; dei restanti parteciparono in 56. Heidegger sarà tesserato. Il fatto avviene il 3 maggio, ma con una retrodatazione di due giorni. In suo favore c’è una clausola: sarà esonerato dal partecipare alle attività di militanza del partito nazista.
Inizia così quell’impegno che durerà tutto il 1933 e una parte del 1934. Terrà, tra l’altro, il 30 giugno la conferenza L’università nel nuovo Reich, subito seguita da un incontro con Karl Jaspers. Il vecchio amico scriverà nella sua Autobiografia filosofica: «Non gli dissi che era sulla strada sbagliata. Non avevo più nessuna fiducia in lui, dopo questa trasformazione. Sentii me stesso minacciato di fronte a quella potenza, di cui ora Heidegger faceva parte».
Durante l’estate il neorettore entra in contatto con Carl Schmitt, allora giurista di riferimento del Terzo Reich; in ottobre si rivolge agli studenti esaltando il Führer, mentre l’atteggiamento verso le disposizioni razziali non è monolitico: aiuta il suo assistente Werner Brock, redige però un parere su un docente di Gottinga scrivendo che «ebbe relazioni assai vivaci con l’ebreo Fränkel». Infine, tra le molte cose di quell’anno, l’11 novembre a Lipsia, in occasione del «Proclama della Scienza tedesca per Adolf Hitler», Heidegger pone il suo pensiero al servizio del Führer.
Poi accade qualcosa. Tra i colleghi di Friburgo si fa largo un’opposizione prima strisciante e poi evidente; Ernst Krieck, che vorrebbe diventare l’ideologo di punta del nazismo, lo attacca con un articolo. Il suo rettorato dura dieci mesi; quindi, tra il maggio e il giugno del 1934, Heidegger si allontana dalla politica militante e il corso annunciato per il semestre estivo, Lo Stato e la scienza, decide di non tenerlo, anche se erano già stati fissati giorni e orari: martedì e giovedì, 17-18. Nel primo incontro, di fronte a un’aula gremita nella quale spiccavano le hitleriane camicie brune, egli dichiarò di aver mutato idea e che quelle lezioni le avrebbe dedicate a un nuovo argomento: Logica come problema dell’essenza del linguaggio.
Bene: ora quel corso, con il titolo Logica e linguaggio, vede la luce nella prima traduzione italiana, a cura di Ugo Ugazio (Christian Marinotti Edizioni, pp. 256, e 23). I riferimenti espliciti alla politica vengono abbandonati; Heidegger propone un percorso intensissimo che comincia con una serie di precisazioni su struttura, origine, significato e «necessario turbamento» della logica.
Il filosofo sembra quasi che voglia ripensare le sue idee, senza mai perdere di vista gli adorati greci; sovente offre prospettive di grande effetto e di notevole attualità, come quando si chiede che cosa sia la logica. Tra le risposte che scrive: «Non è mai una sterile polverosa disciplina scolastica»; o ancora: «Logica è per noi invece il nome dato ad un compito, al compito di preparare la prossima generazione perché sia di nuovo una generazione costruita sul sapere, tale cioè che sappia e voglia sapere, tale che sia davvero in condizione di sapere. Per questo compito non occorre la scienza».
Ma quanto abbiamo citato è un cenno di un discorso infinito. Il curatore dell’edizione tedesca, Günter Seubold, nella nota posta in calce al testo, ricorda lo straordinario interesse di queste lezioni giacché presentano in modo comprensibile una problematica attuale: le cattedre di logica sono tenute dai matematici che trattano dei loro problemi, cioè di cose scientifiche, e da filosofi di professione che in genere si limitano a corsi introduttivi per lo studio di base.
Per Heidegger la logica «è tutt’altro che indisciplinata chiacchiera proposta come visione del mondo, ma è sobrio lavoro congiunto allo stimolo genuino e al bisogno essenziale». Non a caso due capitoli di queste lezioni sono dedicati alle domande sull’essenza dell’uomo e sull’essenza della storia. Qua e là si leggono dei periodi su cui val la pena riflettere: «Sebbene un popolo faccia la sua storia, questa storia non è certo il prodotto del popolo; per parte sua, il popolo è fatto dalla storia»; e ancora: «Il linguaggio è mezzo capace di formare e conservare il mondo ». La logica diventa il bisturi che Heidegger utilizza in queste lezioni per entrare nel corpo del sapere e per eliminare i mali incontrati.
Il lettore segue il lavoro del filosofo attraverso dense riflessioni sul tempo oltre che sul linguaggio (quest’ultimo, scrive Ugazio nella sua preziosa nota all’edizione italiana, «è esso stesso il mondo in cui avviene la comunicazione»). Le pagine si chiudono trattando «la poesia come linguaggio originario».
L’editore Marinotti, che nel 2007 aveva pubblicato di Heidegger l’Avviamento alla filosofia, ha reso un notevole servizio ai chiarimenti in corso. Li ricorda lo stesso Günter Seubold, dopo aver sottolineato il ruolo di pietra miliare di queste lezioni del 1934, che segnano il passaggio dalla fase ontologica fondamentale a quella della storia dell’essere: «Sono importanti per una sufficiente comprensione della situazione di Heidegger all’Università subito dopo l’abbandono della carica di rettore. Molto di quello che è stato scritto troppo in fretta sull’impegno nazionalsocialista di Heidegger dovrà essere rivisto e sottoposto ad una nuova interpretazione in base a queste lezioni». Insomma, esse aiutano a capire cosa cambiava in lui e in quali scenari si collocherà il suo pensiero. Dopo un anno di nazismo militante.
In libreria
Gli interrogativi teologici e le polemiche di Farias
In Italia ci sono circa 300 titoli «di e su» Heidegger. Ricordiamo tra gli ultimi, edito da Marinotti, Jean Beaufret, In cammino con Heidegger (pp. 204, e 18). Giancarla Sola ha scritto per il melangolo Heidegger e la pedagogia (pp. 198, e 16).
Le implicazioni teologiche: curato da A. Molinaro, Heidegger e San Paolo, (Urbaniana University Press, pp. 160, e 14) e di Duilio Albarello La libertà e l’evento. Percorsi di teologia filosofica dopo Heidegger (Glossa, pp. 328, e 28).
