La «lotta» di Camus: opporsi alla violenza con la parola
In volume tutte le corrispondenze dello scrittore per «Combat», rivista della Resistenza francese, nelle quali cercò di contrapporre una voce nitida alla Babele del terrore
DI FRANCESCO TOMATIS (Avvenire, 11.12.2010)*
«Attraverso i cinque continenti, negli anni a venire, verrà ingaggiata una lotta senza quartiere tra la violenza e la parola. È vero che le possibilità di vittoria della prima sono mille volte superiori a quelle della seconda. Ma ho sempre pensato che se chi spera nella condizione umana è un pazzo, chi dispera degli eventi è un vile. E ormai l’unico motivo d’onore sarà ingaggiare quella formidabile scommessa che deciderà una buona volta se le parole sono più forti delle pallottole». Concludeva così, il 30 novembre 1946 su ’Combat’, uno dei suoi incisivi interventi Albert Camus, il quale dall’agosto 1944 al giugno 1947 collaborò alla rivista della Resistenza francese.
A cinquant’anni dalla scomparsa dello scrittore e pensatore francese esce in Italia l’edizione critica completa dei suoi articoli usciti su ’Combat’. La raccolta è uno straordinario punto d’osservazione degli avvenimenti dell’epoca, visti certamente in diretta quotidiana, senza quindi la possibilità di visione d’insieme e maggiormente documentata, propria invece allo storico, tuttavia attraverso la profonda, indipendente, originale sensibilità giornalistica, etica, umana in genere del giovane scrittore, chiamato dalla propria coscienza alla ricerca di giustizia attraverso la difficile e rischiosa indagine di verità nella quotidiana prosa giornalistica.
Al di là delle molte pagine e discussioni memorabili, come il protratto dialogo e confronto con lo scrittore cattolico François Mauriac sui temi della giustizia e della carità, dell’epurazione o del perdono rispetto ai crimini commessi nel periodo bellico, oppure il compiacimento per il messaggio di papa Pio XII per il Natale del 1944, pur nel rammarico per non averlo potuto udire prima, in cui la democrazia è indicata quale forma politica capace di assicurare libertà ai popoli, o ancora il ricorrente richiamo alla trasformazione della rivolta in rivoluzione, innanzitutto morale, contro ogni ideologia, capitalista o nazista o comunista, quello che più colpisce, ricorrente seppur poco evidenziato, è l’impegno di Camus a formulare e «contrapporre parole chiare alla Babele del terrore ».
In un periodo di guerra mondiale fra differenti nazioni e persino di guerra civile fra concittadini, di lotta totale che non distinse milizie belligeranti e persone comuni, soldati armati da donne e bambini, ecco che l’impegno ad allestire un giornale clandestino come ’Combat’, che giunse sino alle 350.000 copie, comportò il rischio della vita non solo per creare una rete comunicativa fra resistenti, ma per ricercare, proprio nell’urgenza stessa della lotta, nel turbine obnubilante dell’azione e della violenza, parole chiare, nette, veritiere, responsabili, capaci di delineare un linguaggio propiziatore di vita anziché confusamente o tacitamente mortale.
È per Camus il linguaggio dell’uomo contro quello della propaganda ideologica, formulato personalmente ma condivisibile con ogni altro uomo, così da far incontrare e dialogare tutti senza che ciascuno debba rinunciare alle proprie differenze. Forse se, come confessa Tarrou ne La peste, «ho capito come tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro»: allora «basta dire la verità perché la menzogna stessa si sgonfi».
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QUESTA LOTTA VI RIGUARDA
Corrispondenze per ’Combat’ 1944-1947
Bompiani. Pagine 630. Euro 19 ,50
SUL TEMA, NEL NOSTRO TEMPO, NEL SITO SI CFR.:
DANTE 2021:
L’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E "UN DEBOLE FRULLO D’ALI" (A. CAMUS).
Se è vero, come è vero, che «Le grandi idee arrivano nel mondo con la gentilezza delle colombe. Se ascoltiamo bene, tra il frastuono degli imperi e delle nazioni, forse udiremo un debole frullo d’ali, il dolce fremito della vita e della speranza. Certi diranno, questa speranza risiede in una nazione; altri, in un uomo. Credo invece che essa sia ridestata, ravvivata, nutrita, da milioni di individui solitari, le cui azioni negano ogni giorno le frontiere e le implicanze più crude della storia» (come ha pensato e scritto Albert Camus), è altrettanto vero, perché gli "individui solitari" possano udire il debole frullo di ali, il dolce fremito della vita e della speranza, che è necessario riprendere e riconsiderare il tema della nascita (al di là della andrologia della tragedia tebana (Giocasta ed Edipo) e la riflessione e il lavoro su "l’una e l’altra Medea" (Pino Blasone) e, in prospettiva, riequilibrare il campo antropologico!
Venticinque secoli "a la ‘mpresa,/che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo": Dante (1321-2021) aveva ragione sul letargo (Par. XXXIII, 94-96) in cui l’umana società è ancora immersa. C’è solo da uscire dall’inferno e riprendere il cammino...
Il problema Medea è un nodo antropologico e filosofico più che millenario ed è un tentativo (come ha ben compreso e proposto Dante Alighieri) di uscire dall’inferno del gioco e giogo degli specchi.
Per venirne fuori (questione epocale) è bene ripercorre i passi dell’una e l’altra Medea e cercare di sciogliere l’enigma della sfinge e capire la tragica verita di "Euripide / Giasone"!
Ricordando che il padre di Ulisse, Laerte, era con gli Argonauti che andarono a riprendersi (questo sfugge a Christa Wolf) il vello d’oro dell’ariete, si può senz’altro pensare che dei versi sul tema (Par. XXXIII, 94-96) posti da Dante a conclusione del suo lavoro, della sua Commedia, ci sfugge proprio l’essenziale: che "esorcizzare la mitica Medea" non è possibile!
Tutta la teologia, la filosofia, l’antropologia è ancora ferma all’interpretazione dei sogni di Freud e non di Giuseppe! Michelangelo legando e collegando il "Laocoonte" e il "Tondo Doni" e il Mosè della Chiesa di San Pietro in Vincoli cosa ha pensato se non il problema Giuseppe?!
Federico La Sala
I segreti tra Camus e l’amante nelle lettere ritrovate dalla figlia
Una storia lunga sedici anni con l’attrice Maria Casarès parallela al matrimonio con Francine, finita solo con la morte
di Leonardo Martinelli (La Stampa, 14.11.2017)
Albert Camus salì su quel coupé dal motore grintoso, una Faciel Vega. Il suo editore Michel Gallimard ne andava così fiero. Si trovavano a Lourmarin, Sud profondo della Francia, nella dimora acquistata dallo scrittore con i soldi del Nobel: un rifugio per la sua famiglia, la moglie Francine e i due figli. Michel si propose di riportarlo a Parigi, un lungo viaggio sotto la pioggia che non finiranno mai: si schianteranno su un platano, poco prima di Fontainebleau. Era il 4 gennaio 1960. Quattro giorni prima di morire, Albert aveva scritto la sua ultima lettera all’amante Maria Casarès, attrice e diva ai tempi: «Sono così contento all’idea di rivederti che rido, scrivendo».
Un secolo dalla nascita di Camus, il 7 novembre 1913, Gallimard ha pubblicato la corrispondenza, finora segreta, tra lui e la Casarès: 865 lettere, dal 1944, l’inizio della loro storia, libera e appassionata, fino alla fine. Una costante è la fiducia reciproca e una maturità inaudita, nonostante le mille paure e le ripetute distanze. «L’ho deciso una volta per tutte - scrive lui -: saremo uniti per sempre. Queste non sono altro che ombre leggere. Passano. E resta il sole del nostro amore». «Ti amo irrimediabilmente - risponde lei -, come si ama il mare».
I due s’incontrarono il 19 marzo 1944, in una Parigi ancora occupata dai nazisti, a casa dello scrittore Michel Leiris. Camus sceglierà poi quella donna bruna e magra, dallo sguardo incandescente e la voce rauca, per interpretare Marta in Il malinteso, suo testo teatrale. Al termine di una serata a casa di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, Maria e Albert trascorreranno la loro prima notte d’amore: era la stessa dello sbarco in Normandia, tra il 5 e il 6 giugno. Lui aveva trent’anni, lei 21.
