I conquistadores dell’intelletto generale
I brevetti legittimano le «enclosures» del sapere operate dalle multinazionali. Allo stesso tempo favoriscono la biopirateria delle virtù nutrizionali e terapeutiche di alcune piante. L’appropriazione della conoscenza è giustificata attraverso le opere di John Locke, laddove il filosofo britannico parla del beneficio generale derivato dall’occupazione della «terra nullius». Oggi come allora il privato è sinonimo di innovazione e creatività, mentre il pubblico è il regno della pigrizia
di Ugo Mattei (il manifesto, 26 marzo 2008)
Una delle idee più radicate nella cultura occidentale è quella per cui la proprietà privata sia un «diritto naturale», qualcosa di tanto spontaneo da motivare perfino un bambino: «Questo gioco è mio!». Se da molto tempo ormai abbiamo smesso di interrogarci sulle ragioni per cui certi individui «hanno» mentre altri «non hanno», ciò è dovuto principalmente al fatto che abbiamo interiorizzato l’ideologia sui caratteri «naturali» e virtuosi del diritto di proprietà private indipente dalla sua distribuzione.
In questo siamo oggi tutti un po’ lockiani, perchè abbiamo «risolto» il problema di una società divisa fra possidenti e non possidenti voltandoci all’indietro, con una semplice teoria fondata sulle origini remote della proprietà privata e sulla catena dei trasferimenti fondata su una nozione di «giusto titolo» originario, che prescinde quindi dall’analisi della distribuzione odierna.
Come noto, il filosofo britannico John Locke fondava la propria giustificazione della proprietà privata individuale sulla naturale attività di occupazione di risorse comuni non ancora privatizzate e legittimava il fatto che il governo civile tutelasse (con risorse di tutti, quali la polizia o le corti di giustizia) tale occupazione individuale per due ordini di ragioni: da un lato, sostenendo che l’occupante immette il proprio lavoro, e quindi in parte se stesso, nella cosa bruta, rendendola così fruttifera e quindi benefica per tutti. D’altra parte, il filosofo considerava la naturale occupazione individuale legittima soltanto nella misura in cui rimanessero comuni (e quindi libere per l’occupazione altrui) altre risorse di simile natura e qualità. Con il tempo e l’affollarsi della società, questa seconda specificazione è stata dimenticata e fa oggi quasi sorridere se applicata agli immobili. Essa tuttavia mantiene un immutato potere legittimante criptico. Certo, non esiste (quasi) più terra nullius da occupare, almeno in Occidente, e gli esempi di scuola sull’acquisto della proprietà privata per occupazione sono ormai limitati alle conchiglie sul lido del mare.
Economia dell’innovazione
Nondimeno, gran parte dell’«economia dell’innovazione» ci ha quasi ipnotizzati convincendoci che grazie al progresso tecnologico, la «crescita» possa continuare in eterno sicchè le dimensioni della torta (Pil, il prodotto interno lordo) siano la sola cosa di cui valga la pena di preoccuparsi: «Finirà il petrolio? Inventeremo la fusione fredda!». La presente generazione continui felice a bruciarlo alla guida dei suoi Suv perchè continuando a crescere l’economia, le prossime generazioni inventeranno nuove «risorse comuni» da privatizzare. Della distribuzione non vale la pena di preoccuparsi. Il benessere di tutti seguirà, automatico, alla diffusione geografica dello sviluppo e della tecnologia occidentale.
La teoria «naturalistica» dell’occupazione che lega la proprietà private al lavoro, all’ innovazione e alla stessa identità dell’individuo, non giustifica quindi oggi soltanto attività bucoliche e economicamente marginali quali la raccolta delle conchiglie, dei funghi, o magari la caccia e la pesca. Essa continua a offrire una potente legittimazione ideologica a favore del privato rispetto al pubblico, descrivendo soltanto il primo come luogo virtuoso in cui l’individuo mette in gioco se stesso, lavora, rischia, investe, crea, innova. In questa luce, il pubblico è il luogo della pigrizia, della scarsa o nulla produzione di valore aggiunto, delle risorse abbandonate a se stesse e non «messe in valore» perchè nessun individuo, se la privatizzazione non è consentita, vi introduce lavoro ed investimento identitario.