Sossio Giametta dedica un ampio saggio ad Heidegger nel volume I pazzi di Dio (La città del sole, pp. 664, e 36), mentre di Bernhard Casper c’è l’importante Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento (Morcelliana, pp. 176, e 12,50). Victor Farias ne L’eredità di Heidegger (Medusa, pp. 230, 14,80) radicalizza la vecchia tesi: fra il nazismo e il filosofo ci fu molto di più di occasionali convergenze (Ar.To.).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA
FLS
METAFISICA. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.... *
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella (il manifesto, 27.01.2019)
Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni - Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia». Per Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente». Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione - aggiunge - non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che - con una mossa inaspettata - Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi - in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo - viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai - dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto - Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Visioni. Al contrario di Martin Heidegger, che si richiamava di continuo ai vincoli collettivi, l’autore greco riteneva che il filosofo dovesse opporsi ai luoghi comuni dominanti proponendo idee nuove per il governo della città. Anche a costo di esporsi e rischiare
Platone intellettuale disorganico
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 27.03.2016
Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger fu eletto rettore dell’Università di Friburgo. Adolf Hitler era al potere dal 30 gennaio, il 1° maggio Heidegger aderiva ufficialmente al partito. Il 27 maggio tenne la prolusione inaugurale, L’autoaffermazione dell’università tedesca , una rivendicazione della missione politica dell’università, che doveva schierarsi in prima linea nella costruzione del nuovo ordine.
Era il tempo della chiamata del destino: il filosofo aveva risposto, ponendosi alla guida della sua comunità, pronto per la «lotta» (parola che ritorna ossessivamente nel discorso) in un cammino «da cui non vi è ritorno». Come Platone, pensarono tanti (e molti ripetono oggi), che nella Repubblica aveva descritto lo Stato ideale e non aveva esitato a imbarcarsi per Siracusa, pieno di vergogna se si fosse rivelato un filosofo «buono solo a parlare, ma incapace di tradurre in atto le sue idee».
Il rinvio era quasi d’obbligo. Nella Germania di quegli anni Platone era, insieme a Nietzsche, un punto di riferimento imprescindibile, tanto per ideologi come Hans Günther o Alfred Rosenberg quanto per gli studiosi eredi della grande tradizione accademica tedesca. Sempre in quel 1933, ad esempio, Kurt Hildebrandt, professore a Kiel, pubblicava Platone. La lotta dello spirito per la potenza, un tomo voluminoso e tutt’altro che banale (fu tradotto anche in italiano da Giorgio Colli, per Einaudi nel 1947), per celebrare l’eroica battaglia di Platone in difesa della patria, contro caos e disordine. Platone, il filosofo guerriero e «l’educatore dell’uomo tedesco». Il titolo, con la parola Kampf , «lotta», a evocare il Mein Kampf di Hitler, spiegava da solo fin troppo.
Nello stesso spirito, il discorso di Heidegger culminava con una citazione di Platone, esaltante e minacciosa allo stesso tempo: «Tutto ciò che è grande è nella tempesta». Era come un crescendo wagneriano, capace di evocazioni inattese, di paralleli illuminanti. «Tempesta» in tedesco è Sturm: come Sturm-Abteilung, le SA, insomma, le famigerate camicie brune, che avevano accompagnato il Führer alla conquista della Germania e che ora sedevano tra i banchi dell’Università di Friburgo, raccolte intorno al filosofo nell’ora decisiva. Il sogno di Platone finalmente si avverava.
Il problema, però, è che Platone aveva scritto un’altra cosa. Convinto che tra il greco e il tedesco corresse un’affinità intima ed essenziale, Heidegger non ha mai avuto paura di tentare traduzioni ardite in cerca di sensi reconditi o verità nascoste. Ma in questo caso (e non è il solo) nessuna rivelazione attende il lettore: molto banalmente la traduzione è sbagliata. Nel testo si legge che «ciò che è grande è instabile». Non è un dettaglio da poco, perché cambia tutto. La distanza tra Heidegger e Platone si misura anche da qui.
Nato nel 1889, Heidegger ha accompagnato la Germania nella catastrofe da adulto. Platone ha assistito al tracollo di Atene da giovane. La guerra persa contro Sparta, il conflitto civile in cui gli aristocratici (molti dei quali suoi parenti) si erano macchiati di violenze e misfatti, il processo democratico contro Socrate: non c’è da stupirsi se maturò la convinzione che si dovessero cercare nuove strade, lontano dalle piste battute della politica tradizionale, per rifondare la città su basi solide. È questo il senso della tesi tanto abusata della Repubblica: non ci sarà fine ai mali degli uomini fino a quando i filosofi non governeranno o i governanti non diventeranno filosofi. La filosofia deve farsi carico della città. Ma non c’è niente di enfatico nelle parole di Platone. Socrate prevede che la sua affermazione sarà accolta da derisione e disprezzo; Glaucone, il suo interlocutore, paventa addirittura che molti lo inseguiranno con i bastoni. Come succede al filosofo nel mito della caverna: cerca di liberare i suoi compagni dalle catene e loro lo uccidono. Allegorie trasparenti, che evocano la morte del Socrate storico e rivelano il disincanto di chi sa quanto sia difficile opporsi al potere dei pregiudizi e dell’ingiustizia.
Ma perché impegnarsi allora, tornare nella caverna?
È la domanda che, in quegli stessi anni, si poneva Leo Strauss: ebreo, aveva seguito le lezioni di Heidegger, e presto sarebbe stato costretto all’esilio. Con Platone nella valigia, leggendolo e rileggendolo, in cerca del suo messaggio profondo. I problemi in effetti non mancano, perché la Repubblica si regge su una contraddizione evidente. La gente non vuole che il filosofo governi (e infatti lo uccidono); il filosofo, immerso nelle sue conoscenze, non ha nessun interesse a governare: perché mai dovrebbe allora rientrare nella caverna?
Non sarà che la Repubblica, paradossalmente, ci vuole insegnare proprio il contrario di quello che afferma, vale a dire che politica e filosofia devono restare separate? Era un’idea che aveva solleticato Aristotele, come spiega Giuseppe Cambiano nel suo ultimo libro Come nave in tempesta (Laterza), e che Strauss ha sviluppato approfonditamente, a partire dal saggio Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone (pubblicato nel 1946 e ora tradotto da Quodlibet).
