“Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?” (Elia. 1 Re: 18.21).
"L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità" (I. Kant - definito da Holderlin, il "Mosè della nazione tedesca").
4. KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. AL DI LA’ DELL’ "EDIPO".
CRISTO ED EDIPO: LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Un omaggio al lavoro del prof. Romeo De Maio ...
Recensioni editoriali
Enigma per due: si dice Sfinge, si pensa a Cristo *
È molto presente e non se ne fa accorgere. Sta nelle cattedrali, sui frontespizi degli edifici delle istituzioni, nei dipinti e nelle sculture, nelle illustrazioni dei codici, della Bibbia, nei poemi, nell’inafferrabilità delle migliori musiche. È la Sfinge, questo essere che noi umani chiamiamo mostruoso perché ha artigli al posto delle mani e lo sguardo non sfuggente. Ti guarda, lei, trapassandoti in un attimo, ti consegna al mistero, ai suoi abissi che si fanno domanda, e probabilmente fu proprio quell’attimo che, dieci anni fa, colse lo storico Romeo De Maio nella cattedrale di Bari quando, per la prima volta, si accorse della Sfinge rappresentata sulla finestra absidale del Duomo. C’era stato molte volte, lì, non l’aveva scorta mai. Dietro di lei, raffigurata sopra un carro, i simboli dell’eucarestia. Fu una folgore. Che cosa univa il pagano al sacro? E perché?
Cominciò in quel momento, per lui, “un’esperienza molto simile al poeta Theodor Däubler, che andò in Egitto per la Sfinge e le trovò Cristo accanto”. I risultati di quell’esperienza sono il libro “Cristo e la Sfinge - la storia di un enigma” (Mondadori, 350 pagine), in libreria. Negli ultimi dieci anni De Maio è andato in giro per il mondo (occidentale soprattutto) alla ricerca delle testimonianze che affiancano la Sfinge al Cristianesimo.
Perché? ” Il motivo fu l’impressionante creazione-incisione di Nicolas Poussin, pittore francese dimorato a Roma, per la copia della Bibbia destinata al re di Francia, nel 1642. Il pittore la intitolò “Chiesa e Sinagoga”, e raffigura il Dio Padre che benedice il Vecchio e il Nuovo Testamento. Sulla Bibbia tenuta in mano dal Vecchio c’è, distesa, una Sfinge che guarda da tutt’altro lato, verso est, dove sorge il sole”.
È solo un esempio dei migliaia ritrovati dall’autore. Testimonianze che non si riferiscono all’ufficialità dei documenti nel senso di rogiti, nel senso di carte bollate, nel senso di trattati con le firme apposte in calce. È questo uno dei rari casi in cui si elevano a documento storico, e dunque attendibili come una data con sopra il timbro dell’ufficialità, le espressioni degli artisti. Pittori, scultori, architetti, poeti. Teologi. Musicisti. Dicono la Storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Le fanno i connotati.
Donatello, Bernini, Michelangelo, Klimt, De Chirico, Purcell, Giovanbattista Marino, Oscar Wilde, Mantegna, Stravinskij, Kirker, Pico della Mirandola, Cocteau, Mozart, l’abate Kirker, Flaubert. “L’artista - dice De Maio - ha la visione, l’intuizione al pari del Vate. Queste sono indispensabili, fondamentali per la conoscenza. Io ho sottoposto le creazioni artistiche alle regole della filologia e al rispetto dell’esperienza mistica”. In loro la Sfinge non è mai elemento ornamentale. Sia essa alla base di un trono gestatorio, sia riferimento poetico, sia nella scenografia di una rappresentazione teatrale. Così le madonne vegliate dalla Sfinge, da essa protette, i volti spesso uguali: i rimandi poetici, le allusioni cromatiche, la disposizione degli elementi. “Quando gli artisti la dipingono, anche su commissione papale, è per far aprire gli occhi agli ecclesiastici. Per svolgere un mistero, avviare una conoscenza non dogmatica”.
Più di tremila testimonianze ha trovato De Maio, ignorate dalla Chiesa in questi tremila anni. Come dire: volutamente non considerate. Perché è pericoloso ammettere quelle che oggi il linguaggio contemporaneo definirebbe contaminazioni. Perché il Potere Temporale, la sua Legge, non ammette altro Dio. Come avrebbe mai potuto accettare la presenza, accanto al figlio del Padre, accanto alla Madre del Figlio, lo sguardo misterioso e definitivo del simbolo pagano per eccellenza, che ha ispirato il mito tra i più antichi dell’uomo ed esplorati dalla psicanalisi nel secolo appena trascorso, con Freud che ha posto Edipo, e la profezia che a lui fece la Sfinge, tra noi e la vita che conduciamo?
De Maio considera “rivoluzionario” questo lavoro, questo lavoro, il suo “testamento anticipato. Lo avrei potuto anche intitolare “Cristo prima del Cristianesimo”. La Sfinge ci porta verso l’aspetto mistico dell’uomo, di Cristo; aspetto non considerato dal Potere Istituzionale Ecclesiastico nella sua nuda verità”. È un nuovo senso, una nuova possibilità vista da altro punto di vista. Una visione allargata e non ristretta. Senza inquisizioni. Che si apre alla domanda. Basta questa, vuole dirci De Maio, per avere la risposta.
*
Fonte: Esonet.org, 14.05.2010
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT (MA NON DEL TUTTO).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ... *
Giorello: il sapere ha un’anima ribelle
Nel libro intervista con Pino Donghi il filosofo elogia le rotture traumatiche che smuovono il mondo. E la lezione di Jünger: la libertà più importante è quella interiore
di ANTONIO CARIOTI *
In alto da sinistra: Giordano Bruno e Baruch Spinoza; in basso da sinistra: Karl Popper e Galileo Galilei (illustrazioni di Fabio Sironi)
Se deve indicare parole capaci di esprimere al meglio L’etica del ribelle, titolo del suo libro intervista a cura di Pino Donghi, edito da Laterza, Giulio Giorello non cita Ernesto Che Guevara, ma neppure i suoi amati filosofi Giordano Bruno e Baruch Spinoza. Le scelte scontate non gli appartengono. Ricorre invece a un autore spiritualista e aristocratico, eroe di guerra tedesco caro alla destra: Ernst Jünger. Dal suo Trattato del ribelle ricava il concetto che la resistenza al dispotismo nasce dalla libertà interiore di chi assegna «più valore al modo di essere» che «alla pura sopravvivenza». Certo, è una visione elitaria, perché «una grande maggioranza non vuole la libertà, anzi ne ha paura». Proprio per questo è necessario creare un contesto istituzionale nel quale andare contro i detentori del potere, politico, economico e culturale, non comporti rischi troppo gravi: solo così si promuove l’innovazione che fa avanzare la conoscenza.