L’imagine è suggestiva e profondamente legata all’idea forte, protoilluminista, per cui sia un bene che l’uomo domi la natura, in particolare la terra. La virtù della terra privatizzata è simboleggiata dalle campagne inglesi, successive alle enclosures ben arate e con confini perfettamente tracciati. La terra non domata dalla proprietà private sarà invece selvatica, boscosa, piena di sterpaglia, «inutile».
Tale ideologia, oltre ad essere primitiva ed etnocentrica, risulta infantile nel suo individualismo di fondo, perchè si basa su irreealistiche premesse filosofiche, quale quelle del Robinson Crosue discusso dal teorico libertario Robert Nozick (la verità è invece che un uomo solo, in natura, lungi dall’occupare, muore perchè soltanto la cooperazione di specie ha consentito la sopravvivenza originaria e quindi la proprietà in origine non poteva che essere del gruppo).
Lo spettacolo della ricchezza
L’ideologia della proprietà privata si basa su una concezione riduttiva e semplificata del rapporto fra individuo proprietario (il soggetto) e l’oggetto del suo possesso. Essa, già poco adatta a cogliere la complessità del rapporto fra un individuo ed un bene materiale e tangibile (la terra, un libro, un piatto di spaghetti) mostra i suoi limiti teorici di fondo, ma al contempo la sua potenza suggestive ed ideologica nel momento in cui viene utilizzata per descrivere e gestire rapporti sociali del mondo che stiamo vivendo.
Oggi infatti la forma della ricchezza appropriabile è sempre meno quella di beni tangibili e sempre più quella delle immagini, dell’informazione, degli strumenti finanziari complessi, delle idee innovative, in una parola della «ricchezza spettacolo» piuttosto che di quella tangibile. Ma la retorica e gli strumenti intellettuali che ne giustificano il controllo esclusivo in capo ad alcuni privati piuttosto che il loro godimento in commune non sono mutati affatto.
A chi appartiene la mitica foto scattata il 16 ottobre del 1968 a Città del Messico e ritraente Tommie Smith e John Carlos con il pugno guantato delle black panthers dopo il trionfo nei 200 piani? al fotografo? agli atleti? al nostro immaginario collettivo? Chi ha «inventato» l’uso igienico della pianta di neem considerate da generazioni di indiani la «farmacia del villaggio»? I ricchi proventi che le multinazionali del dentifricio derivano dal suo brevetto in Florida a chi dovrebbero appartenere? Alla comunità che utilizzava la pianta per igiene orale e che oggi non può più permettersela perchè i prezzi sono saliti alle stelle? O ai ricercatori che hanno «scoperto» questo antico uso? E che dire della pianta di Maca, da secoli utilizzata delle popolazioni andine e che oggi contende (appositamente brevettato) una fetta del ricco mercato dei prodotti erettili maschili vantando la propria naturalezza? Chi ha inventato la tradizione di ricerca matematica di base, indispensabile radice di tanti miracoli dell’informatica moderna che, brevettati, riempiono le tasche di Bill Gates? E che dire delle nuove frontiere di Internet, quei domain names che si possono «naturalmente» occupare pagando «appena» venti dollari (lo stipendio mensile di qualche miliardo di persone) e connettendosi in rete (un privilegio di un’infima minoranza degli umani)?
Aborigeni e Wto
Sono, queste, domande ormai assai semplici per il mainstream giuridico economico e politico del mondo globale che, grazie alla vecchia ideologia individualistica, fondata su una nozione apparentemente naturale, minima e virtuosa di proprietà privata, come fonte della creatività e laboriosità individuale, trova nelle regole della «proprietà intellettuale» codificate negli accordi Trips («Trade Related Aspects of Intellectual Property») collegati all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) la risposta ad ogni dubbio su chi sia o debba essere il «proprietario» dotato del potere di escludere tutti gli altri.
Colpisce l’uso della medesima retorica del progresso, che legittimò giuridicamente il saccheggio delle terre nullius, che gli Amerindiani sfruttavano collettivamente ed in modo ecologicamente compatibile, non conoscendo l’idea che la terra possa appartenere all’uomo.