Lo scrittore viveva da solo a Parigi, mentre la moglie, Francine, pianista e matematica, era rimasta a Orano, in Algeria, a causa della guerra. Ma da lì a poco lo raggiungerà. Camus non sapeva scegliere. E poi nel 1945 nasceranno i due gemelli della coppia: Maria lo lascerà. Ma quattro anni dopo, ancora un 6 giugno, i due s’incontreranno per caso. Camminavano su Saint-Germain-des-Prés. La passione riprenderà il sopravvento, ormai per sempre. Albert, comunque, non abbandonerà mai Francine, pur lamentandosi delle sue depressioni nelle lettere a Maria: provava tenerezza (anche quello amore?) per la consorte. La Casarès sopporterà anche le altre amanti, soprattutto negli ultimi anni, pure un’attrice come Catherine Sellers, che inizierà a rubarle i ruoli nelle pièces teatrali di Camus.
Maria era la figlia dell’ultimo primo ministro della Spagna repubblicana: con l’inizio della guerra civile, era fuggito a Parigi. Determinata, nonostante il suo accento, la ragazza riuscirà a imporsi come interprete di film e drammi radiofonici, oltre a diventare una delle prime star del festival d’Avignone. Come diceva lei, con Albert condivideva « la vulnerabilità e la forza, entrambi frutto dell’esilio » (lui dall’Algeria).
Nelle lettere si scambiavano commenti sulle letture, spettegolavano sui circoli parigini alla moda, discorrevano della loro vita quotidiana (come lei arredava con gusto il suo appartamento con vista sui tetti di Parigi). Ma se Catherine Camus, figlia dello scrittore, ha deciso dopo tante reticenze di pubblicare questa corrispondenza, di cui era venuta in possesso, si deve al fatto che a tratti è pura letteratura.
Catherine ha raccontato di aver incontrato la Casarès negli Anni Ottanta, dopo la morte della madre, in un albergo di Nizza, dove la donna si trovava in tournée : «Passammo tutto il pomeriggio stese sul letto a mangiare cioccolato, come se ci conoscessimo da una vita ». Catherine ha rivelato che perfino Francine parlava con rispetto dell’amante del marito. «Le loro lettere - scrive la figlia di Camus nell’introduzione all’epistolario - fanno sì che la terra sia più vasta, lo spazio più luminoso e l’aria più leggera semplicemente perché loro due sono esistiti».
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA... *
La riforma della scuola è avere buoni professori
di Nuccio Ordine (Corriere della Sera, 03.09.2017)
Ora che le scuole riaprono dopo la pausa estiva, per capire la vera essenza dell’insegnamento bisognerebbe rileggere con attenzione la commovente lettera che Albert Camus - poche settimane dopo la vittoria del Nobel (19 novembre 1957) - scrisse al suo maestro di Algeri, Louis Germain: «Caro signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande che non ho né cercato, né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo».
Adesso che i riflettori rimarranno accesi ancora per qualche giorno sull’inizio del nuovo anno scolastico, sarebbe importante concentrare il dibattito su due figure essenziali: gli studenti e i professori. Eppure - dopo i numerosi «terremoti» che hanno scosso le fondamenta del nostro sistema educativo - sembra che la relazione maestro-allievo non occupi più quella centralità che dovrebbe avere. Ai professori, infatti, non si chiede di studiare e di preparare lezioni. Si chiede, al contrario, di svolgere funzioni burocratiche che finiscono per assorbire gran parte del loro tempo e del loro entusiasmo. Le ore dedicate a riempire carte su carte potrebbero essere invece investite per leggere classici, per approfondire le proprie conoscenze e per cercare di insegnare con passione.
Dopo decenni di devastanti tagli all’istruzione, l’unico importante investimento economico (un miliardo di euro) degli ultimi anni è stato destinato alla cosiddetta «scuola digitale», con l’illusione che le nuove tecnologie possano garantire un salto di qualità. Ma ne siamo veramente sicuri, in un momento in cui mancano le risorse destinate a riqualificare la qualità dell’insegnamento? A cosa serve un computer senza un buon docente? Il caos di ogni inizio anno e le incertezze del reclutamento dei professori stanno sotto gli occhi di tutti.
La «buona scuola» non la fanno né le lavagne connesse, né i tablet su ogni banco, né un’organizzazione manageriale degli istituti e ancor meno leggi che rendano l’istruzione ancella del mercato: la «buona scuola» la fanno solo e soltanto i buoni professori. Basterebbe leggere le dichiarazioni del presidente Macron per capire l’orientamento della Francia: non più di 12 alunni per classe nelle aree considerate a rischio «economicamente» e «socialmente», proprio per dare, attraverso uno straordinario potenziamento dei docenti, più centralità al rapporto diretto con gli studenti.
Dai professori bisognerebbe partire. Che fare? Come formarli? Come selezionarli? La nostra scuola non ha bisogno di ulteriori riforme. Non ha bisogno dell’alternanza scuola-lavoro così come viene applicata (le ore non sarebbe meglio investirle in conoscenze di base?). Non ha bisogno di commissioni che studiano la riammissione degli smartphone in classe (perché, al contrario, non aiutare gli studenti, che li usano tutto il giorno, a «disintossicarsi» e a vincere la «dipendenza»?) o che propongono la riduzione di un anno della scuola secondaria (la fretta non aiuta a formare alunni migliori: la frutta maturata con ritmi veloci non ha lo stesso sapore di quella che cresce sull’albero). La peggiore delle riforme con buoni professori darà buoni risultati. E, al contrario, la migliore delle riforme con pessimi professori darà pessimi risultati. C’è bisogno di un sistema di reclutamento che possa garantire un percorso chiaro e sicuro: ogni anno, a prescindere dal colore dei governi, un concorso nazionale (come si fa in molti Paesi). E non l’alea dei concorsoni decennali e dei percorsi improvvisati che hanno prodotto infinite tipologie di precari: una matassa talmente ingarbugliata che nessun miracoloso algoritmo arriverà a sbrogliare.
Decine e decine di migliaia di precari (con ormai un’età media veramente preoccupante) potranno entrare in classe con entusiasmo? Potranno insegnare con passione? Selezionare i buoni professori (eliminando completamente il precariato) e ridare dignità al lavoro di insegnante (anche sul piano economico, visto che gli stipendi italiani sono molto bassi rispetto alla media europea) è ormai una necessità. Solo così potremo riportare la scuola alla sua vera essenza, alla centralità del rapporto docente-allievo.
In alcune scuole del Nord e del Sud, ogni giorno, questo miracolo già accade. Riposa sulle spalle di singoli insegnanti appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti. Che cercano di far capire ai ragazzi che a scuola ci si iscrive soprattutto per diventare migliori e che la letteratura e le scienze non si studiano per prendere un voto, o per esercitare solo una professione, ma perché ci aiutano a vivere. Per fortuna, nonostante leggi e circolari assurde, non mancano fino ad oggi allievi che hanno visto cambiare la loro vita grazie all’incontro con un professore. Proprio come il maestro Germain, in Algeria, era riuscito a cambiare il destino di uno scolaro, orfano di padre e molto povero, come Albert Camus. Ma, se non si frena il declino, per quanti anni ancora la scuola potrà contare su quei docenti (ormai sempre più rari) in grado di compiere miracoli?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Parlare di scuola vera è sempre una buona cosa. Perché ancora oggi "non è mai troppo tardi".
SULLA SCUOLA, OGGI, BISOGNA ESSERE DI PARTE. "BUONI MAESTRI".
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Quando Camus ci insegnò che siamo noi “Lo straniero”
“L’incolmabile e insanabile solitudine dell’uomo per cui l’esistenza è solo qualcosa che accade”
“Esiste la bellezza ed esiste l’inferno per quanto possibile sono fedele a entrambi”
di Roberto Saviano (la Repubblica, 07.02.2015) *
ALBERT Camus in questi anni mi è stato accanto mentre mangiavo, dormivo, scrivevo. Accanto mentre mi disperavo. Accanto mentre cercavo brandelli di felicità. Era accanto a me quando sono stato troppo frettoloso in un giudizio, consigliandomi di rallentare, di riflettere meglio, di ponderare le mie parole, di pesarle.
Accanto a me mentre tenevo il punto contro l’idiozia estremista, in un’Italia che spesso fa dell’estremismo di maniera scudo, appartenenza, bandiera. Era vicino, silenzioso, costante ombra, amico gradito a cui poter chiedere cose e da cui poter ancora ottenere risposte. È così che accade quando scegli di dialogare con uno scrittore, e non importa che sia morto quasi vent’anni prima che tu nascessi.
