È già tormentone per i ragazzini, che se la scaricano in formato Mp3, la «trascrizione» della musica emessa dalle profondità galattiche. Dal cupo e vibrato eco del Big Bang agli schiocchi ritmati delle pulsar, fino alla tempesta sonora tra Giove e Io e ai sibili delle vampate di idrogeno sul Sole
Universo
Sinfonia in chiave di basso
di Luigi Dell’Aglio (Avvenire, 22.07.2007)
L’astronomo cieco che studia le stelle senza poterle vedere ma ascoltando le frequenze elettromagnetiche dei radiotelescopi ha precorso i tempi. L’aveva capito l’astrofisico americano Carl Edward Sagan (1934-1996), consulente scientifico per Contact di Robert Zemeckis, e perciò aveva inserito quel personaggio nella trama del film. Un’epica fantascientifica che è diventata scienza, tanto che oggi i ricercatori parlano di musica o sinfonia dell’Universo.
Appena 380 mila anni dopo il Big Bang, l’Universo emette un suono acuto che ricorda quasi il vagito di un bimbo appena nato. Segue poi un tono grave come quello del contrabbasso; a volte sembra un ruggito. C’è chi paragona il suono del Big Bang al rombo di un aereo che vola basso nel silenzio della notte. Il cosmo incute rispetto, con tutti i suoi suoni, variabili e misteriosi. Anche la stella gigante Xi Hya usa i toni ultrabassi. Quando Giove "parla" con una delle sue lune, che porta il nome dell’amata e sfortunata ninfa Io, esplode una tempesta sonora che può durare molte ore.
Il Sole, ascoltato e analizzato da Robert von Fay-Siebenburgen e da Youra Taroyan, dell’Università di Sheffield, in Inghilterra, ha la performance di un gigantesco organo a canne o di una potente chitarra, riferiscono i due astronomi. Ma quando dall’arroventata corona solare si levano imponenti vampate di idrogeno, pari a milioni di gradi Celsius, ecco sottilissimi sibili, e risonanze che fanno pensare a John Cage, pioniere dell’ambient music.
Avvincenti i suoni prodotti dalle aurore che si formano su Ganimede, il più grande e luminoso dei satelliti di Giove, scoperto (come Io) da Galileo Galilei. Dalla nebulosa del Granchio, le pulsar (Pulsating Radio Source) emettono intense radiazioni elettromagnetiche, che si traducono in uno schiocco secco, periodico e regolare come un metronomo; musica percussionistica che piacerebbe alle avanguardie. Le Leonidi, sciame di stelle cadenti, producono suoni con le loro meteore.
La sonda Cassini-Huygens ha registrato l’eco dei turbini che martellano l’atmosfera di Saturno. Insomma, uno spazio che "respira", tutto da ascoltare. La sinfonia dell’Universo è così richiesta che, per renderla accessibile al pubblico, specie quello giovane, e agli aficionados della musica «in cui nessun suono è prodotto intenzionalmente», è sorta Radio Astronomy (www.radio-astronomy.net).
Che queste vibrazioni abbiano realmente accompagnato la nascita e la vita dell’Universo è dimostrato da una quantità di esperimenti e confermato dagli astronomi. Bisogna risalire a un importante evento: la scoperta della radiazione cosmica di fondo (Cosmic Background Radiation), che è quanto rimane dello smisurato calore creatosi con il Big Bang.
Di questa radiazione si erano accorti per primi Arno Penzias e Robert Wilson; cercavano di far funzionare un’antenna per microonde, nei laboratori della Bell Telephone, ma era venuta fuori un’inspiegabile radiazione, del tutto sconosciuta sul pianeta e dunque di origine extraterrestre.
Ma fu David Wilkinson a capire che quel fioco segnale era la voce che veniva dal lontanissimo Big Bang, residuo dell’immenso calore che si era sprigionato. Secondo alcuni, nella radiazione fossile di fondo si sono impresse le onde acustiche esistenti nell’Universo primordiale. Inoltre, al principio, l’Universo era composto da un gas di particelle elementari con zone più dense e meno dense; le perturbazioni nate da queste differenze si propagavano come le onde sonore.
Il satellite Wmap (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) ha tradotto in suono la radiazione cosmica che è testimone dell’esplosione primordiale. Di qui la musica dell’Universo.
Ci si chiede: l’Universo è nato a tempo di sinfonia? Da quattordici miliardi di anni fa, quando il cosmo era più giovane, più caldo e soprattutto più denso di oggi, non ci arrivano vere e proprie note musicali. Come fanno osservare gli astronomi di Sheffield, i satelliti Soho (Solar Heliospheric Observatory) e Yokho ("Raggio di Sole") hanno studiato le immagini e i dati provenienti dalla regione più esterna del Sole e, applicando nuovi modelli teorici, hanno potuto misurare le onde sonore. Hanno accertato che i suoni sono migliaia di volte più bassi di quelli che l’orecchio umano arriva a percepire.
Dalle immagini raccolte dai vari satelliti (in particolare da Cobe, dall’attuale Wmap e dal futuro Planck), e dagli esperimenti Boomerang e Maxima con palloni stratosferici, oggi si può ricostruire lo spettro dei suoni primordiali.
Ma la musicologia dell’Universo è scienza ancora in fasce. Quasi tutti i corpi celesti vibrano come strumenti musicali e perciò producono suoni: dal mormorio al rombo, fino al fruscio al clic, al rumore puro. Ma vent’anni fa John Schwartz e Gabriele Veneziano hanno lanciato la teoria delle stringhe: l’Universo sarebbe occupato non da particelle elementari sempre più piccole ma da stringhe, filamenti infinitamente sottili, la cui lunghezza estremamente variabile può coprire sia millimetri che le distanze fra le galassie. Allora la sinfonia dell’Universo sarebbe composta dalle vibrazioni delle stringhe? Ogni corpo celeste farebbe parte di un’immensa orchestra. I teenager comunque non entrano in queste dispute e va già di moda scaricare i vari brani della sinfonia dell’Universo nel lettore Mp3 che si porta appeso al collo, o come suoneria di cellulari. Mai l’Universo era entrato così profondamente nella nostra vita.