Gli Amerindiani, infatti, credevano infatti che, insieme a tutte le altre specie animali e vegetali, appartenevano alla terra, così come ad essa ancor oggi appartengono i vari lignaggi africani in cui i viventi ricevono dagli avi il mandato a mantenere la terra nell’interesse delle generazioni future. Il rapporto fra soggetto ed oggetto può presentarsi capovolto e non è affatto detto che capovolto non debba essere anche il rapporto fra privato e publico, se soltanto si sposasse una logica un po’ più attenta al lungo periodo e non una dettata dalle scadenze elettorali o dal rendiconto trimestrale con cui le corporations comunicano con gli azionisti.
Proprio come allora i conquistadores consideravano prova della natura selvaggia delle popolazioni aborigine il non conoscere la proprietà privata, oggi la comunità internazionale esercita pressioni poderose a favore dell’appropriabilità privata della terra in Africa e delle idee in Cina.
La retorica utilizzata dagli apparati politici ed ideologici dell’Occidente dominante è anche oggi, come allora, quella dell’innovazione, del progresso e dello sviluppo. Molti africani tradizionali resistono o cercano di resistere alla vendita dei loro campi alla Monsanto, che corrompe il sistema per acquistarli e sperimentare l’innovazione «creativa» degli Ogm, che le consentirà di escludere pratiche collettive antichissime quali la selezione e lo scambio delle sementi. Similmente, molti cinesi sembrano ancora credere nella massima confuciana per cui «rubare un libro è una violazione elegante», non concependo l’idea che la cultura, prodotta da tutti, possa essere racchiusa in uno strumento accessibile soltanto a chi possa pagare per possederlo.
Saccheggio oligopolistico
Tali concezioni culturali, diverse dal «naturale» e virtuoso appetito acquisitivo lockiano che fonda l’intera scienza economica dominante, (inclusa la sua teoria della proprietà intellettuale come «monopolio virtuoso») secondo cui nessun individuo creerebbe se non incentivato dalla speranza di una compensazione materiale per il proprio sforzo di creatività, sono ben documente dalla letteratura antropologica.
Etnie recessive ma assai sagge quali i Kayapo dell’Amazzonia, non credono che la conoscenza sia il prodotto dell’uomo ma della natura. Inoltre, secondo loro, la conoscenza è sempre intergenerazionale non potendo mai appartenere soltanto alla generazione presente. Essa è sempre ricevuta liberamente e va liberamente tramandata di generazione in generazione. Certo non può esser proprietà privata di un individuo che, anche qualora intelligentissimo ed intuitivo, deve al gruppo la sua intelligenza e a beneficio di questo devono ricaderne i frutti che del resto non sarebbe esistiti se qualcuno non gli avesse insegnato le basi.
Ma il rozzo semplicismo delle teoriche dominanti sulla proprietà intellettuale viene smascherato anche dalle frontiere della conoscenza tecnologica, dove prodotti come l’enciclopedia Wikipedia o il software Linux confutano senza appello le basi motivazionali della teoria lockiana della proprietà.
Una domanda sorge spontanea: se è stato così facile trasferire la retorica della proprietà privata dal mondo materiale a quello delle idee, non dovrebbe essere altrettanto facile tornare indietro, facendo tesoro delle contraddizioni teoriche che l’individualismo proprietario mostra quando esteso al mondo delle idee al fine di travolgerne la funzione di legittimazione della proprietà privata mal distribuita in tutte le sue forme?
Forse allora si capirebbe che la privatizzazione, lungi dal garantire creatività, virtù ed ordine giuridico altro non è che una forma, assai poco sofisticata di saccheggio oligopolistico degli spazi pubblici, per la semplice ragione che un mercato competitivo fra pari non esiste, nè potrà mai esistere, se non nella retorica incolta di qualche promessa elettorale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"Deus caritas est". Il Logo del Grande Mercante...
IL LOGO DELLA "SAPIENZA", L’UMANITA’, E L’ACQUA...
