Chi ha paura della Filosofia?
Così l’Ungheria criminalizza gli intellettuali
L’obiettivo è quello dell’intimidazione: farti tacere educatamente se non vuoi essere denunciato
Sono stata tacciata di essere una pensatrice "liberale" che nel loro lessico è sinonimo di "antipatriottico"
La Heller, celebre studiosa, racconta la campagna di diffamazione che il governo di Budapest ha organizzato contro di lei e altri suoi colleghi
di Ágnes Heller (La Repubblica, 18.03.2011 - Le Monde, 14 mars 2011) *
Dall’Illuminismo in poi, scrittori, teatranti, musicisti e redattori e cronisti dei giornali di qualità si sono fatti carico delle responsabilità che derivano dalla libertà di opinione. In altre parole, i loro pensieri e le loro convinzioni hanno cominciato a essere dettati dalla propria coscienza e dalla propria ragione, e non più dai loro signori e maestri. Nel campo della filosofia, invece, la riflessione indipendente è da sempre una delle "malattie professionali" del filosofo, ma l’Illuminismo ha esteso questo morbo a tutti coloro che successivamente sono stati designati con il termine di "intellettuali".
Gli intellettuali critici ebbero il loro momento di gloria sotto le dittature. Furono loro a incarnare l’idra a sette teste in rivolta contro la tirannia. E se una delle teste cadeva, per corruzione, assassinio, invio in campi di internamento o di sterminio, o ancora per esilio forzato o incarcerazione, altre spuntavano a prendere il loro posto. Un drago che si è dimostrato invincibile. Con l’arrivo della democrazia, finisce l’eroismo! Ma il coraggio civico resta sempre di attualità. È questione di investire tempo ed energia, di rifiutare le promozioni facili per mantenere desto lo spirito critico. È la tensione che scaturisce dal dibattito, lo scambio incessante di argomentazioni e controargomentazioni che alimentano la dinamica della società moderna Per anni ho creduto che la filosofia fosse diventata una disciplina universitaria come le altre, una professione che si occupava del proprio passato e dalla museificazione della sua storia, che interessava soltanto i suoi rappresentanti. La funzione critica che tradizionalmente svolgeva ormai veniva assolta dai vari media.
E poi, la sorpresa. Il nuovo Governo ungherese, appena entrato in carica, ha lanciato una campagna di diffamazione contro i filosofi ungheresi, e attraverso di loro contro tutta la filosofa critica, sottoposta ad attacchi in serie lanciati simultaneamente da tre quotidiani e tre reti televisive. La campagna è durata quasi due mesi, insistendo sempre sulle stesse accuse, asserzioni stucchevoli e reiterate da tempo smentite. L’accusa, ripetuta fino alla nausea, era che «la banda Heller», con mezzi sospetti e con il pretesto di lavori di ricerca, aveva rubato, sottratto mezzo miliardo di fiorini (quasi 2 milioni di euro).
Di che si trattava? Su un centinaio di progetti sono sei quelli sotto accusa. Le cifre destinate ai vari lavori in questione (ricerca, traduzione, curatela di opere...) sono state sommate, e una persona è stata additata come capro espiatorio. Perché proprio io, che su sei direttori di progetto non ho mai percepito un centesimo? Gli accusatori non hanno fatto mistero delle loro ragioni. Sono stata tacciata di «filosofa liberale», e «liberale», nel lessico del Governo attuale, è sinonimo di «opposizione», «diabolico», «antipatriottico». Questi sei bersagli selezionati sono stati scelti perché rappresentano il gruppo ideale per criminalizzare tutti coloro che mettono in discussione la politica del Governo ungherese, in particolare la recentissima legge sui mezzi di informazione.
Quali sono gli obbiettivi politici di questa criminalizzazione? Tanto per cominciare l’intimidazione degli intellettuali critici, in particolare dei filosofi. Costringerli a stare sul chi vive, indurli a tacere educatamente se non vogliono essere denunciati e trattati come vengono trattati i criminali comuni.
Inoltre, questa campagna consente di criminalizzare anche numerosi esponenti del Governo precedente e l’ex primo ministro social-liberale. In generale sulla base del pretesto che in questi ultimi dieci anni l’indebitamento dell’Ungheria ha raggiunto un livello preoccupante. Questo fatto, che è una questione di politica economica, ora viene presentato come un atto criminale, come se la precedente dirigenza si fosse intascata milioni di euro.
Assistiamo a un Kulturkampf, a un’offensiva del potere contro gli intellettuali. La maggior parte delle personalità di rilievo dell’élite culturale è stata «eliminata». È il caso, ad esempio, del direttore artistico e direttore d’orchestra dell’Opera di Budapest Adam Fischer, famoso a livello mondiale, o ancora del direttore del Balletto e di un gran numero di direttori di teatro, di redattori televisivi, di presentatori, di opinionisti, di giornalisti. Ed è in questo contesto che si inserisce l’attacco contro i filosofi.
Abusando della sua maggioranza parlamentare di due terzi, questo Governo di destra che si proclama «rivoluzionario» ha fatto approvare una legge sui mezzi di informazione gravemente in contraddizione con lo spirito democratico europeo. È stata creata una commissione ad hoc, composta unicamente da esponenti del partito di maggioranza, con la missione di controllare e definire sanzioni nei confronti dei media, inclusa la carta stampata (fino ad ora, la competenza per giudicare un reato mediatico - che si trattasse di diffamazione o di altro - spettava a un tribunale indipendente).
Quando molti deputati europei sono insorti contro questa grave violazione della libertà di stampa, il capo del Governo, Viktor Orbán, se l’è presa con gli intellettuali critici (i famosi «liberali»), accusati di aver pugnalato alla schiena il Governo legittimo del loro Paese, di essere dei nemici della patria, attribuendo a loro la responsabilità del fatto che l’Unione Europea non abbia apprezzato a dovere la particolarità di questo hungaricum, come chiamiamo noi le specialità magiare. Questo non lo nego, e mi dichiaro colpevole, come tantissimi altri colleghi. Ma la stampa europea non ha avuto bisogno di noi per lanciare l’allarme, perché la limitazione della libertà di stampa si può propagare come una malattia contagiosa, e bisogna fermarla fin dal manifestarsi dei primi sintomi.
Tuttavia, il Governo è ricorso a ogni genere di riforme per mettere alla prova i nervi degli intellettuali, sensibili al rispetto dei diritti. Ad esempio, eliminando metodicamente i contrappesi istituzionali, concentrando i poteri, nazionalizzando i contributi versati alle casse pensionistiche private, limitando l’indipendenza della Banca centrale, introducendo e applicando leggi a effetto retroattivo e altre misure ancora. Gli economisti e i politologi «liberali» si ritrovano in questo caso alleati dei filosofi. Un motivo di soddisfazione però c’è, in tutta questa triste faccenda. La solidarietà che ci è stata manifestata dai filosofi del mondo intero, e dagli intellettuali e dai liberi pensatori in genere, ci riconforta. L’eco è stato più ampio di quello che ci si sarebbe potuti immaginare. Petizioni e lettere di protesta sono affluite dai quattro angoli del pianeta, da tutti i Paesi d’Europa. Ovunque, la stampa si è mobilitata.
Sembra finalmente che la libertà di espressione, la libertà di opinione, la libertà di pensiero siano concetti che non conoscono confini. E che anche la filosofia, alla fine, non sia diventata un vecchio leone sdentato.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Religioni.
Àgnes Heller e la difficile riscoperta del “Gesù ebreo”
Torna in libreria un saggio dove la studiosa si domanda perché l’ebraicità del Nazareno sia stata eclissata tanto tra i cristiani quanto tra gli israeliti. Una questione che tocca l’antisemitismo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 13 agosto 2023)
La poesia, l’arte, la scienza, la letteratura sarebbero infinitamente più povere senza il contributo essenziale del mondo ebraico. Àgnes Heller (1929-2019) è una intellettuale che resta inaccessibile senza prendere molto sul serio la sua cultura ebraica e quindi la Bibbia. Filosofa ungherese, è tra le pensatrici più significative della seconda metà del XX secolo. Sopravvissuta ad Auschwitz, ha lavorato a una rifondazione etica del pensiero moderno, prima alla scuola di Gyorgy Lukács a Budapest e poi esule nel mondo - alla Statale di Milano ha tenuto il 24 ottobre del 2018 una delle sue ultime lectio magistralis. Espulsa dall’università nel 1959 fu osteggiata dal regime comunista ungherese che mal tollerava la sua lettura libera e non ideologica del marxismo del quale pure rivalutò alcune istanze umanistiche ed etiche (a partire dalla radice ebraica di Marx), che le costò un lungo esilio, prima in Australia e poi negli Usa, dal 1977 al 1989. Criticò ogni forma di totalitarismo, incluso il regime di Orban con il quale è stata molto severa fino al termine della sua vita.
Lo studio della Bibbia è parte integrante del suo pensiero etico. La Heller filosofa è infatti inseparabile dalla Àgnes ebrea, come emerge anche dai suoi studi sui profeti (Oltre la giustizia, il Mulino, 1990). Si è formata all’interno del grande dibattito mitteleuropeo, sul messianismo e sull’escatologia occidentale (Taubes, Löwith, Rosenzweig, Benjamin e lo stesso Lukács), dove il marxismo era indagato dalla prospettiva della fine e del fine della storia. Il messianismo occupa infatti un posto centrale anche nella filosofia della Heller.
In una bella intervista spiegava il senso del suo “messianismo della sedia vuota”, che le proviene direttamente dalla tradizione ebraica, in particolare dal rito del Seder di Pesah quando le famiglie durante la cena lasciano una sedia vuota perché Elia profeta potrebbe arrivare (Malachia 3,23) e annunciare la venuta del Messia: «Bisogna lasciare una sedia vuota davanti al Messia. Chiunque si sieda su quella sedia, chiunque la occupi, è un falso Messia. Abbiamo avuto molte lezioni su questo nella storia recente; più volte abbiamo appreso che era giunto un nuovo Messia, che era giunto il momento della salvezza. Si è sempre trattato di un falso Messia. Dunque quella sedia deve rimanere vuota» (Àgnes Heller, Una vita per l’autonomia e la libertà, il Mulino, 1995). Ma, continua la Heller, quella sedia non si può togliere altrimenti il «rito sarà finito», lo spirito abbandonerà la comunità e «saranno le banalità a occupare l’immaginazione» - e lo stiamo vedendo sempre meglio.
La sedia lasciata vuota e che tale deve restare è anche una chiave di lettura di Gesù l’ebreo, una raccolta di saggi pubblicata in ungherese nel 2000 e ora ripubblicata da Castelvecchi. Il testo si apre con una frase molto efficace che ci introduce direttamente nel cuore del tema: «Il Gesù cristiano è risorto il terzo giorno. Ci vollero duemila anni per far risorgere anche il Gesù ebreo».
In quale senso il Gesù ebreo è appena risorto e perché sarebbe restato nel sepolcro per quasi duemila anni? In realtà, la derivazione del cristianesimo dall’ebraismo non è stata mai negata dalla Chiesa, tanto è vero che la tesi di Marcione che voleva eliminare dal canone cristiano tutto l’Antico Testamento per affermare la totale discontinuità del cristianesimo rispetto all’ebraismo, è stata già nel II secolo considerata eretica e la Chiesa ha inserito tutta la Bibbia ebraica nelle proprie sacre scritture - a dire, tra l’altro, che per capire Gesù non bastano i vangeli né il Nuovo Testamento: è necessaria la Bibbia intera.
La tesi della Heller non è un’indagine sul “marcionismo” più o meno presente nel cristianesimo (se ne troverebbe molto), ma una riflessione sulle ragioni che hanno fatto sì che fino a tempi recenti (si pensi, oltre alle molte opere citate nel saggio dalla Heller, a Un ebreo marginale di John P. Meier, Queriniana, 2001) l’ebraicità di Gesù di Nazareth sia stata eclissata sia tra i cristiani che tra gli ebrei: «Il cristianesimo definì la propria identità in contrapposizione all’ebraismo, mentre quest’ultimo si comportava come se non avesse nemmeno preso atto del cristianesimo come religione». Le spiegazioni cristiane di questa lunga eclissi, continuata e cresciuta ben oltre la Palestina del I secolo, sono ben note e legate alla lunga e vergognosa storia dell’antisemitismo, di cui la Heller ha testimonianza diretta. Interessanti sono anche le ragioni ebraiche dell’eclissi.
Il cristianesimo nasce come scisma dall’ebraismo (quantomeno dal giudaismo) e come eresia ebraica. Per gli ebrei era teologicamente impossibile che Gesù fosse “Il Signore”, il Kyrios, perché nella Settanta (la traduzione greca della Bibbia ebraica) Kyrios era la traduzione di Adonai, cioè il nome pronunciabile che si usava ad alta voce tutte le volte che si incontrava il nome impronunciabile di Dio (il tetragramma YHWH).
La teologia (e la prassi pastorale) di Paolo aveva poi accentuato la differenza tra il nuovo portato da Gesù e la Legge di Mosè. Il “dialogo” si complicò ulteriormente quando i primi concili risolsero la questione di Gesù nei dogmi trinitari, dove a Gesù Cristo, il Figlio, il Logos, viene riconosciuta la persona divina e la stessa natura del Padre e dello Spirito. Riconoscere l’ebraicità di Gesù Cristo non era dunque una operazione facile per gli ebrei, di ieri e di oggi. Sarebbe, in linea teorica, relativamente facile per gli ebrei riconoscere il dato storico di un Gesù nato “sotto la Legge” e in quanto tale ebreo; ma «la storia del Gesù ebreo finisce con la sua morte in croce», mentre il Gesù (Cristo) delle fede “inizia” con la resurrezione.
La Heller infatti ricorda che fino al Golgota il Gesù ebreo non è troppo diverso da quello cristiano: «Il Padre nostro del cristianesimo riveste lo stesso ruolo dello Shemà Israel nell’ebraismo... Tutti gli insegnamenti di Gesù, i logoi e le parabole, provengono da Gesù prima della Pasqua». Il problema inizia nel percorso che porta dal Golgota al sepolcro vuoto. Perché riconoscere il Cristo come ebreo (non solo Gesù), cioè affermare che Gesù restò veramente ebreo anche dopo la resurrezione e dopo la teologia dei vangeli e di Paolo, è stato per quasi due millenni qualcosa di estremamente arduo da ambo le parti, e questo riconoscimento, a livello di religioni, non c’è stato.
Per cercare di riaprire o spingere avanti il dialogo sul Gesù ebreo, nel suo breve libro (in realtà nei soli primi tre capitoli) la Heller fa alcune operazioni precise. Si sofferma in particolare sulla narrativa cristiana della morte di Gesù, che a partire dagli stessi vangeli è stata incentrata sulla uccisione di Dio da parte degli ebrei: il famigerato deicidio, che lei mette in discussione e nega:«dire che gli ebrei hanno ucciso Gesù è privo di senso quanto dire che gli ungheresi hanno ucciso Imre Nagy». La Heller, citando la letteratura recente su questo, ricorda che la morte di Gesù nacque da un suo conflitto con il tempio (i sacerdoti e la loro “industria”) da cui derivò la denuncia che si concluse con una crocifissione voluta e deliberata da Ponzio Pilato, quindi dai romani. È infatti molto probabile che tutte le titubanze e le incertezze di Pilato durante il processo riguardo la condanna a morte di Gesù che riportano i vangeli siano materiale tardo e polemico dei primi cristiani in conflitto con il mondo giudeo. Pilato ordinò molte, forse centinaia di crocifissioni durante i suoi anni in Palestina, e dalle fonti extrabibliche sappiamo che era un governatore spietato. Detto poi per inciso, i vangeli non hanno nessun dubbio a dire che la morte del Battista sia stata voluta ed eseguita da Erode, cioè dal re ebreo: se fossero stati veramente soltanto gli ebrei a volere anche la morte di Gesù, perché inserire Pilato?
Probabilmente l’evidenza storica sul ruolo decisivo (sebbene non esclusivo) dei romani era talmente evidente negli anni 60-70 del I secolo che gli evangelisti non potevano negarla né tacerla, e così l’hanno semplicemente complicata e attenuata. Le divergenze tra gli evangelisti sul resoconto del processo del sinedrio sono un segnale del ruolo redazionale che hanno svolto «le controversie tra la giovane comunità cristiana e il giudaismo, con la chiara tendenza a colpevolizzare i giudei e a scagionare i romani» (G. Rossè, Il vangelo di Luca, Citta Nuova, 1992, p. 935). Così la Heller, citando Sheehan (The first coming...), afferma, con un certo coraggio esegetico, che «non è vero che la folla ebrea urlò “Crocifiggilo”, o “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”... Queste frasi sono i prodotti della violenta lotta tra il primo cristianesimo e l’ebraismo» (p. 39).
Se allora furono i romani, in probabile alleanza con alcuni giudei e sacerdoti, a uccidere Gesù, buona parte dell’antisemitismo si è fondato per duemila anni su un equivoco, su una forte esagerazione narrativa di un conflitto storico tra i primi cristiani e i giudei (soprattutto a Gerusalemme), un conflitto che, tramite la sacralizzazione datagli dai vangeli, si è esteso in tutta l’eta cristiana, fino all’altroieri.
Se Gesù non è stato ucciso dagli ebrei (o dai giudei), allora la resurrezione del Gesù ebreo oggi dovrebbe essere più facile sul lato cristiano, dove riconoscere un legame forte del cristianesimo con l’ebraismo, tramite Gesù ebreo, dovrebbe essere più semplice.