INTERVISTA
L’astrofisico Balbi: il codice genetico del cosmo
di Luigi Dell’Aglio (Avvenire, 22.07.2007)
Ma i suoni che coinvolgono di più sono quelli provenienti dall’origine del cosmo. «In questo timbro è contenuto una specie di codice genetico dell’Universo, che allora era in uno stato embrionale», spiega Amedeo Balbi, ricercatore in Astrofisica a Roma Tor Vergata, che ha lavorato a Berkeley e collabora alla missione spaziale Planck dell’Esa, e con l’editore Springer ha pubblicato La musica del Big Bang. «Intendiamoci - dice - si tratta di suoni nel senso fisico, vibrazioni che attraversavano il plasma molto denso dell’Universo primordiale ma non ascoltabili come i suoni che viaggiano nell’aria. Sono state necessarie elaborazioni matematiche per portare quelle vibrazioni alle frequenze ascoltabili dall’uomo».
«Vengono effettuate misure nella banda delle microonde, che è una parte dello spettro elettromagnetico e lì s’incontra un debolissimo segnale di fondo che arriva da qualsiasi direzione del cielo con la stessa intensità: è la radiazione cosmica di fondo», riferisce ancora Balbi.
Le piccolissime fluttuazioni del segnale vengono analizzate per mezzo di strumenti matematici e statistici usati anche nell’analisi armonica, cioè quando si vuol capire il timbro di uno strumento. E a chi vuole sentire la musica del Big Bang Balbi indica il sito http://library.wolfram.com/ Infocenter/MathSource/5083. Un archivio completo dei suoni provenienti dai corpi celesti si trova nel sito dell’Unione astrofili italiani: http://scis.uai.it
Il Sole vicino all’attività minima, lo rivela la sua ’musica’
Generata dai suoi terremoti interni
di Redazione *
L’attivita’ del Sole sta diventando sempre piu’ debole in vista del nuovo periodo ’silenzioso’, che potrebbe arrivare nell’arco di due anni, secondo il tipico alternarsi dei cicli di attivita’ della nostra stella: lo indica la speciale ’musica’, prodotta dai terremoti che avvengono all’interno della nostra stella. Dalla ricerca pubblicata sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society emerge che le ’note’ indicano che lo strato in cui avviene buona parte dell’attivita’ magnetica solare e’ piu’ sottile. Coordinata da Yvonne Elsworth, dall’universita’ britannica di Birmingham, la ricerca viene presentato il 4 luglio nella Conferenza Nazionale sull’Astronomia organizzata nel Regno Unito.
"Il Sole e’ molto simile a uno strumento musicale, tranne per il fatto che le sue note sono a una frequenza molto bassa, circa 100.000 volte piu’ bassa della nota ’do’", ha spiegato Elsworth. "Studiare le onde sonore con una tecnica chiamata eliosismologia, o sismologia del Sole, ci permette - ha aggiunto - di scoprire quello che succede al suo interno".
Per fare questo i ricercatori si sono avvalsi del Birmingham Solar Oscillations Network (Bison), una rete di sei telescopi dislocati in altrettanti Paesi, in funzione dal 1986 e gestita dalla stessa universita’. In questo periodo la rete ha raccolto i dati di tre cicli di attivita’ del Sole, ognuno durato circa 10-11 anni, osservando i cambiamenti nella quantita’ di particelle energetiche create dall’interazione tra il campo magnetico e la superficie incandescente.
I risultati indicano che il Sole sta entrando in una fase di attivita’ particolarmente debole: negli ultimi anni il suo campo magnetico si e’ assottigliato ed e’ rallentata la velocita’ di rotazione degli strati piu’ esterni ad alcune latitudini. "Non siamo ancora sicuri di quali saranno le conseguenze, ma - hanno concluso i ricercatori- e’ evidente che ci troviamo in periodo insolito. In ogni caso, possiamo affermare che arriveremo al minimo di attivita’ solare tra circa due anni".
Copernico , visione e fallimento
Inseguiva la cosa più profonda: l’essenza, la verità. Sapeva che Tolomeo s’era sbagliato
Sembrava gravato da una conoscenza intollerabile o da una sterminata innocenza
Il grande scienziato e la sua ultima rivoluzione (mancata): sentire la musica segreta dell’universo
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 26.02.2016)
Di John Banville, nato in Irlanda nel 1945, il pubblico italiano conosce soprattutto L’intoccabile, pubblicato nel 1997 (Guanda): un romanzo straordinario, forse il più bel romanzo europeo degli ultimi cinquant’anni; ricco, vasto, terribilmente comico, dominato da una fantasia fiammeggiante e grottesca. All’inizio della propria carriera Banville aveva scritto La notte di Keplero, La lettera di Newton e La musica segreta, un bellissimo libro uscito in questi giorni dall’editore Guanda (traduzione di Irene Abigail Piccinini). Tutti e tre questi libri sono dedicati ai protagonisti della rivoluzione cosmologica moderna: quando l’Europa fu presa da una ispirata malattia, che aveva come sintomi la cupidigia, una curiosità colossale, e una specie di irresistibile allegria.
L’eroe della Musica segreta è Nicolaus Koppernigk. Come è sua abitudine, John Banville ricostruisce l’ambiente nel quale egli crebbe: il porto di Torún, sulla Vistola, uno splendido caos assordante, con lo stridore degli argani, le cantilene e le imprecazioni degli scaricatori; la Polonia e la Germania del sedicesimo secolo, sovrani, vescovi e studiosi di astronomia. Nel 1496 Copernico lasciò la Polonia: raggiunse Bologna, con quella piatta aria immobile che gli gravava pesantemente sui polmoni. Infine Roma, madida di paura: dove si parlava di portenti e di prodigi; sangue pioveva dal cielo a mezzogiorno, fragori di zoccoli soprannaturali scuotevano la notte, misteriosi gridi riempivano l’aria.