Albert Camus ha misurato palmo a palmo il territorio in cui si muove un narratore, il suo limite doloroso e la sua grazia, ovvero le parole. Parole che non sconfiggeranno la fame, che non salveranno vite, che non uccideranno virus, ma lo scrittore non “lavora”, non “agisce” sul potere, piuttosto sulla responsabilità.
Camus sa che tutto ruota intorno a questo: responsabilità e ragionamento. Sarà impossibile migliorare il mondo - è la razionale presa d’atto - ma si potranno migliorare le vite delle persone che entrano in contatto con noi, e quindi quell’impossibilità come postulato può cadere.
La vita di Albert Camus è un romanzo che è possibile leggere in tutte le sue opere, vere e proprie tessere di un prezioso mosaico. Francese nato in Algeria. Francese che vive tra francesi d’oltremare. Francese che vive tra arabi. Francese che vive tra arabi che percepiscono le sue origini europee come un privilegio; eppure francese che proviene da una famiglia umile, di lavoratori.
Camus nella sua vita si sentirà straniero sempre e per tutti. Straniero in Algeria perché privilegiato, straniero tra francesi. Ma straniero anche e soprattutto per la sua condizione di uomo; quindi, in definitiva, straniero tra stranieri. Si oppose alla Guerra d’Algeria, alla pena di morte per gli indipendentisti, ma non sopportò mai l’ideologia del Fln (Front de libération nationale) algerino che vedeva nella Francia il nemico, in una Francia generica, come categoria in sé, rivolgendo la propria ira verso i francesi più prossimi, quelli fisicamente presenti in Algeria. Il bene e il male è difficile che stiano unilateralmente da una sola parte e le divisioni manichee in bianco e nero, buono e cattivo, giusto e ingiusto, vittima e carnefice tanto semplici da digerire, spesso sono altrettanto false e non spiegano in alcun modo la complessità della vita.
A Stoccolma, nel 1957, in occasione della consegna del premio Nobel, Camus partecipò a un incontro con giovani studenti. In quell’occasione uno studente algerino lo aggredì verbalmente e lui pronunciò, in risposta, una frase per cui la stampa francese di sinistra letteralmente lo crocifisse: «Amo mia madre e la giustizia, ma fra mia madre e la giustizia scelgo mia madre». Quello che Camus voleva dire era: se credete sia ingiusto che mia madre, perché francese ma da sempre modesta e lavoratrice, viva laddove ha sputato sangue e sudore, allora io sto con mia madre e contro la vostra giustizia.
Camus è straniero a tutto. La sua estraneità lo rende cittadino della riflessione continua. E quando nel ‘42 pubblica Lo straniero decide di fissare in volto il più complesso dei temi: l’estraneità dell’uomo alla società, all’universo intero. L’incolmabile e insanabile solitudine dell’uomo. Insomma, quando leggi Lo straniero, quando leggi del suo protagonista che per puro caso ammazza un arabo, quando leggi come tutto avvenga per fatalità, ti accorgi che Camus è riuscito in un’impresa impossibile: quella di descrivere l’esistenza come qualcosa che accade. E l’ha fatto non da uomo rinchiuso nei suoi demoni, non da uomo separato dal suo mondo, ma da uomo che vive pienamente la sua vita, e nonostante ciò ha compreso che la vita in fondo capita, senza ragione, senza colpa, semplicemente capita.
Ne Lo straniero Meursault non è Camus, ma è un uomo senza mappa e senza coordinate: non immorale ma perduto proprio come lo scrittore immagina l’uomo del suo tempo. Non ci piace Meursault, è apatico. Poi in un caldo pomeriggio avviene la nostra separazione definitiva dal personaggio, mentre cammina sulla spiaggia, sole negli occhi, ha uno scontro con un arabo e nella colluttazione gli spara, uccidendolo. Meursault viene arrestato e non cerca giustificazioni. Viene condannato a morte e non cerca conforto nella religione. Meursault infastidisce chi si aspetta - la quasi totalità dei lettori - una progressione della sua psicologia nel romanzo, chi vorrebbe che a un certo punto si svegliasse e urlasse al mondo il suo pentimento, che spiegasse le sue ragioni, che si giustificasse, che si difendesse. Invece Meursault quella condanna a morte tutto sommato se l’aspetta, ma non per coscienza: come non ha potuto decidere della sua nascita, allo stesso modo non potrà decidere della sua morte.
Lo straniero l’ho letto da adolescente e sin da allora ho fatto una riflessione che ha accompagnato il ricordo di quella lettura. Ho creduto che nell’estraneità che Meursault - che l’uomo - prova verso se stesso, verso l’umanità, verso l’universo, ci sia anche di che essere, di che sentirsi sollevati. Ho creduto di scorgere, e ancora vedo, nel sentirsi straniero, l’impossibilità di sentire fino in fondo il peso della responsabilità, perché la responsabilità è possibile sentirla solo quando si ha piena percezione, piena consapevolezza di ogni gesto, di ogni decisione. Ma se, invece, ciò che ti capita in gran parte avviene e basta, lo subisci, se non sei agente, ma sempre e solo agito, allora potrai andare al patibolo e le urla d’odio potranno fare da gradita compagnia. È la solitudine la gabbia in cui tutte le riflessioni di Albert Camus avvengono. Quella solitudine che è forse la vera carta universale di appartenenza al genere umano.
Non bisogna credere che l’opera di uno scrittore che affronta ai ferri corti la vita permetta poi di arrivare a facili soluzioni. Tutt’altro, è la complessità della vita a trovare spazio nelle pagine di Camus. E nella Peste esiste una risposta a Lo straniero , una risposta che chi ama Camus voleva, si aspettava. Una risposta che non consola ma spiega. Puoi fermare la malattia, ma non risolvi il problema. Nel mondo si muore lo stesso, si soffrirà lo stesso. Ma chi lavora e agisce per salvare, per pulire, per guarire forse non costruirà un mondo migliore, ma migliorerà il mondo in cui vive. «Esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi». Camus ha scritto queste parole che suonano diverse da «Amo mia madre e la giustizia, ma fra mia madre e la giustizia scelgo mia madre», eppure raccontano una stessa anima e uno stesso modo di sentire, vedere e vivere il mondo. Sono parole che restano sotto la pelle, sotto le unghie, incise sui timpani.
Rappresentano per Camus coordinate, la bussola nella sua vita e nei suoi scritti. E sono le coordinate che il lettore apprende nelle sue pagine. Coordinate di una navigazione che ci accompagneranno per tutta la vita.
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IL LIBRO Lo straniero di Albert Camus (Bompiani, trad. di S.C. Perroni, pagg. 160, euro 12).
Dall’introduzione a - Lo Straniero Copyright © 2-015, Roberto Saviano © 2-015 Bompiani / R-CS Libri S. p. A.
DISCOURS DE SUÈDE
1957
Ce discours a été prononcé, selon la tradition, à l’Hôtel de Ville de Stockholm, à la fin du banquet qui clôturait les cérémonies de l’attribution des prix Nobel.
Conférence du 14 décembre 1957
Cette conférence, sous le titre L’ARTISTE ET SON TEMPS, prononcée dans le grand amphithéâtre de l’Université d’Upsal.
Camus, punti fermi per evitare lo scontro di civiltà
Un testo inedito del 1946 del grande scrittore francese
di Albert Camus (Avvenire, 4 novembre 2013)
Oggi sappiamo che non esistono più isole e che le frontiere sono inutili. Sappiamo che in un mondo in continua accelerazione, nel quale l’Atlantico si attraversa in meno di un giorno e Mosca parla con Washington in poche ore, noi siamo costretti, a seconda dei casi, alla solidarietà o alla complicità.
Negli anni Quaranta una cosa l’abbiamo imparata: l’ingiuria fatta a uno studente di Praga colpiva allo stesso modo l’operaio di Clichy e il sangue sparso sulle rive di un fiume dell’Europa centrale doveva portare un contadino del Texas a versare il proprio sul suolo di quelle Ardenne che avrebbe visto per la prima volta.
Non c’era, come non c’è, una sola sofferenza isolata, una sola tortura in questo mondo, che non si ripercuota nella nostra vita di ogni giorno. Molti americani vorrebbero vivere rinchiusi nella loro società che considerano buona. Forse molti russi vorrebbero proseguire nell’esperienza statalista, separati dal mondo capitalista. Non possono, non lo potranno mai. Alla stessa stregua, nessun problema economico, per quanto appaia secondario, è risolvibile oggi al di fuori della solidarietà tra le nazioni. Il pane d’Europa è a Buenos Aires, le macchine utensili della Siberia sono fabbricate a Detroit.
