VARSAVIA. NEL GHETTO DI EDELMAN
Un resoconto vivo, senza retorica o concessioni leggendarie dell’insurrezione, di cui oggi ricorre il sessantasettesimo anniversario
Il racconto è permeato di un sarcasmo polacco, l’esatto contrario del cinismo
Negli ultimi anni subì gli attacchi antieuropei e antisemiti di "Radio Maria"
Anticipiamo parte della prefazione di ad Arrivare prima del Signore Iddio, un libro intervista a Marek Edelman curato da Hanna Krall (La Giuntina, pagg. 136, euro 12). Oggi, 19 aprile, ricorre il sessantasettesimo anniversario dell’inizio della rivolta nel ghetto di Varsavia.
di Gad Lerner (la Repubblica, 19.04.2010)
Arrivare prima del Signore Iddio non è solo il resoconto più vivo della rivolta del ghetto di Varsavia, scaturito dalla testimonianza del vicecomandante dell’Organizzazione ebraica di combattimento (ZOB) scampato miracolosamente alla morte. È molto di più. Hanna Krall, l’autrice, si scontra pagina dopo pagina con la reticenza di Marek Edelman, il testimone. Egli teme che il suo ricordo venga snaturato, ridotto a leggenda inautentica. Ricordare per lui significa anche smitizzare, sottrarsi all’agiografia. Solo così riesce a dare un senso ai decenni successivi in cui esercitò la professione di medico cardiologo all’ospedale di Lodz: collocato di nuovo molteplici volte su quell’esile confine tra la vita e la morte che aveva visto oltrepassare da centinaia di migliaia di persone sull’Umschlagplatz mentre salivano sui vagoni stracolmi diretti a Treblinka, con l’ultima pagnotta messa loro tra le mani dai nazisti allo scopo di garantirsi un flusso di smaltimento ordinato.
Li ho visti morire tutti quanti, ripete Edelman. Poi all’improvviso si rivolta contro la Krall: cosa mi domandi? Potrei dirti dieci volte di più sui miei malati. Ci tiene a precisare che lui è rimasto al cancello dell’Umschlagplatz tutta la vita. Sì, anche dopo. Anche in ospedale: «Stavo al cancello e tiravo fuori degli individui da una folla di condannati».
Il libro è permeato di un sarcasmo polacco che è l’esatto contrario del cinismo. Grazie ad esso apprendiamo che Marek Edelman è certamente un temerario - la sua singolare caratteristica è di apparire un uomo del tutto esente dalla paura - ma non è un soldato. Lo si capisce subito, quando gli insorti s’imbattono il 19 aprile 1943 nel primo manipolo di tedeschi ignari del fatto che ci fossero degli ebrei armati. Potevano sparargli, a dire il vero andavano ammazzati: «Avremmo dovuto, ma non eravamo ancora abituati a uccidere». Che senso poteva avere, del resto, usare le poche e malandate armi pervenute nel ghetto dalla parte ariana della città? «Gli uomini hanno sempre creduto che sparare è il massimo dell’eroismo. Allora abbiamo sparato». E ancora: «Visto che l’umanità si è accordata che morire con le armi in pugno è più bello che senza, allora ci siamo sottomessi a questa convenzione». Purché sia chiaro, si preoccupa di ricordarci Edelman attraverso innumerevoli esempi, che il coraggio non fu certo una virtù esclusiva dei combattenti. La funzione di questi ultimi era limitata: bisognava morire pubblicamente, sotto gli occhi del mondo.
Non stupisce quindi la diminuzione sistematica con cui contraddice l’epopea raccontata da chi non c’era: cinquecento i membri attivi del ZOB? Macché, eravamo molti meno. Mordechaj Anielewitcz, il suo comandante, figura immacolata? Certo, ma che male c’è a ricordare che era figlio di una pescivendola e che al mercato non esitava a tingere con vernice rossa le branchie delle carpe per farle sembrare più fresche? Anche il cielo si è tinto di rosso nell’incendio del ghetto di Varsavia, cosa volete che sia un po’ di vernice scarlatta. Per sé e i suoi compagni, il nostro testimone rivendica che gli concediamo se non altro il beneficio della normalità.
Detesta la retorica dei superuomini. Ma nello stesso tempo detesta gli uomini che delegano a Dio le responsabilità che spetta loro assumere. È questo l’unico frangente in cui il dottor Edelman, chiamato a prendere decisioni temerarie di fronte a casi clinici disperati, ama esibire superbia. Lui, il Signore, non è tanto giusto. Talvolta è piacevole raggirarlo, approfittare di un Suo momento di distrazione e proteggere la fiamma che Iddio era già lì pronto a spegnere. Una bestemmia? Certo che no: i rivoltosi del ghetto di Varsavia sono interpreti dell’autonomia dell’umano senza cui neppure la Legge sarebbe in grado di fondare una morale di civiltà.
Tentare sempre di sopravvivere con dignità: pur di trasmetterci questo insegnamento Edelman non esita a criticare la scelta del suicidio messa in atto nel bunker di via Mila 18 dal comandante Anielewitcz insieme agli ultimi resistenti. Del resto avevano dissentito insieme, il 23 luglio 1942, quando a togliersi la vita era stato il presidente del Consiglio ebraico, Adam Czerniakov, non appena aveva appreso che i tedeschi avevano deciso la liquidazione del ghetto. Riconoscevano la rettitudine di Czerniakov, ma gli imputavano di non avere indicato per primo la via obbligata dell’insurrezione.
Ciò naturalmente non gli ha impedito, nel dopoguerra, fino all’ultima celebrazione dell’anniversario della rivolta cui ha partecipato nell’aprile 2009, di sostare in raccoglimento di fronte alla lapide che ricorda Szmul Zygielbojm, il rappresentante del Bund nel governo polacco in esilio che il 12 maggio 1943 si suicidò a Londra per protesta contro l’indifferenza dei governi alleati. Il cerimoniale da lui predisposto contemplava che a quel punto dell’itinerario, prima di proseguire verso l’Umschlagplatz e il bunker di via Mila 18, un coro di ragazzi intonasse piano l’inno del Bund, il "suo" partito operaio ebraico contrario al progetto di emigrazione sionista in Palestina.