Il filosofo, però, rientra nella caverna. Perché? Forse perché, a pensarci bene, non ne è mai uscito. Perché è sulla stessa barca, spiega ancora Cambiano, e rischia di affondare con gli altri. E soprattutto perché, senza la compagnia degli altri uomini, non sarebbe più uomo neanche lui. Non gli resta allora che combattere per le sue idee, discutere, spesso esporsi al ridicolo, a volte rischiare la vita. In fondo l’utopia platonica è tutta qui: non l’elaborazione di un modello perfetto da imporre con la forza, ma una riflessione critica che ci aiuti a comprendere e correggere il mondo in cui viviamo.
Tra ideale e reale c’è sempre una frizione, un contrasto latente. Il rischio, ben presente nelle scelte di Heidegger, è quello di dimenticare il primo per appiattirsi sul secondo; il compito della filosofia, per Platone, è evitare questa deriva, che conduce al cinismo di chi pensa che nulla possa cambiare, e che l’affermazione di se stesso sia l’unico valore da adottare. Immaginare il non-luogo (l’utopia, appunto) per tenere aperto il campo del possibile, come ha detto Paul Ricœur. Per questo, quando ne ha avuta la possibilità, Platone si è imbarcato alla volta di Siracusa, per convertire Dionisio alla filosofia.
Riesce difficile immaginare qualcosa di analogo tra Heidegger e Hitler. Non ci sono destini da cavalcare, ma la consapevolezza di chi è pronto a impegnarsi per cambiare quello che non va. Contro il suo tempo, per il suo tempo. Non è un compito facile, il prezzo da pagare a volte è alto. Ma «ciò che è grande è instabile»: fragile, rischioso, e per questo deve essere difeso.
Heidegger e Platone, insomma, divergono perché hanno una diversa concezione della realtà e del filosofo - dell’intellettuale, diremmo noi oggi. Il libro di Donatella Di Cesare sui Quaderni neri, da poco uscito in seconda edizione, aiuta a chiarire il problema. Per Heidegger, il filosofo è organico alla sua comunità, radicato nella sua terra; parla in suo nome e in sua difesa, da lei traendo ispirazione e autenticità. Sono idee condivise in quegli anni, che ritornano anche oggi nel rinvio ossessivo alle nostre radici, manco fossimo alberi, o nei continui inviti a difendere e preservare la nostra identità (senza peraltro mai chiarire in cosa consista, poi, questa identità). La polemica è contro chi rifiuta questo rapporto: «sradicati», incapaci perciò di profondità; privi di legami con la comunità del popolo, indifferenti dunque al destino della patria che li nutre. Pericolosi. Il bersaglio principale, inutile dirlo, erano gli ebrei, il popolo del deserto, dove non si possono mettere radici. E con loro gli intellettuali, capaci solo di pensieri astratti, propagatori di principi vuoti perché universali. Ma non è questa anche la posizione di Platone?
Il termine più usato per descrivere Socrate, nei dialoghi platonici, è atopos. Lo si traduce spesso con «bizzarro, strano», per indicare l’originalità della filosofia e anche il fastidio, o il disprezzo, con cui essa viene accolta da chi mal sopporta di veder messe in discussione le proprie certezze. Ma il termine dice di più. A-topos, alla lettera, significa «senza luogo». Ed è in questo significato che rivela la natura autentica del filosofo, la sua libertà.
Il filosofo: privo di radici, e perciò libero di muoversi; libero dai luoghi comuni della sua terra; libero di alzare lo sguardo verso altre realtà. Come l’albatros di Baudelaire, goffo sulla tolda della nave, «esule sulla terra», ma «re dell’azzurro» quando finalmente dispiega le ali, in volo, negli spazi sconfinati del cielo (sconfinati come lo sono quelli del deserto, viene da chiosare, in cui gli ebrei riconquistarono la libertà). E per questo utile per la città, quando può mostrarle nuove strade, aiutarla a non arroccarsi in se stessa. Non è per nulla semplice il mestiere del filosofo, sempre in bilico tra la tentazione di perdersi negli spazi sconfinati dell’ideale e i rischi concreti che lo attendono all’interno della caverna. Ma proprio per questo è così appassionante.
Svolta sul pensiero di Heidegger: ’La Shoah era necessaria, gli ebrei si sono autoannientati’
Scoperti scritti inediti dei ’Quaderni Neri’ del filosofo tedesco
di Redazione ANSA *
Gli ebrei responsabili del proprio sterminio, un destino necessario per il compimento dell’Essere. E il pensiero nazista nella filosofia di Heidegger ora ha delle prove.
La "purificazione dell’Essere" inevitabile attraverso lo sterminio antisemita, che è stato semplicemente "autoannientamento", selbstvernichtung. E’ questa la parola chiave che riaffiora da uno scritto recentemente ritrovato e che potrebbe dare una svolta ad uno dei capitoli più controversi della storia del pensiero di Martin Heidegger. Secondo un documento ritrovato nella scorsa primavera, il filosofo tedesco, già in passato accusato di aver taciuto sulla questione della Shoah, gli ebrei si sarebbero autoannientati. Nessuno potrebbe allora essere chiamato in causa, se non gli ebrei stessi.
Il documento - come scrive oggi il Corriere della Sera - è contenuto in un volume che sarà pubblicato in Germania: ’Quaderni neri’, curato da Peter Trawn. Si tratta delle note risalenti al periodo cruciale che va dal 1942 al 1948. E il quaderno del 1945/46, che sembrava fosse andato perduto, era il tassello mancante della costruzione filosofica di Heidegger in merito ai concetti di ebraismo. Dunque una prospettiva inedita sul suo pensiero, che dà voce a quello che era da sempre stato definito il "silenzio di Heidegger": la mancanza di una presa di posizione netta sulle atrocità dei campi di concentramento, qui considerati dal pensatore tedesco come l’industrializzazione della morte, la "fabbricazione dei cadaveri".
Il filosofo, che vede innanzitutto nella seconda guerra mondiale un conflitto diretto tra tedeschi ed ebrei, spiega che "solo quando quel che è essenzialmente ’ebraico’, in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell’autoannientamento nella storia". La Shoah avrebbe allora un ruolo decisivo nella storia dell’Essere, perché coinciderebbe con il "sommo compimento della tecnica" che, dopo aver usurato ogni cosa, consuma se stessa. In tal senso lo sterminio degli ebrei rappresenterebbe quel momento apocalittico in cui ciò che distrugge finisce per autodistruggersi. Culmine "dell’autoannientamento nella storia", la Shoah rende quindi possibile la "purificazione dell’Essere".