Oggi la tragedia è collettiva. Sappiamo allora tutti, senz’ombra di dubbio, che il nuovo ordine che cerchiamo non può essere solo nazionale e neppure continentale, e soprattutto non può essere occidentale o orientale. Deve essere universale. Non è più possibile sperare in soluzioni parziali o in concessioni. Quello che viviamo è il compromesso, vale a dire l’angoscia per l’oggi e l’assassinio per domani.
Intanto, la velocità della storia e del mondo non fa che aumentare. I ventuno sordi, futuri criminali di guerra, che discutono oggi di pace, si scambiano noiosi dialoghi, tranquillamente seduti sul bordo della rapida che li trascina verso il baratro a mille chilometri all’ora. Sì, quest’ordine universale è l’unico problema del momento, quello che travalica tutte le discussioni sulla costituzione e la legge elettorale, che pretende da noi l’applicazione di tutte le nostre risorse d’intelligenza e di volontà.
Quali sono oggi i mezzi per raggiungere tale unità del mondo, per realizzare questa rivoluzione internazionale, in cui le risorse umane, le materie prime, i mercati commerciali e le ricchezze spirituali possano essere meglio ridistribuite? Il mondo può essere unificato dall’alto da un unico Stato più potente degli altri. A questo ruolo possono aspirare la Russia e l’America.
Io, come nessuno di quelli che conosco, non ho niente da controbattere all’idea sostenuta da alcuni, secondo la quale la Russia e l’America hanno i mezzi per regnare e unificare il mondo a immagine e somiglianza delle proprie società.
La cosa mi ripugna in quanto francese e ancora di più in quanto mediterraneo, ma non terrò in nessun conto questi argomenti sentimentali. È a tutti evidente che il pensiero politico si trova sempre più superato dagli eventi. I francesi, per esempio, avevano cominciato la guerra del 1914 con i mezzi di quella del 1870 e la guerra del 1939 con i mezzi del 1918. Ma va detto che il pensiero anacronistico non è una specialità francese.
Basterà qui sottolineare che, in pratica, le grandi politiche odierne pretendono di regolare il futuro del mondo mediante principi formatisi nel Settecento, per quanto riguarda il liberalismo capitalista, e nell’Ottocento per quanto riguarda il socialismo cosiddetto scientifico. Nel primo caso un pensiero nato nei primi anni dell’industrialismo moderno e, nel secondo, una dottrina contemporanea all’evoluzionismo darwiniano e all’ottimismo renaniano si propongono di adattarsi all’epoca della bomba atomica, delle brusche mutazioni e del nichilismo. Non si potrebbe illustrare meglio il ritardo sempre più disastroso che si produce tra pensiero politico e realtà storica.
Certo, lo spirito è sempre in ritardo rispetto al mondo. La storia corre mentre lo spirito medita. Ma questo inevitabile ritardo oggi aumenta in ragione dell’accelerazione storica. Il mondo è cambiato molto di più negli ultimi cinquant’anni che nei due secoli precedenti. Oggi lo si vede accanirsi a regolare problemi di frontiera, quando tutti i popoli sanno che le frontiere sono arbitrarie. È sempre il principio di nazionalità che ha fatto finta di prevalere alla conferenza dei Ventuno.
Dobbiamo tenere conto di questo nella nostra analisi della realtà storica. Oggi concentriamo le nostre riflessioni sul problema tedesco, che è secondario rispetto allo scontro tra imperi che ci minaccia. Ma se domani noi concepissimo soluzioni internazionali in funzione del problema russo-americano, rischieremmo un’altra volta di trovarci sorpassati. Lo scontro tra gli imperi è già sul punto di diventare secondario rispetto allo scontro tra civiltà. Le civiltà coloniali, infatti, fanno sentire da ogni parte la propria voce.
Tra dieci anni, tra cinquant’anni, sarà la preminenza della civiltà occidentale a essere messa in discussione. Tanto vale, perciò, pensarci subito e aprire il Parlamento mondiale a queste civiltà, perché la sua legge diventi davvero universale e universale sia l’ordine ch’essa sancisce.
Sì, oggi quelli che vanno combattuti sono il silenzio e la paura, e con essi la separazione che provocano delle menti e delle anime. Quelli che vanno difesi sono il dialogo e la comunicazione tra tutti gli esseri umani. La schiavitù, l’ingiustizia, la menzogna sono le piaghe che spezzano questa comunicazione e impediscono il dialogo. Per questo dobbiamo rifiutarle. Ma queste piaghe sono ancor oggi la sostanza stessa della storia e per questo molti le considerano mali necessari. È bensì vero che noi non possiamo sottrarci alla storia, che ne siamo immersi fino al collo. Ma possiamo pretendere di lottare nella storia per preservare quella parte dell’uomo che non le appartiene.
Albert Camus
La modestia è la virtù della democrazia
di Albert Camus (la Repubblica, 5 settembre 2013) *
Qualche volta rifletto, in mancanza di meglio, sulla democrazia (nel metrò, naturalmente). È noto che c’è dello smarrimento, nelle intelligenze, per quanto concerne questa utile nozione. E siccome amo ritrovarmi con il più gran numero possibile di uomini, cerco le definizioni che potrebbero risultare accettabili per questo gran numero. Non è facile e non pretendo di esservi riuscito. Ma mi sembra che si possa arrivare a qualche utile approssimazione. Per esser breve, eccone una: la democrazia è l’esercizio sociale e politico della modestia. Va spiegata.
Conosco due tipi di ragionamento reazionario (visto che tutto va precisato, conveniamo di chiamare reazionario ogni atteggiamento che mira ad accrescere indefinitamente le servitù politiche ed economiche che pesano sugli uomini). Questi due ragionamenti vanno in senso opposto, ma hanno la caratteristica comune di esprimere una certezza assoluta. Il primo consiste nel dire: «Non si potranno mai cambiare gli uomini». Conclusione: le guerre sono inevitabili, la servitù sociale e politica è nella natura delle cose, lasciamo i fucilatori fucilare e coltiviamo il nostro giardino (a dire il vero, si tratta generalmente di un parco).
L’altro consiste nel dire: «Si possono cambiare gli uomini. Ma la loro liberazione dipende dal tale fattore e bisogna agire nella tale maniera per far loro del bene». Conclusione: è logico opprimere: 1) Quelli che pensano che non sia possibile alcun cambiamento; 2) quelli che non sono d’accordo sul fattore in questione; 3) quelli che, pur essendo d’accordo sul fattore, non lo sono sui mezzi destinati a modificarlo; 4) tutti coloro, in generale, che pensano che le cose non siano così semplici. In totale, i tre quarti dell’umanità.
Nei due casi, ci troviamo davanti a un’ostinata semplificazione del problema. Nei due casi, si introducono nel problema sociale una fissità o un determinismo assoluto che non possono ragionevolmente trovarvisi. Nei due casi, si sente di possedere abbastanza certezze per fare o lasciar fare la Storia, secondo tali principi, e per giustificare o aggravare il dolore umano. Penso che questi spiriti, così diversi, ma la cui convinzione resiste egualmente all’infelicità altrui, vadano ben ammirati. Ma bisogna almeno chiamarli col loro nome e dire che cosa sono e che cosa non sono capaci di fare. Da parte mia, dico che sono spiriti dominati dall’orgoglio e che possono arrivare a tutto salvo alla liberazione dell’uomo e a una democrazia reale.
C’è una frase che Simone Weil ha avuto il coraggio di scrivere e che, per la sua vita e la sua morte, aveva il diritto di scrivere: «Chi può ammirare Alessandro con tutta la sua anima, se non ha un’anima bassa?». Sì, chi può commisurare le più grandi conquiste della ragione o della forza alle immense sofferenze che rappresentano, se non ha un cuore cieco alla più semplice simpatia e uno spirito alieno da ogni giustizia!
È per questo che mi sembra che la democrazia, che sia sociale o politica, non possa fondarsi su una filosofia politica che pretende di sapere e regolare tutto, non più di quanto abbia potuto fondarsi finora su una morale di conservazione assoluta. La democrazia non è il migliore dei regimi. È il meno cattivo. Abbiamo assaggiato un po’ tutti i regimi e adesso lo sappiamo. Ma tale regime può essere concepito, creato e sostenuto solo da uomini che sanno di non sapere tutto, che rifiutano di accettare la condizione proletaria e non si adattano mai alla miseria degli altri, ma che appunto rifiutano di aggravare tale miseria in nome di una teoria o di un messianismo cieco.