Marek Edelman rimarrà fino all’ultimo dei suoi giorni, il 2 ottobre 2009, quando si spense serenamente a Varsavia nella casa dell’amica Paula Sawicka, un militante del Bund. Ovvero della nobile idea democratica secondo cui un ebreo deve poter vivere libero e alla pari con i suoi concittadini là dove nasce. Se poi volesse andare a vivere in Israele per sua libera scelta -aggiungiamo noi - lo faccia. Ma non più, mai più, come via di fuga. Come è noto questo ideale di Edelman gli procurò l’inimicizia dei sionisti e il sospetto dello Stato d’Israele. Ma per fortuna non ha potuto impedire che la sua fotografia venisse collocata quando era ancora vivo nella galleria degli eroi della rivolta del ghetto allo Yad Vashem di Gerusalemme. Il principio dell’uguaglianza e della cittadinanza ebraica in qualsiasi paese della terra è un’eredità che il Bund consegna attraverso di lui alle generazioni successive. (...)
Nel maggio del 2008, quando andai a intervistarlo nel modesto villino di Lodz insieme al mio primogenito Giuseppe, lo trovai alle undici del mattino seduto in cucina che fumava sorseggiando vodka. Gli avevo portato in dono del vino piemontese che disdegnò come bevanda per signorine. Per fortuna in aeroporto avevo comprato pure una bottiglia di whisky che lo rimise di buonumore e subito stappò, proponendoci un brindisi. Accendeva una nuova sigaretta senza filtro con il mozzicone della precedente. Niente male per un medico cardiologo affezionato alla vita (degli altri)! Da poco aveva subito gli attacchi di "Radio Maria", emittente del cattolicesimo polacco più reazionario, dopo che ne aveva denunciato la propaganda antieuropea e antisemita. Gli chiesi il perché dell’ostinazione con cui era rimasto a fare il guardiano delle tombe del suo popolo. «Perché qualcuno provi dispiacere quando lo guardo negli occhi. Voglio dispiacere a quelli che sono contenti che gli ebrei siano morti in Polonia. Hanno vergogna di guardarmi negli occhi, hanno paura di me. E questo mi fa piacere perché non hanno paura di me, ma della democrazia». Puntava uno sguardo di fuoco sull’obbiettivo della telecamera. Poi mi congedò piuttosto bruscamente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA.... UN’INDICAZIONE DI FREUD
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!!
"Marek Edelman (1919-2009) nasce nel 1919 a Homel, nell’attuale Bielorussia, da una famiglia di ebrei. Giovanissimo, si iscrive al Bund, il partito socialista ebraico di Russia, Lituania e Polonia, e diventa un noto attivista politico.
Vicecomandante della rivolta del Ghetto di Varsavia nel 1943, si distingue per coraggio e determinazione nella battaglia impari contro le truppe naziste dopo quattro mesi di assedio e di strenua resistenza degli ebrei rinchiusi nel ghetto.
Riesce a sfuggire alla retata delle SS passando attraverso le fognature nella parte ariana della citta’ insieme ai pochi sopravvissuti delle squadre di combattimento.
Di quell’esperienza ricorda: ’Ero giovane, avevo un mitra in pugno, difendevo il ghetto dalle SS. O noi o loro, non c’era tempo per i sentimenti. C’era solo la certezza che contro una dittatura si puo’ sempre e solo lottare. Io penso sempre che quando la vittima e’ oppressa bisogna stare dalla sua parte. Bisogna darle riparo, nasconderla, senza paura e sempre opponendosi a coloro che vogliono schiacciarla’.
Un anno dopo, nell’agosto del 1944, partecipa con i suoi uomini all’insurrezione di Varsavia. Dopo la guerra si laurea in medicina e diventa un noto cardiologo. Si riconosce in un socialismo dal volto umano, distante dalle logiche staliniste, e sogna un’Europa democratica in cui regni la fratellanza dei popoli. Dopo essere stato braccato dai nazisti per le sue origini, viene perseguitato dai comunisti sia perche’ ebreo che per i suoi ideali.
Nel 1968, nel quadro dell’odiosa campagna "antisionista" del partito guidato da Gomulka, Edelman perde il posto di lavoro in ospedale. Negli anni Settanta la sua autonomia e liberta’ di pensiero lo spingono a partecipare all’attivita’ di Solidarnosc, scelta che nel 1981, con l’introduzione della "legge marziale" del generale Jaruzelski, gli costera’ l’arresto insieme a molti altri leader del movimento.
Nel 1989, alla caduta del regime, viene eletto deputato alla Dieta, il Parlamento nazionale, e resta in carica fino al 1993. Durante l’assedio serbo, negli Anni Novanta, si schiera al fianco della popolazione di Sarajevo. Si e’ spento a Varsavia il 2 ottobre 2009.
Alla notizia della sua morte, radio e tv polacche hanno sospeso le trasmissioni per darne notizia. Edelman e’ stato un simbolo e un punto di riferimento per molti giovani del suo Paese, decorato in Polonia con l’ordine dell’Aquila bianca e, nel 2008 con la Legione d’onore francese.
Si definiva un “guardiano dei morti”, riferendosi alle vittime della barbarie nazista, per la cui memoria si e’ sempre battuto con ostinazione, ma amava occuparsi della vita, come esponente dell’umanesimo socialista e come medico.
E’ autore dei libri: Il ghetto di Varsavia. Memorie e storia dell’insurrezione; Arrivare prima del buon Dio, C’era l’amore nel ghetto".
Riportiamo anche il ricordo di Andrea Tarquini apparso sul quotidiano "La Repubblica" del 3 ottobre 2009 col titolo "Addio a Marek Edelman eroe del ghetto di Varsavia": "L’Europa, la cultura ebraica e mondiale tout court e l’era contemporanea hanno perso uno degli ultimi grandi testimoni dell’Olocausto, della Resistenza e della Storia. Marek Edelman, il leggendario comandante dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia contro l’esercito occupante della Germania nazista, e’ morto nella sua casa nella capitale polacca. Da almeno due settimane la sua salute si era deteriorata. A 90 anni, si e’ spento sereno nel suo letto, con a fianco a confortarlo fino all’ultimo le persone che piu’ amava.
Alla notizia, radio e tv polacca hanno subito interrotto le trasmissioni per dare l’annuncio. Con Marek Edelman viene a mancare uno dei protagonisti piu’ eccezionali del nostro tempo, ’il guardiano’, come s’intitola la sua biografia trascritta da Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn.