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
Crusoe alla deriva nella «natura» dell’asservimento
Riproposto un saggio di Alfonso Iacono che indaga le immagini dell’uomo isolato in Defoe, Turgot e Adam Smith. Nella solitudine dello stato di natura Robinson sopravvive grazie ai suoi utensili, eredità storica e lavoro cristallizzato della società europea. E grazie al fucile l’incontro tra il «borghese» e il «selvaggio» avviene sotto l’egida del dominio
di SANDRO CHIGNOLA (il manifesto, 7.04.2004)
Nel discorso sul sociale, o del sociale, è spesso implicito un residuo naturalista. Si tratti dell’apologetica sulle dinamiche di autoregolazione del mercato, delle retoriche della società civile o della supposta autoconsistenza del soggetto che la moderna teoria erige al centro dei processi di socializzazione politica, ciò che viene implicitamente assunto è che esista una sorta di «natura» della società e che quest’ultima sia prefigurata negli individui che in essa portano a esecuzione un’innata predisposizione sociale. Viene con ciò rimosso l’effetto di realtà con il quale categorie e concetti della scienza politica, discipline dell’economia, saperi del diritto, costruiscono il rapporto tra gli uomini, stabilizzano i loro comportamenti, rendono lineari e neutri aspettative e bisogni, esorcizzano in via preventiva la possibilità stessa del conflitto tra di loro. Quella che il teorico identifica come la «natura» del sociale, rappresenta piuttosto il prodotto di una specifica immaginazione dell’uomo e dei rapporti che esso appare in grado di intessere con i suoi simili. Deve essere pensata come il prodotto di una messa in prospettiva storicamente determinata della verità. Quanto vale per i saperi e gli apparati categoriali del sociale - e cioè che concetti e quadri disciplinari del diritto, dell’economia e della politica debbano essere pensati in termini storici per poterne cogliere determinatezza e produttività in relazione all’organizzazione e alla stabilizzazione dei processi che essi contribuiscono ad innescare e a tenere in tensione -, vale anche per l’antropologia, assunta quale fondamento delle scienze umane.
Il tema dell’«uomo isolato» (Robinson il naufrago, il selvaggio allo stato naturale, l’individuo immaginato nel «rozzo stadio» della società che precede l’ingresso nella storia e che fornisce a filosofi e moralisti del secolo XVIII il paradigma sul quale basarsi per immaginare evoluzione e forme del rapporto sociale) svolge esattamente la cifra di questa ambivalenza. Da un lato presupposto per l’analisi di una condizione che si vuole naturale ed universale. Dall’altro effetto di una costruzione che universalizza di fatto una specifica immaginazione di che cosa l’uomo sia e di quali siano le sue priorità.
Alle concezioni filosofiche e ideologiche che restano implicite nell’immagine dell’uomo isolato e che di quest’ultima rappresentano, piuttosto, il non detto, e a come il tema venga di volta in volta declinandosi in Defoe, Turgot ed Adam Smith, Alfonso M. Iacono ha dedicato qualche anno fa un libro, che viene ora nuovamente messo a disposizione dei lettori (Il borghese e il selvaggio. L’immagine dell’uomo isolato nei paradigmi di Defoe, Turgot e Adam Smith, ETS, € 13).
Ciò che «robinsonate» e descrizioni di stati primitivi hanno in comune, è l’idea che l’astrazione in grado di isolare l’individuo rappresenti il modo migliore per analizzare i tratti fondamentali dei dispositivi di socializzazione che la scienza economica o la filosofia politica indagano nella sfera della cooperazione e dello scambio o che definiscono come «società». Far naufragare Robinson significa decostruire le prospettiva che assume come naturali le condizioni di socialità, isolare l’individuo come portatore di interessi e di bisogni e opporre a quest’ultimo la società come semplice strumento per la soddisfazione dei suoi fini privati. Significa, come per motivi diversi riconosceranno Rousseau e Böhm Bawerk, semplificare sino al loro grado minimo il rapporto tra uomini e cose per rendere esplicite le dinamiche del meccanismo che si tratta di ricostruire a partire dagli «istinti» naturali e dalle predisposizioni che è possibile rinvenire nell’individuo.