Il reazionario d’antico regime pretendeva che la ragione non regolasse niente. Il reazionario di nuovo regime pensa che la ragione regolerà tutto. Il vero democratico crede che la ragione possa illuminare un gran numero di problemi e forse regolarne quasi altrettanti. Ma non crede che essa regni, sola padrona, sul mondo intero.
Il risultato è che il democratico è modesto. Confessa una certa percentuale di ignoranza, riconosce il carattere in parte azzardato del suo sforzo e che non tutto gli è dato. E, a partire da questa ammissione, riconosce di avere bisogno di consultare gli altri, di completare quello che sa con ciò che essi sanno. Non si riconosce alcun diritto che non sia delegato dagli altri e sottoposto al loro accordo costante. Qualunque decisione sia chiamato a prendere, ammette che gli altri, per i quali tale decisione è stata presa, possano giudicarne diversamente e comunicarglielo. Poiché i sindacati sono fatti per difendere i proletari, sa che sono i sindacati che, attraverso il confronto delle loro opinioni, hanno la maggiore possibilità di adottare la tattica migliore.
La democrazia autentica fa sempre riferimento alla base, perché suppone che, in questo campo, nessuna verità sia assoluta e che le esperienze di diversi uomini, sommate le une alle altre, rappresentino un’approssimazione alla verità più preziosa di una dottrina coerente ma falsa.La democrazia non difende un’idea astratta, né una filosofia brillante; difende dei democratici, il che suppone che domandi loro di decidere sui mezzi più atti ad assicurare la loro difesa. Capisco bene che una concezione tanto prudente non è priva di pericoli. Capisco bene che la maggioranza può ingannarsi nel momento stesso in cui la minoranza vede chiaro. È per questo che dico che la democrazia non è il miglior regime. Ma bisogna commisurare i pericoli di questa concezione a quelli che risultano da una filosofia politica che piega tutto alle sue esigenze. Sulla base dell’esperienza, bisogna accettare una leggera perdita di rapidità piuttosto che lasciarsi trascinare da un torrente furioso. Del resto, la stessa modestia suppone che la minoranza possa farsi ascoltare e che si terrà conto dei suoi pareri. È per questo che dico che la democrazia è il meno cattivo dei regimi.
A partire da qui, non tutto è risolto. È in questo che tale definizione non è definitiva. Ma permette di esaminare sotto una luce precisa i problemi che ci pressano e il cui principio ha a che fare con l’idea di rivoluzione e con la nozione di violenza. Ma permette di rifiutare al denaro come alla polizia il diritto di chiamare democrazia ciò che non lo è. Mangiamo menzogne dal mattino alla sera, grazie a una stampa che è la vergogna di questo paese. Ogni pensiero, ogni definizione che rischi di contribuire a tale menzogna o di mantenerla è oggi imperdonabile. Questo basta per dire che, definendo un certo numero di parole chiave, rendendole sufficientemente chiare oggi perché siano efficaci domani, noi lavoriamo alla liberazione e facciamo il nostro mestiere.
*
(Conferenza tenuta il 28 marzo 1946 alla Columbia University di New York. Traduzione di Andrea Bianchi). Il testo inedito di è tratto dal nuovo numero di Micromega, “L’intellettuale e l’impegno”, da oggi in edicola e su iPad Il numero conterrà 40 pagine di inediti di Albert Camus, un’intervista alla figlia Catherine e altri interventi sul tema “L’intellettuale e l’impegno” a firma di Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Dario Fo, Furio Colombo, Salvatore Settis, Adriano Prosperi e tanti altri.
CAMUS
“Da Parigi a Berlino, contaminiamo le idee per realizzare finalmente una vera unità”
di Albert Camus (la Repubblica, 11.11.2012)
Nel 1955 il grande scrittore francese intervenne ad Atene - parlando di Europa tra antiche ferite e nuove speranze - C’è bisogno di respiro, di grazia i valori sono isolati - La sovranità ha messo i bastoni tra le ruote della storia - La nostra è in primo luogo una civiltà pluralista
Se riteniamo che la civiltà occidentale consista soprattutto nell’umanizzazione della natura, cioè nelle tecniche e nella scienza, l’Europa non solo ha trionfato, ma le forze che oggi la minacciano hanno mutuato dall’Europa occidentale le sue tecniche o le sue ambizioni tecniche e, in ogni caso, il suo metodo scientifico o di ragionamento. Vista così, in effetti, la civiltà europea non è minacciata, se non da un suicidio generale e da se stessa, in qualche modo. Se, viceversa, riteniamo che la nostra civiltà si sia sviluppata sul concetto di persona umana, questo punto di vista, che può essere altrettanto valido come lei ha ragione di sottolineare, porta a una risposta del tutto diversa. Vale a dire che probabilmente, dico probabilmente, è difficile trovare un’epoca in cui la quantità di persone umiliate sia così grande.
Tuttavia non direi che quest’epoca disprezzi l’essere umano in modo particolare. Infatti contemporaneamente a queste forze, che definirei del male per semplificare le cose, non c’è dubbio che nel corso dei secoli si è progressivamente diffusa una reazione della coscienza collettiva e in particolare della coscienza dei diritti individuali.
Due guerre mondiali l’hanno soltanto un po’ logorata e credo sia ragionevole rispondere che la nostra civiltà viene minacciata nella misura esatta in cui oggi un po’ ovunque l’essere umano, viene umiliato. A quest’utile distinzione posso aggiungere che potremmo chiederci, e parlo sempre al condizionale, se proprio il singolare successo della civiltà occidentale nel suo aspetto scientifico non sia in parte responsabile del singolare fallimento morale di questa civiltà.
Per dirla diversamente se, in un certo senso, la fiducia assoluta, cieca, nel potere della ragione razionalista, diciamo nella ragione cartesiana per semplificare le cose, perché è lei al centro del sapere contemporaneo, non sia responsabile in una certa misura del restringimento della sensibilità umana che ha potuto, in un processo evidentemente troppo lungo da spiegare, portare poco alla volta a questo degrado dell’universo personale.
L’universo tecnico in se stesso non è una brutta cosa, e sono assolutamente contrario a tutte quelle teorie che vorrebbero un ritorno alla carrucola o all’aratro trainato da buoi. Ma la ragione tecnica, posta al centro dell’universo, considerata come l’agente meccanico più importante di una civiltà, finisce per provocare una specie di perversione, al contempo nell’intelligenza e nei costumi, che rischia di portare al fallimento di cui abbiamo parlato. Sarebbe interessante cercare di capire in che modo.
(...) Quali sono, innanzitutto, gli elementi che costituiscono la civiltà europea? Rispondo di non saperlo. Ognuno di noi però ha una prospettiva privilegiata, sentimentale in qualche modo, che d’altronde può essere ragionata e fondata su osservazioni, la quale ci fa preferire uno di questi elementi agli altri. Secondo me, e per una volta potrò rispondere in modo netto, la civiltà europea è in primo luogo una civiltà pluralista. Voglio dire che essa è il luogo della diversità delle opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva a una sintesi. In Europa la dialettica vivente è quella che non porta a una sorta di ideologia al contempo totalitaria ed ortodossa. Il contributo più importante della nostra civiltà mi sembra sia quel pluralismo che è sempre stato il fondamento della nozione di libertà europea. Oggi per l’appunto è questo ad essere in pericolo ed è ciò che bisogna cercare di preservare.
L’espressione di Voltaire che credo dicesse: «Non la penso come voi, ma mi farò ammazzare per lasciarvi il diritto di esprimere la vostra opinione», è evidentemente un principio del pensiero europeo. Non c’è dubbio che oggi sul piano della libertà intellettuale, ma anche sugli altri piani, questo principio viene messo in discussione, viene attaccato e mi sembra che vada difeso.
Rispetto alla questione di sapere se alla fine si salverà e se il futuro sarà nostro, come si dice, ebbene a questo tipo di domande rispondo allo stesso modo in cui rispondo ad altre, che pongo a me stesso in situazioni simili. In alcune circostanze, mi sembra che un uomo possa rispondere: «Questa cosa è vera, secondo me, o probabilmente vera. Questa cosa dunque deve vivere. Non è sicuro che io possa farla vivere, non è sicuro che la morte non attenda ciò che mi sembra essenziale. Comunque, l’unica cosa che posso fare, è lottare perché viva».