Nato nel 1919 a Homel, oggi in Bielorussia, studente in medicina nel vivace clima della numerosa, colta e attivissima borghesia ebraica della Polonia di prima della guerra e di Hitler, scelse presto l’impegno politico.
Si iscrisse da giovane al Bund, cioe’ il partito socialista ebraico (Allgemeiner Jidischer Arbeiter-Bund in Russland, Lite un Poiln, Partito unito ebraico dei lavoratori in Russia, Lituania e Polonia). Era non lontano dalla capitale il primo settembre 1939, quando gli Stukas della Luftwaffe e le Panzerdivisionen della Wehrmacht lanciarono la brutale aggressione alla Polonia che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale.
Proprio il primo settembre scorso, nell’ultima intervista che concesse a ’Repubblica’, ricordo’ quei giorni tremendi, lucida e serena voce della memoria. ’Rammento gli Stukas in picchiata, citta’ e villaggi distrutti, l’accanimento bestiale sui civili... tornai a Varsavia, non trovai piu’ i miei amici e compagni di studi. Misi in salvo i miei pochi averi, fuggii, mi detti alla macchia, mi unii alla Resistenza’. Furono momenti tragici, ci narrava la sua voce. ’O noi o loro, la cosa piu’ terribile non erano nemmeno i bombardamenti e i massacri, era la sensazione, anche se per il momento sopravvivevi, di essere degradati a Untermenschen, a subumani. E anche loro, i soldati tedeschi, erano ridotti a bestie. Non c’era tempo per pensare alle loro anime: o noi o loro, ogni giorno sopravvivevi e non sapevi fino a quando saresti sopravvissuto’.
Nella Resistenza europea ed ebraica, Marek Edelman ebbe un ruolo anche politico di primo piano. Convinse il Bund a unirsi alla Zydowska organizacja bojowa, l’organizzazione combattente ebraica. Quando comincio’ nel 1943 l’insurrezione del Ghetto di Varsavia, ne fu il vicecomandante, e il primo sul campo, secondo solo al massimo responsabile politico Anjelewicz. Anjelewicz si tolse la vita per sfuggire alla Gestapo, Edelman al comando di gruppi di partigiani ebraici riusci’ a fuggire attraverso le fogne e si uni’ ai partigiani polacchi. Costitui’ gruppi armati del Bund e nell’agosto 1944 combatte’ di nuovo, questa volta nell’insurrezione dell’Armia Krajowa, l’esercito partigiano conservatore che schierava a fianco degli Alleati piu’ soldati di quelli di de Gaulle.
Nel dopoguerra, decise di restare in Polonia nonostante la nuova oppressione imposta da Stalin e l’antisemitismo spesso incoraggiato dalla dittatura. Fu un medico straordinario a Lodz, la Manchester polacca, antico centro della rivoluzione industriale, e scrisse numerosi libri sulla Resistenza e l’Olocausto.
Molti lo odiavano: antisemiti d’ogni sorta, e antisemiti al potere a Varsavia. Come il potente ministro dell’Interno del dittatore Wladyslaw Gomulka, Mieczyslaw Moczar, che quando scoppio’ nel 1968 (a marzo, due mesi prima che a Parigi) la rivolta studentesca polacca, reagi’ con una spietata purga, cacciando gli ultimi ebrei dal paese. Edelman fu licenziato, per la seconda volta, dall’ospedale.
Quando poi, nel 1976, il dissenso guidato da Jacek Kuron, Adam Michnik e altri fondo’ contro la repressione antioperaia il Comitato di difesa dei lavoratori (Kor) lui si impegno’ al loro fianco. Dopo il golpe di Jaruzelski fu piu’ volte arrestato. Divenne poi uno dei piu’ ascoltati consiglieri di Solidarnosc, una delle massime menti laiche dell’opposizione democratica, e partecipo’ alla Tavola rotonda, il negoziato del 1989 tra Solidarnosc e la giunta militare-comunista del generale Wojciech Jaruzelski. Fu uno degli artefici dell’idea che scaturi’ da quel Tavolo: la trattativa per una transizione non violenta dal socialismo reale alla democrazia, sull’esempio della Spagna dopo la morte di Franco.
Dal 1989, l’anno della svolta in cui si tennero in Polonia le prime elezioni semilibere dell’allora blocco sovietico, al 1993, fu anche deputato alla Dieta. Quando Helmut Kohl visito’ Varsavia tornata democratica, lui lo guido’ in visita nell’ex Ghetto: ’Vede, cancelliere, la’ affrontammo la Wehrmacht’. Nel 1998 il presidente Aleskander Kwasniewski, ex comunista e quindi sua ex controparte alla Tavola rotonda, lo insigni’ dell’ordine dell’Aquila, la massima onorificenza polacca. Il breve periodo del nazionalpopulismo dei gemelli Kaczynski fu pesante anche per lui, ma ’il comandante’, come chi lo conosceva lo chiamava con affetto rispettoso e riverente, non si scoraggiava mai. Continuava a dire la sua, e sopravvisse (con la vittoria del liberal Donald Tusk) al loro potere. Fino all’ultimo, fu un uomo del dialogo. Anche verso la Germania: ’Hanno saputo cambiare, sono un altro paese’, ci disse tante volte, l’ultima volta proprio il primo settembre, commosso dal discorso-mea culpa di Angela Merkel...". *
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 233 del 26 giugno 2010
DALL’ESTERO
Tra i capi della ribellione
Omaggio della Polonia a Marek Edelman. Durante la Seconda guerra mondiale, fu tra i protagonisti della rivolta nel ghetto di Varsavia
da Vaccari News. La filatelia in tempo reale (04 Gen 2022).
Un grande uomo e uno dei leader della rivolta, avvenuta durante la Seconda guerra mondiale, al ghetto di Varsavia; ha difeso il diritto alla libertà e il rispetto della dignità umana con dedizione e grande impegno.
È in questo modo che la Polonia presenta il medico e attivista sociale Marek Edelman, vissuto tra il 1919 e il 2009. Il 2 gennaio gli è stato dedicato un francobollo senza nominale (sostituito da “Priorytetowy S”), destinato agli invii base ma prioritari, un servizio che da Capodanno costa 4,50 zloty. Dovuta a Jarosław Ochendzan, la vignetta ne propone il ritratto.
Il ghetto di Varsavia è esistito dal novembre 1940 al maggio 1943. A quel tempo era il più grande del Paese occupato, ampio circa 300 ettari; vi abitavano 400mila ebrei in condizioni di estrema povertà e disumane.