Non stupisce quindi che Giorello indichi nel mondo anglosassone e protestante (apprezza anche Martin Lutero) l’ambiente culturale con cui si sente in maggiore sintonia. E proponga considerazioni piuttosto controcorrente in questi tempi di rinnovato furore antiborghese. Ricorda per esempio che «soltanto col sorgere del capitalismo e con lo sviluppo delle istituzioni scientifiche» l’autonomia della ricerca è riuscita a imporsi e agli studiosi, dopo l’epoca in cui personalità geniali come Galileo Galilei finivano sotto processo, è stata concessa «la libertà di esplorare le ipotesi più bizzarre, persino implausibili dal punto di vista del senso comune e delle loro applicazioni immediate».
In effetti traspare a più riprese nel discorso di Giorello un’evidente analogia tra il progredire del sapere, che introduce rotture traumatiche «nella costellazione delle credenze stabilite» costringendoci a «buttarle a mare», come scriveva Carlo Emilio Gadda, e la «distruzione creatrice», per usare un’espressione pregnante dell’economista austriaco Joseph Schumpeter, generata dal mercato nel campo della produzione di beni e servizi. In entrambi i campi vince chi innova: «Le eccezioni non confermano la regola, diventano una nuova regola». Andrebbe forse riconosciuto che la vera rivoluzione permanente (tutt’altro che morbida e indolore, anzi spesso spietata nel mutare la faccia del mondo) è quella derivante dall’intreccio tra ricerca scientifica, applicazioni tecnologiche e libera intrapresa economica, una vera «macchina da guerra» di fronte alla quale gli strumenti della politica e le teorie filosofiche solitamente arrancano.
Giorello di tutto questo si mostra ben consapevole, ammaestrato dalla consuetudine con il pensiero di autori come Karl Popper, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, ma anche dagli insegnamenti di un marxista decisamente eretico come il suo maestro Ludovico Geymonat. Sa che anche le rivoluzioni tecnologiche e produttive «sono violente, almeno in senso sofisticato», perché cancellano certezze, abitudini, posti di lavoro. Ma ribadisce la sua profonda estraneità all’impostazione dogmatica storicamente maggioritaria nella sinistra italiana (e ancora nient’affatto estinta), che pretendeva di pianificare lo sviluppo scientifico in base a non meglio identificate «istanze più progressive», destinate inevitabilmente a divenire, in un auspicato sistema collettivista, le priorità fissate dal potere della burocrazia. E resta insensibile anche alle sirene del cattolicesimo sociale, divenute più seducenti, per il pensiero di stampo progressista, con l’ascesa di Papa Francesco al soglio pontificio.
Quando Giovanni Paolo II parlava di «verità dell’essere», detenuta dalla Chiesa, e affermava la superiorità della «legge di natura» su quella umana non faceva altro che ribadire una vocazione autoritaria non troppo dissimile da quella che si manifesta in altre forme (per ragioni storiche oggi di gran lunga più violente e deleterie) d’integralismo religioso. E Giorello lo sottolinea con forza, pur non escludendo in linea di principio che Papa Bergoglio sappia «assumere non solo toni diversi, ma atteggiamenti sostanzialmente differenti a livello di prassi».
Del resto tra coloro con cui il filosofo della scienza milanese va più d’accordo c’è un suo collega cattolico come Dario Antiseri, che si è sempre adoperato per coniugare la fede nel Vangelo con la difesa dei diritti individuali. E tra i ribelli che Giorello sente idealmente più vicini troviamo, accanto a «figure indimenticabili come Pancho Villa ed Emiliano Zapata», protagonisti della rivoluzione messicana, i repubblicani irlandesi in lotta contro il dominio della corona britannica. Insorti a più riprese in nome della libertà politica, non certo di un credo religioso, ma nella quasi totalità (sia pure con importanti eccezioni) ferventi cattolici. Non importa tanto quale Dio si prega, ma per quale causa ci si batte: un altro principio ben presente in tutto il dipanarsi del libro di Giorello.
* Corriere della Sera, 27 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Mosè va dallo psicologo
Da Freud agli esegeti più recenti questa figura continua a suscitare interesse e interrogativi sulla sua storicità
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.07.2016)
«Questo lavoro che prende le mosse dall’uomo Mosè sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Questa confessione di Freud riguardo al trittico di saggi raccolti sotto il titolo L’uomo Mosè e la religione monoteistica è condivisa dalla maggioranza degli esegeti che hanno letto quelle pagine; anzi, essi sono per lo più convinti che la ballerina abbia alla fine perso l’equilibrio e sia piombata a terra.
Tuttavia è indubbio il fatto che, come spesso accade, non si possa del tutto uscire indenni da una lettura provocante e provocatoria. È ciò che suggerisce di sperimentare il libretto che raccoglie un’analisi succinta di quello scritto freudiano approntata da Pier Cesare Bori, un noto docente di storia delle dottrine teologiche, morto nel 2012 a Bologna ove insegnava. A lui, tra l’altro, dobbiamo (con Giacomo Contri ed Ermanno Sagittario) la migliore versione del Mosè freudiano, edita da Boringhieri nel 1977.
Bori, anche se più anziano di cinque anni, era stato mio compagno di studi teologici presso l’Università Gregoriana di Roma. Poi le nostre strade si erano divaricate, non solo per ragioni topografiche (lui era di Casale Monferrato e forse alla sua fine, sia pure tardivamente, ha contribuito l’inquinamento da Eternit), ma anche religiose. Egli era, infatti, successivamente approdato all’«Associazione religiosa degli Amici», i cosiddetti Quaccheri (da quake, “tremare” davanti al Signore), una confessione fondata nel 1649 dall’inglese George Fox, priva di ogni predicazione, rito, sacramento, ministri, affidata solo al silenzioso incontro personale con Dio. Ritrovo ora la sua acribia e finezza ermeneutica in questo breve testo, ampiamente introdotto da Gianmaria Zamagni che ci conduce, però, con acutezza anche nell’orizzonte della particolare e “ballerina” esegesi di Freud.