Molti dicevano che era il regno dell’Anticristo, e che la fine era vicina. Il figlio del papa, Cesare Borgia, tornò vittorioso dalla Romagna, cavalcando in trionfo con il suo esercito per le strade di Roma in festa. Sembrava che il Signore delle Tenebre fosse venuto a farsi acclamare dalle folle in delirio. Dio era stato deposto: Rodolfo Borgia governava in sua vece. Copernico detestava Roma: gli ricordava un vecchio leone morente al sole, con la pelliccia fulva graffiata e puzzolente, sulla quale si moltiplicavano i pidocchi, in un ultimo carnevale convulso. Egli non si chiedeva se quella fosse la fine, o se un’ultima, terribile benedizione sarebbe stata impartita alla città e al mondo.
A Roma Copernico incontrò la filosofia ermetica, derivata dai misteriosi testi di Ermete Trismegisto, secondo i quali l’universo è un’ampia rete di azioni interdipendenti e simpatetiche. Apprese che, dopo la morte, gli uomini si sarebbero riuniti al Tutto: l’uomo spirituale, l’anima libera e splendente sarebbe ascesa attraverso le sette sfere di cristallo del firmamento, liberandosi a ogni sfera di una parte della sua natura mortale, fino a trovare piena redenzione nell’Empireo. Quando Copernico immaginava quell’anima fiammeggiante levitare verso l’alto, un’esultanza indicibile si impadroniva di lui.
Copernico ritornò in Polonia. Sulla torre di Heilsberg aveva un osservatorio. La sua stanza assomigliava più al covo di un alchimista che allo studio di uno scienziato moderno: come la trovò al suo ritorno, la scienza era ancora l’antica confusione di incantesimi e talismani e segni segreti. Lo studio era provvisto di ogni apparecchio che fosse di ausilio all’arte dell’astronomia: globi di rame e di bronzo, astrolabi, quadranti, il triquetrum più intricato, una rappresentazione dell’universo di squisita fattura, con sfere e bacchette d’oro.
In passato Copernico si era spesso rifugiato nella scienza per difendersi dall’orrore della vita, facendo di lei una specie di trastullo. Ora comprese che doveva essere una disciplina fredda e straziante da accettare consapevolmente, obbedendo alle sue regole. Inseguiva la cosa più profonda: il nocciolo, l’essenza, la verità. Obbediva alla faticosissima necessità di trovarsi a distanza ravvicinata dal mondo, di cui aveva bisogno: ma questo mondo non doveva contaminare le sue visioni, inquinando con la propria volgarità la purezza trascendente delle teorie celesti. Una volta si chiese se al fondo di tutto non ci fosse una forza selvaggia ribollente, la quale, torcendosi in oscure passioni, tutto produce, sia ciò che è grande sia ciò che è insignificante. Forse sotto ogni cosa si nascondeva un vuoto senza fondo, mai colmo. Allora, la vita non sarebbe stata altro che disperazione.
Copernico sapeva che Tolomeo, nell’Almagesto, si era sbagliato, e che da allora la scienza dei pianeti era stata una vasta cospirazione per salvare i fenomeni. Pensava che il Sole, non la Terra, stesse al centro del mondo, e che il mondo fosse molto più vasto di quanto Tolomeo immaginasse. Il Sole era il centro di un universo immensamente espanso: la nota fondamentale della musica segreta. Dicendo, e scrivendo così, egli temeva di essere confutato, insultato, messo in ridicolo.
Infatti i dotti del tempo lo insultarono: le persone comuni provavano dispiacere al fatto che la vecchia Terra fosse deposta e relegata nel buio del firmamento, saltellando e piroettando agli ordini di un muto e tirannico dio del fuoco. Copernico venne invitato a partecipare al Concilio Lateranense sulla riforma del calendario: ma rifiutò, adducendo come scusa la convinzione che questa riforma non andasse portata avanti senza aver prima determinato con maggior precisione il moto del Sole e quello della Luna. Pensava che l’astronomo è un cieco che, con la matematica come unico sostegno, debba compiere un viaggio pericoloso e interminabile attraverso innumerevoli luoghi desolati.
Per tutta la vita Copernico cercò di diventare se stesso, scoprendo il proprio io. Non sapeva per quale ragione, questo misterioso io gli era sempre sfuggito. La vita scorreva al di sopra di lui, in una corrente e, sotto la corrente, lui aspettava, senza sapere che cosa. Cominciò a soffrire di insonnia: spesso di notte si avventurava per la città, immergendo il cervello febbrile nella fredda aria notturna. Sentiva che l’intelletto lo dominava, rinchiudendolo in una sublimità asfissiante; e liberò in sé stesso l’uomo fisico, che per tutta la vita aveva atteso di essere liberato. I sensi avrebbero avuto il loro momento di gloria. Eppure, stranamente, il corpo liberato sembrò ignorare cosa fosse la libertà appena ritrovata.
Alla fine, Copernico ebbe la sensazione di svanire a poco a poco: il suo io fisico stava evaporando: diventava trasparente; era soltanto mente; una specie di grigia ameba fantasma, che vorticava silenziosamente nell’aria. C’era in lui una mancanza, che andava al di là del naturale distacco dello scienziato. Dietro le sue azioni e i suoi gesti, si estendeva una sottile corda tesa di inesprimibile angoscia, che si allungava nel nulla. A tratti, sentiva in sé una muta intensità e ferocia, che spaventava chi gli si avvicinava. Sembrava gravato da una conoscenza segreta e intollerabile, o da una sterminata innocenza, che si difendeva dal mondo degli uomini con un piccolo sogghigno grigio.
Con ferocia, violenza, istinto tragico, John Banville racconta in bellissime pagine la vita di Copernico negli ultimi anni: la sua paura di parlare, di scrivere, di pubblicare. Aveva cercato di intravedere «quella cosa, appassionata eppure calma, intensa e remota, favolosa eppure ordinaria, quella cosa che è tutto ciò che importa e il grande miracolo»: la musica segreta dell’universo. Ma non ci riuscì: tutto si perse in un grande fallimento. «Ho mancato in tutto quello che mi ero ripromesso di fare: discernere la verità, il significato delle cose», disse. Non gli restava che morire. Si ritrasse dal regno della vita: giaceva, ammasso informe di carne e sudore e muco, nel più primitivo e rudimentale stato dell’essere, come un oggetto quasi morto dal respiro impercettibile.