Nel ghetto la Storia la scrivono i vinti
La vicenda vera di un gruppo di studiosi di Varsavia che cercò di contrastare la supremazia della memoria nazista
Nel 1999 l’Unesco ha incluso l’archivio “Oyneg Shabes” (nome della compagnia dei 60 studiosi) nella “Memoria del Mondo”
di Federico Pontiggia (Il Fatto, 15.01.2019)
“Saranno i tedeschi a scrivere la nostra storia, o saremo noi ebrei?”. Lo studioso Samuel D. Kassow ha disseppellito la risposta e l’ha affidata a un libro, Chi scriverà la nostra Storia? L’archivio ritrovato nel ghetto di Varsavia (Mondadori), che poi è diventato il docufilm Chi scriverà la nostra Storia (Who Will Write Our History).
Sceneggiato e diretto da Roberta Grossman, prodotto dalla sorella di Steven Spielberg, Nancy, con Kassow consulente scientifico, è stato presentato in anteprima al San Francisco Jewish Film Festival lo scorso luglio, quindi è meritoriamente ma nascostamente transitato alla Festa di Roma e il 27 gennaio arriverà in sala con Wanted e Feltrinelli Real Cinema per la Giornata della Memoria. Non dovete perderlo, ha una qualità cinematografica importante, un valore storico preminente, un lascito esistenziale incommensurabile.
Narrato da Adrien Brody e Joan Allen, propala una, forse la, storia non raccontata della Shoah: quando nel novembre del 1940 i nazisti rinchiudono oltre 450mila ebrei nel ghetto di Varsavia, c’è chi s’oppone, non con le armi bensì con carta e penna. Perché se è vero che la storia la scrivono i vincitori, si può accostarne un’altra, che non si consegni alla prospettiva dei vinti: “I tedeschi mandano troupe cinematografiche nel ghetto - dice Kassow nel film - per mostrare quanto siamo sporchi e disgustosi. Stanno dicendo al mondo che siamo la feccia della terra, e a meno che non assembliamo la nostra documentazione i posteri ci ricorderanno sulla base delle fonti tedesche e non di quelle ebraiche”.
Denominata Oyneg Shabes, “La gioia del Sabato” in yiddish, una compagnia segreta guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e formata da sessanta tra ricercatori e giornalisti, rabbini e sionisti cerca di contrastare la supremazia della memoria nazista, raccogliendo decine di migliaia di documenti e artefatti, diari, interviste e ritratti per dare contezza della vita e della morte nel ghetto. E non solo, basti pensare ai primi report dello sterminio provenienti da Chelmo e fatti rimbalzare sulle onde corte della Bbc Radio. Un’impresa rischiosa e vieppiù coraggiosa, nata quale forma di resistenza non convenzionale e cresciuta, quando i destini personali volgono al termine, quale trasmissione di sapere, non dei filosofi e dei rabbini ma della gente comune, secondo le coordinate apprese dal sionista di sinistra Ringelblum all’Istituto per la Ricerca Ebraica.
Dei sessanta della Oyneg Shabes, con proporzioni estendibili all’intero ghetto dato alle fiamme nel ‘43, non sopravvivranno che tre membri, di cui solo uno, Hersch Wasser, conosce la localizzazione dell’archivio. Assistito da un’altra compagna, Rachel Auerbach, Wasser porta all’individuazione di scatole metalliche seppellite sotto una scuola: è il settembre del 1946. Nel dicembre del ’50 alcuni muratori porteranno casualmente alla luce una seconda porzione del “tesoro”, custodita in due contenitori d’alluminio per il latte.
Regista solida ed esperta, la Grossman lega estratti degli archivi e interviste inedite, raro materiale di repertorio e drammatizzazioni storicamente accurate e ben recitate. Brividi e occhi lucidi accompagnano ineludibilmente la visione, che nel ghetto ritrova un bivio atroce - “Che cosa significa passare davanti a persone che muoiono per strada. Per alcuni mostra quanto siamo diventati insensibili, altri hanno detto di no, invece. Mostra quanto siamo diventati forti” - e un “tragico dilemma: dobbiamo servire la zuppa col contagocce a tutti? O dobbiamo darne una porzione intera ad alcuni così che pochi abbiano abbastanza per sopravvivere?”. Scriveva la Auerbach, che vi fu addetta, “le mense pubbliche ebraiche non hanno mai salvato nessuno dalla fame”, tra impotenza diffusa e crepuscolo degli uomini ci si chiede solo se “morirà prima la mia o la tua famiglia” e a quel punto “si può parlare di etica?”.
Chi scriverà la nostra Storia non elude nulla, nemmeno i membri della polizia ebraica che si trasformavano “in segugi per salvare la pelle” e, prima di finire nell’omissis post-bellico, facevano interrogare su “chi ha cresciuto queste mele marce tra noi?”, ma non abdica alla speranza: è “il trionfo dell’umano sull’inumano” di Ringelblum e soci, “ché la nostra volontà di vivere è più forte della volontà di distruggere”.
Nel 1999 il programma Memoria del Mondo dell’Unesco ha incluso tre collezioni polacche: le composizioni di Frédéric Chopin, i lavori scientifici di Copernico, e l’archivio Oyneg Shabes.
Wlodek Goldkorn: la memoria preziosa di un ebraismo che non coincide col sionismo
di Gad Lerner (sabato, 4 giugno 2016)
Ho letto con emozione l’ultimo bellissimo libro di Wlodek Goldkorn, “Il bambino nella neve” (Feltrinelli), non solo perchè si tratta dell’opera più intima e impegnativa di un amico al cui tragitto esistenziale mi sento affratellato. Figlio di ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah che avevano deciso di restare a vivere nel loro paese e che invece dovettero emigrare in Israele nel 1968, di fatto espulsi dal regime comunista con una valigia e cinque dollari a testa, Wlodek ha trovato le parole per raccontarci le molteplici conseguenze di quello strappo perpetrato nel cuore dell’Europa. In cui pure è ritornato a vivere, trovando in Italia una terra capace di ospitare la sua anima tormentata e cosmopolita.
