Antropologia, Storia e Diritto. Donne e Uomini....

PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici. Una riflessione di Eva Cantarella - e una nota di Federico La Sala

lunedì 28 aprile 2008.
 


-  Una nuova sintesi tra emozione e ragione. La lettura
-  tradizionale dell’assoluzione del matricida Oreste e
-  l’esempio del Sudafrica

-  Il mito che cancella la giustizia maschile

-  Dalla tragedia classica di Clitennestra l’idea di
-  un diritto in grado di riconciliare uomini e donne

-  di Eva Cantarella(Corriere della Sera, 28.04.08)

Crudele, infida, violenta, adultera e assassina: il prototipo dell’infamia femminile. Questa era la fama di Clitennestra presso i greci, consolidata nei secoli dalla messa in scena, ad Atene, nel 458 a.C., dell’Orestea di Eschilo.

La storia è nota: nell’Agamennone,la prima tragedia della trilogia, Clitennestra, durante l’assenza del marito, diventa l’amante di Egisto, e quando Agamennone torna da Troia lo uccide, con la complicità dell’amante. Nella seconda, le Coefore, suo figlio Oreste ordisce, con la sorella Elettra, il piano per uccidere la madre ed Egisto. Nella terza, le Eumenidi, dopo aver realizzato il piano, Oreste è inseguito dalle mostruose Erinni, incitate dallo spettro di Clitennestra, assetato di vendetta. Per risolvere il caso, la dea Atena istituisce il primo tribunale della storia ateniese, l’Areopago, incaricato di giudicarlo: l’era della vendetta è finita per sempre, è nato il mondo del diritto.

Torniamo a Clitennestra: nelle riletture moderne, è molto diversa dall’immagine che i greci ci hanno tramandato. Per le femministe è una donna indomita, dignitosa, capace di opporsi all’infelicità cui le donne sono condannate in quella polis che un grande antichista ha definito «un club di uomini». E a partire dalla sua storia si pongono due domande: continua a esistere, oggi, la violenza di genere che arma la mano di Clitennestra? Quali sono i possibili obiettivi di una politica di riconversione del rapporto uomo/donna? Ma per capire perché Clitennestra diventa il personaggio attorno al quale si organizzano queste riflessioni è necessario andare oltre la sua morte, e seguire gli esiti del processo di Oreste.

La prima sentenza dell’Areopago, infatti, afferma un principio destinato a segnare per secoli il rapporto fra generi: Oreste viene assolto perché «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...». [EUMENIDI,657 SGG. ].

Inserita nel lungo dibattito greco sulla riproduzione, l’ipotesi del ruolo secondario della madre viene ribadita da Aristotele, al quale dobbiamo una teoria sulla riproduzione che codifica, su basi scientifiche, l’identificazione della donna con la materia e dell’uomo con lo spirito. Anche le donne, spiega Aristotele, hanno un ruolo nella riproduzione: accanto allo sperma, alla formazione dell’embrione concorre il sangue mestruale, ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue altro non è che il cibo non espulso dall’organismo, trasformato dal calore: ma la donna, meno calda dell’uomo, non può compiere l’ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. Nella riproduzione, dunque, è il seme maschile che «cuoce» il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere. Anche se indispensabile, pertanto, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva; l’apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creativo.

In Aristotele, insomma, troviamo una teoria delle differenza tra generi destinata a durare per secoli, che traduce la «differenza» in inferiorità: ecco perché la storia di Clitennestra è l’archetipo che consente meglio di ogni altro di interrogarsi sul rapporto uomo/donna. Nel mito in cui la sua storia è inserita la teorizzazione della inferiorità e subalternità femminile è parte integrante ed essenziale del processo che porta alla nascita del diritto e dello Stato.