E sul lato ebraico? La non-resurrezione del Gesù ebreo è stata dall’inizio legata alla resurrezione del Gesù cristiano: sarà sempre così? Il Gesù che può risorgere oggi sarà il Gesù non-risorto, cioè il Gesù dell’insegnamento fino alla sua morte, inclusa la croce?
A questo riguardo è molto bello il racconto, che riporta la Heller, di Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, dove si narra di un giovane (Asher Lev) con una spiccata vocazione a diventare pittore (fatto complesso in una religione che nega l’immagine). Questi dopo aver visto a Roma la Pietà di Michelangelo inizierà a dipingere soltanto rappresentazioni della Pietà, perché solo in essa riesce a scorgere «l’angoscia del mondo intero». A questo punto «nessuno nella sua comunità lo capisce più» (p. 29). Il rabbino invece benedice Asher Lev.
E così commenta la Heller: «Egli vede ciò che verrà nascosto da duemila anni di persecuzione e oblio: vede nel crocifisso Gesù ebreo».
Qui riposa la speranza della Heller - e nostra - di un nuovo tempo ecumenico tra ebrei e cristiani, che dovrebbe partire da un dialogo ebraico-cristiano non ideologico e meno escludente sul significato della resurrezione di Gesù e sul messianismo ebraico e cristiano. La lettura cristiana di Gesù come il Messia non deve spegnere l’attesa del suo ritorno promesso, e quindi la possibilità di rincontrarsi come popoli dell’attesa di un ritorno-arrivo, credenti nella speranza di un non-ancora.
1929-2019
Morta Ágnes Heller
Filosofa eretica contro i totalitarismi
Ebrea ungherese, nota per la teoria dei bisogni, era scampata alla Shoah
Allieva di Lukács, marxista dissidente, esule politica, critica di Orbán
di Antonio Carioti *
Nel corso degli anni Settanta la filosofa ungherese Ágnes Heller, scomparsa all’età di 90 anni, era stata un’autrice molto apprezzata dagli intellettuali di estrema sinistra, in Italia e anche altrove, perché la sua teoria del bisogni offriva una lettura del marxismo in sintonia con le esigenze espresse dalla contestazione del Sessantotto. Poi però l’evoluzione del suo pensiero in senso liberale, accompagnata da taglienti critiche all’ideologia pacifista, aveva raffreddato quelle simpatie fino a spegnerle. E dopo l’11 settembre era stata persino accomunata ai neoconservatori per via della sua ferma denuncia del fanatismo islamico. In realtà il percorso di Ágnes Heller può essere considerato abbastanza lineare, analogo a quello di altri esponenti del dissenso di sinistra nei Paesi dell’Est. Semplicemente l’esperienza diretta del comunismo, sia pure nella variante morbida vigente a Budapest dopo la rivoluzione del 1956 soffocata nel sangue, l’aveva convinta che il modello occidentale «in quanto depositario della democrazia», fosse «in sé un valore», meritevole di essere difeso.
Nata nel 1929 in una famiglia ebraica del ceto medio, nel 1944 aveva perso il padre, deportato ad Auschwitz dai nazisti, ed era rimasta profondamente segnata dal trauma della persecuzione genocida. Nel dopoguerra si era indirizzata verso studi scientifici, ma poi era rimasta affascinata da una lezione del brillante pensatore marxista György Lukács e ne era divenuta allieva, dedicandosi anima e corpo alla filosofia. Si era iscritta nel 1947 al partito comunista, che si era accaparrato il monopolio del potere a Budapest con l’appoggio dei sovietici, per essere poi espulsa nel 1949 al culmine della repressione stalinista. Anche in seguito le vicende personali di Ágnes Heller avevano seguito il corso oscillante della politica magiara. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, era riuscita a intraprendere la carriera accademica con l’appoggio di Lukács. Ma aveva poi subìto il contraccolpo della rivoluzione, che nel 1956 aveva visto il suo maestro partecipare al governo del comunista riformista Imre Nagy, abbattuto dai carri armati sovietici. Cacciata dall’università nel 1958, era stata tuttavia riabilitata e ammessa all’Accademia delle Scienze di Budapest nel 1963, in virtù dell’approccio conciliante assunto dal nuovo leader János Kádár, insediato al potere dall’Armata rossa, ma propenso a stemperare i conflitti.
Fu in questa fase che la filosofa si affermò come capofila della cosiddetta «scuola di Budapest» e prese a elaborare una visione del marxismo decisamente eretica rispetto all’ortodossia sovietica. Il momento della verità giunse nel 1968. Insieme ad altri studiosi del suo gruppo Ágnes Heller sottoscrisse un documento contro l’invasione della Cecoslovacchia, con cui il Cremlino aveva posto fine alla Primavera di Praga, ed entrò di nuovo nel mirino del regime magiaro. Al tempo stesso vide nei moti giovanili in corso all’Ovest la prefigurazione di un’ipotesi rivoluzionaria non più condannata alla stagnazione burocratica e autoritaria del «socialismo reale», ma fondata sulla trasformazione dei rapporti umani nella vita quotidiana, attraverso la valorizzazione dei bisogni qualitativi che il capitalismo alimenta, ma non può soddisfare. Ne erano derivate due conseguenze importanti. In Ungheria Ágnes Heller e altri studiosi della «scuola di Budapest» - tra cui suo marito Ferenc Fehér (morto nel 1994), Mária Márkus, Mihály Vajda, András Hegedüs, György Márkus, János Kis - furono allontanati dall’Accademia delle Scienze nel 1973 sulla base di un documento che li accusava di professare un revisionismo filoborghese e al tempo stesso un sinistrismo anarcoide, incline a negare il primato della classe operaia per abbracciare la controcultura degli hippies. Intanto in Occidente testi di Ágnes Heller come Sociologia della vita quotidiana (Editori Riuniti, 1970), La teoria dei bisogni in Marx (Feltrinelli, 1974) e i saggi inclusi nel volumetto La teoria, la prassi e i bisogni (Savelli, 1978) raccoglievano vasti consensi per il loro radicalismo utopistico, che prospettava ad esempio il superamento della famiglia nucleare monogamica in favore delle comuni e l’autogestione delle imprese come rimedio al lavoro alienato.
L’emigrazione in Australia assieme al marito, nel 1977, aveva segnato un’altra svolta. Ágnes Heller cominciò a mettere in discussione il marxismo e abbandonò il progetto di una grande opera antropologica, in diversi volumi, volta a dimostrare la compatibilità del socialismo con la natura umana: la sua ricerca s’indirizzò piuttosto verso la dimensione morale, con volumi come Oltre la giustizia (il Mulino, 1990), Etica generale (il Mulino, 1994), Filosofia morale (il Mulino, 1997). Nel frattempo, assieme a Fehér, aveva pubblicato importanti libri di argomento politico: in Ungheria 1956 (SugarCo, 1983) i due studiosi rivendicarono l’eredità ideale dell’insurrezione di Budapest come tentativo di realizzare un socialismo diverso da quello sovietico, criticando a fondo il regime di Kádár e i suoi estimatori occidentali; con La dittatura su bisogni (SugarCo, 1984), scritto insieme a György Márkus, evidenziarono il carattere profondamente oppressivo del collettivismo burocratico vigente all’Est; nel pamphlet Apocalisse atomica (SugarCo, 1984) accusarono i pacifisti e i neutralisti occidentali, compreso Günter Grass, di essere pronti ad accettare la «vichyzzazione» dell’Europa, con la fine dell’alleanza con gli Stati Uniti e la sottomissione di fatto all’influenza del Cremlino. Di pari passo con lo spostamento dei suoi interessi filosofici si era dunque realizzato il passaggio di Ágnes Heller sul versante liberaldemocratico.
Dopo la caduta del comunismo era tornata in Ungheria e negli ultimi anni si era opposta alla deriva «bonapartista» del primo ministro di destra Viktor Orbán. Non aveva del resto rinnegato la teoria dei bisogni e continuava a difendere i movimenti degli anni Sessanta, la cui eredità le appariva nel complesso positiva. Ma aveva anche indicato nella minaccia jihadista un nuovo nazismo da combattere senza quartiere. E non si faceva illusioni sulla diffusione della democrazia, temeva anzi per la sua tenuta in Europa. Assai significativo quanto aveva detto a Danilo Taino, in un’intervista per «la Lettura» apparsa nel maggio 2016: «Cambiano i modi in cui il potere si manifesta, ma la sostanza tende a restare uguale».
Intervista.
Ágnes Heller, la bellezza della scelta etica giusta
La filosofa ungherese, che viene premiata a Udine, pubblica la terza parte della sua trilogia sulla morale e dice: «Il male non può mai essere tollerato»
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, giovedì 25 ottobre 2018)
Mentre aspetta l’intervistatore nella hall di un albergo di Milano, Ágnes Heller sbriga un po’ di posta elettronica. A conversazione finita, tornerà al computer per inviare qualche altra email. Questo è probabilmente il comportamento di una decent person: fare il proprio dovere e farlo liberamente, nel momento propizio.
La nozione di decent person è uno degli elementi centrali della riflessione su etica e morale che la filosofa ungherese (nata a Budapest nel 1929, da tempo si divide tra gli Stati Uniti e il suo Paese d’origine) ha avviato fin dagli anni Ottanta. Della trilogia complessivamente intitolata Una teoria della morale erano finora noti in Italia i primi volumi, Etica generale e Filosofia morale, pubblicati dal Mulino rispettivamente nel 1994 e nel 1997.
Adesso esce da Mimesis la terza e ultima parte, Un’etica della personalità (pagine 438, euro 30,00: l’edizione originale risale al 1996) dove i curatori Laura Boella, Andrea Vestrucci e Chiara Zancan concordano nel tradurre decent person come “persona perbene”. «Ne sono sempre esistite e sempre esisteranno, anche nei momenti più bui della storia», commenta Ágnes Heller. Sopravvissuta alla Shoah e allieva di György Lukács, è una delle pensatrici più importanti dei nostri tempi, capace di affrontare questioni estremamente complesse con gli strumenti di un’affilata semplicità. Attraverso il racconto, per esempio. «Delle tre sezioni di cui si compone Un’etica della personalità - spiega - solo la prima adotta il linguaggio dell’argomentazione filosofica. Nelle altre due mi sono servita del dialogo teatrale e del romanzo epistolare».
Perché?
«Nei volumi precedenti avevo fornito una mia interpretazioni dei principali concetti etici e avevo indagato la dimensione morale del pensiero contemporaneo. In sostanza, non avevo ancora affrontato la filosofia morale propriamente intesa. Quando ho provato a farlo, mi sono resa conto di come le diverse posizioni non potessero essere esposte in astratto. Al contrario, era necessario mettere in evidenza il conflitto che emerge tra le affermazioni di autori differenti. Una dimensione drammatica che, alla fine, sfocia in una storia d’amore».
Addirittura?
«Sì, perché l’amore è la manifestazione più evidente della tensione che intendo indagare. Qualcosa di simile, del resto, accade anche nella prima sezione del libro, nella quale si analizza l’ossessione che Friedrich Nietzsche sviluppò nei confronti di Richard Wagner muovendo dalla pressoché incondizionata ammirazione iniziale. Il punto più alto della crisi fu segnato dal Parsifal, l’opera nella quale Nietzsche più avrebbe potuto riconoscersi e che invece rifiutò con determinazione».
Nietzsche è uno dei protagonisti del libro.
«Insieme con Immanuel Kant e Søren Kierkegaard, esattamente. Al centro di Un’etica della personalità c’è il dissidio tra due studenti di filosofia: il primo, Joachim, aderisce alla visione kantiana della morale, fondata su princìpi universali, mentre Lawrence, sulla scorta di Nietzsche, rinvia ogni scelta alla libertà dell’individuo. Il loro dibattito è destinato a cambiare di intensità con l’arrivo di un terzo personaggio, Vera, una ragazza dalla quale entrambi sono attratti e che impersona la concezione esistenziale della morale secondo Kierkegaard».
Posso chiederle da che parte sta lei?
«Chieda pure, ma rispondere è impossibile. Quello che ho cercato di dimostrare è che, quale che siano le convinzioni di partenza, le scelte morali avvengono sempre in condizioni particolari, che possono perfino contraddire le premesse teoretiche. All’atto pratico il kantiano Joachim assume un atteggiamento coerente rispetto agli assunti di Nietzsche e altrettanto avviene, con una perfetta inversione dei termini, nel caso di Lawrence. Quanto a Vera, fin dal nome sembra rivendicare il proprio legame con la verità, ma non dimentichiamo che nel pensiero di Kierkegaard l’ironia gioca un ruolo determinante ».
Significa che una scelta equivale all’altra?
«No, il punto non è questo. La questione è non possiamo apprezzare il valore di una scelta fino a quando questa non entra a contatto con la realtà, fino a quando non si fa concreta e, di conseguenza drammatica. Le teorie, di conseguenza, hanno la stessa funzione di un bastone o di una stampella a cui appoggiarsi mentre si procede su un terreno accidentato».
Da qui l’importanza della storia d’amore?
«La sezione conclusiva del libro è, come accennavo, un piccolo romanzo epistolare. C’è Fifi, una ragazza di quindici anni, che scrive alla nonna Sophie, per raccontarle che cosa le sta accadendo: si è sta innamorata di un giovane filosofo, che è poi il Lawrence che già conosciamo, ma non riesce ad accettare le sue idee. Come deve comportarsi?».
Il consiglio della nonna qual è?
«Lo stesso che avrebbe dato mia nonna, Sophie Meller, della quale il personaggio è il ritratto. Anch’io, da ragazza, ero soprannominata Fifi, ma i miei quindici anni sono stati diversi dai suoi. Vede, mia nonna era una donna molto intelligente, molto portata alla comprensione. Attorno a lei ruotava una famiglia numerosa, all’interno della quale era inevitabile che sorgessero conflitti. Casa sua, però, era sempre aperta a tutti e tutti erano invitati, quali che fossero le convinzioni o le condizioni di vita. Da lei ho imparato che non c’è nulla su cui non si possa dialogare, eccezion fatta per le azioni evidentemente immorali. Il male non può mai essere tollerato, tanto meno giustificato».
È una lezione che vale anche per l’Europa di oggi?
«Più che la morale, qui è la storia a dover essere chiamata in causa. La crisi che stiamo affrontando non può non ricordare i drammi del Novecento, che discendono a loro volta da quello che, a mio avviso, rimane il peccato originale dell’Europa moderna ».
Quale?
«La prima guerra mondiale, nella quale esplodono in tutta la loro violenza i nazionalismi che avevano cominciato a covare verso la fine del XIX secolo. I totalitarismi, i genocidi, i milioni e milioni di morti causati da guerre e persecuzioni sono il risultato di politiche nazionaliste terribilmente simili a quelle che si stanno ripresentando adesso in molti Paesi. La stessa Ungheria, purtroppo, è all’avanguardia in questo processo».
Lei che cosa prevede?
«Sono sempre molto restia a parlare del futuro. Di sicuro, guardando alla situazione attuale, posso dire che l’Unione Europea rappresenta l’ultima occasione per tenere in vita l’eredità più preziosa del continente. L’Europa deve scegliere:o si trasforma in un museo, nostalgicamente dedicato alla contemplazione di un passato culturale e artistico ormai tramontato da tempo, oppure assume su di sé la responsabilità di promuovere e difendere la democrazia liberale, che è la sola forma di governo in grado di armonizzare tra loro giustizia, etica e bellezza».
Perché la bellezza?
«Perché una decisione eticamente giusta è sempre bella, nel senso più autentico del termine: riguarda la sostanza della realtà, non il suo aspetto esteriore, che può anche essere ingannevole».
La democrazia svanisce se diventa illiberale
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 29.08.2018)
Il vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano ha incontrato a Milano il primo ministro ungherese Viktor Mihály Orbán. Quest’ultimo ha dichiarato già da tempo che «i valori liberali occidentali oggi includono la corruzione, il sesso, la violenza» e che «i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sull’identità della persona». Ispirato da questi orientamenti, ha poi trasformato la televisione pubblica in un mezzo di propaganda governativa, limitato la libertà di stampa, l’autonomia universitaria e l’indipendenza dell’ordine giudiziario.
Ha inoltre ridisegnato i collegi elettorali, fatto approvare una legge elettorale che gli consente di avere la maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento, con il 45 per cento dei voti, dato una svolta nazionalistica e anti-immigrazione al governo. Il maggiore esperto dei problemi ungheresi, la professoressa Kim Lane Scheppele, dell’Università di Princeton, ritiene che oggi l’Ungheria abbia una «costituzione incostituzionale» e il «Washington Post» qualche mese fa ha intitolato una sua analisi della situazione ungherese «la democrazia sta morendo in Ungheria e il resto del mondo dovrebbe preoccuparsi». Orbán, tuttavia, è stato eletto e rieletto, e gode quindi di un consenso popolare. Perché allora tante voci preoccupate? Basta il voto popolare per legittimare limitazioni delle libertà?
Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una «democrazia illiberale». Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale.
La democrazia non può fare a meno delle libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo.
Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Ruggiero, nella sua «Storia del liberalismo europeo», i principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi. Quindi, «una divisione di province tra liberalismo e democrazia non è possibile». Una «democrazia illiberale» non è una democrazia.