Straordinarie sono le pagine dedicate all’infanzia trascorsa a Katowice, non lontano da Auschwitz, nei casermoni abbandonati nel 1945 dagli occupanti nazisti, col mobilio e le stoviglie ancora marchiati dalle svastiche. Custodire la memoria degli sterminati e perpetuare sotto il comunismo sovietico una cultura yiddish depurata da anacronismi superstiziosi, si rivelò una sfida improba. Eppure, indispensabile. Perchè l’ebraismo vive nel tempo d’attesa del Messia e non solo nello spazio proprietario di una terra idolatrata, sia essa pure la terra d’Israele da cui Wlodek si sentirà nuovamente respinto.
Non a caso si sceglierà come maestro di vita Marek Edelman, il vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia divenuto cardiochirurgo e testimone del dissenso antiregime. La sua è un’adesione postuma al Bund, il partito socialista ebraico che contrastava il progetto sionista, considerando prioritaria l’emancipazione “qui e ora” degli ebrei nella terra in cui già vivevano da secoli. Impegnati a custodire le tombe e presidiare i luoghi di uno sterminio mai visto prima, ma nello stesso tempo a perpetuare l’anelito di redenzione incarnatosi nell’impegno per la giustizia sociale e i diritti universali.
In altre parole, raccontando le vicissitudini della sua famiglia nelle asperità di un dopoguerra tutt’altro che pacificato, Wlodek Goldkorn mantiene vivo lo spirito di un ebraismo che non può accettare di ricondursi per intero nel destino del sionismo. Tanto più oggi, quando Israele soffre di un’involuzione particolaristica che ne sta mettendo a repentaglio la natura democratica e distorce a fini politici i suoi millenari insegnamenti. Wlodek è un prezioso testimone dell’ebraismo. Laico, non credente, eppure messianico. Con questo libro, corredato dalle belle fotografie di Neige De Benedetti che l’ha accompagnato in una sorta di pellegrinaggio nell’indicibile dei campi di sterminio, si rivela essere anche uno scrittore di vaglia.
“Il bambino nella neve” è un libro importante, colma un buco nero. L’esperienza vissuta in prima persona da persone sensibili e colte come il suo autore, ha un valore inestimabile che durerà nel tempo.
Varsavia 1943 la rivolta del Ghetto minuto per minuto
Tradotto il resoconto scritto subito dopo la guerra dal vice comandante degli insorti Marek Edelman
di Marco Belpoliti (La Stampa, 30.04.2012)
Morto tre anni fa Marek Edelman nacque il 1o gennaio 1920 a Varsavia, dove è morto il 2 ottobre 2009. Dopo avere militato giovanissimo nella Unione generale dei lavoratori ebrei, con l’occupazione della Polonia da parte dei nazisti divenne comandante in seconda (numero uno era Mordechaj Anielewicz) della Zob, l’Organizzazione ebraica di combattimento
Dieci maggio 1943, ore 10 del mattino, in via Prosta, angolo via Twarda, a Varsavia, si aprono i tombini ed esce, armi in pugno, un manipolo di ebrei. Sono i sopravvissuti della Zob, la formazione armata della resistenza, che hanno ingaggiato con i tedeschi un violento conflitto armato durato quasi un mese, dal 19 aprile, e che ora, dopo aver attraversato carponi le fogne della città, immersi nel fango e nella melma, sbucano all’aperto, fuori dal Ghetto e salgono su un camion e s’allontanano. Il Ghetto brucia implacabilmente mentre gli ultimi due gruppi di combattenti resistono fino a metà giugno. Le truppe tedesche radono al suolo le case e uccidono tutti i sopravissuti. L’insurrezione del Ghetto ha mostrato a tutto il mondo che le vittoriose armate hitleriane non sono affatto tali, e che alcune centinaia di uomini possono tenere in scacco l’esercito tedesco e infliggergli consistenti perdite.
La storia di questo episodio, diventato uno dei simboli della Seconda Guerra mondiale, è raccontata, subito dopo la fine del conflitto, in un piccolo libro redatto dal vicecomandante degli insorti, Marek Edelman: Il ghetto di Varsavia lotta, uscito in Polonia nel 1946 e ora tradotto, a cura di W. Goldkorn, dalla Giuntina (pp. 113, € 12), una delle prime testimonianze sulla deportazione e lo sterminio ebraico. Come ricorda nella sua prefazione, un vero e proprio racconto sul racconto, Wlodeck Goldkorn, quando il ventiseienne resistente ebreo polacco pubblica in patria il suo resoconto non esiste neppure la parola Shoah o Olocausto, e il tema dello sterminio non ha ancora trovato i suoi studiosi e le stesse testimonianze sull’evento sono appena agli inizi. Un altro ventenne, Primo Levi, pubblicherà un anno dopo, nel 1947, il suo resoconto della deportazione ad Auschwitz-Monowitz.
Lo stile di Edelman è secco, cadenzato; il racconto, ricco di dettagli, è intessuto di orgoglio ed eroismo. La scelta del tempo presente quale tempo della narrazione mostra come Edelman, figura leggendaria della storia polacca del XX secolo, viva fino in fondo l’attualità perenne di quelle vicende, ed esprima la volontà di perpetuarne la memoria in modo attivo. Il susseguirsi dei fatti è scandito quasi minuto per minuto; lo sguardo del narratore cronachista medievale, essenziale e puntuto - si sposta nei vari punti del Ghetto, entra nel bunker del comando in via Mila 18 (è appena ri-uscito in edizione italiana l’ampio romanzo di Leon Uris, ebreo americano, Mila 18, ed. Gallucci, pp. 868, 19,70, il primo racconto romanzato della vicenda, del 1961), poi sale nelle soffitte, entra nelle case, attraversa le strade; afferra nomi e cognomi dei resistenti, dei feriti, dei morti, per salvarne la memoria. Veloce e istantaneo possiede il ritmo di una cavalcata, con il susseguirsi di scontri a fuoco, azioni, storie minime e minute nel grande affresco del Ghetto, che è storia comune e insieme individuale.
Edelman aveva ben identificato già nel 1946 la tecnica con cui i tedeschi avevano irretito i Consigli ebraici su cui poi s’appunterà l’attenzione problematica di Hannah Arendt nel corso del processo di Eichmann a Gerusalemme, rivelando nel resoconto della lotta il collaborazionismo di una parte degli ebrei polacchi. Scrive: «L’istinto di autoconservazione porta la psiche umana a pensare che l’importante è salvare la propria pelle, anche a costo della vita altrui». La cosa terribile, spiega, è che nessuno, anche in presenza di testimonianze Edelman e i suoi compagni stampano giornali ciclostilati distribuiti ogni giorno -, crede che la deportazione sia la morte. La tecnica dei nazisti di dividere la popolazione in due schieramenti finisce col produrre una situazione in cui «degli ebrei porteranno altri ebrei verso la morte, pur di salvaguardare la propria vita». Parole che sono state a lungo ignorate sino a quando la Arendt, nel 1963 con La banalità del male, e poi Levi, nel 1986 con I sommersi e i salvati, hanno posto il problema della «zona grigia».