Penso, che in questa fase l’Europa sia chiusa in un quadro rigido all’interno del quale non riesce a respirare. Dal momento che Atene dista sei ore da Parigi, che in tre ore da Roma si va a Parigi, e che le frontiere esistono solo per i doganieri e i passeggeri sottomessi alla loro giurisdizione, viviamo in uno stato feudale. L’Europa, che ha concepito di sana pianta le ideologie che oggi dominano il mondo, che oggi le vede voltarsi contro di essa, essendosi incarnate in paesi più grandi e più potenti industrialmente, quest’Europa, che ha avuto il potere e la forza di teorizzare tali ideologie, allo stesso modo può trovare la forza di concepire i concetti che permetteranno di controllare o equilibrare queste ideologie.
Semplicemente ha bisogno di respiro, di grazia, di modi di pensare che non siano provinciali, mentre al momento tutti i nostri modi di pensare lo sono. Le idee parigine sono provinciali; quelle ateniesi anche, nel senso che abbiamo estrema difficoltà ad avere abbastanza contatti e conoscenze, a contaminare quanto basta le nostre idee affinché si fecondino mutualmente i valori erranti, che sono isolati nei nostri rispettivi paesi.
Ebbene, credo che quest’ideale verso il quale noi tutti tendiamo, che dobbiamo difendere e per il quale dobbiamo fare tutto ciò che è possibile, non si realizzerà subito. La «sovranità» per molto tempo ha messo bastoni in tutte le ruote della storia internazionale. Continuerà a farlo. Le ferite della guerra così recente sono ancora troppo aperte, troppo dolorose perché si possa sperare che le collettività nazionali facciano quello sforzo di cui solo gli individui superiori sono capaci, che consiste nel dominare i propri risentimenti.
Ci troviamo dunque, psicologicamente, davanti a ostacoli che rendono difficile la realizzazione di questo ideale. Detto questo, (...) bisogna lottare per riuscire a superare gli ostacoli e fare l’Europa, l’Europa finalmente, dove Parigi, Atene, Roma, Berlino saranno i centri nevralgici di un impero di mezzo, oserei dire, che in un certo qual modo potrà svolgere il suo ruolo nella storia di domani.
La piccola riserva che introdurrò è la seguente. Ha detto che non si può affrontare dal punto di vista intellettuale il problema del futuro europeo, che non ci si può riflettere finché non avremo quella struttura a cui potremo fare riferimento. La mia riserva sta dunque nel dire: dobbiamo comunque affrontare il problema, dare un contenuto ai valori europei, anche se l’Europa non si farà domani. Mi ha colpito l’esempio che ha fatto poco fa. Lei ha sostenuto: «La Germania quando non era unita, non era una potenza». È verissimo. Nondimeno possiamo sostenere che la maggior parte delle ideologie contemporanee si è formata sull’ideologia tedesca del Diciannovesimo secolo, e che tutti i filosofi tedeschi che hanno fatto nascere quella nuova forma di pensiero precedono l’unificazione tedesca, naturalmente se consideriamo che l’unità tedesca si realizza nel 1871. Perciò è possibile influire su una civiltà, anche dallo stato di abbandono e povertà in cui siamo.
Il ruolo degli intellettuali e degli scrittori è in un certo senso quello di continuare a lavorare nel loro ambito, cercando di spingere la ruota della storia se possono farlo e se ne hanno il tempo, affinché al momento dovuto i valori necessari, non dico siano pronti, ma possano già servire come fermenti. (...) La libertà senza limiti è il contrario della libertà.
Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una vecchia storia, la libertà degli altri. Aggiungerò a questo luogo comune che essa esiste e ha un senso e un contenuto solo nella misura in cui viene limitata dalla libertà degli altri.
Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. Il resto, la libertà senza limiti, non viene vissuta e ha come prezzo la morte degli altri. La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata.
(Traduzione di Alessandro Bresolin)
© Éditions Gallimard, 2008 Tratto da Il futuro della civiltà europea, Castelvecchi editore 2012
Albert Camus l’europeista
Il documento dello scrittore sul futuro del Continente
Nel 1955 l’intellettuale francese intervenne ad Atene sulle speranze del «puzzle» politico e geografico
Tesi profetiche e attualissime
di Anna Tito (l’Unità, 25.02.2013)
IL FUTURO DELLA CIVILTÀ EUROPEA È UN TEMA DI STRAORDINARIA ATTUALITÀ, E SEMBRA CHE SOLTANTO SI PONGANO DETERMINATI INTERROGATIVI, MA NON È COSÌ: il 28 aprile del 1955, a dieci anni dalla fine del secondo conflitto mondiale l’Unione culturale greco-francese organizzò ad Atene un incontro proprio su Il futuro della civiltà europea, e quel confronto intellettuale ebbe una risonanza particolare perché invitato a parlare di Europa fra antiche ferite e nuove speranze era lo scrittore francese, nonché filosofo, uomo di teatro, giornalista, militante politico Albert Camus (1913 - 1960), autore di Lo straniero che due anni dopo gli valse il Premio Nobel, e di altri capolavori quali La Peste e Il mito di Sisifo.
L’editore Castelvecchi propone ora il testo della conferenza (Albert Camus, Il futuro della civiltà europea, pagine 54, euro 7,00), tradotto e curato da Alessandro Bresolin, saggista e specialista di Camus. Il volume ci permette di apprezzare l’approccio di un intellettuale in grado di affrontare, come nessun altro, i nodi cruciali del suo tempo e che, attingendo al proprio patrimonio culturale di «uomo europeo», parla a un’Europa che ancora stenta a risollevarsi dalla distruzione bellica.
Questa civiltà - a suo avviso - si fonda in primo luogo sul pluralismo, in quanto essa «è il luogo della diversità delle opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva a una sintesi».
Lo scrittore ci appare interessato al presente, inteso come «qualcosa che va al di là del giorno o dell’anno in cui siamo», alla sopravvivenza della civiltà europea, prima ancora che al suo futuro. Constata infatti, dopo due guerre mondiali, «la strana sconfitta morale di questa civiltà», e ritiene che si debba comprendere da dove proviene questa sconfitta, curare le ferite ancora aperte, prima di guardare oltre.
Fin dai tempi della guerra e della Resistenza cui aveva preso parte attiva, Camus concepiva l’Europa come un’unità geografica e culturale. Persisteva pertanto nel dichiararsi contrario alla divisione del continente in aree di influenza, pur consapevole del fatto che la storia stava andando in direzione opposta.
Da autentico socialista libertario, nutriva un’immensa fiducia nel federalismo europeo e mondiale, convinto che, per giungere alla pace, l’Europa dovesse da subito unirsi in un forte modello federale e non in una «tiepida» confederazione di Stati che avrebbe lasciato inalterato quell’anacronismo rappresentato dalle sovranità nazionali, specie in un contesto mondiale segnato dall’internazionalizzazione dell’economia.
Per sopravvivere, una società deve rispettare l’individuo, e di conseguenza difendere il pluralismo, elemento essenziale di un’unità rispettosa delle diversità. L’unificazione europea, per lui, andava pertanto subito realizzata, e constatava che nel decennio seguito alla Liberazione nel 1945, gli Stati non avevano fatto «altro che ristrutturarsi e organizzarsi, accordandosi solo per una blanda unione economica». Forse anche per questo motivo, dopo gli entusiasmi federalisti del 1944 - 1948, Camus si allontanò in seguito dalla politica europea, evitando qualsiasi commento sulla notizia della firma del Trattato di Roma nel 1957.
Da allora si sono compiuti molti passi in avanti, ma di fatto l’Europa è rimasta quella confederazione di Stati sovrani in cui ciascuno porta vanti «la propria politica e il proprio sterile patriottismo». In quest’ottica le parole di Camus appaiono di una stupefacente attualità: «L’Europa è costretta in una ventina di lacci in un quadro rigido all’interno del quale non riesce a respirare».
Il giornale. Lo scrittore firmò per «Combat», quotidiano della Resistenza francese, 165 articoli
In Italia gli scritti vengono ora pubblicati per la prima volta da Bompiani tradotti da Sergio Arecco
Camus: corrispondenze profetiche dalla Francia del dopoguerra
«Non possiamo sfuggire alla storia ma possiamo lottare dentro la storia»
Tra il ‘44 e il ‘47 Camus lavorò per Combat, organo di stampa della Resistenza francese uscito dalla clandestinità.
Già celebre, il filosofo firmò articoli che ne fecero una delle voci più insigni della Francia del dopoguerra.
di Anna Tito (l’Unità, 04.01.2011)
Lunedì 21 agosto 1944, venduto dagli strilloni in Parigi liberata, il quotidiano «Combat», principale organo di stampa della Resistenza francese, uscì dalla clandestinità, al suo cinquantanovesimo numero, con Albert Camus caporedattore ed editorialista. Già celebre, lo scrittore e filosofo firmò per «Combat», fino al giugno del 1947, ben centosessantacinque articoli.