Tutto il patrimonio del liberalismo è parte essenziale della democrazia, così come oggi lo è quello del socialismo. Queste tre grandi istanze che si sono succedute negli ultimi due secoli in Europa e nel mondo, fanno ormai corpo. Il liberalismo con le libertà degli uomini e l’indipendenza dei giudici. L’ideale democratico, con l’eguaglianza e il diritto di tutti di partecipare alla vita collettiva (suffragio universale). Il socialismo con lo Stato del benessere e la libertà dal bisogno (sanità, istruzione, lavoro, protezione sociale). Questi tre grandi movimenti, pur essendosi affermati in età diverse, e pur essendo stati inizialmente in conflitto tra loro (come ha spiegato magistralmente, nel 1932, Benedetto Croce nella sua “Storia d’Europa nel secolo decimonono”) fanno ora parte di un patrimonio unitario e inalienabile come è dimostrato da due importanti documenti internazionali, il Trattato sull’Unione europea e la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite. Il primo dispone che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”. Il secondo che le Nazioni Unite si impegnano a «promuovere la democrazia e a rafforzare il rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali».
L’Italia è ora in un punto di passaggio critico, nel quale si decide il futuro delle sue libertà e la sua collocazione internazionale, tra quelli che sono stati per secoli i nostri «compagni di strada» ed esempi (Francia, Germania, Regno Unito) o nuovi alleati. Che significato possiamo attribuire a un «incontro esclusivamente politico e non istituzionale o governativo», ma tenuto in Prefettura, tra il primo ministro ungherese e un vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano?
CONFRONTI. Dialogo con la filosofa ungherese sulla modernità (non solo l’attualità dell’autore del «Capitale», ma di Freud, Kierkrgaard, Nietzsche), e sul futuro della democrazia. «Al contrario di quel che si crede il nostro continente è estraneo al liberalismo. Profondamente radicato qui, invece, è il nazionalismo»
Marx è un messia
conversazione di Donatella Di Cesare con Agnes Heller (Corriere La Lettura 20.05.2018)
DONATELLA DI CESARE - Nel 1944 suo padre Pàl Heller, ebreo austriaco, fine intellettuale, uscì e non tornò più. Fu deportato ad Auschwitz e ucciso il 16 gennaio 1945. Lei fu reclusa nel ghetto di Budapest a 15 anni e sopravvisse solo perché Eichmann aveva deciso di deportare prima gli ebrei sparsi fuori dalla città. Sebbene lei si dichiari laica, il suo rapporto con l’ebraismo mi pare molto profondo.
ÁGNES HELLER - Essere ebrea era per me ovvio. Come sarebbe stato possibile altrimenti negli anni della persecuzione? Avevo 10 anni quando in Ungheria, nelle università e nelle scuole, fu introdotto il numero chiuso. Non mi fu possibile studiare, se non al liceo ebraico. Dal momento che ero cresciuta in una famiglia non religiosa, pensai di provocare il rabbino Sámuel Kandel, un uomo straordinario. Mi rivolsi a lui con sfrontatezza: «Io non credo in Dio». Mi aspettavo un finimondo. E invece mi raccontò una storia ambientata ai tempi dei pogrom in Ucraina. «Un cosacco, responsabile di quei massacri, sfidò il rabbino dello shtetl, la piccola città, intimandogli: “Sono pronto a salvare i superstiti della tua comunità, se riuscirai a riassumere l’essenza dell’ebraismo stando in piedi su una gamba sola”. Il rabbino disse d’un fiato: “Ama il prossimo tuo come te stesso”». La storiella mi turbò; ancora oggi avverto quel sentimento. «E tu - chiese il rabbino - ami il prossimo tuo come te stessa?». Replicai: «Ci provo; non so se ci riesco». «Bene - proseguì - allora sei una brava ebrea. A Dio non interessa che tu creda o no, ma che tu segua le sue leggi».
Per anni fui convinta che fosse solo un’idea di Kandel; solo dopo mi accorsi che la storiella fa parte della tradizione e capii che l’ebraismo non si occupa dell’esistenza di Dio, bensì dell’agire in conformità alla legge. Non ci sono dogmi, ma interpretazioni. In questo senso posso dire che sono religiosa, provo ad esserlo. Per anni studiai allora la Torah e la storia del popolo ebraico. Poi ci fu l’occupazione tedesca e l’olocausto degli ebrei ungheresi. Quasi tutta la mia famiglia venne sterminata; persi anche molti amici d’infanzia. Il rabbino Kandel fu assassinato con la moglie dai nazisti ungheresi.
DONATELLA DI CESARE - Trovo molto importante quello che lei osserva nel libro Breve storia della mia filosofia, che il grande problema è perché mai sia esistita ed esista una «questione ebraica». Giustamente lei connette antisemitismo e antiebraismo nel bel libro Gesù l’ebreo. Rivendicando la figura di Gesù all’ebraismo («Gesù non ha infranto la legge, l’ha radicalizzata») si chiede perché questo fatto sia stato così a lungo taciuto.
ÁGNES HELLER - Il mio libro è legato al rabbino Kandel, che ci parlava di Gesù sostenendo che apparteneva alla corrente ebraica degli esseni. Per me Gesù non è mai diventato un biondo tedesco, ma è sempre rimasto un amato profeta. Sebbene questo primo amore abbia contribuito in modo decisivo al mio interesse per la sua figura, quel che mi ha spinto allo studio non è stata un’esperienza personale, bensì un interrogativo storico e filosofico. Perché non solo i cristiani, ma anche gli ebrei hanno dimenticato per secoli il Gesù ebreo? La questione filosofica riguarda la memoria e l’oblio - la memoria di una comunità e l’oblio collettivo. Perché i testi - ad esempio i testi evangelici - sono stati letti in modo selettivo e ha prevalso sempre un’unica interpretazione? In che modo questa lettura ha finito per alimentare un terribile e ingiustificato odio contro gli ebrei? E perché negli ultimi 70 anni è stato riscoperto il Gesù ebreo?
DONATELLA DI CESARE - Lei ha più volte rivendicato il diritto di richiamarsi a Marx senza essere marxista. E lo ha pagato a caro prezzo con persecuzioni e vessazioni. Il suo ultimo libro su Marx, appena uscito in italiano, ha un titolo per alcuni versi sorprendente: Marx. Un filosofo ebreo-tedesco. Che cosa c’è di ebraico nell’opera di Marx? Questo lei si chiede. E la risposta è: la «liberazione dell’umanità». Lei inserisce Marx in una prospettiva messianica. Quasi come Walter Benjamin... Il ruolo messianico è quello del proletariato.
ÁGNES HELLER - All’università, dal 1946 in poi, sono stata allieva di György Lukács, famoso marxista. Quella è stata la mia formazione. Tuttavia, a parte il primo volume del Capitale, non conoscevo altro. Per quanto possa apparire paradossale, non c’erano in quel tempo molte possibilità di studiare Marx, perché fino al 1953 tutti i suoi libri erano «materiale secretato». Solo in seguito, quando cominciai a leggere Marx, diventai una vera marxista, ma critica e selettiva. Lasciai perdere il Marx economista e scelsi invece quello giovane dei manoscritti di Parigi, che profetizza il nuovo Messia, e cioè i «proletari di tutto il mondo». Alcune importanti tesi di Marx, come il paradigma della produzione, mi sono sempre parse lontane ed estranee. Era quasi obbligatorio allora definirsi marxista o postmarxista. Ho imparato infine, grazie a Michel Foucault, che la filosofia è personale (non privata!) e non è quindi necessario identificarsi in uno dei tanti «ismi», per essere riconosciuti come filosofi.
DONATELLA DI CESARE - La sua teoria dei bisogni, che proprio in Italia ha avuto negli anni Settanta grande successo, resta più che mai attuale. A partire da Marx, lei identifica nei «bisogni radicali» - una vita piena di senso, un lavoro gratificante, l’esigenza di tempo libero, cultura, amore - i bisogni che, proprio perché mirano a una liberazione radicale, non possono essere soddisfatti in una società ingiusta. Sono perciò antitetici ai bisogni alienanti - il consumo di merci gratificanti, la necessità di conformarsi - che creano sempre ulteriore assoggettamento. Nell’egocentrismo illimitato del tardo capitalismo manca infatti sempre qualcosa.
ÁGNES HELLER - Continuo a vedere in Marx una delle voci più radicali del pensiero moderno che insieme a Kierkegaard, Nietzsche e Freud, ha influenzato profondamente il mondo di oggi. In particolare Marx e Nietzsche, loro malgrado, sono stati oggetto di una ricezione per certi versi esiziale. Nietzsche è stato utilizzato dai nazisti, Marx da Stalin. Ma non si è responsabili di una recezione contro cui non è possibile farsi valere (semplicemente perché non si è più in vita).
DONATELLA DI CESARE - Sebbene lei abbia difeso una «filosofia radicale», il suo atteggiamento verso la democrazia liberale non è critico come si potrebbe immaginare. Lei sostiene che non c’è bisogno di trasformazione rivoluzionaria e che le istituzioni democratiche odierne hanno un potenziale nascosto che non siamo riusciti ancora a liberare.
ÁGNES HELLER - Prima con la teoria dei bisogni, poi con il saggio sulla rivoluzione della vita quotidiana ho preso questa posizione avvicinandomi alla Nuova Sinistra. Si è trattato anzitutto di un cambio di paradigma nell’interpretazione di Marx.
DONATELLA DI CESARE - Nel suo libro Paradosso Europa, lei ha più volte sottolineato giustamente la contraddizione tra diritti del cittadino e diritti dell’uomo che segna la democrazia occidentale almeno dalla rivoluzione francese. Nel frattempo questa contraddizione è divenuta - io credo - un vero contrasto, anzi un conflitto: quello fra i cittadini di uno Stato-nazione e i migranti. Di qui la crisi dei diritti umani, calpestati ovunque, che si è tradotta in criminalizzazione di chi, fra gli Stati, tenta ancora di innalzare il vessillo della solidarietà. Tengo a dire che considero la prospettiva dell’universalismo cosmopolita un fallimento; penso che occorra guardare a un’articolata politica dell’accoglienza e allo sviluppo di comunità aperte. Mi pare che su questo punto lei assuma una posizione che non condivido, quando sostiene - più o meno apertamente - che i cittadini sono sovrani, che hanno insomma il diritto di escludere, di respingere. Per lei è valida la distinzioni tra profughi politici e immigrati economici, che io considero invece fittizia, un retaggio della guerra fredda. Di più: lei afferma che l’Europa si deve difendere, deve chiudere le porte a coloro che sono «estranei» alla sua civiltà e che ne metterebbero a repentaglio il futuro. Non le sembra una posizione reazionaria?
ÁGNES HELLER - La Rivoluzione francese ha proclamato i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Sappiamo già da tempo che i diritti umani possono essere preservati solo dove sono garantiti i diritti dei cittadini - come fa lo Stato. Negli ultimi anni è all’ordine del giorno la questione del conflitto tra questi due tipi di diritti a causa della crisi migratoria. Per quel che riguarda i diritti umani, tutti sono nati liberi e hanno il diritto di vivere lì dove vogliono. Ma per quel che riguarda lo Stato, i cittadini possono e devono decidere con chi coabitare. Sono contraria a recinti e confini; ma occorre riconoscere questo diritto dei cittadini che limita purtroppo i diritti umani. C’è il rischio di conflitti e guerre. Ma temo soprattutto che paure, legittime e comprensibili, verso un altro che non conosciamo, possano essere strumentalizzate dai populisti.
DONATELLA DI CESARE - Lo Stato nazionale mostra però oggi il suo lato peggiore, più aggressivo e violento. Basti pensare ai muri, ai fili spinati, ai campi di internamento per i migranti. La xenofobia dilaga, in Ungheria, ma anche in Italia.
ÁGNES HELLER - Sì, il razzismo è presente ovunque, in forme vecchie e nuove. L’antisemitismo è in particolare odio per Israele. La miccia che ha riacceso il nazionalismo è stata la crisi economico-finanziaria. I leader populisti hanno raggiunto grandi consensi fomentando l’odio e attingendo ai sentimenti più bassi. Il populismo autoritario ha precedenti in quello che chiamo «bonapartismo», un fenomeno inaugurato da Napoleone. Di fronte a problemi complessi, che richiederebbero condivisione, responsabilità, solidarietà, si ricorre all’uomo forte, che incarna lo Stato, rivendica verità, promette soluzione a tutto quel che affligge il «popolo». In realtà rappresenta interessi parziali e agisce senza scrupoli. La scorciatoia del bonapartismo resta purtroppo una tentazione, malgrado la rovina portata da tutti quei leader populisti che promettevano salvezza. Nel mio Paese, l’Ungheria, il populismo di Orbán ha assunto caratteri autoritari e sempre più preoccupanti. Ma vedo che ormai rischia di non essere un’eccezione in Europa...
DONATELLA DI CESARE - Il sovranismo populista, che si nutre di complottismo, odio per l’altro, stereotipi razzisti, non è più una tendenza marginale, ma sta diventando forza di governo.
ÁGNES HELLER - L’espressione «populismo» è fuorviante. Perón è stato un populista, una sorta di dittatore, che tuttavia aveva la sua forza nei sindacati. I populisti attuali, come Trump o Orbán, sono appoggiati dalle oligarchie, più o meno velate. Oggi viviamo in società dove i tiranni possono essere votati liberamente. Gli interessi di classe non hanno più un ruolo significativo in campo elettorale; le ideologie, invece, sono decisive. In Europa vedo nei prossimi anni lo scontro tra due forze: da una parte la tradizione autoritaria, dall’altra il federalismo, di cui il primo esempio fu Roma antica. Certo, i partiti populisti possono vincere le elezioni, ma non governare a lungo. La democrazia, intesa come governo di maggioranza, non basta a garantire la libertà.
DONATELLA DI CESARE - Lei ha fatto ritorno in Europa, malgrado il lungo esilio, prima in Australia, poi in America. Vuol dire che ripone ancora speranze nel vecchio continente... Io penso che l’Europa avrebbe dovuto diventare una forma politica postnazionale. E invece è rimasta un agglomerato di Stati nazionali.
ÁGNES HELLER - L’Europa si è ridotta a mero progetto burocratico. L’occasione mancata è la Costituzione europea, senza la quale appare difficile fermare le derive populiste e autoritarie. Al contrario di quel che si crede, l’Europa, con il suo passato tetro, è estranea alla democrazia liberale. Profondamente europeo è, invece, il nazionalismo che oggi si riafferma. Il motivo? È mancata una coscienza europea, la costruzione di un’identità unificante. Non si possono incolpare solo i governi; anche i cittadini hanno perseguito interessi nazionali.
DONATELLA DI CESARE - La liberazione delle donne è forse le rivoluzione più significativa, perché rimuove l’unica disuguaglianza che nei secoli è stata ritenuta ovvia, naturale. Perciò lei ha scritto, non senza una punta di provocazione, che lo stato di minorità delle donne è oggi «autoinflitto». Che cosa intende? Si riferisce alla paura della libertà?
ÁGNES HELLER - Sì. La liberazione delle donne è stato anche obiettivo della Nuova Sinistra. Sono molte le «ovvietà» dominanti messe in questione. È una lunga e difficile storia. Ma dal 1968 a oggi noi donne abbiamo ottenuto più riconoscimento di quanto fosse mai avvenuto prima.
DONATELLA DI CESARE - «Oggi sosteniamo che la Nuova Sinistra è stata sconfitta, ma è una sciocchezza». Così lei ha scritto qualche anno fa precisando che «le speranze rivoluzionarie non possono essere realizzate, ma ciò non significa che la rivoluzione sia un inganno». Lo pensa ancora?
ÁGNES HELLER - La Nuova Sinistra mi ha attirato per molti motivi. Sin dall’inizio è stata ostile al comunismo sovietico. Inoltre al suo interno non era necessario concordare su tutto. Infine è sempre stata internazionale - è fiorita in Francia, in Italia, negli Usa, in Sudamerica. I suoi obiettivi erano concreti e diversi. Sotto il profilo filosofico ha contribuito al passaggio dal moderno al postmoderno. Questa rivoluzione per me non è sconfitta né tanto meno conclusa, nonostante le disillusioni e, anzi, proprio per questo. Ma è chiaro che serve mobilitare la società civile sia per ridistribuire le ricchezze sia per coinvolgere tutti in un grande impegno per l’istruzione. Altrimenti attecchiranno i populismi.
DONATELLA DI CESARE - Contro i becchini della filosofia, che vanno proclamandone ormai da tempo la fine, lei dice che la filosofia non è morta, a patto che non si riduca a puro gioco speculativo.
ÁGNES HELLER - Occorre essere cauti quando si parla di futuro, specie nel campo della filosofia. Nell’epoca postmetafisica le opere filosofiche di maggior rilievo sono state prodotte nell’ambito della fenomenologia e dell’ermeneutica. Adesso sembra quasi che il pensiero creativo si sia esaurito. Mentre i filosofi analitici non fanno che risolvere enigmi, gli storici coltivano una filosofia da museo. Tutto ciò serve a poco - come i nodi di un fazzoletto che dovrebbero ricordarci quel che non vorremmo dimenticare... Vedo però anche nella filosofia continentale, in cui mi riconosco, il rischio di un’eccessiva popolarizzazione.