Il libro contiene inoltre una storia nella storia, quella che Goldkorn, cronista fedele di Edelman, ci racconta nell’introduzione. Il vicecomandante, eroe della resistenza, non solo verso i nazisti, ma anche contro il regime autoritario e oppressivo istituito dopo il 1945, arrestato, perseguitato fino alla caduta del regime comunista, è avvolto non solo dalla luce radiosa della lotta, ma anche da piccole ombre che Goldkorn racconta con grande delicatezza e precisione, e che finiscono col renderlo ancor più interessante e vero. Come la stessa storia della fuga dal Ghetto attraverso le fogne, con gli uomini lasciati indietro, il rifiuto di portare in salvo con sé le prostitute ebree che avevano accudito feriti e combattenti, con le versioni sempre mutevoli degli episodi.
Una storia politica, scrive il curatore, e perciò sempre in marcia assieme a noi, ma anche una storia umana dalle molte sfaccettature come quella di Wiera Gran, cantante di cabaret nel recinto chiuso di Varsavia, emblematica per quanto riguarda l’uso e la sostanza della memoria. Wiera la cui vita è raccontata da un bellissimo e inquietante libro della scrittrice polacca Agata Tusznska, Wiera Gran, l’accusata, appena tradotto per Einaudi (pp. 316, € 20) è una donna affascinante dalla voce meravigliosa che ammalia gli ascoltatori. Fuggita dal Ghetto, verrà inseguita tutta la vita dalla nomea di collaborazionista che le rovinerà la carriera in Israele e in Europa. Dopo aver cantato con Aznavour e Brel, Wiera, perseguitata dalle voci senza prove, finisce paranoica e folle a Parigi, dove muore nel 2007. Nessuno, neppure Edelman che sapeva, l’ha mai scagionata da quelle infamie. La memoria cambia, dice Goldkorn, e noi con lei. Per questo il suo esercizio, come ci aveva avvisati Levi, è complesso e incerto.
Toaff, impresa da traghettatore
di Anna Foa (Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2010)
In un articolo pubblicato sul mensile «Pagine Ebraiche» nell’imminenza della visita in Sinagoga di Benedetto XVI, e poi ripubblicato sull’«Osservatore Romano», l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede Mordechai Lewy si domandava come mai sono così pochi i rappresentanti dell’ebraismo a partecipare attivamente al dialogo ebraico-cristiano. Una domanda, questa, non solo interessante, ma anche nuova, che Lewy si poneva soprattutto a proposito degli ebrei ortodossi in Israele e nel mondo, ma che può essere allargata anche al mondo ebraico italiano, non solo geograficamente tanto vicino alla Chiesa cattolica.
E in effetti, da questa radicale trasformazione dei rapporti tra Chiesa ed ebrei iniziata negli anni Sessanta e proseguita, tra alti e bassi, nel corso dei decenni, il mondo ebraico italiano non sembra essersi sentito troppo colpito o partecipe, tranne poche eccezioni. Tutte le riflessioni che sono state fatte sulla svolta conciliare e i suoi esiti hanno guardato soltanto alla sua ricaduta sulla pratica religiosa, catechistica e didattica, cioè hanno guardato alla Chiesa, ma nessuno o quasi si è interrogato sull’atteggiamento del mondo ebraico, quasi dando per scontato che questo cambiamento non potesse non essere accolto a braccia aperte dagli ebrei, coloro che erano stati l’oggetto del secolare insegnamento del disprezzo della Chiesa, e trovare difficoltà solo nel mondo di chi questo disprezzo lo aveva a lungo esercitato, il mondo cattolico.
Eppure, questo non era così ovvio. Il mondo ebraico italiano era uscito dall’esperienza della Shoah profondamente segnato, anche se non colpito quanto quello di altri paesi. Meno del 20% di morti, una percentuale però che sale al 30% fra i rabbini, oltre a sette lunghi anni di discriminazione e di umiliazione dopo le leggi del 1938.
I rapporti del mondo ebraico con la Chiesa cattolica, una volta passato il momento della riconoscenza per l’aiuto prestato nei conventi e nelle istituzioni ecclesiastiche, non furono dei più cordiali. Molti fatti e problemi vi pesarono, non ultima la conversione del rabbino capo di Roma, Israel Zolli, al cattolicesimo. In generale, la Chiesa sembrava, nonostante le denunce di molti cattolici, non voler rinunciare alla tradizione teologica antigiudaica e non volerne rimettere in discussione il ruolo nella diffusione dell’antisemitismo razziale. Fu questa, ritengo, la grande occasione perduta del pontificato di Pio XII, la continuità con la tradizione mantenuta negli anni del dopoguerra, anni in cui i primordi del dialogo ebraicocristiano non trovarono accoglienza nella Chiesa. La storia avrebbe poi dimostrato che il processo si era comunque avviato, anche se con tempi lunghi e complesse resistenze.
Se, in questo contesto, la svolta conciliare e poi la dichiarazione NostraAetate, che rappresentarono un mutamento radicale rispetto alla tradizione, incontrarono un mondo ebraico disposto a venire incontro al cambiamento e a farlo suo, questo fu merito dei pochi che si impegnarono a fondo, e fu a Roma merito precipuo del lungo periodo - un mezzo secolo esatto, dal 1951 al 2001 - di gestione della cattedra di rabbino maggiore da parte di Elio Toaff: una gestione in cui non soltanto il mondo ebraico si aprì senza preclusioni alla società italiana e alla sua ricostruzione, ma anche rimodellò la sua identità tanto sulle trasformazioni che interessavano direttamente l’ebraismo, in primo luogo la creazione dello Stato di Israele e la costruzione della memoria della Shoah, quanto su quelle che interessavano i suoi rapporti con il resto della società, in primo luogo il dialogo ebraico-cristiano.