Dagli scritti, finora inediti in Italia e ora pubblicati da Bompiani (Albert Camus, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, trad. di Sergio Arecco, 626 pp., 19,50 euro), emerge che Camus pervenne a scandire speranze, sogni e illusioni degli ormai ex-resistenti che intendevano «restituire al Paese la sua voce profonda». Trattando di Resistenza, Francia, Algeria, quella dello scrittore appare una voce profetica tra guerra e dopoguerra, fra impegno e disincanto: «non possiamo sfuggire alla storia ma possiamo lottare dentro la storia per difendere la dignità dell’uomo»: all’insegna di questo motto, la vita di Camus divenne tutt’una con quella di «Combat», fino a fare del quotidiano una delle pagine più insigni della stampa francese.
Fu fra i pochi a lanciare l’allarme, da subito, per le drammatiche conseguenze dello sganciamento della bomba atomica su Nagasaki e Hiroshima: «La civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie», scrisse angosciato l’8 agosto del 1945, e prosegue: «Dinanzi alle terrificanti prospettive che si aprono agli occhi dell’umanità, ci convinciamo ancor meglio che quella per la pace è l’unica battaglia che valga la pena di combattere». Dagli anni della clandestinità, passando dai giorni convulsi della Liberazione e fino al 1947, gli editoriali riproposti permettono di cogliere, giorno per giorno, come Camus divenne, per dirla con François Mauriac, «l’uomo che avrà aiutato tutta una generazione a prendere coscienza del proprio destino», o ancora «il nostro giovane maestro», ovvero un moralista ossessionato dalla propria coscienza.
Questi scritti ci permettono di rivivere l’epurazione in Francia in seguito alla Liberazione, l’ascesa del Partito comunista, l’ammonimento ai francesi circa la necessità di riconoscere i diritti della popolazione araba. Di fronte all’incipiente guerra fredda, nel 1946, Camus riafferma le ragioni del dialogo fra i popoli. E sempre controcorrente, con la serie «Né vittime né carnefici» ribadisce la propria ostilità al bolscevismo.
Ma discorre anche di letteratura americana, ammettendo che per scrivere il suo capolavoro, Lo Straniero, ha tratto ispirazione dalla narrativa di Steinbeck e di Hemingway, che bolla però di «letteratura da rotocalco» e il capolavoro Per chi suona la campana, gli appare nient’altro che «una storia d’amore nello stile Metro-Goldwyn-Mayer».
La collaborazione a «Combat» si conclude con una lettera indirizzata al poeta surrealista René Char sulla condanna a morte di due algerini accusati di diserzione di fronte al nemico, nel pieno della disfatta del 1940, e un accorato appello alla morale: «Vi chiediamo di confrontare tale implacabile sentenza con quella emessa nei confronti dei generali accusati di avere offerto i loro servizi al nemico».
Camus, straniero per sempre. Cent’anni fa nasceva l’autore della Peste
Ha riflettuto sulla condizione umana nei momenti più bui del ’900: i totalitarismi, la guerra, i sussulti finali del colonialismo
Il suo antidogmatismo lo portò a essere considerato un «nemico» da Sartre & C.
Il tentativo di farne un monumento da parte della destra è fallito
di Domenico Quirico (La Stampa, 22.02.2013)
Assomigliava davvero a Humphrey Bogart, con il colletto del cappotto alzato, la sigaretta eternamente in bocca, lo sguardo grave e un mezzo sorriso alle labbra: avresti giurato di averlo già incontrato, sì, in qualche film in bianco e nero degli Anni 50, a fianco di Jeanne Moreau colla stanchezza dell’anima negli occhi. Ha fatto impersonare Caligola da Gérard Philippe, e mandato in scena Maria Casarés abbigliata da pasionaria del terrorismo rivoluzionario, ha fatto gridare al miracolo con Lo straniero, e afferrato la gloria con La peste. Eppure non era questo che voleva: «La volgarità delle intelligenze, le vigliaccherie compiacenti», il marchio di fabbrica della Parigi letteraria, gli davano «la nausea». Appunto.
Camus. Questo frutto spinoso nato cento anni fa nella terra arida, stenta, dura d’Algeria («il piccolo erg - la povertà estrema ed asciutta le tende nere dei nomadi, sulla terra secca e dura - ed io - che non posseggo nulla e non potrò mai possedere nulla, simile a loro...») nella Parigi del dopoguerra era il maschio avvolto di femmine e di successo: «Leccare la vita come zucchero d’orzo...». Sartre e la sua banda potevano ben pispolare la notte nelle cantine di Saint-Germain e imporre, di giorno, la polizia del loro pensiero unico allo sberrettante quartier generale del café Flore; neppure loro avevano potuto impedire a Camus di imporsi come un maestro.
E oggi? Già, già: Camus è «universale», tradotto e letto ovunque, persino Bush una volta lo ha citato. Ecco: è comodo, alla mano: pigiati dentro un solo Grande da Plèiade il sentimento tragico della vita, la necessità di forgiare la propria morale, la mistica del Mediterraneo e dell’Oriente, rivolta e accettazione, rovescio e diritto. Il giovane uomo nietzscheano che attraverso l’assurdo e la rivolta (merce sempre di buona domanda anche nei cataloghi editoriali) si arrampica fino a una filosofia della misura, apparentata alla antica nemesi greca. Scrittore perfetto per i garbi dei dettati, filosofo da liceali che non vogliono correre rischi al Bac, filosofo discount, moralista della Croce rossa. E ancora: nell’intimo democratico molle, sentimentale, perfino uno sgonnellatore di femmine. Nell’omaggio apparentemente universale quante spine acute, in Francia, mezzo secolo dopo quel 4 gennaio 1960 in cui morì in un incidente d’auto, da folgorante James Dean della letteratura.
Bisogna sveltamente aspirare l’ossigeno della saggezza di Finkielkraut per non dubitare: «Camus è consacrato da un’epoca che gli volta le spalle, il nostro tempo non ama che se stesso ed è se stesso che celebra quando crede di commemorare i grandi uomini». Meno male! C’è un antidoto a questa melassa che gli hanno steso sopra. Chi considera un merito non attirare rischi di attizzare l’ira e lo scandalo: su pena di morte, colonizzazione (lo accusarono essere traditore e colonialista, contemporaneamente!) stalinismo, Camus, sempre inclassificabile in famiglie ghenghe e parrocchie, un uomo in rivolta, eroismo che piace, ma anche ferito, umile, il che piace ancor di più perché innesca la compassione.
Prendiamo, ad esempio, l ’a n t i c o l o n i a l i s m o: il suo umanesimo stende un velo consensuale perfino sulla guerra di Algeria, un pied-noir che diventa figura di conciliazione, utilissimo. In quei deserti, dall’altra parte del mare, che nella sua penna si animava di colline odorose fiorite di tamerici e di assenzio, con le antiche colonne in rovina «colore dei pini», oggi infuriano profeti ben più spietati e letali che i nazionalisti di Ben Bella. Sì, gli anniversari sono sempre un guaio con Camus. Quest’anno una mostra a Aix, sotto il bel sole di Provenza che tanto amava, è già avvolta di polemiche tignose, dimissioni, licenziamenti.
Nell’anniversario, tre anni fa, della morte fu Sarkozy, allora presidente, nel suo furore di assimilare epoche storie e grandi a suo uso e consumo, che cercò, con gran fracasso, di panteonizzarlo, sì, di tumularlo in questo santuario laico, labirinto oscuro e umido, da sempre teatro di inquietanti vai e vieni cimiteriali. Dove la Francia si dà battaglia, e si ricompone talvolta, a colpi di ossa cadaveri e tombe. Mossa forse definitiva per farne un edulcorato pascolo per citazioni, di marmorizzarlo: ah! il gusto insaziato e insaziabile della Francia per i funerali degli illustrissimi presi, in se stessi, come opere d’arte, da Napoleone a Hugo. Manovra fallita per il provvidenziale no di un figlio del marmorizzabile.
E anche allora, nel fiume dei turiferari da anniversario gocciolarono rivoli di sodo veleno. A instillarlo è l’eterna Algeria, circonlocuzione complessa (dopo mezzo secolo!) di una Storia poco condivisa; e i rancori gauchistes, dei salottini apparecchiati per l’anatema. Non hanno ancora perdonato, allo scrittore, il rifiuto «di mettere tra la vita e l’uomo un volume del Capitale». Che eresia!