Ágnes Heller: «Il sistema Orbán è in fase di declino»
Intervista. Il premier verso il suo terzo mandato, «ma in questi quattro anni ha perso molto e ora i partiti dell’opposizione potrebbero sfruttare questa occasione», parla la filosofa ungherese
di Massimo Congiu (il manifesto, 08.04.2018)
BUDAPEST Filosofa, allieva di György Lukács e in seguito sua assistente universitaria e collaboratrice, Ágnes Heller è stata una delle principali esponenti della «Scuola di Budapest». Nata nel 1929 nella capitale ungherese, scampata alla Shoah, è oggi una delle voci critiche nei confronti del sistema di Viktor Orbán. Heller è nota in occidente per la teoria dei bisogni radicali e della rivoluzione della vita quotidiana e per aver dato luogo a una lettura del marxismo dal punto di vista antropologico e antieconomicista. La teoria dei bisogni in Marx, 1974, La filosofia radicale, 1978, e Filosofia morale, 1990, sono tra le sue opere tradotte in italiano.
Facciamo un bilancio di questi ultimi anni di governo.
Negli ultimi quattro anni il governo si è occupato di concentrare il potere nelle sue mani. E di esercitare soprattutto il controllo delle manifestazioni di dissenso. In pratica ha cercato di annientare l’opposizione. Basta considerare il discorso di Orbán dello scorso 15 marzo (festa nazionale, ndr) in cui parlava di repressione contro quanti lo avversano, contro i partiti e le organizzazioni della società civile che si oppongono alla sua politica, contro gli organizzatori delle manifestazioni antigovernative e contro i giornalisti che lo criticano. Gli ha promesso ritorsioni. La situazione è peggiorata, non c’è stata libertà di stampa, che è stata progressivamente limitata. Inoltre la propaganda governativa mente al 100%, un po’ come quattro anni fa quando il governo ha promesso la riduzione dei costi delle utenze.
Soprattutto negli ultimi tre anni il governo ha battuto molto sulla questione migranti.
Sì, e oggi Orbán dice che l’opposizione vuole portare in Ungheria milioni di migranti, sopprimere la specificità culturale del paese e la sua identità cristiana. Non c’è niente di vero in ciò che il governo attribuisce all’opposizione in questo senso, ossia aprire le porte del paese a tutti: agli africani, a tutti i migranti, invitarli a entrare in Ungheria in modo indiscriminato e mettere a loro disposizione una casa, un posto in cui stare a titolo gratuito. Questo è oggi l’aspetto centrale della propaganda governativa.
L’altro tema della propaganda orbaniana è quello riguardante la figura di George Soros.
Il tema è legato a quello dei migranti e fa capo allo stesso meccanismo. Per il governo, Soros è colui il quale organizza tutte queste macchinazioni ai danni del paese. Quello che muove i fili dietro i partiti dell’opposizione che secondo il governo non rappresentano l’Ungheria e fanno piuttosto gli interessi di una congiura internazionale. Secondo l’esecutivo, Soros coordina questa congiura, è il ragno che cattura tutti nella sua tela. Il governo Orbán gioca il ruolo del difensore del paese da tutti i pericoli esterni e quindi anche da Soros. Quest’ultimo è una figura mitologica, è Mefisto, Lucifero, è il diavolo che tenta tutti e vorrebbe fare la stessa cosa anche con l’Ungheria per distruggerla. Solo Viktor Orbán si erge in difesa del paese, solo lui può proteggerlo da queste minacce. Questa è più o meno la narrazione governativa.
L’opposizione lancia al governo accuse di corruzione.
Credo che corruzione sia il termine sbagliato. Corruzione è quando un uomo d’affari paga un rappresentante del governo. Quando la politica influenza l’economia. Quando il mondo degli affari condiziona la politica. Quella è la corruzione. In Ungheria non avviene esattamente questo, quindi a mio avviso non si può parlare, tecnicamente, di corruzione. Esiste un partito, questo partito crea l’oligarchia ungherese i cui membri prendono soldi, hanno una fetta di potere e contemporaneamente si assumono l’impegno di rimanere fedeli al partito e hanno il compito di sostenerlo. Fanno capo a Viktor Orbán ed è come se fossero membri di una stessa famiglia. Questo sistema viene chiamato da alcuni «stato-mafia», è forse una buona definizione. Potremmo anche parlare di feudalesimo, con un signore che premia i suoi sottoposti con i latifondi. Sono cose che accadono all’interno di un circuito legale. Il 20-30% dei fondi ricevuti dall’Unione europea viene intascato dal governo e dalle persone a esso vicine, sempre con questo sistema.
Come vede l’opposizione?
L’opposizione potrebbe vincere queste elezioni se avesse la generosità e il buon senso di essere meno divisa e litigiosa. Nel 2014 il Fidesz era in minoranza e comunque ha ottenuto la maggioranza dei due terzi. Tutto si complica se l’opposizione non crea una struttura con un solo candidato e se i vari partiti che la compongono continuano a sollevare dubbi e ad alimentare la sfiducia dell’elettorato nei confronti di altre forze politiche ugualmente contrarie al governo. Forse gli elettori sono più intelligenti dei partiti e sanno meglio di loro di cosa ha bisogno il paese. Ma è anche vero che molti non sono interessati alla destra o alla sinistra, e capita che mettano solo una x su un simbolo senza considerare la responsabilità del loro gesto.
Cosa pensa dei partiti Momentum e il Partito del Cane a Due Code?
Momentum è un partito di giovani, molti dei quali hanno completato i loro studi all’estero. Inizialmente, da fuori, non avevano idea di cosa succedesse in Ungheria, ora cominciano pian piano a capire come stanno le cose e a rendersi conto che all’estero non si comprende bene che cosa succede in questo paese. Adesso iniziano a occuparsene e a fare politica in modo rispettabile. Quello del Cane a due code è un partito ironico, lo voteranno quelli che non credono più in nessuna delle forze politiche concorrenti, quelli per i quali tutto è marcio, ma di certo non entrerà in Parlamento.
Jobbik ha deciso di cambiare un po’ identità o abito.
Jobbik è cambiato molto e sta facendo un percorso inverso a quello di Fidesz. Quest’ultimo, infatti, era un partito liberale, poi è diventato di destra e ora è di estrema destra, con il razzismo e con tutto ciò che caratterizza la destra radicale. Jobbik ha iniziato nell’estrema destra, ma poi ha visto che lì non c’è più posto in quanto tutto quello spazio è stato occupato dal Fidesz. Da qualche parte Jobbik doveva cercare collocazione. Dove? Solo al centro. Ora in Ungheria non c’è un partito della destra moderata o di centro-destra, dato il cambiamento del Fidesz, quindi Jobbik ha approfittato di uno spazio lasciato vuoto. Al centro ha visto la sua occasione migliore.
C’è chi dice che per Orbán è iniziata una fase declinante. È una visione semplicemente ottimistica o fondata?
Secondo me non è una visione ottimistica, è un dato di fatto. Ormai nei suoi discorsi parla solo di questo milione di migranti pronto all’invasione. Non sa che altro dire. Ora l’opposizione potrebbe approfittare della situazione. Quattro anni fa non era così, non si poteva parlare di declino. Ora però la situazione è cambiata, Orbán ha perso molta della sicurezza che aveva prima e i partiti dell’opposizione potrebbero sfruttare questa occasione.
Il bonapartismo è ancora qui
L’Europa non è al sicuro, la democrazia è un’acquisizione recente
Ágnes Heller parla di diritti, migranti e islam: ci salverà Berlino
intervista di Danilo Taino (Corriere, La Lettura, 01.05.2016)
Ai tempi del nonno di Ágnes Heller, «in Bosnia i cristiani andavano dai vicini musulmani a fumare; e i musulmani dai vicini cristiani a bere vino». La filosofa ungherese, che il 12 maggio compirà 87 anni, lo racconta per dire che non è sempre stato come oggi, in Europa. Nell’impero asburgico, popoli ed etnie vivevano fianco a fianco. Poi, però, tutto finì comunque in tragedia. È che «il mondo è sempre stato un posto pericoloso, chi pensa il contrario non ha mai letto un libro di storia», dice.
La casa di Budapest della signora Heller ha un largo terrazzo sul Danubio, nel lato di Pest: di fronte, sulla sponda di Buda, l’università tecnica e il museo di Storia naturale. È una mattina di sole. Nel pomeriggio andrà al funerale di Imre Kertész, scrittore e premio Nobel, morto il 31 marzo e seppellito venerdì 22 aprile. Prima, si siede a un tavolo tondo colmo di libri e di fogli per questa intervista, nella quale intravede un futuro buono per i Paesi anglosassoni, incerto per l’Europa.
Sembra che nel mondo ci sia desiderio di uomini forti: Putin in Russia, Erdogan in Turchia, Al-Sisi in Egitto, Orbán qui in Ungheria, Xi Jinping in Cina, Trump in America.
«A parte il caso di Trump, uomini forti ci sono sempre stati in questi Paesi, niente di nuovo. Anche in Europa ce n’erano, ora non più. C’è una donna forte in Germania, ma è profondamente democratica».
La democrazia sembra avere un problema, però. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica si espandeva. Ora è in ritirata.
«Era un’illusione che la democrazia avanzasse. Cambiano i modi in cui il potere si manifesta, ma la sostanza tende a restare uguale».
Non vede una crisi della democrazia, nel mondo?
«Gli anglosassoni vivono nella democrazia e continueranno a viverci. Per loro la democrazia e i diritti civili sono fondati nella costituzione, non nello Stato. La crisi è in Europa, dove la democrazia non è una tradizione, dove ancora oggi il bonapartismo non è scomparso. Non possiamo dimenticare che per Paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia la democrazia è un fatto degli scorsi 40 anni. Anche in Italia e in Germania è relativamente nuova, per non dire dell’Europa dell’Est. Il ruolo del costituzionalismo si vede bene nell’approccio agli immigrati».
In che senso?
«Integrazione non significa avere tutti gli stessi vestiti o dire tutti le stesse preghiere. Significa semplicemente rispetto delle leggi. Che non c’è religione che superi la legge. E che tutti gli ospiti devono rispettare le regole della casa: mantenere le proprie tradizioni nella legge. In America e in Australia succede. In Europa no, perché il costituzionalismo è più debole. In Francia una ragazza non può andare a scuola con il chador. In America sì; però deve obbedire all’insegnante. È fondamentale che al centro ci sia la legge. Poi, il chador o la croce non sono un problema dello Stato. Sì, sono liberale: non dobbiamo avere paura delle culture diverse».
Torniamo a Trump. Anche in America sembra esserci voglia di un uomo forte.
«Trump è un peronista e su quella base mobilita le masse. Ma non diventerà presidente. Quello che è interessante negli Stati Uniti è che molta gente è insoddisfatta e per questo sostiene Trump o un ebreo socialista come Sanders. Perché non riconosce più l’establishment. È la prima volta che in America c’è una sfiducia così forte nell’establishment. Ma non è una crisi politica, è una crisi economica. Abituati a credere nelle possibilità infinite, gli americani sono di fronte a una mobilità che era fondata sull’istruzione e ora si è molto ridotta. Perché l’istruzione costa troppo. Ma in discussione non è la democrazia. L’America non abbandonerà la democrazia, non ha una tradizione bonapartista. Lo stesso vale per la Gran Bretagna. In Europa, invece, tutto è possibile. Non vedo un continente dominato dall’islamismo, ma una vittoria della destra e un’Unione Europea illiberale sono possibili».
A proposito, ha letto il romanzo di Houellebecq, «Sottomissione»?
«Sì, è un bel libro. Ma l’ho letto come un avvertimento, non come una previsione. Nel senso che l’islamismo è totalitario, ma non è il pericolo maggiore che corre l’Europa, dal punto di vista della sua possibilità di accettare una sottomissione. Si è già sottomessa ai fascismi, al nazismo, al bolscevismo. Non è impossibile che si sottometta all’islamismo, però lo ritengo improbabile. Le questioni della razza, dello scontro di classe, del nazionalismo esistevano come tradizione in Europa e su di esse quelle ideologie si sono sviluppate e affermate. L’islam no, non è nella tradizione europea. Non credo che sia un vero pericolo. Ma bene l’avvertimento di Houellebecq».
Forse, proprio per il passato fascista, nazista, bolscevico, abbiamo anticorpi contro la sottomissione.
«No, non credo all’antidoto. Qui nell’Est europeo sappiamo bene che coloro che si sottomisero al nazismo si sottomisero poi anche al bolscevismo».
Veniamo alla questione dei rifugiati. Iniziamo proprio con l’Europa dell’Est, dove il loro rifiuto sembra più forte. Cosa succede?
«Alcune differenze tra i Paesi dell’Est europeo ci sono. Gli ungheresi ad esempio hanno paura degli immigrati, ma non di Putin; i polacchi, invece, hanno paura di entrambi. Diversità che dipendono da ragioni storiche. Ma tutti questi Paesi hanno un passato comune, l’occupazione sovietica e il paternalismo. Non hanno affrontato il loro passato durante la guerra, non ne hanno mai discusso, non sono arrivati a dire basta al nazionalismo. Il nazionalismo ha iniziato a imporsi sotto l’impero asburgico, ma i popoli allora vivevano fianco a fianco. È dopo la Prima guerra mondiale che sono emersi gli Stati nazionali, etnicamente omogenei, che hanno negato il passato di convivenza. Ora, questi Paesi difendono lo Stato nazionale per difendere le loro omogeneità etniche: ritengono che se arrivano estranei perderanno i vantaggi dello Stato nazionale. L’omogeneità etnica non è razzismo, ma ha a che fare con esso. In questi Paesi, i governi non parlano mai di rifugiati, ma sempre di migranti che distruggono la società e portano una cultura parallela».
Non è solo una caratteristica dell’Est.
«No. Tutti gli Stati nazionali tendono a parlare di culture parallele e a temerle. In Europa l’eccezione è la Svizzera, che infatti non è uno Stato nazionale. In Italia questo aspetto sembra essere meno forte tra la popolazione, forse perché il vostro è uno Stato nazionale più tardo e meno forte. Non c’è invece questione di cultura parallela in America o in Israele. Ma da noi si è affermata un’ideologia di comodo: qui, quando dici islam dici Parigi e Bruxelles, gli attentati. Identificare islam e terrorismo è una concezione del tutto errata, empiricamente: gli iraniani non si fanno esplodere, solo certi arabi lo fanno. Però è un’identificazione che sostiene la demagogia».
Che opinione ha della cancelliera Merkel?
«Una gran donna. Non era probabilmente del tutto cosciente della portata della decisione di aprire le porte ai rifugiati, ma la sua è stata un’ottima decisione. Il suo cuore è nel posto giusto. Però ha fatto errori, non aveva un piano, probabilmente. Ma mi pare la leader migliore in Europa. È che la Germania ha fatto una riflessione enorme sul proprio passato e l’ha rifiutato. I tedeschi sono diventati un popolo diverso. Il che non risolve il problema dell’Europa, perché per stare ritti non basta un piede, ne servono almeno due: ma oggi la Francia è attraversata da un nazionalismo di destra e di sinistra molto più forte di quello tedesco».
Come legge le tensioni nazionaliste che crescono in tutta Europa?
«Nel XVIII secolo si è sviluppato e ha preso piede l’universalismo, abbracciare tutti. Nel Flauto Magico , Mozart poteva musicare la frase riferita a Tamino, “è più di un principe, è un uomo”. Ma subito dopo arriva la Nazione Tedesca di Fichte. Universalismo e nazionalismo sono nati assieme e gli europei tendono a ubbidire a questa dualità. È la ricerca di un compromesso tra i diritti dell’uomo e lo Stato. Caratteristica europea, perché i diritti umani sono basati sullo Stato nazionale e non sulla costituzione».
Oggi ha più senso parlare di divisione tra destra e sinistra o tra nazionalisti e globalizzati?
«Destra e sinistra sono categorie tradizionali che ora hanno contenuti diversi, collegati più ai modi di vita che all’economia. La destra è più per famiglia e religione, la sinistra più per modernizzazione e piacere della vita. Ma la questione capitalismo versus collettivismo è sparita, l’Europa ha di fatto accettato l’americanizzazione. Quanto alla globalizzazione, sì, la cultura è globalizzata, sia quella alta sia quella bassa; come l’economia e la tecnologia. Ma non sono globalizzati i modi di vita, basati sulla tradizione: non possono esserlo. Anche nell’impero romano all’assimilazione seguì la disassimilazione. Ciò può essere una buona cosa, le differenze non sono un male».
Non sono passi indietro?
«Il progresso della natura umana è un’illusione dell’universalismo. È meglio la realtà dell’illusione. Nel mondo ci sono strutture diverse, anche strutture di omicidio di massa, masse di poveri mobilitate dalle élite. Servono le radici delle libertà democratiche per limitarle e prevenirle. Ma non illudiamoci di andare verso una società giusta: non esiste la società giusta, niente è perfetto. In Europa possiamo trattare i problemi, ma non risolverli. La vita non può essere risolta».
Un mondo di incertezze.
«Gli anglosassoni sono al sicuro. L’Europa non lo so. Ma ho fiducia nei tedeschi».
Agnès Heller: l’Europa non è innocente
Filosofia. Incontro con la filosofa ungherese Agnès Heller. Muri e fili spinati tornano ai confini degli Stati-Nazione, la fortezza chiude le porte e respinge moltitudini di rifugiati e migranti dalla Grecia verso la Turchia. «Questa crisi è un test di esistenza per un continente senza identità politica, dove risorge il bonapartismo dei leader, mentre il nazionalismo ha sconfitto la solidarietà»
intervista di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 08.04.2016)
Da bambina Agnès Heller ha fatto l’esperienza della persecuzione e dello sterminio nazista. L’origine ebraica condannò suo padre, che fu ucciso a Auschwitz nel 1945. Con sua madre lei si salvò per miracolo, nel ghetto di Budapest. L’inizio sconvolgente di una vita: «Ho pensato tutta la vita cosa significa negare a un perseguitato un rifugio in un altro paese - racconta oggi - Se gli altri paesi europei ci avessero dato asilo forse la metà degli oltre 600 mila ebrei ungheresi si sarebbero salvati».