L’eco del Big Bang «catturato» al Polo Sud
Ascoltate in Antartico le onde gravitazionali emesse nei primi istanti di vita dell’Universo
L’annuncio degli scienziati Usa che lavorano al progetto di ricerca Bicep 2
Finora era stata rilevata la radiazione di fondo risalente a 380mila anni dopo l’esplosione iniziale
Trovata la traccia lasciata qualche frazione di secondo dopo la nascita del cosmo: odore di Nobel
di Cristiana Pulcinelli (l’Unità, 18.02.2014)
La notizia è di quelle importanti. Di quelle, per capirci, che fanno già sognare un Nobel. Alcuni scienziati avrebbero trovato il segnale residuo della rapidissima espansione che il nostro universo ha sperimentato qualche frazione di secondo dopo il Big Bang, l’evento da cui tutto l’universo ha preso origine circa 14 miliardi di anni fa.
Gli scienziati, che hanno annunciato la loro scoperta ieri pomeriggio, fanno parte di un progetto di ricerca chiamato Bicep 2 il cui scopo è osservare una parte del cielo da un telescopio situato al Polo Sud.
Al progetto lavorano scienziati provenienti dai più importanti centri di ricerca americani: Harvard University, California Institute of Technology, Stanford University, University of California, San Diego Jet Propulsion Laboratory. Ma cosa hanno visto questi scienziati? Hanno identificato un disturbo nella luce proveniente dal Big Bang. Un disturbo che potrebbe essere stato provocato dalle onde gravitazionali. Queste onde, previste dalla teoria della relatività di Einstein nel 1916, non sono state finora mai osservate. La scoperta del gruppo americano sarebbe quindi una prova, sia pure attraverso la radiazione elettromagnetica di fondo, della loro esistenza, oltre ad essere una conferma dei modelli inflazionari dell’universo.
OSCILLAZIONI SPAZIO-TEMPORALI
Questi modelli furono proposti nei primi anni Ottanta del secolo scorso per spiegare alcuni aspetti poco chiari del Big Bang. «Secondo questi modelli spiega il cosmologo Carlo Baccigalupi l’energia associata a forze fondamentali ancora sconosciute avrebbe fatto espandere l’universo in maniera esponenziale nelle frazioni di secondo successive al Big Bang. Ma questa espansione così violenta avrebbe generato delle oscillazioni nello spazio-tempo». In sostanza, i modelli inflazionari prevedono che questa rapida espansione dell’universo sia associata a onde di energia gravitazionale che, però, avrebbero dovuto lasciare un segno indelebile nella luce che proviene dal Big Bang, la radiazione cosmica di fondo. Ebbene proprio queste oscillazioni sarebbero state viste dal Polo Sud.
RAGGI COSMICI
La teoria del Big Bang aveva già la sua conferma proprio nella scoperta della radiazione cosmica di fondo, il residuo della radiazione prodotta da quell’evento violento e che permea tutto l’universo. La scoperta avvenne nel 1964 e da allora la radiazione di fondo viene studiata da scienziati in tutto il mondo.
Il satellite europeo Planck recentemente ci ha fornito, proprio studiando questa radiazione, un’immagine molto dettagliata dell’universo primordiale. Ma questa foto risale a 380mila anni dopo il Big Bang, prima di quel momento materia e radiazione non si potevano separare. «Solo allora quindi dice Baccigalupi che collabora al progetto Planck la luce è stata libera di muoversi liberamente. Ma le onde gravitazionali sono state emesse molto prima, per la precisione i modelli ipotizzano 10 alla meno 35 secondi dopo il Big Bang».
I ricercatori di Bicep avrebbero visto, per dir così, il segno lasciato da queste onde sulla radiazione di fondo, ovvero un cambiamento delle proprietà direzionali della radiazione stessa, chiamato polarizzazione. Questo segnale ci permette di risalire indietro nel tempo fino a sapere qualcosa di quello che accadde una piccolissima frazione di secondo dopo l’origine dell’universo. Un momento finora assolutamente sconosciuto.
Una scoperta dunque importantissima per la cosmologia, ma in generale per la fisica, perché, se confermata, la scoperta ci direbbe anche molto sulla gravità: ci direbbe infatti che è una forza come le altre tre che esistono in natura quella elettromagnetica, l’interazione debole e l’interazione forte dotata di particelle quantistiche che si comportano come un’onda.
«Se confermata, la scoperta di Bicep sarebbe nello stesso tempo una fortissima indicazione dell’esistenza di queste oscillazioni spazio-temporali e un nuovo segnale proveniente dal Big Bang che influenza tutta la fisica», commenta Baccigalupi. «Ora però occorre una attenta analisi dei dati e della metodologia usata dal gruppo di Bicep, e serve la conferma da un esperimento indipendente: Planck ha tutte le caratteristiche per confermare o smentire questa scoperta».
Einstein aveva ragione
Una scoperta importante per la fisica e la cosmologia
Se confermata proverebbe che la gravità è una forza come le altre e che la teoria della folle espansione dell’universo è fondata
di Pietro Greco (l’Unità, 18.02.2014)
«Abbiamo rilevato le onde gravitazionali prodotte dall’universo bambino durante l’inflazione cosmica». Quella che John M. Kovac, scienziato in forze allo Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, ha annunciato ieri a mezzogiorno, è una notizia scientifica davvero importante. Di quelle, per intenderci, che capitano una volta ogni dieci anni. E per ben due motivi, abbastanza indipendenti tra loro. Una riguarda la fisica delle alte energie. L’altra riguarda la cosmologia.
Se la scoperta verrà confermata, Kovac e i suoi hanno infatti dimostrato che la gravità è una forza fondamentale come le altre. La fisica delle alte energie, infatti, ci dice che in natura esistono quattro interazioni fondamentali: quella elettromagnetica (la luce ne è una manifestazione), l’interazione debole (responsabile del decadimento radioattivo dei nuclei atomici), l’interazione forte (la colla che tiene uniti i quark nei nuclei atomici) e la gravità.