E veniamo così alle Clitennestre moderne. Le loro storie non sono meno drammatiche di quelle dell’archetipo. Penso a due esempi molto diversi fra loro, e lontani nel tempo: la Clitennestra di Dacia Maraini (I sogni di Clitennestra, Bompiani 1981) ha perso la forza di ribellarsi, e finisce in un manicomio: la follia, spiega l’autrice in un’intervista del 1984, è la conseguenza della impossibilità delle donne di adattarsi a un mondo che non è fatto per loro. La Clitennestra di Valeria Parrella (Il verdetto, Bompiani 2007) è vittima-complice di Agamennone, senza speranza alcuna di salvezza: versando il sangue del marito, dichiara, ha versato il suo stesso sangue. Danno molto a pensare, queste Clitennestre, e varrebbe la pena discuterne. Ma ragioni di spazio costringono a rinunziarvi per seguire il discorso sulle strategie di riconversione del rapporto.

Oltre alle riflessioni femministe (prevalentemente orientate verso ipotesi di tipo conciliatorio), è importante ricordare alcune recenti riflessioni sul diritto. Lo abbiamo già detto, nell’Orestea la nascita del diritto è legata alla sconfitta della parte femminile e dunque emotiva del mondo.

Ma recentemente l’idea che il diritto sia e debba essere solo ragione è stato messo in discussione anche da alcuni giuristi. Osserva ad esempio un esponente di spicco del movimento Law and literature, Paul Gewirtz, che indiscutibilmente, nell’Orestea, le forze della vendetta sono donne (Clitennestra, e le Erinni) mentre il diritto nascente è rappresentato da uomini (Apollo e i giudici, cui si aggiunge Atena, donna-uomo senza madre e senza marito).

Ma nella parte finale delle Eumenidi le Erinni, sconfitte, rinunziano al loro lato sanguinario e accettano di entrare nel sistema giudiziario, svolgendovi un ruolo: è la conciliazione dei generi sul piano del diritto. L’interpretazione secondo la quale l’assoluzione di Oreste segna la sconfitta della parte femminile del mondo è da rivedere. Il diritto non può essere solo ragione: per essere giusto, deve dare spazio alle emozioni.

Con le dovute differenze, questa visione del diritto fa pensare al ruolo assegnato alle emozioni dalla «restorative justice», la teoria di una giustizia «riparativa» emersa negli anni Novanta e teorizzata da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi religiosi e nuove figure professionali dette «mediatori di giustizia». Schematizzando all’estremo, per la giustizia riparativa la funzione del diritto è promuovere la riconciliazione tra chi ha commesso e chi ha subito un torto.

Per chiarire il concetto può essere utile ricordare che il caso più noto di giustizia riparativa è l’azione della Truth and Reconciliation Commission guidata da Desmond Tutu, incaricata di riportare l’ordine e la riconciliazione nello Stato Sudafricano. E uno degli aspetti fondamentali di questa giustizia è la considerazione data a temi quali le emozioni, negli ultimi anni sempre più al centro delle riflessioni da parte di tutti gli scienziati sociali.

Nel 2002, ad esempio, è stato dedicato a questi temi un numero speciale di Theoretical Criminology, ove si legge, tra l’altro, che «per avere un dibattito più razionale sulla giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale ». Infine, parlando di emozioni, è impossibile non ricordare le indagini a cavallo tra diritto e filosofia di Martha Nussbaum, cui si debbono libri celebri come L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino): per comprendere la realtà e per comprendere se stessi, dice Nussbaum, non basta la ragione. Emozioni come l’amore, l’ansia, la vergogna, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale, e contribuiscono alla elaborazione di una concezione normativa nella quale le persone sono intese non come mezzi, ma come fini e come agenti.

Rileggendo la storia di Clitennestra, si arriva non solo a mettere in discussione l’opposizione donna-emozione /uomo-ragione. Si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici. Si può arrivare persino a sognare una cultura i cui valori possono cancellare per sempre la necessità della scure.



IN NOME DELL’EMBRIONE, UNA VECCHIA E DIABOLICA ALLEANZA.

Una nota di Federico La Sala *

Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap.15 del Libro III dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della donna” (p. 91).

Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: “[...] fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme”(Françoise D’Eaubonne).

Dopo e nonostante questo - l’acquisizione che i soggetti sono due e che tutto avrebbe dovuto essere ripensato, si continua come prima e peggio di prima...

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Federico La Sala


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