Da filosofa, già allieva di Gyorgy Lukacs ha perso due volte la cattedra per le sue opinioni politiche: la prima dopo il 1956, dopo la repressione sovietica della rivoluzione ungherese; la seconda perché criticò l’invasione della Cecoslovacchia e Praga rimase sola. Agnès fuggì prima in Australia, poi a New York dove ha insegnato nella cattedra di Hannah Arendt. Due grandi filosofe unite dallo stesso destino, nello stesso luogo: quello dell’immigrazione, della persecuzione per le idee o per l’origine. Insieme hanno vissuto il paradosso del migrante,: un essere umano protetto dai diritti umani che per essere rispettato deve diventare oggetto di repressione, di controllo o respingimento da parte delle leggi degli stati.
Una contraddizione esplosiva nel cuore della democrazia liberale e dello stato di diritto, prospettive oggi sostenute da questa filosofa ungherese di 86 anni. Oggi c’è qualcosa di peggio dei fili spinati e dei muri che tornano a svettare sui confini dell’Europa dell’Est fino alla Germania: il miscuglio di paure dello straniero, cinismi geopolitici e nazionalismi risorgenti che hanno portato al discutibile e gravoso accordo tra Unione Europea e Erdogan che bloccherà migranti e profughi provenienti dalla Siria (e non solo) in Turchia. Sei miliardi di euro per tenere lontano dall’Europa gli effetti delle guerre, rafforzando un continente che vuole restare una fortezza.
«I filosofi non offrono soluzioni, illuminano le contraddizioni» sostiene Heller parlando prima di iniziare una conferenza organizzata dai senatori del Pd ieri nella biblioteca di piazza della Minerva a Roma. Comunque una soluzione viene proposta dalla filosofa: «Fare entrare in Europa chi è in pericolo e in cambio chiedergli l’osservanza della legge e della costituzione - sostiene - Tutti devono potere diventare cittadini e non essere rifiutati». Il problema, tuttavia, resta l’Europa e le sue politiche migratorie. «Sono il frutto di un conflitto tra diritti umani e diritti di cittadinanza - spiega Heller - Le carte dei diritti umani sono finzioni giuridiche che hanno valore di fatto. I diritti di cittadinanza sono invece fatti che hanno un valore politico. L’universalismo dei diritti umani spinge ad aprire le porte ai rifugiati, senza fare distinzione tra migranti e profughi di guerra. In nome dei diritti di cittadinanza si può arrivare a chiudere la porta usando la motivazione del Welfare: visto che è in crisi, e le risorse sono poche, si sostiene che gli europei non dovrebbero condividerli con chi non lo è. In questo modo salta l’unico legame possibile tra queste prospettive: la solidarietà».
Quella che prima era una faglia, ora è diventato un abisso. La crisi economica l’ha squadernato, i partiti xenofobi e nazionalisti intingono il loro pungolo dentro l’inchiostro dell’odio. Heller cita il premier del suo paese, Viktor Horban, il primo ad avere eretto muri e fili spinati sulle rotte delle moltitudini umane che hanno attraversato nell’ultimo anno i confini d’Europa. «Come cittadina ungherese trovo assurdo puntare sull’odio infondato contro gli stranieri, e opporre un «noi» europeo o nazionalistico a un’entità astratta ed estranea identificata con i migranti». Questo è accaduto. Il trattato di Schengen non ha avuto più storia: molti altri paesi hanno chiuso i confini e le paure delle destre sono diventate incendi nelle cancellerie. L’Europa coltivava il sogno di un’entità sovranazionale, ma si è riscoperta un’unione di Stati-Nazione.Horban si è messo all’avanguardia di una delle tradizioni politiche europee: il bonapartismo che diventa un nazionalismo che sembrava non avere più credito.
L’Europa non è mai stata innocente. I primi rifugiati, ricorda Heller, sono stati gli europei che fuggivano dalle loro guerre. Dopo la prima guerra mondiale e i primi anni venti la «nazione» - un concetto che ha un passato rivoluzionario - sconfisse l’internazionalismo proletario e le aspirazioni cosmopolitiche della borghesia e generò il fascismo. Heller ha vissuto nel socialismo reale e descrive l’universo concentrazionario dei Gulag.
«L’Europa ha sempre definito gli altri come “infedeli”, “selvaggi”, “barbari”, “nemici” o “sottosviluppati” - afferma - Dopo il nazifascismo si è identificata con le sue vittime e ha istituzionalizzato l’universalismo. Oggi è in corso una battaglia sui suoi valori costituenti che mette a rischio la sua stessa esistenza. L’identità europea non può essere data per scontata, oggi più che mai, visto che non suscita entusiasmo». «Questa crisi è un test di esistenza per l’Europa. Se gli stati sceglieranno il bonapartismo e le rivendicazioni nazionalistiche e persino etniche, ai danni dell’universalismo della tradizione repubblicana e federalista, se sceglieranno il nazionalismo al posto della solidarietà, l’Europa resterà un insieme economico di Stati, senza identità politica». E questo può essere l’antefatto di un altro inferno.
Agnes Heller. “L’Europa dei diritti è in pericolo
Orbán e i suoi alleati: il nuovo Asse”
La filosofa ungherese: “Varsavia, Budapest, Bratislava e Praga non sono unite dai valori ma dall’avere un nemico comune. È la sfida degli egoismi nazionalisti contro la solidarietà dei veri europei”
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 17.02.2016)
«I quattro paesi di Visegrad sono il nuovo Asse. Il nemico è Angela Merkel, simbolo forte dell’Europa liberale. Lo dice Agnes Heller, filosofa ungherese che è stata il massimo esponente della Scuola di Budapest e rimane la leader storica dell’intellighenzia critica del centro-est europeo.
Questi no all’Europa raccolgono ampi consensi in patria: che cosa sta succedendo nel centro-est dell’Europa?
«Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia ricordano il vecchio Asse. Non sono uniti da valori ma dall’identificare un nemico comune: il cuore della Ue, soprattutto la Germania, contro cui sono in guerra per imporre le loro ideologie illiberali e prendere la guida dell’Europa insieme a forze a loro affini. È una sfida lanciata a liberal, progressisti, conservatori, a tutti i veri europei».
Il no ai migranti non è l’obiettivo principale?
«È piuttosto strumento della loro guerra: criminalizzano migranti e profughi per criminalizzare Angela Merkel che, dicono, accogliendoli sul suolo europeo distrugge la loro idea d’Europa. È guerra tra diverse parti dell’ex impero sovietico e le democrazie dell’Europa occidentale e meridionale. Vincerà chi avrà il controllo della Ue».
Merkel primo bersaglio, dunque: perché?
«Perché è e rimane il personaggio più forte, centrale, dell’Unione europea. Nella partita in corso, lei è come il Re negli scacchi. Devono riuscire a darle scacco per trasformare la Ue in una “Europa delle patrie” rette da sistemi illiberali nazionali, di cui Orbàn e i suoi migliori alleati, i governanti polacchi, parlano. Scacco al re, anzi regina in questo caso, nel nome di nazionalismo e onnipotenza degli Stati nazionali, il vero male del Ventesimo secolo, a mio modo di vedere».
Ma sono comunque popolarissimi in patria: perché?
«Perché gli elettori da noi sono frustrati e depressi, sebbene non manchi chi scende in piazza per protestare contro questi governi antiliberali. È sempre facile in Europa orientale, dove esistono persino opposizioni a destra di Orbán o del PiS polacco, giocare la carta del nazionalismo, dire che occorre resistere ai diktat in arrivo da fuori. Il potere è così forte da creare oligarchi che poi lo sostengono».
I cittadini condividono dunque il no alla solidarietà europea dei loro politici?
«Purtroppo, giocando la carta della resistenza nazionalista contro presunti ricatti di Bruxelles o Berlino, hanno distrutto il principio stesso della solidarietà, legame e valore fondamentali dell’Europa. Vogliono tutto dalla Ue, ma non danno nulla in cambio. La gente dimentica gli ingenti aiuti e investimenti europei. E l’egoismo degli Stati nazionali, definiti da Nietzsche “bruti che si servono da sé”, distrugge i valori costitutivi europei. Ma in patria slogan e propaganda convincono.
Quanto è pericoloso tutto questo?
«Molto, perché le democrazie occidentali si stanno mostrando deboli a fronte di questi semi-dittatori. Germania, Francia, Italia, in quanto Stati liberali, non sono portati ad assumere linee dure o sanzioni. Se resteranno deboli, l’Asse e i suoi potenziali seguaci potranno davvero mettere a rischio la Ue e i suoi principi»
L’Europa democratica dovrebbe reagire più duramente?
«Non so come dovrebbe reagire, ma so che deve mostrarsi forte. Difendere i suoi valori. E capire la serietà della sfida illiberale di cui Orbán è l’ideatore: lui invita tutti a non sentirsi più innanzitutto europei. Nel futuro non temo certo guerre europee, ma sostengo che il virus illiberale e demagogico potrà diffondersi e minare le fondamenta democratiche dell’Europa, contando sulla capacità di condizionare l’elettorato con un messaggio forte e populista».
CASA DELLA CULTURA
Lunedì 16 Novembre 2015 ore 21.00
I nazionalismi minacciano l’Europa?
I nazionalismi minacciano l’Europa?
Incontro con Agnes Heller, prestigiosa filosofa ungherese allieva di György Lukàcs
Introduce Ferruccio Capelli
traduzione dall’inglese all’italiano
In Europa
Intervista ad Agnes Heller
L’Europa dei nazionalismi
(Il Mulino,, 29 settembre 2015)
Quando scende dallo sgabello in cui si è inerpicata per leggere le mail al computer, ti rendi conto di quanto sia piccola ma energica Agnes Heller. 86 anni, ha vissuto il nazismo nel ghetto di Budapest, si è innamorata della filosofia studiando con Lukacs, è stata marxista non ortodossa, espulsa e poi riammessa nel Partito comunista ungherese. Negli anni Settanta riesce a uscire dal Paese per insegnare prima in Australia poi a New York. Il suo ultimo libro è La bellezza (non) ci salverà (Il Margine, 2015), dove dialoga con un altro vecchio mitteleuropeo, il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Abbiamo incontrato Agnes Heller a pordenonelegge e abbiamo chiesto a lei, ungherese, che parole userebbe per descrivere cosa sta accadendo nel suo Paese ai migranti.
AH: I problemi sono complicati. Ecco perché non c’è una sola parola chiave. Si può descrivere cosa succede ora, cosa potrebbe accadere in futuro, quali possibili alternative per l’Europa e per il mondo: ma questo non può essere sintetizzato in una sola parola chiave. Ecco, forse, si può affermare che il volto dell’Europa cambierà.
Ma come cambierà l’Europa è tutta un’altra questione.
L’Europa sta chiedendo a chi bussa alle sue porte di accettare le sue leggi e la sua cultura. Cioè di assimilarsi, non integrarsi.
AH: L’Europa è fatta di Stati-nazione. E l’Europa è pessima nell’attuare l’integrazione. I popoli con differenti abitudini e culture hanno bisogno di essere integrati. L’Europa invece finisce sempre per tendere all’assimilazione. Ma assimilarsi diventa quasi impossibile per un così gran numero di persone. Credo che l’Europa debba chiedersi se vuole veramente l’integrazione, e non l’assimilazione: è un’opzione. In questo caso, se siamo d’accordo a integrare e non ad assimilare, otterremo nuovi e buoni lavoratori, dei patrioti. Ma se vorremo assimilarli produrremo dei nemici. Bisogna capirlo, altrimenti non si sa cosa accadrà in futuro.
Guardate gli Stati Uniti: non sono uno Stato-nazione, hanno legalizzato 3 milioni di immigrati che sono diventati americani, quindi patrioti. Ma in Europa non è così: bisogna imparare la lingua, le abitudini, le regole del Paese ed è molto difficile. I musulmani, per esempio, non assimileranno mai la cultura cristiana. L’unica cosa che si può - e si deve - chiedere loro è di non limitare la libertà altrui, quella dei figli, delle donne, degli amici e di rispettare le leggi dello Stato e la sua Costituzione. Se lo fanno, possono fare ciò che vogliono. Possono vestirsi come vogliono, andare alla moschea quante volte desiderano. Possono continuare a vivere la propria cultura, a meno che essa non contravvenga alle leggi dello Stato o limiti la libertà altrui. Non si può introdurre la sharia per gli altri, ma si può seguirla individualmente. Che importa? Basta lasciare in pace gli altri, senza accusarli di decadenza o ateismo, altrimenti anche chi è integrato non sarà tollerato. Entrambe le parti devono imparare una lezione, oppure ci saranno molti problemi in futuro.
La storia dell’Europa è un susseguirsi di guerre, di sangue versato in nome dei nazionalismi.
AH: Gli Stati-nazione sono nazionalisti! È una loro caratteristica. Sono nati dopo la Rivoluzione francese. Sono nazionalisti dalla nascita. Come ho già scritto, è stato durante la Prima guerra mondiale che il nazionalismo ha vinto contro l’internazionalismo proletario e la borghesia cosmopolita. Da allora l’Europa è stata caratterizzata dal nazionalismo. E non è facile cambiare. Perché se nella storia si sviluppa una certa identità, è molto difficile farla scomparire.
E il nazionalismo è anche l’ideologia vincente di questo momento: come si può combatterlo?
AH: La gente può avere una propria identità anche senza avere un’identità nazionale. L’Europa era un’Europa di popoli, ora è diventata un’Europa di nazioni. E da allora non si è più trattato di un’identità di popoli, di religione, di città (come in Italia) o di Stati (come negli Stati Uniti), ma di una soverchiante identità nazionale.
Come si può contrastare questo fenomeno? Si può affermare che bisogna invertire la direzione, che l’Europa deve tornare a essere un’Europa dei popoli. Ma chi può farlo? Quale potere ne è in grado? La nazione e il nazionalismo sono ottime armi politiche con cui i potenti conservano ed esercitano ancora più potere. I potenti possono fare sempre riferimento al bene della nazione. I cuori iniziano subito a battere quando si sente parlare della difesa della propria nazione... Ma come la difendiamo? Contro altre nazioni o no? Per esempio, quando vivevo in Australia e l’Italia ha vinto i Mondiali, tutta Melbourne era piena di emigrati italiani che festeggiavano. Non facevano male a nessuno! Se "nazione" significa volere che il mio Paese vinca nello sport, o provare orgoglio quando un mio compatriota riceve il Nobel o è una celebrità del tennis, va benissimo! Ma se "nazione" implica odio o disprezzo per altre culture, che consideriamo diverse, allora è difficile cambiare le cose. È difficile tirare indietro l’orologio della storia!
(Questa intervista ad Agnes Heller è stata raccolta e trasmessa da Radio Popolare)
Pordenonelegge / identità personale
Il labile confine tra «io» e «noi»
di Agnes Heller (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.09.2015)
Si possono distinguere due tipi di identità personale da due prospettive differenti: una soggettiva, o piuttosto interna, e l’altra oggettiva, o piuttosto esterna. L’identità interna si trova nella memoria autobiografica che, a sua volta, si basa su frammenti di memoria legati l’uno all’altro dall’individuo in una narrazione. Ogni narrazione autobiografica è una finzione, e non solo perché i frammenti di memoria vengono sempre interpretati intrecciandoli insieme per dare una continuità alla narrazione. La memoria autobiografica ricorda per certi versi i sogni. I propri ricordi possono essere discussi o raccontati ai propri cari proprio come i sogni: possono essere trascritti o confessati a un prete o a un analista, e in ogni caso, inevitabilmente, vengono rielaborati. Prendono forma, subiscono variazioni, possono essere assimilati a condizioni o occasioni concrete. Quante più sono le condizioni, e quanto più differiscono, tanto maggiori saranno le variazioni di una narrazione autobiografica.
Non c’è bisogno di precisare che nella modernità, in cui tutti viviamo - per citare Max Weber - in un universo sociale politeistico fatto di sfere differenti, ciascuna connotata dai propri codici etici, pragmatici e comportamentali, non esistono due condizioni identiche per la formazione di narrazioni autobiografiche. Disponiamo di numerose narrazioni autobiografiche bell’e pronte da snocciolare nelle occasioni più disparate persino senza imbrogliare o mentire. S può perfino presupporre che tutte le narrazioni autobiografiche si basino su autentiche tracce di memoria, nessuna delle quali semplicemente inventata per produrre una buona impressione. In questo caso la verità e l’autenticità sono, in ultima istanza, identiche.
La cosiddetta identità personale interna ha tre implicazioni. Prima di tutto, solo l’“io” ha accesso alle tracce mnestiche. Si può presumere che le tracce di un carico emotivo pesante siano normalmente preservate. All’inizio, nell’infanzia, i ricordi sono inscritti se vengono codificati con affetti innati empiricamente universali come la paura, la vergogna, il disgusto, la rabbia, l’erotismo, la gioia, il dispiacere. In seguito possono essere inscritti anche se sono codificati da emozioni più complesse e modificate dalla cognizione. All’inizio, e talvolta anche in seguito, i ricordi possono essere rievocazioni di una visione, un gusto, un suono, ma anche di qualcosa che è successo. La narrazione di un ricordo a se stessi è anche una specie di presentazione del sé, sebbene non ancora la sua rappresentazione. L’identità personale interna è, prima di tutto, un’autopresentazione che è soprattutto una manifestazione della preservazione e della difesa di sé.