Esistono quindi dei punti di ancoraggio filosofici dell’adesione del filosofo tedesco al nazionalsocialismo, che potrebbe aver appoggiato il nazionalsocialismo non solo per convenienza. Una tesi che legittimerebbe il lavoro di ricerca svolto negli anni ottanta del secolo scorso da Victor Farias, storico cileno che pubblicò il best seller ’Heidegger e il nazismo’.
La questione del rapporto (e del coinvolgimento) di Martin Heidegger col nazismo è da sempre controversa e tornò prepotentemente alla ribalta quando nel 1987 Victor Farias pubblicò il suo ‘Heidegger e il nazismo’, libro poi contestato da molti studiosi soprattutto per l’uso strumentale delle fonti.
Quel che è certo è che Heidegger aderì al partito nazista nel 1933 quando divenne rettore dell’università di Friburgo. Incarico dal quale si dimise un anno dopo non partecipando più ad alcuna attività politica ed entrando in un periodo di silenzio, anche accademico, durato circa otto anni.
Per provare a comprendere e contestualizzare il senso di alcune espressioni contenute nel cosiddetto Quaderno nero, è necessario fare riferimento ad alcuni concetti chiave del pensiero di Heidegger. Per lui la storia del pensiero occidentale è storia della metafisica, da intendersi i non come pensiero ‘ultraterreno’ ma come destino (in tedesco Geschick che si lega al verbo schicken, inviare o mandare, ma risuona anche nella parola Geschichte, storia) dell’Occidente. In cosa consiste questo destino? Nel pensare l’ente come l’essere, ovvero nel ‘confondere’ la natura dell’essere con quella (che ne esprime solo una parte) dell’essere. Cosa intendiamo quando pronunciamo l’espressione ‘è’? Un tavolo è, una mela è ma anche un tramonto, un’idea, un odore, una passione ‘sono’ (non parliamo poi dei fotoni, dei neutrini e di tutte le particelle elementari la cui natura è impossibile equiparare a quella di una sedia, che pure essi stessi costituiscono). Eppure l’idea dell’essere come ente è quella che ha prevalso in Occidente e che accomuna tutto il suo pensiero, anche quelli che apparentemente si contrappongono. Idealismo e realismo, spiritualismo e materialismo, soggettivismo e oggettivismo hanno in comune l’idea che l’essere sia essenzialmente ente: sono come due squadre che si combattono giocando in uno stesso campionato e con le stese regole.
Per questo, dice Heidegger, non si può far altro che aspettare il compimento del destino dell’Occidente, cioè la piena maturazione della metafisica. Lo sviluppo (incontrollato?) della tecnica è parte decisiva di questo compimento: solo un pensiero che pensa razionalmente l’essere come ente, e quindi come qualcosa di utilizzabile, sfruttabile, manipolabile, può produrre il motore a scoppio e la bomba atomica, la chirurgia e l’inquinamento, la grande ingegneria e la desertificazione e così via.
Cosa hanno a che vedere gli ebrei con tutto questo? Il loro contributo (così come quello dei cristiani, per la verità, e prima di loro dei greci re-interpretati) è stato decisivo per lo sviluppo della metafisica e dunque del pensiero della ‘tecnica’ . In questo senso va intesa l’espressione, scioccante, spiazzante, provocatoria, di ‘autoannientamento’ (sa selbst=stesso e Vernichtung, da Nicht=nulla, quindi auto-nullificazione): secondo Heidegger gli ebrei sono stati, inconsapevolmente, artefici del loro stesso destino in quanto parte attiva dello sviluppo della storia occidentale come ‘progresso della tecnica’.
* ANSA, 08.02.2015 (ripresa parziale)
In uscita in Germania le note del 1942
Heidegger: «Gli ebrei si sono autoannientati»
Nei nuovi «Quaderni neri» del filosofo l’interpretazione choc della Shoah
di Donatella Di Cesare *
Qui sopra, due pagine dei con le note scritte di suo pugno da Martin Heidegger (nella foto a destra) dal 1931 al 1969. In basso a destra, alcuni dei 34 , la cui pubblicazione è cominciata nel 2014 e verrà completata nei prossimi anni dall’editore Klostermann Qui sopra, due pagine dei con le note scritte di suo pugno da Martin Heidegger (nella foto a destra) dal 1931 al 1969. In basso a destra, alcuni dei 34 , la cui pubblicazione è cominciata nel 2014 e verrà completata nei prossimi anni dall’editore Klostermann
La Shoah è «l’autoannientamento degli ebrei». Questa tesi di Heidegger affiora nel nuovo volume dei Quaderni neri, curato da Peter Trawny, che sta per essere pubblicato in Germania dall’editore Klostermann (Gesamtausgabe 97, Anmerkungen I-V). Si tratta delle Note risalenti al periodo cruciale che va dal 1942 al 1948. Fa parte del volume, di 560 pagine, anche il quaderno del 1945/46, che sembrava fosse andato perduto e che è stato recuperato la scorsa primavera.
Gli ultimi anni del conflitto planetario, la sconfitta della Germania, la presenza delle forze alleate sul suolo tedesco sono gli eventi che fanno da sfondo a quella che, anche altrove, Heidegger chiama «storia dell’Essere», il cammino della filosofia in grado di aprire un varco per la salvezza dell’Occidente. Dopo il 1945 il cammino non si interrompe, ma si ripiega su di sé, fra tornanti e vie traverse. Heidegger non smette di cercare l’«altro inizio», l’alba dell’Europa, sebbene orientarsi sia divenuto quasi impossibile. Le macerie della Germania attestano, senza equivoci, il fallimento della missione affidata al popolo tedesco. Insieme a questo naufragio epocale Heidegger vive anche il proprio tracollo accademico: l’ex rettore di Friburgo nel 1946 viene interdetto dall’insegnamento.
Il volume 97 dei Quaderni neri offre, dunque, una prospettiva inedita sul pensiero di Heidegger. Tanto più che, come quelli già pubblicati, coniuga riflessione filosofica e analisi puntuale degli avvenimenti storici.
Ma questo volume è destinato a lasciare il segno soprattutto perché cancella un luogo comune della filosofia del Novecento: il «silenzio di Heidegger» dopo Auschwitz. Se gli ebrei hanno un ruolo di primo piano nei precedenti Quaderni neri, che vanno dal 1931 al 1941, se la «questione ebraica» è strettamente connessa alla questione dell’essere - come ho cercato di mostrare nel mio libro recente - non può sorprendere che Heidegger parli della Shoah e la consideri sia sotto l’aspetto filosofico sia sotto quello politico.
