COGNOMI
COSA CAMBIEREBBE CON LA NUOVA LEGGE
In quella parola la nostra identità
di MASSIMO LIVI BACCI (la Repubblica/Diario, 45, 23.01.2007)
Il curioso mostriciattolo (al quale nessuno augura lunga vita) uscito dalla Commissione senatoriale, in tema di cognomi, invita a riflettere sul significato e la storia di un istituto secolare connaturato al nostro vivere come lo sono il giorno e la notte. Secondo la proposta, i genitori hanno quattro possibilità: imporre al figlio il cognome del padre, o quello della madre, o ambedue in ordine padre-madre, o madre-padre. Poiché i figli, i nipoti, e gli altri discendenti potrebbero fare, a loro volta, difformi libere scelte, il percorso generazionale diventerebbe una gimkana onomastica della quale non si capiscono né il significato né l’utilità.
Eppure nel mondo occidentale - e in paesi all’avanguardia nella tutela dei diritti individuali - convivono senza traumi sistemi distinti nella trasmissione del nome: gli islandesi danno ai figli un cognome formato dal nome di battesimo del padre e da un suffisso che significa “figlio di” o “figlia di”; gli anglosassoni impongono il nome del padre (la madre già ha perduto il suo cognome col matrimonio, assumendo quello del marito); in area ispanica e portoghese i figli hanno il doppio cognome, in ordine padre-madre nella prima e madre-padre nella seconda. L’ansia omologatrice dell’Unione europea, per fortuna, non si è ancora intromessa in questo delicato campo.
La storia del cognome - come identificativo di una famiglia e di una discendenza - è di grandissimo interesse sociale. Nel medioevo, smarrita la tradizione romana di indicare con nomi diversi l’individuo, la sua famiglia e la gens di appartenenza, la persona era normalmente identificata con un nome imposto al momento del battesimo. Questo era sufficiente in società poco strutturate, con popolazioni disperse, radi insediamenti, modeste città. Tuttavia questo semplice sistema diventa inadeguato alla fine del primo millennio quando la società ricomincia a crescere, sviluppandosi demograficamente, culturalmente ed economicamente.
Comincia a farsi necessaria l’identificazione non equivoca delle persone, per l’applicazione delle norme giuridiche, per far funzionare la giustizia e l’amministrazione, per le transazioni economiche, i passaggi di proprietà, gli atti di successione. Necessità tanto più sentita in quelle società nelle quali il numero dei nomi utilizzati al battesimo era ristretto e le omonimie frequenti; necessità ineludibile man mano che cresceva la popolazione e si sviluppavano i centri urbani.
Nelle classi nobiliari e aristocratiche si diffonde il desiderio di affermare l’identità della discendenza con un nome fisso e non con una complicata successione genealogica di individui. Questi sono identificati da un nome personale e da un cognome che riassume l’ascendenza, identifica la famiglia di appartenenza e viene trasmesso in via ereditaria. Un processo lungo e graduale che si diffonde lentamente nell’arco di un millennio.
In Toscana, l’uso dei cognomi diventa frequente nel XII secolo tra le grandi famiglie urbane, spesso di origine feudale; così in Piemonte e nelle Venezie. Anche in Francia, in Germania e in Inghilterra il processo inizia nell’XI o nel XII secolo.
Più a
nord, nell’Europa scandinava,
l’utilizzo di un cognome (patronimico)
stabile si afferma nel
XVIII secolo, mentre ancor oggi
in Islanda (come si è detto) ai figli
è imposto un patronimico
che varia di generazione in generazione.
La diffusione del cognome,
come tante altre innovazioni
culturali o sociali, ebbe un gradiente
economico e geografico:
prima nei ceti signorili e nobili,
nelle élite mercantili e borghesi,
poi nel volgo e tra i contadini;
prima nelle città, poi nelle campagne;
prima nelle regioni ad alta
densità poi nelle aree meno
popolate.
I due medievisti Christiane Klapisch e David Herlihy, cui si deve un monumentale studio sul Catasto del 1427, hanno trovato che il 37 per cento dei contribuenti di Firenze avevano un cognome, contro il 20 per cento nelle altre città toscane e il 9 per cento nelle campagne. Questo a conferma del gradiente geografico. Tra i 100 contribuenti più ricchi, 88 (cioè quasi tutti) avevano un cognome, mentre tra i 1493 nuclei familiari più poveri (che non pagavano tributo: oggi si chiamerebbero “incapienti”) solo 176 nuclei (il 12 per cento) avevano un cognome. E questo a conferma del gradiente economico.
Sempre a Firenze, secondo il censimento del 1551, solo il 32 per cento dei capifamiglia uomini aveva un cognome, ma nel 1630 la proporzione era raddoppiata al 64 per cento, e nelle strade delle zone benestanti praticamente tutti avevano un cognome. Il Concilio di Trento, e l’obbligo della tenuta dei registri parrocchiali per iscrivervi battesimi, sepolture e matrimoni, dette una spinta decisiva alla diffusione dei cognomi, anche se in certe zone (per esempio nella diocesi di Perugia) questi si affermano solo nella seconda metà del ‘700. In epoca napoleonica, il cognome fisso ed ereditario diventa un obbligo in larga parte d’Europa.