Una più attenta lettura del racconto di Defoe non dovrebbe tuttavia autorizzare una così drastica semplificazione. Ciò che permette infatti a Robinson di sopravvivere sull’isola (e di imporre il proprio dominio a Venerdì) è il lavoro sociale cristallizzato negli utensili che egli recupera dopo il naufragio. Fucile, munizioni, tenda e quant’altro Robinson può adoperare per rendersi più facile la vita non sono il prodotto dell’abilità imprenditoriale di un isolato free rider, ma rappresentano piuttosto ciò che egli eredita da un transito sociale già avvenuto e che risulta integralmente incorporato nelle condizioni che presiedono alla rappresentazione complessiva del suo isolamento e della sua solitudine.
La differenza tra le «robinsonate» degli economisti e di Rousseau e il Robinson di Defoe sta tutta dentro questa anticipazione. Per i primi, l’individuo isolato è la precondizione di un’uguaglianza formale tra coloro che sono implicati nello scambio e nella divisione del lavoro. Per Defoe invece il soggetto viene inevitabilmente pensato sulla base di un implicito che riverbera nel rapporto di puro dominio con il terrorizzato Venerdì e che la potenza dello scambio si trova a conoscere nella forma asimmetrica (e coloniale) dell’esplosione del primo colpo di fucile.
E’ questo asservimento, la dinamica di un riconoscimento permeato di rapporti di cooperazione e di forza che precedono l’incontro tra Robinson e Venerdì e che strutturano l’antropologia proprietaria dello stesso individuo postulato come isolato, il non detto implicito nella rappresentazione settecentesca dello stato di natura. La «naturalizzazione» dei rapporti tra gli individui muove da una immaginazione che introietta nel dispositivo dello scambio il tema dell’alterità, identificandola senza resto al ruolo di strumento per il perseguimento degli scopi privati del singolo e che universalizza la forma di sfruttamento propria al modo di produzione capitalista.
Questa naturalizzazione e questa universalizzazione di un modello antropologico costruito sul primato della produzione e dello scambio di merci e che privilegia la dimensione strumentale del rapporto di pura utilità tra uomini e cose, determinano anche il quadro di una specifica visione della storia e della sua evoluzione. In Turgot e in Adam Smith il «rozzo stadio dell’umanità» definisce il presupposto per una rappresentazione in termini stadiali del progresso storico che tende a postulare retrospettivamente come necessario, e come assiologicamente connotato in termini comparativisticamente positivi, il sistema di rapporti e di valori propri alla borghesia europea in ascesa.
La definizione del cominciamento della storia in uno stato selvaggio che l’Europa ha da tempo abbandonato e che consente di aprire uno spazio comparativo con civiltà altre, il cui presente disegna, per riprendere un tema blochiano che torna non soltanto in Reinhart Koselleck, autore citato da Iacono, ma anche in un teorico del postcolonialismo come Dipesh Chakrabarty, la contemporaneità del non contemporaneo, rappresenta la retroproiezione di un’idea orientata di sviluppo che agisce sul modo in cui viene interpretata la naturale predisposizione dell’individuo a rapporti improntati allo scambio e all’accumulazione e che permette di «primitivizzare», aggiogandole con ciò alla dipendenza da un unico decorso storico, forme sociali e civiltà percepite come esotiche o come differenti. Questa differenza viene così pensata come effetto di una lacuna, di un ritardo, entro la linea ininterrotta di un progresso che viene definito a partire dal presente normativo della società occidentale, il cui successo viene identificato con il sistema di rapporti evolutosi attraverso la divisione del lavoro e l’appropriazione della natura. E il non contemporaneo, il primitivo, diventano quello che la comparazione restituisce come subalterno, dominato e dominabile.
La finzione retorica di un «rozzo stadio della società» permette di rendere visibile in Adam Smith e Turgot ciò che l’intelligenza borghese tende di per sé a tacere: il fatto che la condizione sociale, omologata alla divisione del lavoro, venga supposta come il semplice mezzo attraverso il quale il singolo perviene alla realizzazione degli scopi privati di un’azione che incontra gli altri solo come entità utilizzabili. Che il soggetto maschio, bianco ed europeo, immagini se stesso come l’unica espressione possibile dell’individualità in tutti i sistemi sociali.