Selbstvernichtung, autoannientamento, è la parola chiave: gli ebrei si sarebbero autoannientati. Nessuno potrebbe allora essere chiamato in causa, se non gli ebrei stessi. Già nei quaderni del 1940 e del 1941, quando viene avanzata l’esigenza di una «purificazione dell’Essere», fa la sua inquietante comparsa il termine «autoannientamento».
La quarta parte dei Quaderni neri di Martin Heidegger (1889-1976), di cui Donatella Di Cesare anticipa i contenuti più scottanti in questo articolo, comprende le note scritte dal filosofo nel periodo dal 1942 al 1948. Sta per pubblicare questo materiale, a cura di Peter Trawny, l’editore tedesco Klostermann, come volume 97 delle Opere complete (Gesamtausgabe) di HeideggerLa quarta parte dei Quaderni neri di Martin Heidegger (1889-1976), di cui Donatella Di Cesare anticipa i contenuti più scottanti in questo articolo, comprende le note scritte dal filosofo nel periodo dal 1942 al 1948. Sta per pubblicare questo materiale, a cura di Peter Trawny, l’editore tedesco Klostermann, come volume 97 delle Opere complete (Gesamtausgabe) di Heidegger
Rigoroso e coerente, Heidegger non fa che trarre la conclusione da tutto quel che ha detto in precedenza. Gli ebrei sono gli agenti della modernità; ne hanno diffuso i mali. Hanno deturpato lo «spirito» dell’Occidente, minandolo dall’interno. Complici della metafisica, hanno portato ovunque l’accelerazione della tecnica. L’accusa non potrebbe essere più grave. Solo la Germania, grazie alla ferrea coesione del suo popolo, avrebbe potuto arginare gli effetti devastanti della tecnica. Ecco perché il conflitto planetario è stato anzitutto la guerra dei tedeschi contro gli ebrei. Se questi ultimi sono stati annientati nei lager, è per via di quel dispositivo, di quell’ingranaggio che, complottando per il dominio del mondo, hanno ovunque promosso e favorito. Il nesso fra tecnica e Shoah non deve sfuggire. Ed è proprio Heidegger ad avervi fatto allusione altrove. Che cos’è infatti Auschwitz se non l’industrializzazione della morte, la «fabbricazione dei cadaveri»?
In linea con il suo antisemitismo metafisico, Heidegger vede dunque nello sterminio un «autoannientamento». La Judenschaft, la «comunità degli ebrei» - scrive nel 1942 - «è nell’epoca dell’Occidente cristiano, cioè della metafisica, il principio di distruzione». Poco più avanti aggiunge: «Solo quando quel che è essenzialmente “ebraico”, in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell’autoannientamento nella storia».
La Shoah avrebbe allora un ruolo decisivo nella storia dell’Essere, perché coinciderebbe con il «sommo compimento della tecnica» che, dopo aver usurato ogni cosa, consuma se stessa. In tal senso lo sterminio degli ebrei rappresenterebbe quel momento apocalittico in cui ciò che distrugge finisce per autodistruggersi. Culmine «dell’autoannientamento nella storia», la Shoah rende quindi possibile la «purificazione dell’Essere».
Ma si raggiunge questo culmine? Si autoannienta l’ebraismo mondiale ad Auschwitz? Al termine non dovrebbero esserci vincitori e vinti - categorie ancora metafisiche. Piuttosto l’Ebreo è la fine che deve semplicemente finire; solo così può emergere l’«altro inizio» e intravedersi il nuovo mattino europeo.
Quando Heidegger scrive, nel 1942, le officine hitleriane della morte funzionano a ritmo serrato. Eppure, dopo la guerra, il «culmine dell’autoannientamento» non sembra raggiunto. Gli agenti della macchinazione - malgrado i milioni di morti - potrebbero persino apparire vittoriosi. Allora costituirebbero un pericolo immane per i tedeschi, perché li trascinerebbero nel loro «ingranaggio di morte».
Dopo il 1945 Heidegger osserva: gli «elementi estranei» continuano a deturpare la «nostra defraudata essenza». E si interroga sui tedeschi, sulla «facilità con cui si lasciano sedurre dagli stranieri», sulla loro «incapacità politica», sulla «radicalità con cui compiono anche gli errori più eclatanti».
In fondo la posizione di Heidegger non è dissimile da quella di Carl Schmitt e di molti altri tedeschi che si sentono sconfitti, ma solo militarmente e solo in forma temporanea. Gli ebrei, eliminati dal corpo della nazione, vengono avvertiti come una presenza spettrale e ingombrante.
Nel volume 97 dei Quaderni neri compare, a questo proposito, una lunga annotazione di Heidegger che farà certo discutere. L’occasione è offerta dai volantini distribuiti alla popolazione tedesca dal comando alleato, nei quali, sotto le foto dei lager liberati, è scritto: «Queste azioni infami sono colpa vostra!».
Heidegger replica: «Il mancato riconoscimento di questo destino (il destino del popolo tedesco), l’averci repressi nel nostro volere il mondo, non sarebbe forse, una “colpa”, e una “colpa collettiva” ancor più essenziale, la cui enormità non può essere misurata all’orrore delle “camere a gas”, una colpa più terribile di tutti i “crimini” ufficialmente “stigmatizzabili”, della quale nessuno si scuserà nel futuro? Si intuisce già ora che il popolo e la terra tedeschi non sono che un solo campo di concentramento (ein einziges Kz) - quale il mondo non ha ancora visto e che il mondo non vuole vedere - un non-volere ben più volente e consenziente della nostra assenza di volontà verso l’inselvatichirsi del nazionalsocialismo».
Gli alleati non hanno compreso la missione dei tedeschi e li hanno fermati nel loro progetto planetario. Questo crimine sarebbe ben più grave di tutti gli altri crimini, questa colpa non avrebbe termini di paragone, neppure con le «camere a gas» (espressione inserita tra virgolette!). Per la storia dell’Essere il vero incommensurabile misfatto è quello compiuto contro il popolo tedesco che avrebbe dovuto salvare l’Occidente.