Come riassume lo stesso Bori, tre sono le tesi centrali: l’origine egizia di Mosè; la sua sorte tragica, simile a un parricidio operato dagli stessi Ebrei (su questo il padre della psicanalisi si appoggiava a un’interpretazione ipotetica di un noto esegeta tedesco, Ernst Sellin, riguardo a un passo oscuro del profeta Osea); infine il dualismo tra il culto e il legalismo jahvista, da un lato, e il monoteismo puro, propugnato poi dai profeti, dall’altro.
La questione della dipendenza del monoteismo ebraico da quello professato dal faraone Akhnaton, attraverso la fede nell’unico dio solare Aton, connessione fieramente dibattuta e controversa, permette però di affrontare indirettamente un quesito più generale, quello del rapporto complesso e rilevante tra storia e religione. Non per nulla il titolo del saggio di Bori è emblematico: È una storia vera? Ed è facile immaginare quanto sia arduo discernere i due fili nel groviglio del loro intrecciarsi, annodarsi e ingarbugliarsi.
Gli stessi interrogativi, puntati soprattutto sul monoteismo, hanno coinvolto la ricerca anche di uno dei più famosi egittologi contemporanei, Jan Assmann, che però ha allargato il ventaglio delle sue analisi oltre il perimetro storico-filologico per inoltrarsi nell’orizzonte più fluido del nesso tra cultura e religione. Tra l’altro, la sua analisi si è incrociata con quella dello studioso bolognese, tant’è vero che ne è nata una Lettera a Pier Cesare Bori che si può leggere nello scritto di Assmann Monoteismo e distinzione mosaica, edito dalla Morcelliana nel 2015. A tradurre quella lettera era stata Elisabetta Colagrossi alla quale dobbiamo ora una suggestiva intervista all’egittologo, autore lui pure di un Mosè l’egizio (Adelphi, II ed. 2007). Il dialogo permette di ricomporre la mappa dei «sentieri teorici e autobiografici» percorsi da questo “archeologo” della memoria e dei popoli, divenuto noto per la sua rovente (e contestata) tesi sulla radice violenta dei monoteismi.
In queste pagine vengono ovviamente affrontati in modo sintetico i tanti itinerari di ricerca assmanniani. Noi ne vogliamo segnalare due in particolare. Il primo concerne la cosiddetta “distinzione mosaica” formulata dallo studioso nel 1995, riguardante la distinzione tra vero e falso.
Sentiamo lo stesso autore: «La mia tesi afferma che essa non appartiene alla religione. Nella religione si tratta di ciò che puro e impuro, santo e profano, giusto o sbagliato nello svolgimento dei riti, ma non di ciò che è vero e falso. Questa distinzione appartiene alla scienza, che lavora per dimostrazioni, come la logica, la matematica, la storia, la giurisprudenza, ma non alla religione. In tale dominio essa è penetrata per la prima volta col monoteismo, che delimita il vero Dio rispetto ai falsi dèi e il vero credo rispetto alla falsa credenza e all’eresia».
L’altra tesi di Assmann che segnaliamo è quella della cosiddetta religio duplex. In pratica si confrontano, per contrappunto o per dialettica, in duello o in duetto secondo i casi, una verità religiosa rivelata e una di indole più naturale e universale. Si delinea così, nella storia dell’umanità una sorta di doppia verità che spesso si polarizza, pur avendo talora tangenze e convivenze personali e sociali. Si configura in tal modo «una sovra- o inter-religione, una religione naturale, comune a tutti gli uomini, al di là delle loro religioni positive ereditate». La declinazione di questa dualità si attua nel contrasto o confronto tra fede popolare e religione codificata, affidata a una rivelazione, a misteri e riti, tra una spiritualità personale e una religiosità pubblica, tra una epifania cosmica, essoterica cioè aperta a tutti, e una teofania circoscritta ed esoterica.
È facile intuire in quale linea prevalentemente si collochi, secondo Assmann, il monoteismo all’interno della religio duplex. Significative sono le ultime battute dell’intervista, in cui lo studioso rimanda alla famosa parabola dei tre anelli di Lessing per concludere - con una punta di relativismo faticosamente esorcizzato dallo stesso autore - centrando ancora una volta la sua batteria contro il monoteismo: «Il problema del monoteismo della verità risiede nel suo pretenzioso concetto di rivelazione, con la sua paradossale connessione di esclusività e universalità. Ci sono molte religioni, ma non può esistere più di una verità assoluta e universale».
La cosiddetta “teologia fondamentale”, interpellata da tempo su questa aporia, ha elaborato una serie di repliche che non trovano, però, eco nelle pagine di Assmann e questo è un po’ dovuto anche all’autoreferenzialità che relega spesso la teologia sistematica nell’hortus conclusus delle accademie teologiche.
La vita segreta (e dolorosa) di Freud
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 12.04.2016)
Freud sta morendo, divorato da un carcinoma alla bocca. Da tempo gli hanno asportato la mascella. La paura di nuove sofferenze lo attanaglia, terribili contrazioni ai muscoli della faccia gli impediscono di bere e mangiare. Ha ottant’anni, da più di quindici lotta contro la malattia. Un supplizio che lo condurrà all’idea di anticipare la fine del dolore con un piccolo aiuto. Sullo sfondo sta la grande Storia nel gioco delle coincidenze, che per somiglianza Rino Mele utilizza nel poema Un grano di morfina per Freud (Manni).
A seguito del patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), il resto dell’Europa permette che la Polonia venga sbranata come un agnello sacrificale. Le date, in rapida scansione, uniscono dramma collettivo e individuale: il primo settembre Hitler invade la Polonia, Stalin il 17, Freud muore il 23. Il fondatore della psicanalisi aveva conosciuto la durezza dell’ Anschluss nel 1938: la sua casa di Vienna invasa dalle SA, l’ebreo Freud costretto ad aprire la cassaforte.
Mele canta con rabbia la Polonia divisa dal fiume Bug, teatro di avvenimenti terribili, presagio di ciò che si preparava per milioni di ebrei polacchi. E non c’era scampo: le guardie sovietiche sparavano su chiunque cercasse di lasciare la Polonia nazista.