In queste trasformazioni, il mondo ebraico si è mosso sostanzialmente nello stesso modo di quello non ebraico, con le stesse scansioni temporali e le stesse priorità, finendo per esercitare, nella società e nella cultura italiana, nonostante la sua esiguità numerica, un ruolo importante e in molti casi fin egemone.
È in quest’ottica, volta a sottolineare il ruolo di Elio Toaff nell’intera storia italiana del secondo Novecento, e non solo in quella ebraica, che si è mossa la Comunità ebraica romana, attraverso l’opera della Fondazione Culturale intitolata proprio a Elio Toaff, nel tributare al rabbino emerito di Roma, in occasione del suo novantacinquesimo compleanno, un riconoscimento degno della sua importanza: una mostra, un volume di contributi, tanto di ebrei che di non ebrei, sulla sua figura e sul suo ruolo (in uscita da Zamorani), un documentario, e numerose altre iniziative.
Toaff vi appare sempre più come un grande politico e un grande traghettatore, colui cioè che più ha contribuito a trasportare senza perdite e senza eccessive resistenze nella società italiana la piccola minoranza ebraica.
Un percorso comunque difficile, segnato da crisi e da momenti alti. Come non ricordare, tra le crisi, quella determinata dall’attentato del 1982 alla Sinagoga di Roma, con la morte del piccolo Stefano Taché, quando Toaff, dopo un iniziale momento di chiusura all’esterno, seppe sciogliere il dolore degli ebrei nell’abbraccio della città e delle istituzioni? e, fra i momenti alti, la visita di Giovanni Paolo II in Sinagoga, nel 1986, e il clima di calore intenso che la caratterizzò? Proprio in quanto rabbino, e non nonostante il suo essere rabbino, Toaff è stato un personaggio chiave dell’Italia del Novecento, contribuendo a fare della storia degli ebrei italiani un momento centrale di quella della società italiana tutta. Insomma, a rendere gli ebrei italiani, senza conflitti nè perdite, ebrei e italiani, italiani ed ebrei.
* AA.VV., «Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia», Zamorani, Torino, pagg. 130, €18,00
500 anni del ghetto ebraico di Venezia
È uno dei più antichi d’Europa, ma la sua comunità si è persa e sfilacciata nel tempo e ora litiga sul senso di celebrare un "simbolo di oppressione"
di Anna Momigliano *
Campo del Ghetto Nuovo è una piazza tranquilla nel cuore del ghetto ebraico di Venezia, a pochi minuti a piedi dalla stazione dei treni. La piazza ospita il Museo ebraico, tre antiche sinagoghe, la casa di riposo della comunità ebraica e nelle vicinanze ci sono un hotel e un ristorante kosher. Negli ultimi vent’anni il ghetto di Venezia - uno dei più antichi quartieri d’Europa in cui gli ebrei erano costretti a vivere segregati dai cristiani, e il primo a essere chiamato “ghetto” - è diventato una meta popolare per i turisti internazionali, soprattutto ebrei americani. Le sinagoghe del ghetto, tuttavia, non sono sede di nessuna congregazione religiosa e nelle case del quartiere ci sono solo una manciata di residenti ebrei ormai anziani. Gli edifici sono soprattutto rivolti ai visitatori e il ghetto è ormai diventato il simbolo di una comunità che si sta riducendo e lotta per sopravvivere.
A Campo del Ghetto Nuovo però ci sono ancora segni di vita. Recentemente la piazza è diventata l’oggetto delle conversazioni su come ricordare il passato e affrontare l’argomento della diversità religiosa, un tema con cui è alle prese gran parte del mondo. Martedì 29 marzo sono iniziati i festeggiamenti per il 500esimo anniversario della creazione del ghetto: nove mesi di eventi che comprenderanno tra gli altri un concerto al Teatro La Fenice di Venezia e la rappresentazione del Mercante di Venezia di Shakespeare, in cui reciterà anche la giudice della Corte Suprema americana Ruth Bader Ginsburg, nel ruolo del giudice che presiede il processo di Shylock contro Antonio. Per alcune persone l’anniversario è un’occasione per rivitalizzare la vita ebraica della città, che sta scomparendo, mettendo in risalto un aspetto capace di stimolare una riflessione: come nel ghetto la comunità ebrea fosse unita e molto attiva, nonostante l’isolamento e la profonda discriminazione. È un argomento molto attuale, in un periodo in cui le minoranze religiose - non solo gli ebrei, ma anche i musulmani - si sentono di nuovo relegati ai margini dell’Europa.
Per altre persone, contrarie alle celebrazioni, il ricordo del ghetto è soltanto doloroso. Come si può “celebrare” un ghetto, simbolo dell’oppressione in Europa? «Non credo ci sia molto da festeggiare. Il ghetto fu creato dai cristiani per segregare gli ebrei», ha detto Riccardo Calimani, uno studioso ebraico veneziano che ha scritto un libro sulla storia del quartiere ed è stato il primo nella sua famiglia a nascere fuori dal ghetto, nel 1946. Non tutti però condividono la sua opinione. «I cancelli del ghetto furono aperti oltre duecento anni fa. Non è esattamente una ferita aperta, e non vedo nessun motivo per non celebrare l’anniversario, soprattutto se potrà portare a qualcosa di buono», ha detto Alisa Campos, una donna di 36 anni originaria della comunità ebraica di Venezia e che oggi vive in Israele.
La presenza della comunità ebraica a Venezia risale al 13esimo secolo. Nel 1516 le autorità cittadine stabilirono che gli ebrei avrebbero dovuto vivere separati dai cristiani costringendoli a trasferirsi in un’area degradata della città, sede di fonderie abbandonate (l’origine della parola ghetto potrebbe derivare dal termine “getto”, usato per indicare una fonderia). I cancelli del quartiere venivano chiusi durante la notte, per evitare che gli ebrei venissero a contatto con i cristiani al di fuori dell’orario di lavoro.
Quando Napoleone conquistò Venezia del 1797 i cancelli del ghetto furono aperti e gli ebrei furono lasciati liberi di decidere dove vivere. «Gli ebrei benestanti abbandonarono gradualmente il ghetto, mentre rimasero quelli poveri e iniziarono ad arrivare anche operai cristiani», ha detto Calimani, che ha raccontato come prima della Seconda guerra mondiale il ghetto ospitasse ancora metà della popolazione ebrea di Venezia, che all’epoca era di 1.200 persone. Oggi la comunità ebraica di Venezia è composta ufficialmente da sole 450 persone, quasi tutte residenti fuori dal quartiere. L’Olocausto non è causa di questo declino (solo 230 ebrei veneziani furono uccisi secondo il Centro di documentazione ebraica contemporanea): lo sono però l’assimilazione e l’emigrazione.