Secondo, io e nessun altro, creo le narrazioni principali dalle tracce della mia memoria. Posso combinare le tracce in vari modi quindi posso presentare (a me stesso) autobiografie molto diverse. La memoria autobiografica prende le mosse da un punto, e questo punto è sempre l’assoluto presente della creazione dell’identità, il narratore che rafforza l’identità. Nessuno mette insieme la sua narrazione della memoria autobiografica dalla prospettiva di ieri. Certo, ci si può chiedere che cosa sarebbe successo se, dieci anni fa..., e così via, ma è sempre oggi che ci si formula tale domanda. Tutte le narrazioni autobiografiche sono retrospettive, vengono effettuate da una prospettiva teleologica. In questo senso, si può dar vita a un’autobiografia finale solo nel momento della morte. Poiché le narrazioni autobiografiche variano e mutano costantemente, anche l’identità personale interna cambia.
Terzo, l’identità interna può essere definita “soggettiva” solo perché è l’individuo in cui albergano queste esperienze che le richiama alla memoria. Così, l’identità interna garantisce l’accesso principale all’autoconoscenza. In sostanza, contiene la verità continuamente cangiante riguardo al sé.
Poiché l’identità personale è innanzitutto interna, e le narrazioni dell’identità come autopresentazioni dell’individuo sono fittizie, questa verità è anche non vera. La iscrizione di Delfi «Conosci te stesso» che ordinava un compito impossibile anche nei tempi antichi, suona oggi alquanto assurda. Anche solo immaginare tutti i possibili tipi di situazione è impossibile nei tempi moderni. Di conseguenza, non abbiamo idea delle possibilità nascoste e così continuiamo a sorprenderci.
In uno dei suoi racconti brevi Stefan Zweig ci dice che una signora elegante, una vedova virtuosa, va a letto con un ragazzo polacco per, lei crede, mera empatia, e in seguito confessa che se questo ragazzo le avesse chiesto di andare con lui in capo al mondo lei si sarebbe precipitata. Nessuno sa dell’accaduto, ma lei ha imparato qualcosa di interamente nuovo di se stessa: qualcosa che non aveva nemmeno mai sospettato “è” in lei... Ciò che importa è che questa esperienza non ha distrutto il rispetto che provava per se stessa, ma solo che rispettava se stessa anche per qualcos’altro, in confronto a ciò che gli altri consideravano con favore in lei, ovvero la donna virtuosa, la vedova dignitosa.
È ovvio che il “soggetto” dell’identità interna non è solo l’“io”, ma anche il “noi”. L’albero che ricordo sta nel “nostro” frutteto, la persona che mi sorride è qualcun altro, mia madre, la mia infermiera. Sono una ragazza, sono un ragazzo, mi parlano con questo o quel linguaggio. “Noi” vinciamo, “noi” perdiamo, “noi” dovremmo agire in questo modo o in quest’altro. La maggior parte delle esperienze che ricordiamo, siano esse dolorose o felici, le abbiamo vissute con altri. Altri ci hanno umiliati, altri ci hanno amati. Possono umiliare in noi, o amare in noi, non solo l’“io” ma anche il “noi”. Le tracce mnestiche dotate di maggiore emotività sono quelle che colpiscono nella nostra mente non solo le azioni degli altri, non solo i sentimenti che gli altri hanno acceso in noi, ma anche le nostre reazioni, cioè la nostra accettazione o il nostro rifiuto dell’autorità di questi altri.
L’identità interna è in una relazione di reciprocità con l’identità esterna. Diversamente dalle narrazioni dell’identità interna, le narrazioni dell’identità esterna non sono né teleologiche né retrospettive. È tipico piuttosto il contrario, anche se non in senso assoluto. Anche le identità esterne possono cambiare. Può succedere a causa di nuove esperienze, nuove informazioni, un mutamento del giudizio sociale o dell’immaginazione; le identità esterne più rigide sono dovute normalmente a pregiudizi, e questi pregiudizi sono prevalentemente pregiudizi contro il “noi”, vale a dire contro l’identità etnica, religiosa, nazionale, di genere, sessuale dell’oggetto della costruzione identitaria esterna.
Sartre e l’esistenzialismo francese in generale ritenevano che lo sguardo degli altri fosse il fattore essenziale nella costruzione dell’identità, specialmente dell’identità costruita come “noi”. Sartre disse che lo sguardo dell’antisemita crea l’ebreo, Simone de Beauvoir che lo sguardo degli uomini determina l’identità del sé delle donne. Secondo lei le donne accettano l’opinione e il giudizio dello sguardo maschile come qualcosa di palesemente corretto, e finiscono per vedersi con gli occhi degli uomini, interiorizzando le loro aspettative. C’è un mutuo riconoscimento e anche una simmetrica reciprocità, e tuttavia in tale condizione le donne accettano il ruolo stabilito per loro.
Beauvoir suggerisce (e non solo per le donne) di rovesciare lo sguardo: di costituire l’immagine, la personalità esterna degli uomini attraverso lo sguardo femminile. Dal momento in cui impareranno a respingere il ruolo loro riservato dagli uomini saranno capaci di creare un’identità interna indipendente dallo sguardo maschile e potranno pretendere rispetto per la loro autopresentazione e non solo per essersi assimilate al ruolo femminile tradizionale. Si incontrano grandi difficoltà nel cogliere l’identità esterna di qualcuno, non solo perché si ignora la sua cultura, ma anche perché la stessa difficoltà si incontra quando la porta che dà accesso alla nostra identità interna è chiusa e abbiamo perduto la chiave.
Tale difficoltà è resa evidente dal racconto breve di Stefan Zweig Verwirrung der Gefühle (La confusione delle emozioni), in cui un professore, festeggiato dai suoi colleghi e studenti per il suo sessantesimo compleanno, legge il Festschrift che hanno preparato per lui e si accorge che quella biografia non gli appartiene, che quell’identità esterna condivisa non ha niente a che spartire con la sua identità interna. Poi, in un lampo, il suo giovane sé emerge dal suo inconscio. A vent’anni aveva istituito un rapporto estremamente privilegiato con il suo professore che gli aveva insegnato a comprendere non solo i testi ma anche il mondo. Poi, a un certo punto, il suo professore gli aveva confessato di essere omosessuale e di essere innamorato di lui. Scioccato, era fuggito e aveva rimosso totalmente quel trauma. Adesso, però, riesce ad ammettere a se stesso che in tutta la sua vita non aveva mai amato nessuno, né i suoi genitori né sua moglie e i suoi figli, quanto aveva amato lui. Il professore non aveva avuto rispetto per se stesso, poiché aveva accettato il pregiudizio contro gli omosessuali. Il rispetto di sé del giovane era stato scosso, poiché era innamorato di un pervertito, del demonio. Se avesse giudicato il suo professore e anche se stesso sulla base dell’“io” e del “tu”, e non su quella del “noi” e del “loro”, non vi sarebbe stato alcun trauma, la vita non sarebbe stata sviata. Quindi, la prima condizione del rispetto di sé è quella di giudicare se stessi e anche gli altri non sulla base del “noi”, indipendentemente dal fatto che questo “noi” sia rifiutato o celebrato, ma sulla base dell’“io” e del “tu”. Più facile a dirsi che a farsi.
Agnès Heller, filosofa e intellettuale marxista, molto critica con il governo ungherese
“Sono d’accordo con Juncker l’Europa perderà la sua anima se continuerà ad alzare Muri”
La filosofa ungherese apprezza l’appello del presidente della Commissione Ue: “Odio e ostilità devono soccombere davanti alla solidarietà per chi fugge da fame e guerra
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 25.08.2015)
BERLINO .«Juncker ha ragione, l’Europa rischia di perdere la sua anima. Un’Europa nella quale paura e diffidenze della vecchia cultura degli Stati nazionali vinca sulla cultura moderna della globalizzazione solidale è votata alla sconfitta. E al populismo, pericolo mortale ». Così ci dice Agnès Hel-ler, massima intellettuale marxista vivente.
Professoressa Heller, che pensa dell’articolo di Juncker?
«Tocca il problema di fondo. L’Europa è prigioniera della sua Weltanschauung di Stati nazionali. L’America ha capito che integrare differenti culture è difficile ma vantaggioso, e ha una crescita doppia di quella Ue».
Però l’Europa è affollata di migranti, la gente ha paura, come reagire?
«Il problema esiste, ma come Juncker mi sembra dire la peggiore reazione è quella europea: odio, ostilità vittoriosi sui valori europei di solidarietà e accoglienza. L’Ungheria di Orbàn è il caso limite ma contagioso: propaganda d’odio e d’idea di esclusione degli altri. L’America con tutti i suoi difetti è l’Arca di Noé che accoglie e integra migranti a suo vantaggio, l’Europa non sa essere Arca di Noé e si danneggia da sola. Guai a ignorare il monito di Juncker».
Juncker condanna l’Europa dei nuovi Muri, che ne dice?
«Nell’Europa dei nuovi Muri rivive l’Europa degli Stati nazionali che si combatterono nella prima guerra mondiale, uscendone chi vincitore chi sconfitto. Purtroppo questa Ue che trema per i migranti senza saper trovare soluzioni comuni a un’emergenza reale è un’Europa di Stati nazionali, non di cittadini. Stati nazionali egoisticamente incapaci di accettare nuovi cittadini di altre culture, al contrario dell’America. La fine dell’Europa degli Imperi - austroungarico e germanico, britannico e russo - ci portò più sovranità nazionali ma anche meno multiculturalità e una nuova incapacità di pensare a come essere nazioni moderne, comunità di valori capaci di accogliere a loro vantaggio chi vuole integrarsi».
Ma come rispondere alla paura della gente comune per la “criminalità importata” e le maree umane?
«Guardi, la maggioranza dei profughi viene da Siria, Afghanistan o altri paesi in guerra. Fuggono da bombardamenti, massacri, terrore e morte, e spesso sono qualificati. E non erano criminali a casa. Se li integri, se tendi loro la mano, possono ricambiare. Fiorello La Guardia figlio di poveri migranti da sindaco fece decollare New York come metropoli globale. Ma se li respingi con la cultura dei Muri, diventano ostili, cominciano a odiarti, e arriva il peggio, da ogni parte».
Eppure la marea dei migranti rafforza i populisti: minaccia alla democrazia?
«Sono un filosofo, non mi chieda rimedi. Ma presto o tardi l’Europa perderà la sua identità di somma di Stati nazionali, che lo voglia o no. Internet, la cultura globale, informano tutti: sulle retribuzioni e i diritti umani in Germania o altrove nella Ue ben diversi per i qualificati in fuga da paesi derelitti in guerra. Continueranno ad arrivare. L’America lo ha capito, integra meglio e cresce di più, in economia scienza cultura ed eccellenze».
Insisto, tanti emigranti producono tanti populisti, e allora?
«È il pericolo più grave: che la cultura dell’odio e dell’esclusione conquisti l’Europa. Rischio tragico: per secoli l’Europa fu un continente di stranieri, gente che tra guerre, Stati finiti e nuovi Stati o Imperi, cambiava cittadinanza o nazionalità o cultura di riferimento. Quell’Europa delle tragedie fu anche l’Europa della cultura europea più vitale, dall’Illuminismo alle belle arti a ogni campo. Oggi l’avversione allo straniero non ci difenderà dagli arrivi in massa, ma ci impoverirà nell’animo. Certo, occorre porre loro condizioni severe d’integrazione, ma i Muri creano solo nuovi nemici, ostilità a casa nostra. Chi è accolto come nemico diventa nemico, nel nostro territorio. Chi è integrato diventa patriota come i nuovi americani».
Balcani ventre molle della marea umana, dice Juncker. Vero o falso?
«Vero, ma anche l’America ha il suo ventre molle al confine messicano. Però integra e dà cittadinanza, e insisto cresce il doppio della Ue. In Europa, non solo nella mia Ungheria, troppi parlano contro “chi ha un altro colore della pelle”. I migranti sono una sfida, ma come dice Juncker la risposta deve essere europea, non nazionale. Purtroppo ci manca persino una Costituzione europea, servirebbe anche nell’emergenza migranti».
Tutti all’opera contro l’Ungheria antisemita
La denuncia in musica del maestro Ivan Fischer: «La cultura deve mostrare la verità nascosta»
di Marina Mastroluca (l’Unità, 22.10.2013)
Ce l’aveva lì, sotto alle dita. Un pensiero ricorrente, un’idea pronta a germogliare. Forse però non avrebbe preso vita se non fosse stato per la politica sgrammaticata dell’ultradestra di Jobbik, cresciuta all’ombra dell’autoritarismo del premier ungherese Viktor Orban. Una politica violenta, intollerante, ferocemente anti-rom e apertamente antisemita. E così Ivan Fischer, direttore della Budapest Festival Orchestra oltre che della National Simphony Orchestra di Washington racconta il New York Times si è ritrovato davanti al pianoforte, a casa sua, nella sala piena di libri in lingue diverse, così cosmopolita e lontana dal nazionalismo di provincia della nuova Ungheria. E ha scritto, lui ebreo, un’opera contro l’antisemitismo strisciante.
«La giovenca rossa» racconta un evento accaduto nel 1882, quando un gruppo di ebrei venne accusato ingiustamente della morte di una ragazza ungherese: l’affaire Tiszaeszlar. Fu una vicenda che divise il Paese, qualcosa come il caso Dreyfus in Francia, l’opinione pubblica schierata. Alla fine gli ebrei furono scagionati e la vampata di sdegno che aveva acceso la nazione si mostrò per quello che era: una manifestazione di antisemitismo.
«La cultura non dovrebbe interessarsi alla politica quotidiana ha spiegato Fischer -. Vogliamo che un’opera sia ancora valida il prossimo anno e quello dopo ancora. Ma penso anche che la cultura abbia la forte responsabilità di trovare l’essenza, la verità nascosta che giace dietro il giorno per giorno». E la verità è che la storia di oltre un secolo fa parla di oggi e che l’oggi purtroppo ripercorre spesso strade già viste e dolorosamente sbagliate: Jobbik, tra il tiro a segno nei campi rom e le sfuriate contro la finanza ebraica, lo scorso anno ha trovato il tempo per chiedere la riapertura del caso Tiszaeszlar, con l’intento di ribaltarne l’esito e di mostrare all’opinione pubblica la ferocia giudaica. Persino Orban ha ritenuto di dover prendere le distanze.
Dunque un’opera, dove la folla vociante per la morte della ragazza ungherese si trasforma sul palco negli hooligan degli stadi, tra vuvuzelas e slogan antisemiti. Un’opera dove il baritono canta: «Mi vergogno dell’agitazione antisemita. Come ungherese mi sento contrito, come patriota la disprezzo».
Ce n’era bisogno? Ce n’era, se il premio Nobel per la letteratura Imre Kertesz già un anno fa ha ammesso che la democrazia non ha mai attecchito nel suo Paese. E il pianista Schiff ha giurato di non fare più ritorno in Ungheria finché sarà guidata da Orban. Lo stesso Fischer ha preferito spedire la famiglia a Berlino, facendo il pendolare con Budapest perché non si sa mai.
Ce n’era davvero bisogno se un regista teatrale come Robert Alfoldi, tanto famoso in Ungheria che il pubblico si accampava di notte davanti al teatro per aggiudicarsi un biglietto per le sue recite, è stato prima denigrato in parlamento per la sua omosessualità e poi cacciato dal Teatro nazionale. Il mese scorso, parlando a Vienna del ruolo della cultura Alfoldi ha ammesso di non essere come il governo vorrebbe che fosse ogni bravo cittadino ungherese, «cristiano, eterosessuale e con più di un figlio». «Ma penso che il lavoro di un regista teatrale sia fare domande, soprattutto quelle importanti per tutta la società». Cultura, appunto.
MILANO. UNIVERSITA’ IULM - UNESCO --- 14-16 Febbraio: Meeting sul’insegnamento della filosofia
Una nota *
USCIRE DALLA CAVERNA
USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’
SAPERE AUDE!
A 400 ANNI DALLA PUBBLICAZIONE DEL "SIDEREUS NUNCIUS" DI GALILEO GALILEI E A 200 DALLE INDICAZIONI DI IMMANUEL KANT SULL’USO CRITICO DELLA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO (PER UNA STORIA E PER UNA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA COSMOPOLITICO - E - PER LA PACE PERPETUA)
Rimettere al centro della filosofia (e soprattutto del suo insegnamento), la lezione dell’illuminismo kantiano!!!
*** ***
DAL MEETING, UN ALLARME E UNA SOLLECITAZIONE. Una nota parziale (e - ovviamente - molto, molto riduttiva) sulla ricchezza degli interventi e delle discussioni dell’incontro): *
A) LA FILOSOFIA IN RITARDO (E IN PERICOLO NEL MONDO) E NON PRONTA A UNA DELLE SUE MISSIONI FONDAMENTALI - IL DIALOGO GLOBALE
B) RILANCIARE L’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA COME EDUCAZIONE ALLA PRATICA DELLA LIBERTA’, ALL’ESERCIZIO CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, ALLA DEMOCRAZIA PLANETARIA - RIUNIRE SAGGEZZA E SCIENZA
C) NON INGESSARE L’UNESCO NELLA VALORIZZAZIONE E NELLA DIFESA DEL PATRIMONIO CULTURAL E DELL’UMANITA’ - PORTARE AVANTI E POTENZIARE L’ESPERIENZA DELLE "CATTEDRE UNESCO".