Ebbene, il quadro teorico prevede che ciascuna forza si trasmetta mediante particelle messaggero. L’interazione elettromagnetica mediante i fotoni; l’interazione debole mediante i bosoni intermedi (quelli scoperti da Carlo Rubbia); l’interazione forte mediante i gluoni. Le onde gravitazionali sono previste dalla teoria della relatività di Albert Einstein. Ma la teoria delle alte energie prevede che anche la gravità abbia le sue particelle messaggero, i gravitoni. Che, come tutte le particelle quantistiche, si comportano anche come un’onda.
Da molti anni molte persone nel mondo sono a caccia di queste onde (in Italia il pioniere è stato Edoardo Amaldi). Ma nessuno le aveva finora rilevate. Tanto che molti fisici teorici avevano iniziato a mettere in dubbio che la gravità fosse, appunto, una forza fondamentale come le altre. Che la sua natura fosse diversa ed esotica. Ebbene, ora Kovac e i suoi hanno riportato la gravità nell’alveo della normalità. Hanno dimostrato che la forza che spinge i corpi ad attrarsi reciprocamente è una forza come le altre.
E poiché i fisici credono fermamente che tutte le quattro forze fondamentali di cui oggi abbiamo esperienza siano in realtà espressione di un’unica forza originaria, il fatto che la gravità sia una forza come le altre corrobora la ricerca dell’unificazione. Così come Rubbia ha dimostrato empiricamente che l’interazione elettromagnetica e l’interazione debole sono espressioni di una forza unica, l’interazione elettrodebole, ora diventa più plausibile l’idea che prima o poi sarà possibile unificare la gravità con le altre interazioni fondamentali e scoprire la forza unica originaria.
Ma la scoperta di Kovac e del suo gruppo ha un’importanza almeno analoga per la cosmologia. Le onde gravitazionali rilevate, infatti, sarebbero ciò che resta dell’inflazione cosmica teorizzato dall’americano Alan Guth e dal russo Andrei Linde. Ovvero quel processo di crescita che in un solo istante avrebbe portato l’universo neonato a crescere di cinquanta ordini di grandezza (ovvero di migliaia di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di volte). È grazie a questo processo che il nostro universo è caratterizzato fin dall’inizio da una sostanziale uniformità. La teoria dell’inflazione è stata considerata per molto tempo una teoria ad hoc. Se Kovac e i suoi collaboratori hanno ragione, ora abbiamo una prova empirica che quell’evento difficile da immaginare è realmente avvenuto.
Insomma, la notizia è che sia i fisici teorici sia i cosmologi teorici, con le loro astruse matematiche, hanno avuto ragione. Come era successo a Peter Higgs con il suo bosone. E questo, per parafrasare il fisico Eugene Wigner, dimostra ancora una volta l’irragionevole efficacia della teoria (e della matematica).
Le onde di Linde, una roba da Nobel
Storia di una scoperta che collega due diverse teorie sull’universo
Lo scienziato ha conciliato il Big Bang con il modello dell’inflazione cosmica riuscendo a rilevare le onde gravitazionali
Dopo settant’anni di ricerca teorica abbiamo ora la prima conferma empirica
di Pietro Greco (l’Unità, 19.03.2014)
IERI L’ALTRO, LUNEDÌ, VERSO MEZZOGIORNO IL POSTINO HA BUSSATO UNA SOLA VOLTA ALLA PORTA DI ANDREI LINDE, UN COSMOLOGO RUSSO DA ANNI IN FORZA ALL’AMERICANA STANFORD UNIVERSITY. Lo scienziato ha aperto la porta e si è visto recapitare una bottiglia di champagne. «Lo hai ordinato tu?», ha chiesto Linde a sua moglie. «No», la risposta. Il vino frizzante gli era stato regalato dai suoi colleghi, per brindare alla prima conferma empirica del modello dell’inflazione cosmica, venuta dal rilevamento indiretto di onde gravitazionali realizzato dalla collaborazione di Bicep2 (Background Imaging of Cosmic Extragalactic Polarization) e annunciata lunedì scorso.
Pare che Andrei Linde abbia brindato di gusto. Perché quella teoria che consente di conciliare la teoria del Big Bang con i fatti osservati è, almeno in parte, sua. E se davvero l’osservazione è degna del Nobel, beh a meritare il premio saranno anche i teorici che l’hanno prevista.
Ma andiamo con ordine. Per farlo, ci conviene tornare indietro nel tempo. Fino all’inizio degli anni ’20 del secolo scorso, quando un altro russo, il giovane matematico Alexander Friedmann, trova soluzioni stabili alle equazioni cosmologiche che Einstein ha elaborato applicando all’intero universo la sua giovane teoria della relatività generale. Alcuni anni dopo, l’astrofisico americano Edwin Hubble «vede» che tutte le galassie si stanno allontanando da noi a velocità proporzionale alla distanza. Più sono lontane e più sono veloci. È allora, alla fine degli anni ’20, che abbiamo scoperto di vivere in un universo in rapida espansione. È allora che abbiamo scoperto di vivere in un universo evolutivo.
Non è facile, tuttavia, spiegare il perché di questa folle corsa. Due teorie si confrontano nell’immediato dopoguerra. Quella elaborata da un altro russo emigrato in America, George Gamow: l’universo è nato, circa 14 miliardi di anni fa, dall’immane esplosione di una singolarità iniziale, un punticino piccolissimo, densissimo e caldissimo in cui era concentrato tutto il nostro universo. Che da allora si espande come un palloncino, a velocità decrescente, raffreddandosi progressivamente. L’inglese Fred Hoyle definisce questa ipotesi con sprezzante ironia: ma è un Big Bang. Da quel momento la teoria di Gamow prende, per paradosso, il nome che gli ha dato il suo avversario.