Di cognomi c’è grande varietà nel nostro paese, arricchita nel tempo da variazioni lessicali (sorta di “mutazioni”) o da processi migratori. I cognomi fissi sono anche una sorta di marcatore genetico che ha permesso agli studiosi interessanti analisi di genetica delle popolazioni. Cognomi con origini spesso legate a un patronimico; oppure al mestiere o alla professione esercitati; o alla toponomastica e all’origine geografica; o ancora a particolari caratteristiche personali (un difetto o una qualità fisica, o del carattere) di un qualche capostipite. Un terreno fertile di ricerca per i linguisti.
A volere essere cinici, potremmo dire che nell’era dell’informatica non c’è più bisogno del cognome fisso. La prima missiva che ogni neonato riceve proviene dall’agenzia delle entrate, e contiene il tesserino di plastica verde col codice fiscale.
Si possono facilmente creare appositi algoritmi per collegare i vari codici personali in famiglie, discendenze, gruppi. Perché dunque aggrapparsi alla tradizione del cognome? Perché non permettere a ciascuno di identificarsi come meglio crede?
In questa luce la proposta- mostriciattolo potrebbe anche essere tollerata. Eppure ha un senso dare un’identificazione alla discendenza familiare, per sottolinearne la continuità o affermare l’appartenenza. Che sarebbe compromessa dal cervellotico sistema proposto.
La legge italiana prevede saggiamente che la donna sposata conservi il suo cognome. Sembra sensato sperare che rafforzi la propria saggezza, disponendo che ai figli vengano trasmessi, come è giusto, entrambi i cognomi. E che l’ordine sia fisso, e una volta per tutte si decida se si vuol stare dalla parte degli spagnoli o dei portoghesi, dando il primo posto al cognome del padre come è tradizione dei fieri castigliani o cedendo cortesemente il passo alla madre secondo l’amabile usanza lusitana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. AL DI LA’ DELL’ "EDIPO".
25 Giugno: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi.
Cognome dei figli, Cassazione in pressing
"Garantire i diritti delle mamme"
ROMA - La Cassazione dà un’altra picconata all’impianto giuridico che impedisce alle mamme di dare il proprio cognome ai figli. Dopo essersi già pronunciata in tal senso nel 2006, ora la Corte Suprema spezza un’altra lancia a favore dell’attribuzione del cognome materno ai figli legittimi nel caso in cui i genitori, concordemente, abbiano questo desiderio. La nuova sentenza emessa dalla Prima Sezione Civile stabilisce infatti che in seguito all’approvazione, il 13 dicembre 2007, del Trattato di Lisbona (che ha modificato il trattato sull’Unione europea e quello istitutivo della Cee) anche l’Italia, come tutti i 27 stati membri, ha il dovere di uniformarsi ai principi fondamentali della Carta dei diritti Ue tra i quali il divieto "di ogni discriminazione fondata sul sesso".
Ma mentre nel 2006 la Cassazione si era limitata ad un appello al Parlamento affinché con una legge consentisse l’adozione del cognome materno, adesso i magistrati di Piazza Cavour dicono di essere pronti - proprio in forza della novità costituita dal Trattato di Lisbona - a rimuovere, disapplicandole, o avviando gli atti alla Consulta, le norme italiane in contrasto con i principi del Trattato.
* la Repubblica, 23 settembre 2008
Io sono Italiana e sarei tanto felice di avere il cognome paterno seguito da quello materno, perche’secondo me e’ la cosa piu’ giusta. Questo tipo di doppio cognome indica il legame sia con il padre che con la madre. Comunque la cosa piu’ corretta ed equilibrata sarebbe permettere ai genitori di scegliere come cognome tra quello paterno, quello materno od una combinazione dei due (doppio cognome). Questo tipo di doppio cognome da’ un senso di appartenenza a tutta la tua famiglia e non solo a meta’
Ma di sicuro mi opporrei ad una legge che permette di attribuire ai figli cognomi non appartenenti ai genitori, cosa che purtroppo e’ possibile in Inghilterra. Io ho una figlia italo-tailandese nata in Inghilterra. A causa di grossi errori le e’ stato attribuito un cognome che non e’ ne’ quello paterno, ne’ quello materno, ma e’ il cognome di un estraneo. Vorrei tanto avere la liberta’ di dare a mia figlia o solo il cognome paterno od il cognome paterno seguito dal mio! Purtroppo le autorita’ inglesi si attaccano alla legge dicendo che c’ e’ liberta’ totale di scelta nel cognome dei figli e cosi’ si rifiutano di corregere quello che e’ stato un grossissimo errore non voluto!