Ma Heidegger non crede che sia tutto finito - proprio perché il «culmine dell’autoannientamento» non è stato raggiunto. C’è ancora un futuro per la Germania, e per l’Europa guidata dal popolo tedesco. Si moltiplicano allora gli interrogativi. Heidegger pensava a un Quarto Reich? E perché, a metà degli anni Settanta, ha progettato la pubblicazione dei Quaderni neri? Che cosa si aspettava dall’Europa in cui noi oggi viviamo?
Certo sarebbe semplice - come sembra suggerire Emanuele Severino - lasciare da parte i Quaderni neri. Ma a vietarlo è lo stesso Heidegger. Qui non si tratta infatti di documenti storici (come nel caso aperto decenni fa da Victor Farías), bensì degli scritti stessi del filosofo, strettamente connessi con il resto della sua opera. Si può capire allora l’esigenza di rileggere ad esempio Essere e tempo - come ha fatto al convegno di Parigi il giovane filosofo israeliano Cédric Cohen-Skalli, paragonando Heidegger a Walter Benjamin. Il che non vuol dire, come pretenderebbero alcuni, proscrivere o bandire Heidegger, ma confrontarsi con la complessità della sua riflessione in modo aperto e critico. Sarebbe questa forse, per la filosofia, l’occasione per pensare nella sua profondità abissale la Shoah.
* Corriere della Sera/La Letturra, 8 febbraio 2015 (ripresa parziale).
Dopo i Quaderni neri. La pubblicazione dei testi dove lo sterminio degli ebrei è definito un autoannientamento segna una svolta
Che rilancia la necessità di interrogare a fondo il pensiero del filosofo, senza dividersi tra fan e avversari
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 09.02.2015)
Qualcuno definisce già il 2014 l’anno zero di Heidegger. L’affermazione è azzardata. Ma certo l’uscita dei Quaderni neri segna nel confronto con il pensiero del filosofo tedesco una svolta la cui portata e i cui esiti non possono oggi essere previsti. Tanto più che la pubblicazione è ancora in corso e il prossimo volume, che va dal 1942 al 1948, è atteso in Germania ai primi di marzo. Proprio per questo è indispensabile evitare le reazioni emotive, i giudizi precipitosi e sommari. Per quanto sia estremamente difficile, occorre invece continuare a interrogarsi e, anzi, mantenere aperte le domande. Serve, insomma, l’esercizio della filosofia.
D’altronde qui non si parla di un dettaglio biografico né di un «errore politico». In tal senso la questione è ben diversa da quella sollevata da Victor Farías e, anni più tardi, da Emmanuel Faye. I Quaderni neri sono testi scritti da Heidegger che ne aveva progettato la pubblicazione. E per di più sono testi strettamente connessi con la sua opera. Il nodo è filosofico . Dissento perciò dalla dichiarazione che ha rilasciato Gianni Vattimo all’«Ansa», perché se Heidegger cede alla metafisica nel definire gli ebrei e l’ebraismo - come io stessa ho indicato nel mio libro - quel che dice nei Quaderni neri non può essere derubricato a dottrina, da tenere separata dalla filosofia. Non sarà più possibile nel futuro, per qualsiasi studio critico, far finta che quest’opera non esista.
Se oggi possiamo leggere i Quaderni neri è grazie anzitutto al lavoro editoriale di Peter Trawny e alle sue riflessioni contenute nel volume Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung (Heidegger e il mito del complotto ebraico), che sta per essere pubblicato da Klostermann nella terza edizione. Decisivo è stato il convegno Heidegger et les «juifs» organizzato a Parigi, tra il 22 e il 25 gennaio scorso, da Joseh Cohen e da Raphael Zagury-Orly, che sono riusciti nell’ardua impresa di far discutere filosofi molto diversi: da Peter Sloterdijk a Alain Finkielkraut, da Maurice Olender a Bernard-Henri Lévy. Al di là dei singoli importanti contributi, è emersa l’esigenza di proseguire la discussione critica senza cadere in preclusioni o chiusure affrettate.
Più frastagliato appare il panorama della filosofia tedesca, ancora profondamente segnata dalla rimozione del nazismo e meno disposta a parlare apertamente di Auschwitz e della «questione ebraica». Ma rifiutare d’improvviso Heidegger, come ha fatto di recente Günter Figal, dimettendosi dalla carica di presidente della Società Martin Heidegger, non vuol dire forse eludere il confronto con quel che è accaduto solo qualche decennio fa?
Se nei Quaderni neri che sono stati pubblicati (i volumi 94-96 delle opere complete) è venuto alla luce, in tutta la sua rilevanza, l’antisemitismo metafisico, nei quaderni che stanno per uscire (il volume 97) è cancellato per sempre il silenzio sulla Shoah. Nello sterminio - come ho sottolineato nell’articolo uscito ieri su «la Lettura» - Heidegger vede un autoannientamento degli ebrei. «Solo quando quel che è essenzialmente “ebraico”, in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell’autoannientamento nella storia».
In una delle sue lezioni talmudiche Emmanuel Lévinas, allievo di Heidegger a Friburgo, ha detto che si potrebbe perdonare «chi abbia parlato senza coscienza». Ma le cose stanno diversamente quando si tratta di un «geniale Rav», un maestro chiamato a un grande destino. «Si possono perdonare molti tedeschi, ma ci sono tedeschi a cui è difficile perdonare. È difficile perdonare Heidegger». Queste parole, che assumono ora un significato ancor più profondo, non esimono tuttavia dal compito di studiare attentamente le pagine di Heidegger e di guardare alla Shoah in una prospettiva inedita. Perché la Shoah non è solo una questione storica, ma è una questione filosofica che coinvolge direttamente la filosofia.
Le responsabilità di una lunga tradizione di pensiero devono essere ancora accertate e discusse. Così come la storia dell’antisemitismo nella filosofia attende ancora di essere scritta. Si presume spesso di sapere che cosa sia l’antisemitismo, che cosa sia la Shoah. Soprattutto in Italia questo ha dato luogo a confusioni pericolose e a sterili polemiche, come quelle suscitate nel giorno della memoria.
Certo che, come diceva già Primo Levi, ci sono state genocidi sia prima, sia dopo Auschwitz. Se i paragoni sono necessari, perché la Shoah fa parte della storia, occorre tuttavia guardare alle peculiarità di un annientamento che ancor oggi sfuggono. Nei campi di sterminio - che vanno distinti dai campi di concentramento o di lavoro - l’industria della morte lavorava giorno e notte per la «soluzione finale», cioè per eliminare il popolo ebraico dal pianeta. Le camere a gas sono state il luogo incancellabile di un progetto sistematico di «depurazione».