D) NECESSITA’ E URGENZA DI METTERE IN COMUNICAZIONE LA TRADIZIONE FILOSOFICA E LA POPOLAZIONE DEL "NUOVO MONDO" - I "NATIVI DIGITALI", L’UMANITA’ DIGITALE.
E) DOCUMENTO: "RACCOMANDAZIONI SULL’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA IN EUROPA E IN AMERICA SETTENTRIONALE"
Federico La Sala (16 febbraio 2011)
IL CASO
L’Ungheria di Orban fa guerra alla filosofia
"Ricerche inutili": già emarginata dai comunisti ora Agnes Heller è attaccata dalla destra nazionalista
di BRUNO VENTAVOLI (La Stampa, 20/01/2011)
Filosofi sotto attacco. Nell’Ungheria destrorsa delle controverse leggi sulla libertà di stampa, che in questo semestre guida l’Unione Europea, anche i ruminatori di idee accademiche, finiscono nel polverone della battaglia politica. E ci finisce soprattutto Ágnes Heller, personaggio simbolo della cultura ungherese, nonché una delle pensatrici più importanti del mondo contemporaneo. La teorica dei bisogni è stata accusata dal Magyar Nemzet (giornale di centrodestra peraltro molto moderato) di aver pilotato concorsi e fondi insieme ad altri cinque colleghi dell’Istituto nazionale di ricerca e tecnologia per sperperare mezzo miliardo di fiorini (1 milione e 800 mila euro) nelle loro strambe ricerche, tra il 2004 e il 2005, quando governava il socialista «amico» Gyurcsány. In tempi magri per l’economia la cifra fa scalpore, indigna. E accende toni, livelli dello scontro. La Heller, 81 anni, oltre ad essere molto ascoltata, e mediaticamente efficace con la sua voce autorevole e ferma, ha sempre criticato la destra di Orbán che ha stravinto le ultime elezioni. Titolare di una vita coraggiosa e libera verso il Potere, dall’alto di decenni di studi sulla morale fustiga il nuovo governo su temi forti, come etica pubblica, libertà, ruolo e limiti dello Stato. Un’accusa così forte nei suoi confronti, e così pubblica, ha subito innescato il sospetto di vendetta «politica». Anche perché un uomo della maggioranza, Gyula Budai, ha annunciato in conferenza stampa che il governo farà chiarezza su scandalo e soldi sospetti. Un’indagine di polizia chiarirà le cose. E una parte dell’Ungheria torna a parlare di libero pensiero in pericolo.
Ágnes Heller, che nell’era sovietica, aveva subito parecchie censure, era emigrata all’estero, e suo marito Fehér Ferenc era finito anche in prigione per le sue idee, non è inesperta in totalitarismi. In un’intervista al Népszabadság, il quotidiano di sinistra che ha pubblicato la prima pagina bianca con l’appello in tutte le lingue europee per la libertà di stampa, la filosofa ha detto di sentirsi perseguitata come ai tempi del compagno Kádár. «Nel ’73 facevo parte della Scuola di Budapest - ha dichiarato -, e con l’accusa di essere antimarxisti, ci eliminarono dalla vita scientifica del Paese. Il primo ministro di allora disse che voleva toglierci la penna di mano. Oggi la situazione è molto simile. Stanno cercando di accusarci di reati economici, senza uno straccio di prova, un gruppo di filosofi molto critici verso il governo, e soprattutto verso Orbán. Sono accuse politiche mascherate, per sporcare pubblicamente il nome di certe persone. Le infangano per eliminarle politicamente».
La Heller e «la sua cricca», come la stampa di destra definisce i sei studiosi nel mirino, è accusata di aver ricevuto finanziamenti troppo lauti, sprecandoli in attività inutili. Fondi che avrebbero dovuto finanziare studi sull’integrazione ungherese nell’Europa sono finiti a chi si occupava invece di filosofia antica. Studi su Nietzsche e Heidegger sono costati troppo cari. S’alzano colleghi che fanno i conti in tasca, altri che sostengono di essere stati discriminati per progetti di studio poco di sinistra. E’ faida aperta, perché tutto il mondo accademico è paese. Il nuovo direttore dell’Istituto ha detto pubblicamente che ora andrà tutto bene, vigilerà su bandi e finanziamenti, ha già bloccato varie manovre scientificamente dubbie negli ultimi mesi.
Ágnes Heller, allieva eterodossa di Lukács, critica del socialismo reale, è sempre stata apprezzata dall’Occidente liberal. In Italia, per esempio, oltre che da Aut Aut, veniva regolarmente pubblicata da Mondo Operaio negli anni d’oro del craxismo. Con il cambio di regime, non ha fatto altro che rafforzare la sua fede liberal-democratico-socialista. Ma nell’Ungheria odierna, che tira la cinghia per non star fuori dall’euro e ridurre deficit, ogni cosa si mescola e si confonde nel tritatutto della politica sgangherata e debole. E anche provare a ragionare su Seneca o Heidegger può apparire sospetto. Populisticamente sospetto.
Unità attorno alla Costituzione
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 20 marzo 2011)
Il 17 marzo è stato dichiarato festa nazionale per i 150 anni dell’Unità d’Italia. C’è chi si è dissociato e non intende far festa, argomentando che 150 anni fa il proprio territorio non faceva parte dell’Italia e il Trentino Alto Adige è tra questi territori. Nel frattempo si sono svolte due grandi manifestazioni di piazza. La prima il 13 febbraio per la rivendicazione della dignità delle donne, la seconda il 12 marzo in difesa della Costituzione italiana. Ambedue hanno portato in piazza un milione di persone.
E allora mi son detto: “Perché non celebrare l’Unità d’Italia attorno alla Costituzione? Perché soffermarsi sulle tappe e non guardare al traguardo cui è giunta l’Italia con la Costituzione repubblicana? Parti dell’Italia hanno avuto storie diverse: una borbonica, una veneziana, una pontificia, una austroungarica. L’Italia è stata anche monarchica e fascista.
Mi balza alla mente il nostro Alcide De Gasperi, che era parlamentare austroungarico, e poi divenne artefice in posizione di alta responsabilità della Costituzione italiana. Rilanciamo ancora i borbonici, i veneziani, i papalini, e gli austroungarici? E perché non anche i monarchici, i fascisti e, più in là, i longobardi, i vandali, gli unni, gli ostrogoti, i visigoti e i celti?
Assumendo l’esempio della maturazione della persona, questo ritorno al passato in termini clinici si chiamerebbe regressione allo stato adolescenziale o addirittura infantile. L’elaborazione della Carta costituzionale ha rappresentato un vero e proprio esame di maturità in cui si sono confrontate visioni diverse, ideologie contrapposte, e hanno raggiunto quelle sì l’unità sfociata nel frutto finale costituito da una vera e propria patente di maturità: una delle Costituzioni migliori al mondo.
Accennavo alle manifestazioni per la dignità delle donne e in difesa della Costituzione. Ne cito solo il primo comma dell’articolo 3 che potrebbe fungere da bandiera: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religioni, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ci sono tutti: gli uomini e le donne, i celti, i normanni, i reti e i longobardi; i parlanti italiano, francese, tedesco o ladino; i cattolici e i protestanti, ma anche i musulmani e i non credenti; quelli di sinistra e di destra; i ricchi e i poveri. E tutti convergono in unità. -Ma di unità, come diceva già Emanuele Kant, si può parlare solo tra diversi. Perché altrimenti si tratta di omologazione.
Questo discorso vale a maggior ragione oggi che dobbiamo tendere ad un’unità ancora più larga, e cioè all’unità europea. Stridono fino alla contraddizione le richieste dell’intervento unitario europeo per affrontare l’emergenza emigrati dal Magreb in fiamme fatte da chi fino a ieri parlava di secessione di una parte d’Italia dall’unità nazionale.
E’ vero e ne sono pienamente cosciente che l’unità sui valori della Costituzione è un’unità culturale, ma propria per questo è importante perché terreno fecondo su cui può realizzarsi l’unità politica. Se manca ancora l’unità politica dell’Europa è perché ci si è ripiegati solo sull’unità economica. Lo diceva a chiare lettere Jean Monnet, uno dei fondatori della Comunità economia europea (Cee), quando osservò: “Se fosse necessario ricominciare lo farei a partire dalla cultura”. E allora si può ben dire che gli attacchi più pericolosi all’unità d’Italia oggi, ben più di quelli al tricolore e all’inno di Mameli, sono quelli diretti a scardinare la Costituzione. E i Comitati Dossetti in difesa della Costituzione sono presidi intelligenti dell’Unità d’Italia.
INTERVISTA
Agnes Heller: contro il populismo
di FRANCESCA LANCINI (www.eastonline.it, settembre 2010)
Dal fondamentalismo moderno, dice la pensatrice ungherese, ci possono salvare il credo repubblicano, il senso civico, la consapevolezza di cosa vuol dire essere cittadini. La democrazia deve essere difesa e insegnata ogni giorno, perche’ non e’ naturale dal punto di vista politico. Il suo edificio non ha fondamenta. E’ una scelta che richiede responsabilita’: dobbiamo sottoscrivere la frase "tutti gli uomini sono nati liberi" ancora e ancora.
A 81 anni Agnes Heller e’ una delle piu’ grandi testimoni del nostro tempo. Dopo essersi salvata dalla persecuzione antisemita, la filosofia per lei e’ diventata un’urgenza. Il bisogno di trovare una risposta ai fatti piu’ tragici del XX secolo l’ha portata a diventare allieva di Gyorgy Lukacs ed esponente della Scuola marxista di Budapest. Da sopravvissuta all’Olocausto sentiva che doveva pagare il suo "debito" verso chi non c’era piu’, come suo padre, morto ad Auschwitz. Poi, a causa dell’opposizione al regime comunista ungherese, e’ arrivato l’esilio, un’occasione, suo malgrado, per esplorare l’Occidente: a New York ha ricoperto la cattedra che fu di Hannah Arendt. Al Festivaletteratura di Mantova la Heller ha rivelato a "East" - in un’intervista esclusiva - un nuovo aspetto del suo pensiero. Partendo dall’assunto che le persone buone esistono - come scrive nel suo ultimo libro La bellezza della persona buona, edito da Diabasis - si e’ interrogata sui rischi del presente. "Perche’ oggi abbiamo paura della liberta’? Il fondamentalismo sta davvero crescendo? C’e’ il pericolo di un nuovo Olocausto?". Ecco le sue risposte.
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Francesca Lancini: Crisi economica nel Nord del mondo, migrazioni disperate dal Sud e divario crescente fra ricchi e poveri. Come definirebbe la nostra contemporaneita’?
Agnes Heller: Il conflitto fra Oriente e Occidente non e’ piu’ uno scontro economico. La Cina possiede la piu’ grande quantita’ di dollari e l’India sta crescendo in modo estremamente veloce. L’economia non e’ la principale causa delle differenze. Certamente l’immensa poverta’ dell’Africa e’ la piu’ grande vergogna del pianeta, ma non e’ il tema principale della divisione contemporanea. Oggi assistiamo non tanto a una guerra di culture, ma quasi fra religioni. I movimenti islamisti sono sempre piu’ antisemiti e anticristiani, e il Corano stava per essere bruciato negli Stati Uniti su invito di un pastore folle. Si tratta di un nuovo fenomeno. La vera divisione e’ causata da totalitarismo e fondamentalismo.
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Francesca Lancini: Quest’ultimo come si manifesta?
Agnes Heller: Non e’ necessariamente legato alla religione. Ci sono gruppi radicali di destra che non hanno alcun credo religioso o movimenti latinoamericani di sinistra estremisti, ma atei. Di sicuro, pero’, l’estremismo e’ presente in tutte le religioni ed e’ una risposta a un mondo senza fondamenta che teme la liberta’.
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Francesca Lancini: Ovvero?
Agnes Heller: Prima dell’Illuminismo si pensava di vivere in un mondo creato da Dio dove i regnanti erano suoi rappresentanti sulla terra. Con l’inizio dell’era moderna, invece, e’ emerso un nuovo tipo di discorso dove ogni cosa puo’ essere spiegata con la ragione. Il problema e’ che fondamenta rigide della civilta’ non possono mai essere trovate razionalmente. Un mondo senza fondamenta e’ un luogo senza certezze. L’aspetto positivo e’ che sei piu’ libero, ma al tempo stesso hai paura della liberta’. Ti senti fragile sulle tue gambe perche’ liberta’ significa responsabilita’ e spesso non riesci a reggerne il peso. In questo contesto nascono i dittatori populisti, di solito uomini comuni che si sono fatti da soli.
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Francesca Lancini: La destra e’ quasi ovunque al potere in Europa. Si puo’ parlare di crisi della sinistra e dei suoi ideali marxisti?
Agnes Heller: Dopo la seconda guerra mondiale i valori marxisti non sono stati piu’ rilevanti. I partiti di sinistra sono diventati per lo piu’ socialdemocratici. Poi, e’ vero, hanno perso. Non hanno piu’ prodotto idee nuove. Dopo gli anni Sessanta, in cui si sono raggiunti grandi traguardi nell’emancipazione, il processo di civilizzazione si e’ esaurito. La sinistra attuale non vede i problemi e per questo non puo’ trovare soluzioni. Si consideri per esempio l’integrazione: in Usa e’ eccellente, mentre in Europa e’ pessima. Per combattere il razzismo non bisogna nasconderlo sotto il tappeto, ma guardarlo negli occhi.
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Francesca Lancini: In Europa ci sono nuovi movimenti e partiti di estrema destra, come il Jobbik ungherese accusato di essere antisemita, antirom e omofobico. Come spiega la sua ascesa?
Agnes Heller: Il Jobbik vuole introdurre in Ungheria delle leggi razziali. Rappresenta una minoranza, ma ha tanti seggi in parlamento da influenzare la politica nazionale. Questo successo e’ legato al bisogno di populismo. La gente vuole uomini forti che dicano cosa fare e come vivere. Li sceglie perche’ pensa di raggiungere ricchezza e benessere. Sposa il loro nazionalismo e trova in questo un nuovo fondamento.
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Francesca Lancini: La cultura, celebrata al Festivaletteratura, puo’ essere un antidoto efficace contro totalitarismo e razzismo?
Agnes Heller: Dipende da cosa si intende per cultura. Secondo gli antropologi ognuno ha una cultura, ogni tribu’, ogni movimento, i nazisti stessi. Molti rappresentanti della cultura alta europea hanno sostenuto Hitler, Mussolini, Stalin, Franco.
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Francesca Lancini: Allora cosa ci puo’ salvare?
Agnes Heller: Il credo repubblicano, il senso civico, la consapevolezza di cosa vuol dire essere cittadini. La democrazia deve essere difesa e insegnata ogni giorno, perche’ non e’ naturale dal punto di vista politico. Il suo edificio non ha fondamenta. E’ una scelta che richiede responsabilita’: dobbiamo sottoscrivere la frase "tutti gli uomini sono nati liberi" ancora e ancora.
*
Francesca Lancini: Ma dobbiamo temere un nuovo Olocausto?
Agnes Heller: Ogni cosa che e’ gia’ stata sperimentata puo’ accadere di nuovo, perche’ puo’ diventare un modello per il futuro. Ogni cosa e’ possibile specialmente in epoca moderna, dove il totalitarismo costituisce un punto di riferimento per una formazione politica. Il razzismo e’ uno dei pilastri del totalitarismo e non si puo’ sperare che quest’ultimo sia sparito per sempre in Europa. Puo’ tornare con un massacro di massa, anche se l’Olocausto deve essere considerato un evento unico e legato a un contesto storico preciso.
*
Francesca Lancini: Dove ha trovato la forza per resistere alla persecuzione nazista e successivamente a quella del regime comunista?
Agnes Heller: Sotto il nazismo ho avuto fortuna, ma la mia esperienza di ebrea perseguitata mi ha aiutato a solidarizzare con coloro che erano minacciati durante il comunismo. In seguito all’Olocausto ho fatto un patto con la giustizia che mi ha permesso di oppormi al regime.
*
Francesca Lancini: L’11 settembre 2001 si trovava a New York. Come ha vissuto quel giorno?
Agnes Heller: Ho provato uno shock terribile perche’ mio figlio era molto vicino alle Torri gemelle. Quando e’ rientrato mi sono concentrata sulla capacita’ delle persone di organizzarsi in modo volontario e in cosi’ breve tempo. Non era solo solidarieta’, perche’ questa la si vede in tutte le catastrofi, ma anche incredibile autonomia di gestione. La gente si e’ rimboccata le maniche: ha creato un punto di incontro, ha fatto delle collette per chi era in difficolta’, ha aperto un centro di assistenza.
*
Francesca Lancini: Questa energia sembra mancare ai giovani europei. Sono cosi’ oppressi dal senso di precarieta’ da non riuscire a ribellarsi. Siamo diventati un continente senza speranza?
Agnes Heller: L’Europa, e ne e’ un esempio Mantova dove ora ci troviamo, e’ un meraviglioso museo, ma bisogna vedere quanto sia collegata col presente. Mi preoccupa lo scetticismo degli europei. Non credono in niente e desiderano solo migliorare le loro vite. Ma soprattutto non credono nella liberta’. Stanno diventando sempre piu’ indifferenti. Spero che l’Europa abbia un futuro, ma mi chiedo di che tipo.
*
Francesca Lancini: Come si puo’ superare questo limbo?
Agnes Heller: Pagando un prezzo. In passato le cose sono state cambiate con le guerre civili, ma gli europei non sono pronti a pagare alcun prezzo.