L’ebraismo italiano, nonostante sia di stampo ortodosso, per tutto il 20esimo secolo è stato insolitamente aperto verso il mondo esterno e inclusivo nei confronti degli ebrei non osservanti. Negli ultimi 15/20 anni, tuttavia, i rabbini della comunità hanno iniziato a adottare regole più severe, escludendo le famiglie con fedi diverse al loro interno e rendendo più difficile l’integrazione della crescente popolazione di ebrei laici. I rabbini, per esempio, hanno smesso di convertire i figli neonati di donne non ebree (pratica diffusa in Italia fino alla fine anni Novanta, chiamata “ghiur katan”, o piccola conversione) e reso più difficile la conversione dei non ebrei finalizzata al matrimonio con ebrei, ha raccontato Calimani, che è tra le persone che ritengono le autorità ebraiche responsabili di aver involontariamente allontanato le persone dalla comunità, specialmente gli ebrei laici e quelli sposati con partner di credo diverso. «La politica dei rabbini è stata un suicidio: credevano che i membri della comunità sarebbero dovuti essere pochi ma buoni, ma la loro idea non ha funzionato», ha detto Calimani. La dura politica sui matrimoni misti ha portato a un enorme allontanamento da parte dei giovani, ha raccontato Campos. Il tasso di matrimoni misti nella comunità ebrea italiana è sempre stato alto. Fino a 15/20 anni fa, però, per le coppie miste convertire il partner non ebreo o i figli era facile, mentre ora è molto più difficile, e le coppie miste fanno più fatica a integrarsi nella comunità. «Quasi tutti i giovani laici hanno una relazione con una persona non ebrea, e molti di loro abbandonano la comunità perché non si sentono benvenuti. Ma dal momento che trovare un partner ebreo in una comunità così piccola è quasi impossibile, i giovani osservanti si stanno trasferendo in Israele o a Milano, per vivere secondo uno stile di vita ortodosso», ha raccontato Campos, «ogni volta che torno a casa mi rattrista molto vedere come la comunità stia morendo».
La crisi della popolazione ebrea di Venezia riflette una tendenza più ampia nella città. Secondo l’ultimo censimento Venezia, che ha circa 260mila abitanti, sta perdendo in media mille persone ogni anno. La popolazione sta invecchiando e i giovani se ne vanno perché è difficile trovare lavoro in settori diversi dal turismo, a cui l’economia della città è sempre più legata. Sono arrivati ebrei dall’estero, grazie al movimento Chabad-Lubavitch e a Beit Venezia, un ente ebreo laico che offre programmi per la residenza di scrittori e artisti. Per alcuni potrebbe essere un modo per sopperire alla diminuzione della popolazione ebrea nativa. Gli ebrei stranieri però, che nella maggior parte dei casi provengono da Nord America e Israele, difficilmente vengono considerati membri della comunità e di solito non sono coinvolti nelle sue attività, nonostante negli ultimi tempi questa tendenza stia cambiando grazie all’arrivo del nuovo capo rabbino Shalom Bahbout, un uomo cosmopolita che a sua volta è immigrato dalla Libia.
Secondo Calimani celebrare il ghetto, un simbolo di segregazione, è particolarmente inappropriato in un’epoca in cui l’Europa fatica a far sentire le minoranze integrate e la comunità ebrea di Venezia sta diventando più piccola ed elitaria. «Dovremmo lottare per l’apertura e l’inclusione, il contrario di ciò che rappresenta il ghetto», ha detto Calimani, secondo cui l’Europa ha ancora un problema di segregazione geografica, anche se meno evidente che in passato. «Le banlieues sono i ghetti dell’era moderna, un luogo di difficoltà e discriminazione, anche se li chiamiamo in modo diverso», ha setto Calimani riferendosi alle difficili periferie operaie francesi, dove vivono immigrati e minoranze. Gli organizzatori dei festeggiamenti per il 500esimo anniversario del ghetto, tuttavia, sottolineano come il senso della ricorrenza sia celebrare l’apertura e non la segregazione. «È per questo che tutti gli eventi coinvolgono organizzazioni ebraiche e autorità laiche della città. Vogliamo coinvolgere tutti, ebrei e non ebrei, cittadini internazionali e italiani, membri della comunità e non», ha detto Shaul Bassi, il coordinatore del comitato per le celebrazioni dell’anniversario e direttore di Beit Venezia.
Bassi ha raccontato come tra il 1516 e il 1797 il ghetto fosse un «melting pot unico». Gli ebrei arrivavano da tutto il mondo, per sfuggire a condizioni di vita peggiori. Tra queste persone c’erano ebrei aschenaziti dall’Europa centrale, sefarditi dal Levante, marrano (famiglie obbligate a convertirsi al cristianesimo che mantenevano in segreto il loro credo ebraico) dalla Spagna e italiani. «Non celebriamo le mura del ghetto, ma la ricchezza e la diversità delle tradizioni culturali sbocciate al loro interno», ha detto Bassi. Anche Calimani concorda sul fatto che la vita ebraica all’interno del ghetto abbia prodotto «grandi risultati che meritano di essere ricordati, come la diffusione della stampa ebraica».
Bassi ha raccontato che il programma dell’anniversario è stato accusato di essere rivolto più ai visitatori stranieri che agli ebrei di Venezia. «A volte capita di sentire degli anziani che ricordano con nostalgia la vecchia comunità ebrea veneziana, dove si parlava ancora il dialetto ebraico locale. Ma la verità è quel mondo non esiste più, e non sono sicura che l’abbiano capito tutti», ha raccontato Campos. «Per alcuni eventi ci sono stati più newyorchesi che veneziani interessati a partecipare. Non è per forza una cosa negativa. Le persone del posto non possono salvare la vita della comunità ebraica di Venezia da sole: non siamo abbastanza», ha detto Bassi, «l’internazionalizzazione è fondamentale per sopravvivere. Il ghetto, poi, nella storia è stato un posto molto internazionale. Sarebbe così negativo se tornasse a esserlo?»
* Washington Post, 29.03.2016 (ripresa parziale - senza immagini).