Quando a Hoyle, insieme a Thomas Gold e a Hermann Bondi, di teoria ne elabora un’altra. I tre non amano l’idea di un inizio dello spazio e del tempo. Per di più a partire da una singolarità ove ogni legge della fisica, compresa la relatività di Einstein, viene meno. No, sostengono Hoyle, Gold e Bondi, non c’è stato un inizio dei tempi. L’universo è sì dinamico, ma è sempre uguale a se stesso, si trova in un eterno «stato stazionario»: si espande, certo, ma perché al suo centro c’è una continua generazione di materia. I fatti, anche in cosmologia, sono le osservazioni. E l’osservazione decisiva è quella realizzata da Arno Penzias e Robert Wilson, nel 1963, quando trovano una radiazione del corpo nero, fredda e omogenea, che ricopre l’intera volta celeste.
La radiazione è il fossile della grande esplosione iniziale. È prevista dalla teoria di Gamow e non da quella di Hoyle. E segna dunque il trionfo del modello del Big Bang. Che, resta l’unico in grado di spiegare l’evoluzione dell’universo e diventa il Modello Standard della cosmologia. Ma, benché sia rimasto sulla scena, anche il modello del Big Bang ha i suoi problemi. Dovrebbe essere un universo curvo, molto curvo quello emerso dalla grande esplosione. Proprio come un palloncino. Invece è incredibilmente piatto. Dovrebbe essere pieno zeppo di monopoli, particelle prodotte nei primi istanti dell’universo neonato. E, invece, non se ne trova uno. La singolarità iniziale, poi, deve aver avuto dimensioni tale da non poter ospitare più poche particelle elementari: da dove è sbucata fuori tutta la materia di cui siamo fatti noi, le stelle, le galassie, gli ammassi di galassie? E via enumerando tutta una serie di problemi mica da poco.
Ecco perché genera attenzione quella strana teoria dell’inflazione che un altro russo Aleksej Starobinskij, dell’Istituto di fisica teoria Landau di Mosca, tira fuori dal cappello nel 1979. Cerca di dimostrare, quella teoria, che un istante dopo il Big Bang (10-36, ovvero un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo, di secondo) il piccolissimo neonato subisce una crescita rapidissima, inflazionaria appunto, di volume, di materia ed energia.
Due anni dopo l’americano Alan Guth, riprendendo alcune idee sulle transizioni di fase di Andrei Linde e di David Kirznits (ancora un russo), propone che la crescita inflazionaria di volume e di materia sia avvenuta a densità di energia costante. In un infinitesimo di secondo l’universo neonato, che si è venuto a trovare in una fase instabile (sottoraffreddato, dicono i fisici), ha subito uno sviluppo incredibile: passando da dimensioni micro a dimensioni macro. Da una singolarità alle dimensioni di un pallone di calcio. Dopo questo brevissimo ma decisivo istante, l’espansione dell’universo è continuata a velocità decrescente, così come prevede il Modello Standard di Gamow. Chi ha (chi avrebbe) pagato il conto di questa straordinaria crescita? Beh, a pagare le spese della fase inflattiva e creatrice, sarebbe stata l’energia potenziale cosmica. Come una pallina che rotola dalla cima del monte giù, fino alla valle, diventando una valanga, l’universo sarebbe passato da un massimo a un minimo di energia potenziale, creando valanghe di materia.
La teoria dell’inflazione è elegante. Si aggiunge e non sostituisce quella, classica, del Big Bang. Tuttavia ha un piccolo difetto. Non può essere dimostrata. È a questo punto che, tra gli altri, interviene anche Andrei Linde per sostenere che sì, un modo per dimostrare la realtà dell’inflazione c’è. Basterebbe osservare le onde gravitazionali che, secondo la relatività di Einstein, la crescita inflattiva avrebbe creato. E che, come la radiazione di f ondo, dovrebbero riempire il cosmo.
UNA CONQUISTA COLLETTIVA
Nel corso degli ultimi trent’anni la teoria ha subìto numerosi ritocchi. È stata corroborata da numerose osservazioni. Specie quelle sulla incredibile (ma non assoluta) omogeneità dell’universo bambino realizzata del 1992 da George Smoot e dal satellite Cobe e riconfermata dieci anni dopo a un livello più profondo dall’italiano Paolo de Bernardis e dal pallone Boomerang.
Ma queste osservazioni erano compatibili con il modello dell’inflazione. Consentivano di eliminare ipotesi alternative. Ma non erano la pistola fumante. La prova provata che il modello di Starobinskij, Guthe Linde fosse quello vero. Che l’universo avesse vissuto una fase di inflazione.
Ora la cosmologia è una scienza non sperimentale. O, almeno, con completamente. La storia dell’universo non può essere riprodotta in laboratorio. Anche se, dopo essere emigrato negli Stati Uniti in quel processo di «fuga dei cervelli» che investì la Russia e gli altri paese eredi dell’Unione Sovietica, Linde ha provato a creare, proprio con Alan Guth, un universo da laboratorio. Molte ed eleganti le ipotesi di lavoro. Ma l’impresa non è riuscita.
Non restava dunque, per validare l’ipotesi dell’inflazione e dello stesso modello del Big Bang, che attendere la scoperta delle onde gravitazionali fossili. Rilevare il relitto di quell’esperimento unico che è stata la nascita dell’universo. C’è voluta molta pazienza. Perché la gravità è una forza debole, anche se agisce a grande distanza. E difficilmente riuscirete a catturarle, le onde che produce, aveva previsto Albert Einstein. Ora il momento sembra arrivato. E Alan Guth ha potuto sollevare il suo calice con lo champagne.
ASTRONOMIA
Quei ragazzi che ascoltarono
il primo vagito dell’universo
di AMEDEO BALBI *
La radiazione cosmica di fondo, cioè il rumore residuo del Big Bang, fu individuata per caso da due giovanissimi ricercatori che, aggiustando un’antenna, passarono dal completo anonimato al premio Nobel. L’incredibile storia di Arno Penzias e Robert Wilson è solo una delle tante raccolte in "Seconda stella a destra" (De Agostini, 208 pp. 12 euro), di cui pubblichiamo un’anticipazione: raccontando le "vite semiserie di astronomi illustri" Amedeo Balbi, cosmologo dell’Università di Roma Tor Vergata, ripercorre la straordinaria avventura dell’astronomia dall’antica Grecia ai giorni nostri.