Sono queste specificazioni, riflesso di una struttura del dominio che attraversa l’intero spettro della storia, il rimosso dello stato di natura. Il moderno soggetto di diritto viene pensato a partire da un lavoro di astrazione, che suppone di rendere trasparenti i meccanismi e le dinamiche che spingono naturalmente il processo di socializzazione. E che pensa il soggetto a partire da una formalizzazione in grado di mettere a tacere il semplice fatto che quella che viene universalizzata come la condizione naturale dell’uomo viene invece totalitaristicamente pensata muovendo da quadri categoriali e concettuali che si sono storicamente evoluti come puri rapporti di forza. Quegli stessi rapporti di sfruttamento e di dominio che striano l’apparente levigatezza dello spazio globale.
La globalizzazione e il potere dell’Occidente spiegati con occhio critico da una scienziata
di Vandana Shiva (la Repubblica/Almanacco dei libri, 29.03.2008, pp. 48-49)
I capi delle corporation e dei governi occidentali hanno imposto al mondo la globalizzazione promettendo pace e prosperità. E invece ci troviamo alle prese con la guerra e la crisi economica. La prosperità si è rivelata effimera, e le sicurezze economiche di base per popoli e paesi stanno rapidamente scomparendo. Cominciano a verificarsi casi di morte per fame in paesi come l’Argentina, dove questo problema non era mai esistito. La fame è tornata a colpire paesi come l’India, che aveva superato carestie - come quella che nel 1942, sotto il regime coloniale, uccise due milioni di persone - e garantito la sicurezza alimentare attraverso politiche di intervento pubblico elaborate democraticamente. Persino le economie ricche di Stati Uniti, Europa e Giappone stanno vivendo una fase di declino. La globalizzazione ha chiaramente fallito l’obiettivo di migliorare le condizioni dei cittadini e dei paesi. Se è vero che la globalizzazione ha aiutato alcune corporation ad ampliare i loro profitti e i loro mercati, molte altre aziende, tra cui Aol Time Warner ed Enron, hanno fatto bancarotta o hanno perso valore. La via della globalizzazione si è rivelata una ricetta insostenibile per i ricchi e causa di impoverimento e disgregazione sociale per i poveri.
L’altra promessa della globalizzazione era la pace, e invece ne abbiamo ereditato solo terrorismo e guerra. La pace sarebbe dovuta scaturire da una accresciuta prosperità globale ottenuta attraverso la globalizzazione. La realtà che si dispiega sotto i nostri occhi, invece, è quella della povertà; l’insicurezza economica e l’esclusione creano le condizioni per lo sviluppo del terrorismo e del fondamentalismo. L’esclusione economica e politica, insieme allo sgretolamento della sovranità economica dei singoli stati, sta spingendo molti giovani verso il terrorismo e la violenza quali strumenti per conseguire i loro obiettivi. Il venir meno dell’autodeterminazione economica degli stati nazionali e l’estendersi dell’insicurezza economica finiscono per trasformarsi in un terreno fertile per la crescita di gruppi politici fondamentalisti di estrema destra che sfruttano la realtà dell’insicurezza economica per attizzare il fuoco dell’insicurezza culturale. Questi, come mostra il caso dei sostenitori dell’hindutva nel Gujarat, riempiono il vuoto lasciato dal crollo del nazionalismo economico e della sovranità economica con un programma pseudonazionalista improntato al "nazionalismo culturale". A livello globale, la retorica dello "scontro di civiltà" proposta da Samuel Huntington, insieme alla guerra contro l’islam, svolge la stessa funzione assolta a livello nazionale dai programmi politici fondati sul nazionalismo culturale e sull’ideologia fondamentalista. Analizzando la crescita delle ideologie fondamentaliste, se ne osservano due forme che paiono convergere, rafforzandosi e sostenendosi a vicenda. La prima è il fondamentalismo liberista della globalizzazione. Questo tipo di fondamentalismo ridefinisce ogni forma di vita in termini di merce, la società in termini economici, e il mercato come mezzo e fine dell’iniziativa umana. Per essi, il mercato è l’unico strumento adatto alla distribuzione di cibo, acqua, salute, istruzione e altre necessità essenziali. Il mercato diventa l’unico criterio organizzativo e amministrativo e si trasforma in metro della nostra umanità. L’appartenenza al genere umano non conferisce più i fondamentali diritti scolpiti in tutte le costituzioni nazionali e nella Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu.