Ma lo sterminio è stato senza precedenti anche perché non era mai avvenuto che si uccidesse in una catena di montaggio. Il processo di industrializzazione della morte, che assunse la precisione quasi rituale della tecnica, trovò nell’uso del gas un cambiamento di qualità. Le gassazioni su scala industriale hanno introdotto l’anonimato dei carnefici di fronte alle vittime senza nome e hanno consentito la frantumazione della responsabilità. Non è un caso che l’etica sia stata uno dei grandi temi dopo la Shoah. I principi che la filosofia ha ritenuto validi non hanno retto alla prova di Auschwitz, dove il limite etico ha perso ogni senso di fronte alla degradazione dell’umano, alla privazione della dignità, non solo della vita, ma persino della morte.
Pensare dopo Auschwitz significa uscire da una sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, bensì verso una liberazione che, come quella dell’esodo, si realizza ogni volta con l’altro. L’esodo è il passo in fuori compiuto da un sé consapevole di essere sempre preceduto dall’altro che lo interroga, a cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, ma perché è in quel volgersi che si costituisce come io, senza altra possibilità di scelta. E come l’altro precede il sé, così la responsabilità precede la libertà. Questa inversione del cammino è la sovversione ebraica che ha segnato la rottura nell’asse dell’Essere.
Non è, dunque, neppure un caso che a rilanciare, nella seconda metà del Novecento, la questione della responsabilità siano stati i filosofi ebrei, da Hans Jonas a Hannah Arendt e a Günther Anders, da Emmanuel Lévinas a Jacques Derrida, tutti allievi diretti o indiretti di Heidegger. Come spiegarlo? E sarebbe immaginabile il loro contributo senza il suo pensiero? Queste domande restano aperte. Ma una precisazione è indispensabile. Leggere Heidegger, confrontarsi con le frasi inquietanti dei Quaderni neri , non significa aderire a quel che ha scritto. La filosofia non è - come alcuni credono - un match calcistico, la sfida di una squadra contro l’altra; non si riduce al pro e al contro. Chi filosofa sopporta la complessità e abita nel chiaroscuro della riflessione.
Bibliografia
I taccuini postumi contengono la giustificazione dell’antisemitismo *
Il passo in cui Martin Heidegger si riferisce alle persecuzioni naziste come a un «autoannientamento» ( Selbstvernichtung ) degli ebrei si trova nel quarto volume dei Quaderni neri , che sarà pubblicato all’inizio di marzo in Germania dall’editore Klostermann. Negli anni Settanta il filosofo consegnò all’Archivio di Letteratura tedesca di Marbach sul Neckar 34 quaderni rilegati con una tela cerata nera, disponendo che fossero pubblicati a conclusione delle sue Opere complete (Gesamtausgabe ). Essi contengono riflessioni filosofiche annotate da Heidegger tra il 1931 (manca un quaderno risalente al 1930) e il 1969.
Una prima parte di questi Quaderni neri , relativa al 1931-1941, è uscita lo scorso anno in Germania a cura di Peter Trawny, suscitando forti polemiche per alcuni brani antisemiti: si tratta dei volumi 94, 95 e 96 delle Opere complete. In Italia li sta traducendo Alessandra Iadicicco per Bompiani: un primo volume uscirà in settembre, gli altri due nel 2016, all’interno della collana «Il pensiero occidentale».
Il volume in arrivo presso Klostermann, curato sempre da Trawny, è invece il 97 delle Opere complete e include i Quaderni neri dal 1942 al 1948. All’analisi dei primi tre volumi Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica e vicepresidente della Martin Heidegger Gesellschaft (Società Martin Heidegger), ha dedicato il saggio Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», pubblicato nello scorso autunno da Bollati Boringhieri (pagine 352, e 17) . I contenuti del libro sono stati anticipati dall’autrice sulla «Lettura» del 2 novembre 2014. (a. car.)
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Lo «choc» va in Rete
Ma Vattimo lo difende *
«Choc», «svolta»: dopo le rivelazioni sul pensiero di Martin Heidegger sono queste, sul web, le parole più ricorrenti. A suscitare reazioni è la tesi del filosofo secondo cui gli ebrei «si sono autoannientati», riportata ieri su «la Lettura», il supplemento del «Corriere», dalla studiosa Donatella Di Cesare. Rilanciata dal sito Corriere.it, la dichiarazione ha ottenuto grande popolarità in Rete (hashtag: #Heidegger ). Tra le reazioni quella del filosofo Gianni Vattimo che ha «difeso» Heidegger: «Ha sempre creduto di non essere corresponsabile con il nazismo». Per Vattimo ha sbagliato filosoficamente («un errore concettuale») ma non ci sono sufficienti ragioni per ritenerlo «un apologeta dello sterminio». (s.col.)
* Corriere della Sera, 09.02.2015
Nelle lezioni del ‘33 il filosofo avviò lo strappo da Hitler
di Armando Torno (Corriere della Sera, 16.04.2011)
Martin Heidegger cominciò presto a porsi domande sulla verità. In Essere e tempo - la prima edizione è del 1927 - si trovano le questioni di fondo della sua ricerca, in particolare egli fissava le coordinate per ristabilire il luogo ontologico nel quale la verità si costituisce. Notò, tra l’altro, che essa «deve avere pure qualcosa di valido se perdura» .
Poi, nell’autunno-inverno 1930, terrà a Brema, Marburgo e Friburgo, e la ripeterà nell’estate del 1932 a Dresda, la conferenza L’essenza della verità, la medesima che sarà pubblicata soltanto nel 1943 e poi inclusa nell’opera Segnavia (tradotta da Adelphi nel 1987).
Quel che si legge in questo breve testo è indispensabile per comprendere il corso universitario che il filosofo svolgerà a Friburgo nel semestre invernale 1931-32: le lezioni, dal 27 ottobre 1931 al successivo 26 febbraio, avevano come titolo L’essenza della verità (tradotte da Franco Volpi per Adelphi nel 1997).
Dopo l’incarico a Hitler del 30 gennaio 1933, Heidegger è coinvolto nel nuovo clima e in marzo entra nella Comunità di lavoro politico-culturale dei docenti universitari, il 3 aprile in una lettera a Jaspers ribadisce la sua volontà di agire, il 3 maggio è tesserato (con la data del giorno 1) nel Partito nazionalsocialista, il 27 si celebra la sua nomina a rettore dell’Università di Friburgo.