CON Arno Penzias e Robert Wilson succede quello che succede con Laurel e Hardy, Starsky e Hutch, Tom e Jerry: non puoi nominare uno dei due senza portarti appresso automaticamente l’altro. Così, non sentirete mai parlare solo di Penzias o solo di Wilson, ma sempre di Penzias-e-Wilson, come fosse un nome e cognome (Penzias Ewilson) o un nome unico (Penziasewilson).
D’altra parte, i due non hanno mai avuto tempo di essere Arno Penzias e Robert Wilson. Hanno fatto una delle scoperte più sensazionali di tutti i tempi, l’hanno fatta per sbaglio, e l’hanno fatta che erano tutti e due giovanissimi. Dopo di che, hanno dovuto affittare uno smoking per andare a ritirare il Nobel: dal completo anonimato ai libri di storia.
E la storia di come Arno Penzias e Robert Wilson sono diventati Penziasewilson è una delle più bizzarre, incasinate e divertenti che vi possa capitare di sentire, almeno nell’ambiente scientifico. Un mondo che, purtroppo, fanno di tutto per dipingervi come popolato di persone che sanno sempre esattamente quello che fanno.
Le cose sono andate così. Penzias e Wilson erano freschi di studi - fisica e astronomia - ma, invece di continuare a fare ricerca all’università, accettarono un’offerta di lavoro dei laboratori Bell. Una mossa che si sarebbe rivelata furbissima: entrambi erano interessati alla radioastronomia, e i laboratori Bell non sapevano più cosa farsene di una gigantesca antenna che era servita per ricevere i segnali dei primi satelliti per telecomunicazioni. A Penzias e Wilson sembrò il giocattolone dei sogni. Non c’era niente di meglio per captare le onde radio emesse dalla nostra galassia. Mentre erano lì ad armeggiare per rimettere a posto l’antenna, si accorsero che il giocattolone non funzionava alla perfezione. Le misure di prova erano costantemente disturbate da un rumore fastidioso, tipo il fruscio che si sente alla radio tra un canale e l’altro. Era un rumore così debole che nessuno gli aveva mai dato peso. L’ingegnere che aveva provato l’antenna ne aveva preso nota ma lo aveva ignorato, considerandolo un normale disturbo elettronico. A loro non parve un dettaglio trascurabile. Non avrebbero potuto rilevare le misure con la precisione necessaria. Quel rumore non avrebbe dovuto esserci e andava rimosso. Punto.
Le pensarono tutte.
"Dunque, vediamo. Abbiamo smontato e rimontato l’accrocco?".
"Due volte, tutto uguale".
"Cavi, giunzioni, saldature? Controllate?".
"Tutto a posto".
"Forse stiamo ricevendo segnali da New York".
"Abbiamo puntato l’antenna in ogni direzione. Non cambia niente".
"Gli ufo?".
"Piantala".
"Scherzavo. Aspetta: i piccioni".
"I piccioni cosa?".
"C’era un nido di piccioni nell’antenna".
"Ehm, c’era".
"Come c’era? Non li avrai mica...?".
"Ho pulito tutto, dopo".
Lo avrete intuito: i poveri piccioni non c’entravano niente. A questo punto si era ormai sparsa la voce che ai laboratori Bell c’erano due tizi intenti a combattere con un’antenna rumorosa e a giocare al tiro al piccione. Un tale diede a Penzias e Wilson una dritta. Anzi due. La prima era che c’era un gruppo di cosmologi dell’università di Princeton, a poche decine di chilometri da lì, che stava costruendo un’antenna sul tetto del dipartimento di fisica. La seconda era che quell’antenna doveva servire proprio a capire se ci fosse un rumore uniforme proveniente da tutte le direzioni del cielo. Il rumore non era in realtà un rumore, bensì il calore residuo del big bang: ciò che restava della fiammata iniziale dopo che si era raffreddata per miliardi di anni. In poche parole, la prova dell’origine dell’universo.
Penzias e Wilson si precipitarono a telefonare ai tizi di Princeton, i quali, ovviamente, furono contentissimi di sapere che erano stati fregati da due giovani che non sospettavano neppure l’enormità della scoperta. A loro volta, quelli di Princeton non avevano idea che la presenza del calore residuo del big bang fosse già stata prevista da Gamow una ventina di anni prima. Previsione che invece era nota a due cosmologi russi, i quali ci sarebbero potuti arrivare per primi, se non avessero mal interpretato il rapporto dell’ingegnere che aveva testato l’antenna dei laboratori Bell. D’altra parte Gamow, quando aveva fatto la previsione, non immaginava che qualche anno prima si erano osservate certe molecole nello spazio vibrare in modo sospetto (segno che erano immerse in un calore uniforme, quello del big bang). Insomma, una storia di ubriachi.
Alla fine, nel 1965, Penzias e Wilson misero nero su bianco quello che avevano misurato con la loro antenna. Poco più di una paginetta, scritta con la stessa pignoleria che li aveva condotti per quasi un anno a chiedersi cosa diavolo fosse quel rumore che non voleva andarsene via e a cui nessuno aveva mai dato peso. Fu una delle paginette più importanti nella storia della scienza: la scoperta della prova tangibile dell’origine dell’universo. E bastò quella, frutto della testardaggine di due ragazzi che volevano capire il perché delle cose, a far sì che Penzias e Wilson ottenessero il Nobel, a trasformarli in Penziasewilson, e a portare lo studio dell’universo dritto in una nuova epoca.
In quell’epoca, ci siamo dentro anche noi.
* la Repubblica, 15 ottobre 2010
Un’antenna grande come mezzo pianeta per ascoltare il suono dell’universo
È stato ascoltato il primo «tuono» dell’universo: le tracce del Big Bang, ossia del momento in cui l’universo ha improvvisamente cominciato a espandersi, sono state catturate per la prima volta sotto forma di onde gravitazionali grazie ad un’antenna «grande come mezzo pianeta» e ad una forte collaborazione internazionale, tra usa e Europa. E sorpresa: il tuono del Big bang è risultato più debole del previsto.