PER FORTUNA LE AUTORITA’ ITALIANE LE HANNO ATTRIBUITO IL COGNOME PATERNO ED ELIMINATO QUELLO SBAGLIATO. QUINDI IN ITALIA MIA FIGLIA HA IL COGNOME CHE LE VOLEVAMO DARE NOI, MA IN INGHILTERRA E’ OBBLIGATA AD AVERE IL COGNOME SBAGLIATO NEL CERTIFICATO DI NASCITA.
Se c’e’ liberta’ totale di scegliere il cognonome, ci dovrebbe anche essere la liberta’ di correggere uno sbaglio madornale.
SI ALLA LIBERTA’ DI SCEGLIERE IL COGNOME, MA LIMITARLA AI COGNOMI PATERNI E MATERNI COME NEI PAESI DI LINGUA SPAGNOLA.
NO ALLA LIBERTA’ CHE DANNO IN INGHILTERRA: E’ UNA FOLLIA, PERCHE’ ALLA FINE TI TOLGLIE IL DIRITTO DI CORREGGRE GLI ERRORI.
Sul doppio cognome Pera sbaglia
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 4/6/2007)
Non basta evidentemente essere stati la seconda carica dello Stato per non confondere i propri desideri di uomo impaurito dalla pur parziale emancipazione femminile con le norme che regolano i rapporti tra i coniugi e la famiglia. Qualcuno dovrebbe informare Marcello Pera che, contrariamente a quanto da lui sostenuto su questo giornale, in Italia le donne sposandosi non perdono il proprio cognome, ma aggiungono al proprio quello del marito. E sia professionalmente che da un punto di vista amministrativo è il loro cognome da nubili quello che conta. Perciò in famiglia ci sono già due cognomi, anche se «il cognome di famiglia» è solo quello del marito. Pera dovrebbe anche venire informato che in Italia, come in tutti i Paesi occidentali, dal punto di vista legale non esiste un privilegio della linea maschile su quella femminile. E a livello sociale e culturale si trovano sia situazioni in cui prevalgono i rapporti con «quelli di lei» sia altre in cui invece prevalgono i rapporti con «quelli di lui», a prescindere dal cognome.
Lo stesso uso del cognome e la sua trasmissione da una generazione all’altra si è stabilizzato in età moderna per motivi prevalentemente amministrativi e ha conosciuto vicende diverse nei vari Paesi. In alcuni, ad esempio in Spagna, la trasmissione del doppio cognome - materno e paterno - è antichissima e rimane tuttora. Nel passato era un uso rinvenibile anche in alcune zone della Sardegna. In entrambi i casi, certamente non per qualche intervento diabolico dei laicisti, che ormai sembrano aver sostituito i comunisti nel ruolo di mangiabambini nell’immaginario teodem e teocon. E senza che ciò provocasse particolari indebolimenti all’istituto familiare e alle singole famiglie. Gli unici che sperimentano dei problemi, là dove è in uso il doppio cognome, sono gli studiosi, in particolare gli storici, perché è più difficile rintracciare le persone appartenenti a una stessa discendenza da una generazione all’altra. Ma è un problema che si pone sempre anche nel caso del cognome unico, nella misura in cui si perde il filo della continuità con la discendenza per via materna.
La cosa buffa è che Pera, per sostenere l’impossibilità etica (addirittura!) di attribuzione di un doppio cognome, abusa di riferimenti alla natura e di metafore naturalistiche. Ma se dovessimo tenerci alla natura, allora non ci sarebbe partita: solo la continuità con la madre è autoevidente («mater semper certa est, pater incertus») e il ruolo della madre nella riproduzione è di gran lunga maggiore di quello del padre. È così vero che gli storici hanno osservato che il matrimonio è stata l’istituzione per eccellenza della paternità, nel senso che tramite esso l’uomo si appropria (si appropriava) dei figli che la donna mette al mondo, dato che non ha (non aveva) altro modo per avere accesso alla generazione, in senso sociale e non solo biologico. Ma anche questo è cambiato, anche nel nostro Paese, prima che per lo sviluppo tecnologico (esame del Dna) per le modifiche di legge, che hanno consentito anche a chi è sposato di riconoscere un figlio avuto con un’altra persona. Inoltre, il fenomeno del divorzio e dei nuovi matrimoni cui apre ha dato luogo già ora a famiglie in cui i diversi componenti hanno cognomi diversi. Anzi, se i figli avessero anche il cognome della madre avrebbero qualche problema di identificazione di sé e di collocazione nello spazio sociale in meno, perché avrebbero sempre anche il cognome del genitore con cui vivono, padre o madre che sia.
La trasmissione del solo cognome paterno è un residuo simbolico di quell’atto di appropriazione unilaterale che cancella la dualità - non solo biologica, ma sociale - della generazione e delle lunghe catene generazionali. Trasmettere anche il cognome materno è anch’esso un atto simbolico, di segno opposto: mantiene aperta e rende esplicita la dualità come garanzia della continuità nel tempo e come radice che si rinnova ogni generazione. Si può non essere d’accordo, o non ritenerla una priorità; ma, per favore, evitiamo di evocare i soliti foschi scenari di attacco alla famiglia.