L’autore, nato a Sant’Arsenio (Salerno) nel 1938, tenta di immaginare i pensieri di Freud, usando testimonianze e documenti. In un’aspra prosa poetica alterna sogni e vita vissuta. L’attaccamento incestuoso per la madre, vista nuda da piccolo. La severità del padre, che però perde la stima del ragazzo: confessa di non essere riuscito a reagire contro un gentile, che gli aveva tolto il berretto in mezzo alla strada.
Gillo Dorfles scrive nell’introduzione al poema: «...la lunga trama dei versi di Mele esprime, accanto ai dati più dolorosi di Freud, quella che è stata la sua vita segreta, attraverso quelle parole che attingono dal profondo dell’inconscio la loro forza espressiva, svelandone il lato più occulto e misterioso». Esausto e sofferente, il cancro che gli sgretola la guancia, Freud non riesce ad addormentarsi. La tortura non ha più senso la notte del 23 settembre 1939. Gli è sufficiente un grano di morfina per raggiungere il tranquillo sonno del silenzio .
Il mistero dell’esistenza attraverso la lettura di Freud
Il docente salernitano riflette sull’animo umano nell’ultima raccolta di poesie *
di ALFONSO CONTE (La Città di Salerno, 05 aprile 2016)
Perché. l’uomo aggiunge dolore a dolore, somma alle sofferenze già riservate dalla natura altre volontarie ed inutili? Ad invitare a riflettere su tali interrogativi è Rino Mele nella sua ultima raccolta di poesie, “Un grano di morfina per Freud”, Introduzione di Gillo Dorfles (editore Manni, di Lecce, pp. 94), compresa nella Collana “Pretesti” curata da Anna Grazia D’Oria.
In tempi di dittatura del presente, di rifiuto a ricordare ma anche a progettare, di certo tale pubblicazione rappresenta un’operazione coraggiosa e controcorrente, che non va furbamente ad intercettare gli umori del pubblico di massa, ma quasi costringe a non sfuggire alla drammatica realtà della nostra condizione umana, a seguire il poeta nel suo tentativo di penetrare il mistero dell’esistenza.
Non è un caso, pertanto, che protagonista dell’opera sia proprio Sigmund Freud, il Freud che dedica la sua vita a scandagliare l’animo umano, a ricostruire le cause inconsce dei sensi di colpa, a tentare di capire il male di vivere.
Al medico viennese padre della psicoanalisi Rino Mele aveva già dedicato in passato due poesie, “Una città sconosciuta” ed “Il padre di Freud”, riproposte anche in quest’ultimo libro insieme ad un esauriente corredo di note e, soprattutto, al poemetto inedito “La guerra dai due lati del fiume Bug”, nel quale la trasfigurazione poetica riguarda particolarmente il periodo che va dalla primavera del 1938 al 23 settembre 1939, data della sua morte.
L’ultimo Freud non è solo il grande scienziato, è soprattutto l’uomo ormai anziano, ultraottantenne, devastato da un tumore alla mandibola che l’ha costretto ad interventi chirurgici e protesi scarsamente risolutivi, reduce dal cercare risposte, inutilmente, nella fede religiosa ignorata durante tutta la vita. Una fede che, invece di dare sollievo, genera altre nevrosi, rimanda ad un Dio, quello di Mosé e degli ebrei, “contro cui / si poteva solo peccare / trasformando il continuo errare in un interminabile senso / di colpa”. Il “vecchio Freud” di Mele è ogni uomo all’approssimarsi della morte, la “barba sporca di muco”, la saliva che “bagna l’angolo del labbro, quel tremore / delle mani, il sudicio tra le dita, il cispo negli occhi, / l’umore attonito dello sguardo”.
Ma è anche l’uomo, forse più di ogni altro, che, nell’accingersi a sedere alla “tavola vuota”, avverte il peso della sofferenza interiore, perversa ed inestricabile, che precede e supera quella fisica. Di più, il vecchio Freud vive nei suoi ultimi giorni di vita l’inizio della seconda guerra mondiale, il ripetersi, a poco più di vent’anni dalla prima, di un’ancor più esaltata esplosione di violenza. Le due sponde del fiume Bug diventate improvvisamente confine, una linea di separazione tracciata da Hitler e Stalin al centro della Polonia e della civile Europa, iniziano a generare lutto, che “servirà a costruire - l’anno / dopo - una città capovolta, Auschwitz, / i morti in irriconoscibili divise”. È il dolore provocato dagli uomini, ancor più insensato, che va ad aggiungersi ad altro dolore, mentre Freud assiste lucidamente impotente alla devastazione, al disfacimento, all’imminente fine del suo corpo e, insieme, di quello dell’Europa.
La stretta relazione tra poesia e storia nella scrittura di Rino Mele non è recente, poiché già Federico II, Giordano Bruno, Galeazzo Ciano alla vigilia della fucilazione, Aldo Moro rapito ed assassinato, fino agli oltre centocinquanta tra terroristi ed ostaggi morti in seguito all’irruzione prima dei nazionalisti ceceni e poi delle forze speciali russe nel teatro Na Dubrovka di Mosca nell’ottobre 2002, sono entrati nella scena voluta e disegnata dal poeta salernitano. Usciti dalla storia solo apparentemente, essi rivivono ancor più reali, rappresentati fedelmente attraverso le loro vicende biografiche, affinché possa approssimarsi quanto più possibile la comprensione del loro dramma, che è sempre non solo loro, ma anche, sia pure in forme e contesti diversi, di ciascun uomo (“nella giusta interpretazione della Realtà e della Storia risiede l’autentica Poesia”, come ricorda Thomas Carlyle).
Una Storia, quella di Mele, che non è mai svelamento progressivo di un disegno divino o di una più laica razionalità, piuttosto il girare vano nel tempo, un cerchio che si restringe ed allarga fino a diventare voragine, penetrato e raccontato attraverso parole di straordinaria potenza, perché nude e vere, incarnate nella realtà dalla quale non si intende fuggire neanche per un attimo.