Il fatto di venir considerati come esseri umani dipende dalla nostra capacità di "acquistare" ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. In questo tipo di mercato, tutte le cose necessarie alla sopravvivenza - acqua, cibo, salute e sapere - si sono trasformate in merci controllate da una manciata di corporation. Per effetto della globalizzazione, tutto è merce, tutto ha un prezzo. Nulla è sacro. Non esistono più i diritti fondamentali del cittadino né i doveri fondamentali dei governi.
Il fondamentalismo del mercato si fonda, a sua volta, su altri due tipi di fondamentalismo: quello tecnologico e quello del commercio, che si caratterizzano sempre più chiaramente come gli strumenti essenziali di questo nuovo totalitarismo. Storicamente, l’uso della tecnologia è sempre stato in contrasto con i fini e le dottrine della religione. Eppure, la tecnologia e l’ideologia religiosa avulse dal loro contesto sociale ed ecologico e da un sistema di regole finiscono per diventare entrambe strumenti di guerra e militarizzazione. In questo senso, la guerra all’Iraq è stata, al contempo, il dispiegarsi di una nuova crociata religiosa in nome del fondamentalismo cristiano e una prova di forza fondata sulle "bombe intelligenti" e sulle tecnologie digitali. I neocon di Washington sono allo stesso tempo fondamentalisti religiosi e tecnologici. Il fondamentalismo rende irrilevanti le categorie di tradizione e modernità; come principio organizzativo, le ideologie fondamentaliste scelgono piuttosto un criterio di esclusione/inclusione.
Il fondamentalismo di mercato della globalizzazione - con l’esclusione economica che comporta - dà origine a una politica di esclusione. Questa viene rafforzata e sostenuta da partiti politici fautori del fondamentalismo, della xenofobia, della pulizia etnica e del rafforzamento del patriarcato e delle caste. La cultura della mercificazione ha portato a un aumento della violenza contro le donne in ogni sua forma, da quella domestica a quella sessuale, dall’aborto selettivo per i feti femminili alla tratta vera e propria. La globalizzazione, che nasce come progetto patriarcale, ha perciò rafforzato l’esclusione patriarcale. Le atrocità commesse dalle caste superiori ai danni dei dalit (gli "intoccabili") si sono intensificate per via del nuovo potere conferito dalla globalizzazione alle caste superiori che hanno ottenuto l’accesso al mercato globale e puntano a usurpare i poveri e gli emarginati - soprattutto dalit e popolazioni tribali - per sfruttare le loro risorse a fini commerciali. Le leggi di riforma agraria che avevano reso inalienabile il diritto dei dalit alla terra, sono state revocate. Il devastante impatto sociale ed economico della globalizzazione colpisce in primo luogo le donne, i dalit, le popolazioni tribali e le minoranze in genere. Benché nuovi movimenti di solidarietà - come quello del popolo indiano contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) - stiano forgiando alleanze tra movimenti politici diversi, questi sono sottoposti al violentissimo attacco della politica dell’esclusione.
L’insicurezza e le inevitabili ricadute della globalizzazione accrescono la vulnerabilità dei cittadini nei confronti delle politiche che teorizzano l’esclusione. Per chi esercita o cerca il potere, la politica dell’esclusione sta diventando una necessità politica: va a colmare il vuoto creato dalla crisi della sovranità economica, del welfare state e di una politica fondata sui diritti economici per tutti, sostituendovi una politica dell’identità. Per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi della globalizzazione - la mancanza di lavoro, di mezzi di sostentamento e di beni essenziali - il fondamentalismo e la xenofobia intervengono come strumento della globalizzazione capitalista. Dividono, distolgono e distraggono la gente garantendo al progetto di globalizzazione una sorta di immunità. Una forma di nazionalismo culturale, brandito a sostegno della globalizzazione economica e della dittatura del capitale, va così a sostituire la sovranità economica e le idee di nazionalismo economico e di democrazia a essa collegate.