Il risultato dello studio, pubblicato su Nature, si basa sui dati raccolti dal 2005 al 2007 dalla grandissima rete di antenne formata da quattro interferometri, uno dei quali si trova in Toscana. La rete è nata dalla collaborazione internazionale Ligo-Virgo, alla quale l’Italia partecipa con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e con l’interferometro Virgo, che si trova a Cascina (Pisa) ed è stato realizzato in collaborazione con la Francia.
Gli altri tre interferometri fanno parte del programma americano Ligo (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory): due di essi si trovano negli Usa, a Hanford (Stato di Washington) e Livingston (Louisiana), e il terzo in Germania, ad Hannover. Insieme, le quattro antenne diventano un gigantesco e potentissimo rivelatore di onde gravitazionali dal valore complessivo di circa 400 milioni di euro e al quale lavorano circa 800 ricercatori.
Da anni questa potentissima antenna è in ascolto delle onde gravitazionali. Come le increspature che si formano gettando un sasso in uno stagno, le onde gravitazionali possono essere pensate come increspature dello spazio-tempo che hanno altezze diverse e si propagano in direzioni differenti. Le onde gravitazionali, la cui eco è chiamata «rumore di fondo stocastico» sono generate, oltre che dal Big Bang, ogni volta che nell’universo avviene una potente esplosione, come quella delle stelle giunte alla fine della loro vita (supernovae), lo scontro tra buchi neri o la collisione fra stelle di neutroni.
Le onde gravitazionali sono state previste da Albert Einstein nel 1916 e sono l’unico segnale capace di spingersi più indietro nel tempo, fino all’epoca del Big Bang e perfino al pre-Big Bang. L’altro segnale utile per ricostruire le origini dell’universo, la radiazione cosmica di fondo, riesce infatti a spingersi fino ad osservare il baby-universo, 380.000 anni dopo il Big Bang.
Nei dati raccolti dall’antenna Ligo-Virgo «non c’è stata la rivelazione di un segnale fino al limite che abbiamo raggiunto con i nostri strumenti: questa è un’indicazione molto importante perchè abbiamo posto un limite all’intensità e sappiamo che il tuono che ha dato origine all’universo è in realtà più basso rispetto a quello previsto finora», ha detto il coordinatore di Virgo, Francesco Fidecaro, dell’università di Pisa e dell’Infn. «Combinando simultaneamente i dati provenienti dagli interferometri Ligo e Virgo - prosegue Fidecaro - potremo arrivare a conoscere sulle onde gravitazionali informazioni che nessun altro strumento può dare. Questa è una grande promessa per il futuro». La scommessa, conclude, «è spingere l’esplorazione molto più indietro nel tempo fino a cogliere il rumore primordiale».
* l’Unità, 20 agosto 2009
Prima della scienza, c’è la poetica musica dell’universo
di Roberto Mussapi (Avvenire, 22.07.2007)
Che esista una musica dell’universo è certo, secondo non pochi uomini. Ne sentiamo l’eco solenne e pregnante nell’ascesa al Paradiso di Alighieri, ne percepiamo la riproduzione nelle sinfonie di Beethoven, ne vediamo la trasposizione matematica dettare la regola delle piramidi, del Partenone, giungiamo quasi a sentirla fisicamente con le nostre orecchie perdendoci nel confine tra terra e cielo della Sistina. La musica dell’universo è alta, lontana ma non astratta, non assente o impercettibile. Si percepisce naturalmente, nel respiro, nel rumore del mare, nel gorgogliare della sorgente, che l’ingegnere idraulico e lo scultore incanalano nell’opera di marmo per renderne assoluto il suono fluente e rigenerante: la le fontane di Roma, nel bianco barocco delle statue, sono i monumenti marmorei e quindi solidi per definizione, all’elemento per definizione fluido, che porta nel suo moto una delle voci della musica dell’universo.
Ma il canto dell’allodola nella notte veronese di Shakespeare, o la voce di straziante dolcezza dello stesso uccello nei versi di di Shelley, o il canto dell’usignolo in Keats, sono altre manifestazioni di altri timbri, altre modalità di quella voce sinfonica quanto tesa colme un a solo di Miles Davis. Tra le cui opere, capolavori come In a silent way, Quiet Nights, Nefertiti, offrono versioni prodigiose quanto assolute, notturne, (non in senso del tormento ma della quiete siderale), e manifesti tributi, fin dal titolo esplicito, a quell’irrangiungibile armonia di suono e silenzio che è, ai nostri sensi, la cifra di quel canto.
Forse nessuno come Shakespeare ne ha saputo svelare l’incanto sugli umani e l’enigma, come avviene nella Tempesta, precisamente attraverso la figura di Ariel. Il giovane Ferdinando si sveglia, naufrago, su un’isola sconosciuta, ed è incantato dal suono di una voce fatata, che con una melodia dolcissima e inaudita gli annuncia, per lievi enigmi, il destino suo e di suo padre, in poche parole un destino di rinascita per l’umanità. Ferdinando percepisce la natura non umana di quella voce, che si rivelerà il motore di tutte le azioni. La voce è quella di Ariel, demone dei venti, che muove invisibile le azioni e le sorti degli umani. Il problema, ora è che tutti coloro che senza dubbi hanno non solo udito ma rappresentato la musica universale sono poeti o musicisti, artisti e attori, ma la scienza? La scienza, che è differente dalla poesia ma non opposta, giunge ora a quanto i poeti hanno sempre udito e cercato di tradurre. Ha scoperto che la vita nasce dall’acqua, come tutti miti e le religioni tramandano, grazie alla fiducia loro tributata dai poeti, ora ode e cerca di di spiegare questa musica. Buon segno. Non possiamo continuare a percepire il mondo col cervello spaccato in due. L’evidenza (la musica dell’universo che sentiamo spesso in sogno, sempre nei momenti di estasi e amore), viene prima della sua prova, che però è benvenuta.