*
Il libro “Un grano di morfina per Freud”, viene presentato oggi alle 18 alla libreria Feltrinelli di Salerno (al Corso Vittorio Emanuele). Letture di Pasquale De Cristofaro. Con la sua viola, Michele Coppola suona Mahler e Mozart (che Freud -capitolo 5 dell’Interpretazione - rievoca nell’analisi di un suo sogno: “Canticchio qualcosa che riconosco come l’aria delle “Nozze di Figaro”).
Troppo spesso la fede viene usata in modo distorto per evitare di
guardare nel profondo di se stessi
intervista a Macha Chmakoff, psicanalista e pittrice, a cura di Paula Boyer
in “La Croix” del 25 giugno 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Nel libro che ha appena pubblicato, “Le Divan et le Divin” (1), frutto della sua esperienza clinica, la psicanalista analizza come accada che i valori fondamentali e le pratiche della fede vengano “sviati”.
Il suo libro è un’analisi della cause della crisi nata dallo scandalo della pedofilia?
Questo libro è stato scritto prima, ma può senz’altro costituire una griglia di lettura della crisi attuale della Chiesa. La fede, infatti, può essere utilizzata all’opposto di quello che dovrebbe essere: un fermento di umanizzazione. Essa induce certi credenti ad evitare se stessi. Lasciano nell’ombra interi tratti della loro vita psichica fino al momento in cui sono sopraffatti da certi sintomi (angosce, depressioni, malattie psicosomatiche ricorrenti) o disordini nella loro vita affettiva o sessuale.
La pedofilia è emblematica di questo fenomeno. Scrivendo, lei pensava a delle istituzioni particolari?
No, ognuno di noi è toccato da un certo “sviamento” della religione. Tutti preferiamo inconsciamente ignorare ciò che dovremmo conoscere di noi stessi e che favorirebbe la nostra capacità di evolvere. La religione è spesso vissuta come un insieme di precetti e di pratiche che dà l’illusione di poter essere conformi all’ideale istantaneamente. Allora viene utilizzata per rafforzare l’immagine che noi inconsciamente abbiamo di noi stessi e che diamo agli altri. Questo fenomeno insidioso riguarda tutte le sensibilità cristiane. Si può semplicemente dire che più l’impegno è radicale, più i rischi sono forti.
Da dove deriva questa propensione a “stravolgere” la religione?
A partire dai lavori di Freud e dei suoi successori è diventato chiaro che la religione risponde naturalmente ad un buon numero di angosce inconsce. Offre un’immagine paterna insieme protettiva e in grado di dare un significato al senso di colpa. Propone dei riti suscettibili, come ogni rito, di proteggere il soggetto dal pericolo rappresentato dalle pulsioni. Dà un’identità forte grazie all’appartenenza ad un gruppo. Questo non ha niente di scioccante in sé: il credente è un essere umano e, per far fronte all’angoscia, tutti gli esseri umani ricorrono a questo tipo di funzionamento che si declina in modi più o meno simili negli ambienti laici. I problemi sorgono quando la religione non serve più solo ad evitare l’angoscia, ma ad evitare l’origine stessa dell’angoscia. L’origine dell’angoscia sta, da un lato nella nostra vita pulsionale inconscia e, dall’altro, al centro della nostra identità umana: la mancanza fondamentale che nasce in noi dal confronto tra i nostri limiti e il nostro desiderio di infinito, di assoluto.
Un giovane che entra molto presto in una comunità può evitare di prendere in considerazione la sua difficoltà a diventare autonomo. Una giovane donna che si sposa molto precocemente e che ha molti figli può evitare di affrontare il problema della propria identità reale. Il seminarista che ha delle difficoltà sessuali o semplicemente fa fatica a porsi in rapporto con le donne accantona tutti questi problemi. Il responsabile di comunità molto generoso può mettersi a distanza da una sofferenza psichica nata da conflitti intrapsichici profondi, donandosi agli altri.
Nel discorso della Chiesa, che cosa favorisce queste piccole “devianze”?
Innanzitutto, la presentazione dell’ideale cristiano come qualcosa che deve essere attuato ipso facto. Di fronte a questa esigenza, il credente aderisce spesso solo con la parte consapevole di se stesso. In una pastorale troppo zelante, l’ideale di carità rafforza l’allontanamento delle pulsioni, soprattutto delle pulsioni violente ed incita il credente a “fare come se” lui fosse dolce e amorevole, indipendentemente dal suo grado di progressione nell’unificazione interiore che passa dal riconoscimento e dall’accettazione della propria pulsione di violenza. L’ideale della castità, nello specifico, incita ad accantonare le difficoltà sessuali o a guardare ad esse come a delle “sbandate”, insomma semplici goffaggini o errori nel cammino arduo della virtù. Appaiono come delle debolezze e non come segni di una disfunzione profonda. Il soggetto viene così espropriato di una parte del proprio funzionamento psichico. Un altro fattore è la dinamica del gruppo (comunità o parrocchia) che incita il soggetto a mostrarsi conforme alle attese che gli sono implicitamente rivolte. Il credente è portato a “presentarsi” come un buon prete, come un laico impegnato esemplare, ecc. Infine, l’attivismo legato all’evangelizzazione e alle attività caritative rafforza ulteriormente la mancata presa in considerazione dei limiti fisici e psicologici.
Come premunirsi?
Non ci sono ricette miracolose. Tuttavia, una pastorale che dia ampio spazio all’ascolto e che miri alla trasformazione personale dei credenti più che alla loro efficienza apostolica o alla loro esemplarità sarebbe senza dubbio meno esposta a questi rischi. Ugualmente, imparare ad ascoltare se stessi, e riservare un tempo sufficientemente esteso all’ascolto puro e semplice, alla contemplazione, rivestono un’importanza capitale. Anche il ricorso alla terapia psicanalitica dovrebbe senza dubbio essere più frequente, a condizione che il terapeuta non sia considerato - come troppo spesso avviene - come un meccanico che sostituisce il pezzo difettoso e in tempo record fa funzionare di nuovo la macchina.
Smarrimento nei diritti umani
di Adam Haslett (Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2010)
Non esistono diritti umani fondamentali. Esistono stati nazione che dichiarano di promuoverli, esiste una dichiarazione delle Nazioni Unite al riguardo, ed esistono organizzazioni non governative che ne sostengono l’adozione. Ma come ci ha mostrato la storia, nulla di tutto ciò previene assassini o torture qualora siano in ballo il successo militare, la sicurezza interna o la difesa nazionale.