E se Camus fosse lì, appunto per ricordarci, instancabilmente e fastidiosamente, che più gli uomini cedono ai dogmatismi e più diventa loto necessario il distacco, il disinteresse di qualcuno? È ammirevole che abbia riflettuto sull’uomo e sulla sua condizione nei momenti più bui del secolo: i totalitarismi, la guerra, i sanguinosi sussulti finali del colonialismo.
In fondo, come accadde a Montaigne, nelle guerre di religione. L’orrore e il sangue lo fortificavano nella sua missione di osservatore e di testimone. Era uno dei pochi attenti, in una Francia in preda al dubbio e alla follia. Senza pretendere niente altro che rappresentare e descrivere è proprio lui che ci forma, proponendoci una immagine esatta di noi. Anche grazie a lui siamo passati attraverso le maglie della rete che in tutte le epoche gettano su di noi i Piani, i Sistemi, le Rivoluzioni. A questi cacciatori pericolosi l’uomo qual è, l’uomo dello Straniero, l’uomo di Camus resterà sempre sconosciuto e straniero. «Ogni sforzo umano - disse - è relativo, noi crediamo appunto alle rivoluzioni relative». E può bastare questo per dar colore a un anniversario.
INCONTRI. ALBERT CAMUS, MAESTRO DI UMANITA’, MAESTRO DI NONVIOLENZA
Si e’ svolto giovedi’ 7 novembre 2013 a Viterbo presso il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" un incontro in memoria di Albert Camus nel centenario della nascita del grande combattente per la liberta’, la solidarieta’ e la dignita’ umana.
Nel corso dell’incontro sono stati letti e commentati alcuni brani da varie opere di Camus. La commemorazione e’ stata tenuta dal responsabile della struttura nonviolenta viterbese, Peppe Sini.
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1. Albert Camus non e’ solo un grande scrittore e drammaturgo, non e’ solo un grande attivista per i diritti umani: e’ uno dei piu’ grandi pensatori politici del XX secolo, e lo e’ per due motivi.
Il primo: perche’ e’ uno dei grandi pensatori morali, che mai le scelte morali prostitui’ alla contingenza tattica dell’agire politico, ne’ al tornaconto personale o del gruppo dei prossimi ai danni di altri esseri umani. Che mai le scelte morali - e quindi altresi’ quelle politiche - disgiunse dall’ascolto della voce delle vittime, dalla visione del volto muto e sofferente delle vittime. Che sempre senti’ che a quella richiesta di aiuto che i sofferenti e gli estinti lanciano occorre rispondere con la propria responsabilita’. Recare aiuto a chi soffre oppressione, paura, bisogno: e’ il primo dovere.
Il secondo: perche’ mentre pensava agiva, e cosi’ non solo ha protestato, ma ha coerentemente e concretamente combattuto contro il colonialismo, ha combattuto contro il fascismo, ha combattuto contro il totalitarismo, ha combattuto contro le guerre e le dittature, contro le ingiustizie e le violenze. Ha sempre combattuto contro tutte le ideologie e le prassi assassine. Ed ha lottato sempre senza perdere la consapevolezza del rispetto della vita, della dignita’ e dei diritti altrui, anche nelle situazioni piu’ tragiche.
2. Chi ha letto La peste - a nostro avviso uno dei capolavori di sapienza umana della letteratura universale - sa cosa e’ la Resistenza. Chi ha letto La peste sa cosa e’ la nonviolenza.
Chi ha letto Lo straniero, Caligola, Il malinteso, La caduta, Il mito di Sisifo, sa cosa e’ l’assurdita’ della nostra condizione esistenziale e quale sia la radice della rivolta contro ogni egoismo, contro ogni sopraffazione, contro ogni menzogna.
Chi ha letto L’uomo in rivolta - uno dei libri di riflessione morale e politica piu’ illuminanti - e gli editoriali di "Combat", sa cosa e’ il dovere morale, il dovere politico, vi apprende cosa sia fraternita’.
Ma tutto Camus va letto. Dai Taccuini ad Actuelles, da tutto il teatro a tutta la pubblicistica militante, all’intera opera narrativa, lirica e descrittiva, saggistica. Leggere Camus ti nutre sempre.
3. E’ l’artista e il pensatore della bellezza del mondo e del dovere di amare, del senso del limite e della responsabilita’, della coscienza della solitudine e del dovere della solidarieta’ in inscindibile compresenza, dell’intreccio della giustizia e della liberta’, dell’io e del noi, del riconoscimento di umanita’ e della riconoscenza per l’umanita’, della pieta’ che opera contro il male.
Ed e’ il lottatore fermo e costante in difesa della civilta’ umana che nel dialogo e nella condivisione, nell’ascolto e nell’aiuto reciproco consiste; l’oppositore intransigente che si batte contro tutti i fascismi, contro la guerra, contro la pena di morte, contro ogni persecuzione ed uccisione. Il filosofo e il militante della nonviolenza in cammino.
A cento anni esatti dalla nascita, ed a cinquantatre dalla scomparsa, lo ricordiamo con gratitudine e lo salutiamo come benefico amico, compagno di lotte, maestro di umanita’.
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Le persone partecipanti all’incontro nel ricordo e nel nome di Albert Camus hanno riaffermato l’impegno contro tutte le violenze e le menzogne, contro la guerra e l’oppressione, per la giustizia sociale e per i diritti umani di tutti gli esseri umani. In particolare hanno espresso adesione e sostegno all’appello al parlamento italiano affinche’ "faccia cessare le stragi nel Mediterraneo legiferando il diritto per tutti gli esseri umani ad entrare in Italia - ed attraverso l’Italia in Europa - in modo legale e sicuro", ed all’appello per la piu’ ampia mobilitazione il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
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Albert Camus, nato a Mondovi (Algeria) nel 1913, nel 1940 a Parigi, impegnato nella Resistenza con il movimento "Combat" (dopo la liberazione sara’ redattore-capo del quotidiano con lo stesso titolo), premio Nobel per la letteratura nel 1957, muore nel 1960 per un incidente automobilistico. Lo caratterizzo’ un costante impegno contro il totalitarismo e per i diritti umani, che espresse sia nell’opera letteraria e saggistica, sia nel giornalismo e nelle lotte civili (oltre che nella partecipazione alla Resistenza).
In un articolo a lui dedicato ha scritto Giovanni Macchia (citiamo da "Camus e la letteratura del dissenso", in Giovanni Macchia, Il mito di Parigi, Einaudi): "L’assurdo fu per Camus un punto di partenza... Poiche’ non si puo’ immaginare una vita senza scelta, e tutto ha un significato nel mondo, anche il silenzio, e vivere ’en quelque maniere’ significa pur riconoscere l’impossibilita’ della negazione assoluta, la prima cosa che noi non possiamo negare e’ la vita degli altri. Nell’interno dell’esperienza assurda nasce come prima evidenza (credere al proprio grido) la rivolta: slancio irragionevole contro una condizione incomprensibile e ingiusta, e che pur rivendica l’ordine nel caos. E ricordo la gioiosa impressione che provoco’ la formula cartesiana di Camus, con la sua aria di limpido giuoco, quando la leggemmo la prima volta. Non ’je me revolte, donc je suis’: ma ’je me revolte, donc nous sommes’. Risollevare gli uomini dalla loro solitudine, dare una ragione ai loro atti; mettersi non dalla parte degli uomini che fanno la storia ma di coloro che la subiscono... Rivolta come fraternita’".
Opere di Albert Camus: tra le opere di Camus particolarmente significative dal nostro punto di vista ci sembrano Il mito di Sisifo, Caligola, La peste, L’uomo in rivolta, tutti piu’ volte ristampati da Bompiani. Utile anche la lettura dei Taccuini (sempre presso Bompiani) e delle corrispondenze per "Combat" 1944-1947 raccolte col titolo Questa lotta vi riguarda (ancora Bompiani). Si veda anche (con Arthur Koestler), La pena di morte, Newton Compton, Roma 1981.
Opere su Albert Camus: numerose sono le monografie su Camus; si vedano almeno la testimonianza di Jean Grenier, Albert Camus, souvenirs, Gallimard, e per una sommaria introduzione: Pol Gaillard, Camus, Bordas; Roger Grenier, Albert Camus, soleil et ombre, Gallimard; Francois Livi, Camus, La Nuova Italia; una recente vasta biografia e’ quella di Olivier Todd, Albert Camus, una vita, Bompiani.
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 1450 dell’8 novembre 2013