Gli indiani si sono ripetutamente espressi contro la globalizzazione e contro la liberalizzazione del commercio che crea dieci milioni di nuovi disoccupati ogni anno, impoverisce i contadini e toglie diritti a chi è già emarginato. Tuttavia, nella campagna elettorale del 2002 in Gujarat, dopo il massacro di duemila musulmani, i politici hanno trascurato del tutto i problemi fondamentali dei cittadini per insistere sul conflitto tra maggioranza e minoranza. L’aritmetica ha garantito la vittoria al partito che aveva creato un solco tra maggioranza e minoranza e seminato odio e paura tra la popolazione civile con stupri e omicidi. Questo programma violento e settario è attualmente in fase di sviluppo in vista di tutte le future consultazioni elettorali.
E mentre erano in corso i massacri, e l’attenzione nazionale era concentrata sulle contromisure per frenare il conflitto tra comunità e il fondamentalismo, il processo di globalizzazione ha subito una forte accelerazione. Si è dato il via libera agli organismi geneticamente modificati; sono state modificate le leggi sui brevetti per consentire di brevettare gli esseri viventi; è stata adottata una nuova politica dell’acqua basata sulla privatizzazione delle risorse, mentre altre politiche mirate sono andate a smantellare la sicurezza del lavoro e alimentare delle popolazioni. La legge finanziaria indiana del 2001 ha ulteriormente promosso gli obiettivi della globalizzazione sfruttando il diversivo del conflitto tra comunità e fedi religiose per dare scacco all’opposizione democratica.
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la guerra contro l’Iraq è diventata un ottimo diversivo per distogliere l’attenzione da temi quali la crescita della disoccupazione e dell’insicurezza economica e ha promosso una politica dell’odio utile quale indiretto sostegno al fallimentare progetto della globalizzazione.
Abbiamo bisogno di una nuova politica di solidarietà e di pace, che affronti al contempo la violenza e l’esclusione prodotte dalla globalizzazione, la violenza del terrorismo e del fondamentalismo e quella della guerra. Queste diverse forme di violenza e di fondamentalismo hanno radici comuni e richiedono perciò una risposta comune. La globalizzazione è refrattaria al decentramento economico, alla democrazia economica e alla diversità economica. Il terrorismo e il fondamentalismo non tollerano la diversità culturale. E la macchina della guerra non ammette l’"altro" né la risoluzione pacifica dei conflitti.
La nostra risposta alla globalizzazione deve proteggere le nostre diverse economie a livello nazionale e locale. La risposta al fondamentalismo consiste nel valorizzare le nostre diversità culturali. La risposta alla guerra sta nel riconoscimento dell’"altro" non in quanto minaccia, bensì come precondizione del nostro stesso essere.
Immaginate quanto sarebbe diverso il mondo se si basasse su una filosofia di reciproca interdipendenza, invece che sulla filosofia attualmente dominante per cui l’esistenza dell’altro è vista come minaccia alla propria.
Se il presidente Bush riuscisse a vedere il Tigri, l’Eufrate e la civiltà mesopotamica come il luogo d’origine della sua stessa civiltà, se solo riconoscesse le nostre comuni radici e la necessità di un’evoluzione comune, non si darebbe così tanto da fare per cancellare queste radici storiche con bombe teleguidate e armi di distruzione di massa. Se chi controlla il capitale riuscisse a capire che la propria ricchezza incorpora la creatività della natura e la forza-lavoro umana, non stabilirebbe regole di mercato che distruggono la natura e le possibilità di sopravvivenza delle persone. Il fondamentalismo del mercato, però, e quello delle ideologie basate sull’odio e sull’intolleranza affondano le loro radici nella paura: paura dell’altro, delle sue capacità e creatività, della sua autonomia e sovranità.
Attualmente assistiamo ai peggiori esempi di violenza organizzata dell’umanità contro se stessa. E ciò accade perché abbiamo perso di vista le filosofie che promuovono l’inclusione, la compassione e la solidarietà. È questa la conseguenza più grave della globalizzazione: la distruzione della nostra capacità di essere umani. Recuperare la nostra umanità è indispensabile se vogliamo sperare di contrastare e sovvertire questo progetto inumano. Il dibattito sulla globalizzazione, in definitiva, non ha per tema il mercato né l’economia, bensì la nostra coscienza di appartenere tutti all’umanità, nonché il rischio di dimenticare quel che significa essere umani.
Traduzione di Gianni Pannofino
© il Saggiatore S. P. A., Milano 2008