I diritti, si dice, valgono solo nella misura in cui si ha la capacità di farli rispettare. E in ogni parte del mondo praticamente tutte le vittime di quelle che chiamiamo violazioni dei diritti umani sono prive di tale capacità. A questo scopo esistono, naturalmente, la Convenzione di Ginevra e, dal 2002, la Corte Penale Internazionale dell’Aja. Ma la prima ha giurisdizione solamente sui conflitti armati e la seconda può perseguire solo i crimini avvenuti negli stati membri o i casi che le vengono sottoposti dalle Nazioni Unite. I paesi su cui ha giurisdizione la Corte Penale Internazionale rappresentano una minoranza della popolazione mondiale.
Fra i paesi non firmatari: Stati Uniti, Iran, Sudan, Israele, Russia e India. La corte non ha accesso alle prigioni cinesi o ai centri di detenzione segreti della Cia. Ha aperto un’inchiesta sui leader miliziani della Repubblica Democratica del Congo, ma nessuna burocrazia europea o istituzione internazionale ha saputo fermare la marea di sangue civile che scorre nel paese.
D’altra parte, com’è spesso il caso nel diritto internazionale, i diritti umani sono per lo più materia di esortazione. Gli stati e gli altri soggetti politici vengono esortati dalle istituzioni internazionali e dalle Ong come Amnesty International a rispettarli, ma c’è poco da fare se questi non intendono farlo. È come se la polizia di New York spendesse tempo ed energie a incoraggiare i criminali a non commettere omicidi ma non fosse autorizzata ad arrestarli all’atto pratico. Un tale limite ci costringerebbe a dire che non esiste un diritto a non essere vittime di omicidio, ma solo un atteggiamento generale di deterrenza nei confronti di tale pratica. Questa è oggi la situazione dei diritti umani. Sono ideali che nel concreto non vengono fatti rispettare.
Da dove originino questi ideali è questione dibattuta. Molti indicano Kant, che delineò un fondamento filosofico dell’eguaglianza umana universale basata sulla capacità razionale. Altri alla dichiarazione dei diritti universali dell’uomo a opera della Rivoluzione francese. Ma siccome il concetto di universale del diciottesimo secolo era applicato di solito ai soli cittadini maschi, potremmo dire che l’idea moderna di questi diritti ha il suo vero inizio con la Convenzione di Ginevra e la reazione all’Olocausto.
In un libro di prossima uscita, lo storico Samuel Moyn lascia intendere che anche così si retrodata un fenomeno successivo, e che l’idea che abbiamo oggi dei diritti umani fondamentali e inalienabili comincia in realtà con l’impulso anti-statalista e liberazionista emerso in Occidente fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.
Quel che è chiaro è che la nostra idea contemporanea di universalità in materia di diritti umani si è espansa a comprendere tutte le razze e le etnie ed entrambi i generi. La categoria di quanti riteniamo meritevoli di protezione coincide con l’intera specie. Non escludiamo le persone affette da handicap mentali per il loro difetto di capacità razionale o i rifugiati perché non hanno cittadinanza. Il requisito è diventato di natura essenzialmente biologica.
Se l’universo di quanti sono compresi sotto l’insegna dei diritti umani si è espanso, altrettanto ha fatto la sostanza degli stessi diritti. La Dichiarazione Internazionale dei Diritti Umani annuncia tutte le libertà dalla violenza di stato e dalla detenzione e punizione arbitraria che in genere associamo al peggiore comportamento dei regimi oppressivi. Ma annuncia altresì il «diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite» (Articolo 24) e il «diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere famiglia» (Articolo 25). Quale paese può affermare in tutta onestà di rispettare questi standard per tutti i suoi cittadini?
Ad accompagnare quest’espansione nella portata e nella sostanza dei diritti si è registrato un terzo fattore in aumento: la capacità di documentare in tutto o in parte le violazioni dei diritti al di fuori dei canali ufficiali, grazie alla diffusione di telecamere digitali e internet. Non passa giorno senza che da qualche parte del mondo non giunga testimonianza di pulizie etniche, stupri e assassinii politici o detenzioni illegali (l’assenza di uno standard adeguato di vita, naturalmente, non fa notizia). Interi regimi si reggono su simili pratiche. E queste non sono che le pratiche più abominevoli fra indite altre.
Se allora prendiamo seriamente la concezione dei diritti umani che abbiamo oggi, e prestiamo attenzione al telegiornale, la sola conclusione razionale che possiamo trarre è che l’esistenza della vasta maggioranza delle persone sul pianeta costituisce una catastrofe senza fine.
L’ampiezza di tale conclusione porta a un’interessante omologia. Se dovessimo sostituire le parole "violazione dei diritti umani" con il termine "peccato", e dovessimo immaginare per un attimo la Dichiarazione Internazionale dei Diritti Umani come una versione odierna dei Dieci Comandamenti, riusciremmo subito a vedere come la struttura retorica e l’asserzione ontologica che stanno dietro alla nostra idea moderna di diritti umani siano di tipo religioso, e più specificamente cristiano. In questo nostro mondo caduto, regna il disastro morale. È una condizione generalizzata.
Le vie dell’uomo sono perverse. I deboli e i poveri sono afflitti dai ricchi e dai potenti. Contro questa situazione impossibile si pone un gruppetto di persone determinate e altruiste che usano un linguaggio evangelico contro gli empi re e despoti che cercano di svergognare. Ogni detenuto impiccato o donna violentata è martire della causa. Nella nostra cosmologia del castigo, ovviamente, la redenzione è sempre su questa terra: una cessazione delle sofferenze secolari piuttosto che un posto a sedere vicino al Signore.
In un certo senso, non deve sorprendere. L’originaria elaborazione kantiana dell’uguaglianza umana universale emerse dal Pietismo protestante. E le organizzazioni religiose occidentali rimangono fra i gruppi più attivi e costanti nell’appello al rispetto dei diritti umani universali. Non equivale a una critica, per lo meno a mio modo di vedere, far notare le premesse religiose di ciò che la comunità internazionale tratta come una missione laica. Ma riconoscere l’omologia fra retorica dei diritti umani e teologia cristiana potrebbe almeno aiutarci a comprendere e mantenere meglio il nostro orientamento a riguardo.