Il 30 giugno ad Heidelberg tiene la conferenza L’università nel nuovo Reich e Jaspers nella sua Autobiografia nota: «... anch’egli preso da quella ubriacatura...» . Il 3 novembre sul Bollettino universitario viene pubblicato il discorso d’inaugurazione del semestre nel quale Heidegger indica Hitler come punto di riferimento e l’ 11, a Lipsia, ribadisce le sue posizioni. -, ma in quei mesi sta accadendo qualcosa nella mente del filosofo.
Nel semestre estivo del 1933 tiene un corso dal titolo Die Grundfrage der Philosophie, ovvero L’interroganza di fondo della filosofia. All’inizio la questione posta è sulla «nobiltà dell’istante geniturale» ; poi esamina, tra l’altro, le posizioni di Hegel, Kant, Descartes, Wolff, Baumgarten. Nell’ultima pagina si legge: «Il popolo tedesco non appartiene a quei popoli che hanno perso la loro metafisica» .
Quel qualcosa che dicevamo prende forma nel corso del semestre invernale 1933-34, che ha come titolo Vom Wesen der Wahrheit, cioè Dello stanziarsi della verità. Già nel primo capitolo della parte prima, Heidegger invita a riflettere sulla «liberazione dell’uomo verso la luce d’origine» ma anche sulla condizione di chi si trova «nella caverna» , chiamando in causa quanto Platone scrive nel VII libro della Repubblica, quell’allegoria che immagina uomini incatenati in un antro e in grado di vedere sul fondo soltanto le ombre degli oggetti che scorrono davanti all’ingresso. Sono pagine densissime, che esaminano il bene, la libertà; soprattutto offrono riflessioni formidabili sulla verità.
Ora, sia il corso del semestre estivo 1933 che quello invernale ricordato, vedono la luce in italiano con il titolo Che cos’è la verità? (da lunedì in libreria per Christian Marinotti Edizioni, pp. 336, e 30). Tradotti da Carlo Götz, tali scritti ebbero la prima edizione tedesca nel 2001 a cura di Hartmut Tietjen. In questa pagina anticipiamo uno stralcio che nel testo è posto in corsivo e reca il titolo A proposito del 30 gennaio 1933. È un attacco a Erwin Guido Kolbenheyer (1878-1962), scrittore o «filosofo popolare» che dir si voglia, molto letto e apprezzato nel Terzo Reich, dal 1933 funzionario culturale dell’Accademia prussiana delle arti. Heidegger è ancora rettore - rassegnerà le dimissioni alla fine di questo semestre invernale -, ma lo strappo è già avvenuto. E le sue parole, qui date in anteprima, ne sono la prova.
«Evoluzionismo, una visione cieca della vita umana»
L’attacco al nazista Kolbenheyer
di Martin Heidegger (Corriere della Sera, 16.04.2011)
Ogni epoca e ogni popolo hanno la loro caverna e gli annessi abitanti della caverna. Anche noi oggi. E un caso esemplare di un odierno abitante della caverna, con il suo annesso plaudente seguito, è ad esempio il filosofo popolare e politico della cultura Kolbenheyer, che ieri si è esibito qui. Non mi riferisco al poeta Kolbenheyer, di cui ammiriamo il Paracelsus. Egli è vincolato alle ombre e le considera l’unica concretezza e l’unico mondo determinante; cioè pensa e parla nello schema di una biologia che ha conosciuto trent’anni fa- in un tempo in cui era di moda produrre visioni del mondo biologiche, cfr. Bölsche e i libri sul cosmo.
Kolbenheyer non vede, non è capace di vedere e non vuole vedere:
1. che quella biologia del 1900 si fonda sull’impostazione di fondo del darwinismo e che questa dottrina darwinistica della vita non è qualcosa di assoluto, e nemmeno di biologico; piuttosto essa è determinata genituralmente dalla concezione liberale dell’uomo e della società umana, che dominava nel positivismo inglese nel secolo XIX;
2. che la sua biologia del plasma e della struttura cellulare e dell’organismo è radicalmente superata e che oggi viene alla luce una formulazione interamente nuova, fondamentalmente più profonda, della questione concernente la «vita» .- Scardinamento del concetto di organismo, che è soltanto una propaggine dell’«Idealismo» , soggetto singolare, «Io» , e soggetto biologico. Tempra di fondo: relazione con l’ambiente, e questa non è una conseguenza dell’adattamento, bensì al contrario la condizione d’attendibilità per esso;
3. che, sebbene la costitutiva determinazione della vita sia più originaria e più appropriata di quella del secolo XIX, anche in questo caso la vita (modo d’essere di pianta e animale) non costituisce la sovrana sfera d’integrità della concretezza;
4. che, sebbene, in una certa forma, la vita umano-fisica sia il fondo portante dell’umano essere e della sua successione di generazioni raccolte in stirpi, con ciò non è ancora provato che il fondo portante debba e anche soltanto possa essere anche il fondo determinante (...).
5. In fondo questo modo di pensare non si differenzia in niente dalla psicoanalisi di Freud e dalle sue consorterie. In fondo nemmeno dal marxismo, che prende il tratto genitural-spirituale come funzione del processo di produzione economico (...).
6. Sulla base della cecità di questo biologismo rispetto alla geniturale ed esistenziale concretezza di fondo dell’uomo o di un popolo, Kolbenheyer è incapace di vedere genuinamente e di comprendere l’odierna concretezza politico-geniturale tedesca; infatti, nella conferenza non ve ne è traccia - al contrario: la rivoluzione è stata falsificata come mera azienda organizzativa.
7. Qui monta il tipico atteggiamento di un borghese reazionario nazionale e popolaresco. Per quest’ultimo la «politica» è un’ignobile, fatale sfera che si lascia nelle mani di certe persone, che poi per esempio fanno la rivoluzione. Il borghese aspetta finché questo processo è finito perché arrivi nuovamente il suo turno; qui con il compito di fornire infine, ex post, lo spirito alla rivoluzione. Naturalmente per questa tattica ci si appella ad un motto del Führer: finita la rivoluzione, inizia l’evoluzione. Suvvia - non indugiamo in falsificazioni. Evoluzione - certamente, ma appunto dove la rivoluzione è finita.