Perché? Perché se non si può dire che i diritti umani fondamentali esistono materialmente in un mondo in cui non li si fa rispettare, allora per continuare a credere in questi diritti ci serve qualcosa di più che la legge e le esortazioni. Ci serve qualcosa di più vicino alla fede.
(Traduzione di Francesco Pacifico)
Israele - Riflessione
«Sulla strada per diventarlo»
di Piero Stefani *
Nell’immediato secondo dopoguerra lo storico francese Jules Isaac, che aveva visto sterminata nei lager gran parte della sua famiglia, pubblicò un libro intitolato Gesù e Israele (Marietti, 2001). Esso si proponeva di contribuire a estirpare il pregiudizio antiebraico all’interno della Chiesa cattolica. Il testo, costruito per argomenti, dopo aver sottolineato l’appartenenza di Gesù al popolo d’Israele e l’origine ebraica del cristianesimo, inizia a confutare le varie accuse antigiudaiche, a cominciare da quella secondo cui la dispersione del popolo ebraico rappresenta una punizione divina per aver rifiutato il vangelo e per aver messo a morte Gesù. In realtà, afferma Isaac, la diaspora ha un’origine molto più antica: già all’inizio del I secolo d. C. la maggior parte degli ebrei viveva fuori della terra d’Israele. Si tratta di una semplice verità storica; eppure il pregiudizio cristiano, che ben sapeva della grande, antica comunità ebraica di Alessandria e della predicazione evangelica nelle sinagoghe dei paesi mediterranei, continuava a ripetere: fino al 70, il popolo d’Israele era indipendente, poi, persa (per punizione divina) la patria, iniziò la triste diaspora.
Il sionismo ha creato molti miti nazionali. Eventi prima trascurati nella tradizione ebraica (per es. Masada) sono stati eroicizzati; la diaspora è stata considerata spesso in modo cupo; tuttavia alcuni dati storici continuavano a imporsi. Non è vero che tutto è cominciato con il 70, né sul fronte del prima, né su quello del dopo: la seconda guerra giudaica terminò solo nel 135 e la “paganizzazione” di Gerusalemme a opera di Adriano ebbe luogo soltanto allora. Tuttavia, almeno all’interno dell’attuale dirigenza dell’ebraismo italiano, anche i riferimenti agli inizi del II sec. sembrano ormai particolari trascurabili. Non è raro perciò assistere a una paradossale, quanto consapevole, riproposizione del pregiudizio antiebraico (eccezione fatta, si intende, delle motivazioni teologiche). «I fattori che rendono veramente speciale la presenza ebraica in Italia sono molteplici. Innanzi tutto la sua antichità poiché la sua origine risale a 2 mila 200 anni fa, al periodo della Roma repubblicana, oltre due secoli e mezzo prima di quel fatale anno 70 che vide la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito e l’inizio della diaspora, la dispersione degli ebrei nel bacino del Mediterraneo e nei tre continenti» (Renzo Gattegna). La frase accosta due termini incompatibili: gli ebrei vivono in diaspora prima che essa cominci. Si potrebbe obiettare che si trattava di piccoli frange. Tuttavia, come si è detto, si trattava di ben altre dimensioni: già nel primo secolo - senza che intervenissero particolari coercizioni esterne - la maggioranza del popolo ebraico viveva fuori della terra d’Israele.
L’invenzione di miti storici è parte organica della costruzione di ogni identità collettiva. Spesso importa poco se essi siano palesemente falsi sul piano dei fatti. Per affermarsi, il regime di cristianità fu obbligato a inventare il mito della punizione ebraica e a esasperare la cessazione del culto sacrificale del Tempio di Gerusalemme; per buona parte dell’ideologia sionista è inevitabile riferirsi alla visione della patria perduta e riconquistata. Il pericolo più alto che si annida nella retorica di un ritorno all’antica indipendenza, è di presentare lo Stato d’Israele come fatalmente costituito in base all’intreccio di due componenti: l’essere a un tempo ebraico e democratico. È una contraddizione di fondo che grava su di esso fin dalla sua nascita nel 1948 e che ha reso tuttora impossibile - assieme a molti altri fattori - la soluzione del nodo israelo-palestinese. Non si tratta solo di problemi istituzionali e civili di non poco conto legati al confronto interno tra religiosi e laici; quanto è in gioco è il modo stesso di presentarsi come stato. Prospettarsi come «Stato ebraico» significa rendere la componente demografica un problema costituzionale e politico ineliminabile. Se i territori occupati nella guerra del 1967 non sono stati mai annessi in modo definitivo è solo perché tale operazione avrebbe impedito di mantenere a Israele anche solo la parvenza di essere sia ebraico sia democratico. Tuttavia, sull’altro versante, la non volontà di dar luogo, in tempi storicamente ragionevoli, a uno stato palestinese indipendente ha trascinato Israele in una contraddizione da cui non è più uscito: da più di quarant’anni la sua indipendenza nazionale si regge anche in virtù della negazione di quella di un altro popolo. Tutti gli scadimenti etici e politici israeliani derivano, in ultima analisi, da questo nodo.
Un grande intellettuale israeliano del Novecento - da sempre sionista - Y. Leibowitz dichiarò in un’intervista nel 1988: «“Le sue posizioni relative ai territori occupati sono basate su una valutazione puramente pragmatica, razionale, strategica, economica, sociologica, politica di questo stato di cose?” “Politica. Detesto il fascismo. E lo Stato d’Israele, mantenendo una dominazione violenta sopra un’altra nazione diverrà necessariamente fascista. Non lo è ancora. Possediamo un alto grado di libertà di stampa e di libertà di parola. A tutt’oggi lo Stato non è ancora fascista. Ma è sulla strada per diventarlo» (Il Regno documenti 1,1989, p. 62).
Più di vent’anni dopo siamo in realtà allo stesso punto, «è sulla via per diventarlo», il che è, a un tempo, conferma e smentita delle previsioni di allora. Per comprendere adeguatamente questa qualifica bisogna però tener presente cosa Leibowitz intendesse per fascismo: si trattava innanzitutto di una posizione che attribuisce all’esistenza dello stato un valore in se stesso. Nella fattispecie, ciò lo renderebbe non già (come per l’originaria ispirazione della maggior parte del sionismo) «Stato degli ebrei», ma appunto integralmente «Stato ebraico». Una conseguenza di ciò è che la difesa dello stato diventa valore supremo in base al quale tutto diviene lecito. Tutto si giustifica in virtù della sicurezza, il diritto è quindi sistematicamente calpestato. Con ogni probabilità è già irrimediabilmente tardi, né all’orizzonte si vedono tendenze che vanno in questa direzione; rimane comunque un passaggio imprescindibile alla pacificazione dell’area: il fatto che Israele cessi, una volta per tutte, di essere «Stato ebraico» per diventare solo democratico.
Piero Stefani
* Il Dialogo Sabato 05 Giugno,2010 Ore: 18:09
L’Inconscio è ancora come lo «vide» Freud? La Spi a congresso
A Taormina, da oggi al 30 le discussioni degli psicoanalisti *
Il XV Congresso della Società psicoanalitica Italiana (Spi) si apre oggi a Taormina sul caposaldo della psicoanalisi: l’Inconscio. «Scoperto» da Freud è il fulcro e il motore della teoria che il padre della psicoanalisi elaborò. Il nostro inconscio è rimasto lo stesso che «vide» Freud o i cambiamenti sociali, culturali, ambientali lo hanno modificato? I lavori e la discussione che animeranno il congresso fino al 30 maggio saranno il punto di arrivo di un lungo lavoro di rivisitazione del concetto di inconscio che la società psicoanalitica, presieduta da Stefano Bolognini, ha compiuto in questi ultimi anni.
Nel congrersso verrà posto l’accento non tanto sull’inconscio come «calderone ribollente», realtà ontologica, o regione della mente, ma sull’esplorazione dell’inconscio e del suo operare, tramite gli strumenti che la psicoanalisi si è data e con i quali si cimenta con la sofferenza umana: un metodo specifico di osservazione, una tecnica, una teoria. Siamo in pieno ambito della clinica e della ricerca a partire dalla clinica, dentro il lento e paziente lavoro nell’intimità dello spazio analitico come osservatorio privilegiato anche sulle trasformazioni sociali.
Nel percorso del convegno si parlerà di persone con un funzionamento inconscio che risente della difficoltà dell’uomo di oggi a soffermarsi sulla propria realtà psichica. L’uomo di oggi rimuove meno, non tanto perché la rimozione non esista più, ma perché, stretto nell’illusione di una felicità rapidamente conquistabile, fatica ad avere accesso alla propria realtà psichica in cui fa capolino, non invocata, l’idea del proprio limite e quindi della propria morte.
A sviluppare e confermare questa linea di ricerca e di discussione, i molti lavori dedicati all’espressione corporea del disagio psichico; si richiede all’analista di oggi un atteggiamento capace di accogliere, sviluppare e trasformare gli stati emotivi. Ampiamente rappresentata nel congresso la psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti, a testimonianza di un interesse crescente del mondo psicoanalitico rispetto al costituirsi del soggetto e delle identità.
* l’Unità, 27.05.2010
POLONIA
Copernico sepolto con onore
Tregua tra Chiesa e Scienza
L’astronomo che sfidò l’autorità ecclesiastica sepolto nella cattedrale di Frombork. I resti individuati con il Dna di ossa scoperte nella cattedrale confrontati con frammenti di capelli trovati nei libri dello scienziato *
Niccolò Copernico, l’astronomo polacco che nel XVI secolo ebbe il coraggio di sfidare la Chiesa sul dogma della centralità della Terra - e quindi dell’Uomo - nell’universo, è stato sepolto oggi tra grandi onori nella cattedrale di Frombork, a nord della Polonia, dove per secoli le sue spoglie hanno giaciuto nell’anonimato. Se le autorità vaticane avevano già riabilitato l’opera di Copernico, come avvenuto per quella del nostro Galileo, la sepoltura dignitosa dei resti dell’eretico studioso dei cieli si deve alla riuscita collaborazione tra la volontà ecclesiastica e l’azione della sua compagna di una vita: la scienza.
LE FOTO Copernico sepolto con onore
La chiave di volta della vicenda, ancora una volta, è racchiusa in una sigla di tre lettere: dna. Copernico fu sepolto nella cattedrale di Frombork nel 1543, in una tomba priva di un nome o di un qualsiasi segno che potesse segnalare dietro la pietra le spoglie del padre dell’Eliocentrismo, il sole al centro del sistema solare e della vita. Su richiesta del vescovo locale, gli scienziati hanno iniziato le ricerche della tomba di Copernico nel 2004, scoprendo le ossa e il cranio di un uomo deceduto all’età approssimativa di 70 anni. Quella che Copernico aveva il giorno della sua morte, quando prima di spirare gli fu consegnata una copia del De Revolutionibus Orbium Coelestium, il suo trattato "sulla rivoluzione delle sfere celesti", appena pubblicato.
Da quelle ossa, dai denti in particolare, è stato tratto il Dna da confrontare con quello di alcuni frammenti di capelli ritrovati nei libri che appartennero all’astronomo, matematico e medico polacco. Il codice genetico era lo stesso, di qui la conclusione che le spoglie dello scienziato erano finalmente uscite dall’oblio della storia. Così, 467 anni dopo la sua morte, i resti di Niccolò Copernico sono stati nuovamente inumati nella cattedrale di Frombork. Ma questa volta ai piedi di una tomba nuova di granito nero, con incisa la rappresentazione di un modello del sistema solare. Nel corso della cerimonia religiosa che ha accompagnato l’evento, l’arcivescovo Jozef Zycinski, nuovo primate polacco, ha deplorato gli "eccessi di zelo dei difensori della Chiesa" e ha ricordato la condanna dell’opera dell’astronomo da parte di Papa Paolo V nel 1616.
Il ricordo di tanto oscurantismo non poteva essere cancellato in un giorno. Così, prima della solenne sepoltura, una bara di legno contenente i resti di Copernico ha viaggiato per alcune settimane attraverso la Polonia, è stata esposta a Olsztyn e nelle città con cui ebbe legami nella sua vita. E Wojciech Ziemba, arcivescovo della regione di Frombork, ha finalmente detto che la Chiesa cattolica è fiera che Copernico abbia lasciato alla regione l’eredità del suo "duro lavoro, della sua devozione e soprattutto del suo genio scientifico".
* la Repubblica, 22 maggio 2010