*
Francesca Lancini: Unione Europea, Europa dell’Est, Europa dell’Ovest, ma che cos’e’ veramente l’Europa oggi?
Agnes Heller: Non mi interessano queste definizioni. All’Europa appartengono diverse identita’. Si definisce cristiana e non pagana, liberale e non dottrinaria, amante della liberta’ e non totalitaria, illuminata e non colonialista...
*
Francesca Lancini: Ha detto che cultura e filosofia ci sono solo grazie alla condivisione. Qual e’ oggi la situazione in Ungheria e negli altri Paesi ex comunisti?
Agnes Heller: I Paesi comunisti erano i piu’ individualisti. Le persone vivevano nel timore. Non avevano fiducia negli altri e non potevano dire cosa pensavano. Ogni comportamento era automatizzato anche quando si trattava di partecipare ai raduni. Il cambiamento e’ arrivato con l’opposizione democratica che progressivamente ha fatto crescere la solidarieta’, un senso di comunita’ e la condivisione.
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Francesca Lancini: Un’altra virtu’, la bonta’, e’ oggetto delle sue ultime riflessioni. Chi sono oggi le persone buone?
Agnes Heller: Quelle che si scelgono come tali. Sono d’accordo con la definizione data da Socrate: "E’ buono chi preferisce subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla". Certo, nessuno e’ perfetto, ma l’importante e’ essere consapevoli di quanto si e’ distanti dalla bonta’. Sono buone le persone perbene.
*
Francesca Lancini: Come immagina una societa’ migliore?
Agnes Heller: L’eguaglianza di per se’ e’ un nonsense se non si specifica in cosa si deve essere uguali. Io ho lottato per l’uguaglianza nei diritti, intesi come emancipazione degli ebrei, degli operai e delle donne. E’ assurdo, pero’, parlare di uguale reddito. Ciò che ognuno deve avere e’ un sostentamento per la casa, il cibo e l’educazione dei figli. La poverta’ e’ una categoria relativa. Dipende dalla struttura dei bisogni. C’e’ chi si ritiene povero perche’ non puo’ comprare il cellulare al figlio. E’ giusto quindi il necessario, cioe’ che ognuno abbia una vita non straordinaria, ma dignitosa.
Agnes Heller, la bonta’ come bellezza
di Andrea Galli (Avvenire, 3 settembre 2010)
A 82 anni, Agnes Heller, oltre a essere un nome della filosofia contemporanea, e’ anche una testimone del ’900. Nata nel 1929 in Ungheria, ebrea scampata alla persecuzione antisemita durante la guerra, allieva e amica di Gyorgy Lukacs, poi voce del dissenso rispetto al sistema sovietico, allontanata dall’insegnamento, quindi esule all’estero insieme al marito, il filosofo Ferenc Feher, prima in Australia poi in America. La Heller arriva in Italia - Paese a cui e’ legata fin dagli inizi della sua produzione, dal suo L’uomo del Rinascimento - per partecipare al Festival della Letteratura di Mantova, sabato 11 settembre. Dove interverra’ su un tema a cui e’ dedicata una sua raccolta di saggi pubblicata l’anno scorso dall’editrice Diabasis: La bellezza della persona buona.
*
Andrea Galli: Professoressa Heller, lei ha ricordato spesso, rifacendosi a Kierkegaard, il bisogno di compiere "una scelta esistenziale", una "scelta delle scelte tra il bene e il male". Aggiungendo pero’ che si tratta di una scelta "storica", non "ontologica". Eppure ha dedicato molto pagine al carattere trans-culturale del bene... come si concilia tutto cio’?
Agnes Heller: Il punto di partenza della mia ricostruzione etica e’ stato di tipo empirico. Ho semplicemente cercato di raccogliere e mettere in evidenza il comune messaggio nelle riflessioni etiche in filosofia, da Kierkegaard via Nietzsche fino a Foucault, e in letteratura da Ibsen a Proust a Beckett. Tutti costoro hanno presentato l’etica soprattutto come una scelta di se stessi e come il rimanere fedeli a questa opzione originaria, per diventare la persone che si e’ scelto di essere. "Diventare cio’ che sono" ha detto Nietzsche. "Il mio supremo dovere e’ il dovere nei confronti di me stesso" dice la Nora di Ibsen in Casa di bambola. E’ attraverso una scelta esistenziale che una persona puo’ acquisire e diventare una personalita’, intendendo questa come il suo destino. Nelle societa’ tradizionali, dove i sistemi normativi erano relativamente fissi, non c’era bisogna di una simile scelta esistenziale. Ed e’ per questo che l’ho definita un elemento "storico".
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Andrea Galli: Scegliere di subire l’ingiustizia, se necessario, piuttosto che commetterla. Lei si rifa’ alla posizione di Socrate/Platone per definire l’idea di giustizia/bonta’. Se la bonta’ comporta un tale svantaggio nella competizione della vita, da dove nasce secondo lei la sua attrattiva eterna?
Agnes Heller: Per riallacciarci a quanto dicevamo, lo scegliere noi stessi e il diventare cio’ che siamo implica la pratica di certe virtu’. Ma non include di per se’ relazioni morali con gli altri. La scelta morale riguarda innanzitutto la scelta di noi stessi come persone buone. In tal modo diventiamo coloro che abbiamo scelto di essere e in tal senso siamo "buoni". Ma come posso riconoscere cio’ che e’ buono? E’ qui che faccio riferimento alle parole di Socrate per cui e’ meglio soffrire l’ingiustizia che commetterla. Tuttavia non dico che questa frase sia vera. Anche il suo opposto potrebbe essere dimostrato tale. Nella mia visione, il detto di Socrate e’ semplicemente la definizione di una persona buona. Buona e’ la persona per cui il detto di Socrate e’ vero e che agisce conformemente ad esso. Che il bene abbia un’attrattiva imperitura, che sia trans-culturale e’ una benedizione, ma che non richiama ne’ implica una spiegazione filosofica.
*
Andrea Galli: Sempre sulla "scelta esistenziale". Quali sono le conseguenze morali per chi invece non la compie e preferisce una vita declinata giorno per giorno, mediando di volta in volta tra bonta’ e profitto?
Agnes Heller: Quelli che rifiutano questa scelta semplicemente lasciano che gli altri scelgano per loro. La differenza e’ tra autonomia ed eteronomia.
*
Andrea Galli: Nel suo saggio "La bellezza della moralita’" lei collega la bellezza del bene alla sua visibilita’. Che bellezza attribuisce allora a quel bene ordinario e invisibile, che probabilmente non vedra’ mai la luce?
Agnes Heller: Si’, non c’e’ dubbio che la bonta’ sia spesso veramente invisibile. Col che intendo una invisibilita’ pubblica. Per questa bonta’ non ci sono persone a cui e’ stata dedicata una statua. Ma come dice Kant la bonta’ risplende come un gioiello ed e’ vista persino nell’oscurita’. Le persone buone sono persone belle. Tutti noi lo sappiamo per esperienza e lo hanno sempre saputo gli artisti, i pittori: la bellezza risplende sul volto della persona buona. Quello che intendevo dire e’ pero’ che gli atti che hanno un tale contenuto morale e restano nel nascondimento, difficilmente possono essere descritti in termini di bellezza. Tali atti possono essere di suprema bonta’, ma se nessuno sa di essi, se non sono contemplati, non possono essere chiamati belli. Ovviamente, se simili azioni buone clandestine sono descritte per esempio in un romanzo da un narratore onnisciente, il lettore le vede, le conosce, puo’ trarre piacere da esse e puo’ giudicarle belle. Solo, la bellezza presuppone un certo tipo di visibilita’ o di conoscenza.
In piazza. Centomila a Budapest contro la nuova Costituzione voluta dal premier Orban
Divieti. Stretta sulla libera informazione, stravolto il ruolo della Banca centrale, limitazioni ai diritti
Ungheria, fa paura all’Europa la svolta ultra-nazionalista
«È il declino della democrazia, una nuova dittatura», denunciano i maggiori intellettuali ungheresi. Bruxelles e Fmi bloccano i negoziati con Budapest. E qualcuno pensa che il Paese possa venire espulso dalla Ue
di Roberto Brunelli (l’Unità, 04.01.2012)
Umorismo magiaro, lo chiamano. «Hey Europa, scusaci per il nostro primo ministro» c’era scritto su uno dei cartelli dei manifestanti che sfilavano lunedì sera per le strade di Budapest. Settantamila, secondo la polizia, centomila per gli organizzatori: cifre comunque inedite in Ungheria, che la dicono lunga sulla profonda inquietudine che ormai attanaglia il Paese, nel quale finora le mobilitazioni muovevano poche centinaia di persone. Questa volta è diverso. Davanti all Teatro dell’Opera c’erano i militanti i partiti della sinistra, certo, ma anche gli ambientalisti, i movimenti della società civile, cittadini comuni. Turbati, oltreché infuriati, per la radicale svolta fieramente reazionaria del governo guidato da Viktor Orban. Una svolta che preoccupa non solo Bruxelles, ma anche Parigi, Washington, l’Fmi. Una svolta cupa e piena di ombre, che fa dire ad un diplomatico di lungo corso, come l’ex ambasciatore americano Mark Palmer, che «l’espulsione dell’Ungheria dalla Ue oggi non è più una prospettiva impensabile».
Sotto accusa c’è la nuova Costituzione, fatta approvare dal premier con un colpo di mano ed entrata in vigore il primo gennaio. Un testo che «distrugge lo Stato democratico», come denuncia in una durissima lettera-appello un gruppo di ex dissidenti ungheresi. Gente che se ne intende di repressione e di Stati totalitari, visto che tra loro figurano storici come Janos Kenedi, scrittori come Gyorgy Konrad e attivisti per i diritti umani come Miklos Haraszti, gente che tra il 1956 e il 1989 non esitò ad opporsi apertamente ai governi comunisti dell’epoca e che oggi non esita a parlare di «declino della democrazia» e di «avvento della dittatura». L’accusa della piazza e degli intellettuali, la preoccupazione delle istituzioni europee ed internazionali, è che Orban abbia preparato il terreno per «rimuovere pesi e contrappesi democratici e di perseguire la sistematica chiusura delle istituzioni indipendenti». Con i numeri di cui dispone, il premier ha potuto agevolmente cucirsi addosso una legge fondamentale su misura: duramente criticata anche dal segretario di Stato Usa Hillary Clinton, la nuova Costituzione non solo rispolvera concetti cari al nazionalismo magiaro, come la Corona di Santo Stefano, ma si scatena su ogni aspetto della vita civile e pubblica. Dal divieto del matrimonio gay al giro di vite sul pluralismo dell’informazione, fino all’indipendenza del sistema giudiziario: il tutto nel nome di Dio, come spesso capita in questi casi.
CONTROLLO TOTALE
Con il suo partito, Fidesz, l’autoritario primo ministro occupa i due terzi dei seggi parlamentari. Una forza che gli ha permesso di stravolgere anche il ruolo dell’autorità monetaria. Nel penultimo giorno del 2011, con apposita legge, Orban ha de facto sottomesso la Banca centrale ungherese al potere politico. La nuova norma fonde l’istituto di emissione del fiorino con l’autorità di controllo finanziario (Pszf), esautorando così il governatore Andras Simor, notoriamente sgradito a Orban, e arriva sinanche a metter mano ai meccanismi che determinano i tassi d’interesse.
L’Europa è in grave ambasce per quello che ogni giorni di più si profila come il «caso Ungheria». Bruxelles, attraverso il portavoce della Commissione Olivier Bailly («siamo molto preoccupati»), fa sapere che si riserva di analizzare i testi costituzionali per verificare la loro compatibilità con il diritto europeo. Bailly ricorda anche che a dicembre Ue e Fmi hanno interrotto i negoziati preliminari sulla richiesta di aiuti finanziari (15-20 miliardi) avanzata da Budapest e che «ancora non è stata decisa» una data per l’avvio delle trattative formali, previste per gennaio. E a Orban che ha dichiara di non ritenere «cruciali» tali negoziati, l’Unione europea ribatte che la modifica dello statuto della Banca centrale è ritenuta una possibile «violazione dell’articolo 130 dei Trattati». Lo stesso presidente Barroso pare abbia «più volte» esercitato pressioni su Viktor Orban: senza alcun effetto visibile. Anche il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, lancia l’allarme: «A Budapest c’è un problema oggi». Parigi chiede l’intervento della Commissione europea «nel rispetto del bene comune di tutti i Paesi europei e dei grandi valori democratici». Il sospetto è che sia troppo tardi.
Giorgio Pressburger. La svolta a destra dell’Ungheria
“Fermiamo questi zombi xenofobi e razzisti”
di Elisabetta Reguitti (il Fatto, 04.01.2012)
Nessuno può permettersi di considerare marginale quello che sta accadendo in Ungheria”. Lo scrittore e regista Giorgio Pressburger parla nella giornata in cui l’Ue annuncia di voler verificare la compatibilità della nuova Costituzione con il diritto europeo. Contro la Carta, decine di migliaia di ungheresi sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del premier conservatore Viktor Orbán.
Professore chi sono gli “zombi” ungheresi?
È l’immagine delle figure che tornano dal passato più nero dell’Ungheria che agitano i sentimenti nazionalisti, xenofobi e razzisti. Intendo le squadracce che ricordano molto quelle fasciste. Gli obiettivi punitivi sono le popolazioni Rom ma un servizio di questo genere può essere utilizzato anche per altro, soprattutto in un clima di deriva autoritaria come questo.
Cosa è davvero cambiato nella Repubblica ungherese?
Che hanno tolto “Repubblica”. Si è tornati alla denominazione originaria di Paese magiaro, un modo soft per dare un segnale forte della direzione che ha preso questo governo che sottopone tutti i mezzi di comunicazione a uno stretto controllo. L’ultima emittente radiofonica indipendente chiamata Club Rádiò sarà chiusa a febbraio. I magistrati verranno scelti e nominati dal governo. Si teme che possano essere messi in galera gli esponenti dell’ex governo ora a capo dell’opposizione, potrebbero sparire soldi pubblici. Si temono ritorsioni. Potrebbe accadere di tutto, nel silenzio assoluto perché i mezzi di comunicazione sono nelle mani del nuovo esecutivo.
Orbán ha vinto con il 60% dei voti.
Vero. Gli elettori erano troppo scontenti degli ultimi anni di governo di sinistra. Ha pesato molto la profonda crisi economica. L’Ungheria non ha materie prime o risorse naturali, ha solo cervelli e intellettuali che verranno messi nella condizione di non potersi esprimere. Penso a una filosofa come Ágnes Heller che ha sempre lottato contro la deriva antisemita e che ora verrà oscurata. Poi c’è il partito Jobbik (terza forza politica), gli stessi che accusarono i rom di essere i responsabili della riduzione del livello di vita degli ungheresi in questo periodo di crisi.
L’altra sera a migliaia sono scesi in piazza per protestare.
Cinque mesi fa quando sono tornato a Budapest ho sentito abulia tra le persone. L’abulia è un brutto stato d’animo e se aggiungiamo che le notizie sono molto filtrate mi chiedo se quello che si vuole fare sapere è esattamente ciò che avviene anche sulle manifestazioni. È fondamentale che nessuno consideri la situazione ungherese qualcosa di dissociato dagli altri paesi. L’Ungheria è l’unica nazione in tutta l’Europa centrale dove si è arrivati a tanto ma non va dimenticato che due guerre mondiali sono scoppiate in quell’area geografica.
Orbán ha annunciato che l’Ungheria potrebbe anche uscire dall’Europa.
Il Primo ministro ungherese non vede di buon occhio l’appartenenza all’Ue perché non vuole condividere le direttive con nessuno. Ma l’Europa è e rimane un’enorme potenza culturale ed è stato un miracolo che si realizzasse. Per l’Ungheria uscirne sarebbe una pazzia, un gesto di pura follia. Io non mi intendo di economia, oggi tutti parlano di economia. Io preferisco parlare delle persone che non hanno sufficienti mezzi di sostentamento. E poi io scrivo, continuo a scrivere, segnalando i pericoli e gli “zombi” che si aggirano per l’Europa.
Il morbo antico che avvelena l’Ungheria
di Bruno Ventavoli (La Stampa, 04.01.2012)
Erano in centomila i manifestanti la scorsa notte intorno al Teatro dell’Opera, tra i palazzi e i viali più eleganti di Budapest, per protestare contro la nuova carta costituzionale voluta dal premier Orbán e votata dal solo centrodestra. Erano tanti, molti più del solito, in una società civile inebetita dalla crisi economica, ma come inutili ragazzi della via Pál combattevano per un grund ormai perso.
Dentro al Teatro, con orgoglio e luminarie, il governo ha invece festeggiato l’architettura del nuovo Stato bocciato dalla comunità internazionale. Il pacchetto prevede una Banca Centrale sottomessa al potere politico (ideona bizzarra in questo momento di turbolenza finanziaria), insieme alla Corte Costituzionale e ai media (molti giornalisti dissidenti sono già stati licenziati dalla legge-bavaglio sulla stampa), i dirigenti dell’attuale partito socialista possono essere processati retrospettivamente per «crimini comunisti» prima dell’89, e tanti altri dettagli, dagli ungheresi all’estero al matrimonio etero. Il risultato è un Paese più autoritario, antimoderno, che allarma la Ue, l’America di Obama. E il fondo monetario internazionale, che ha congelato i negoziati per un maxiprestito al fiorino esanime.
Orbán, nato liberale, ma presto contaminato dal populismo, e l’estrema destra degli Jobbik, hanno portato a galla un’anima reazionaria che ha preso in contropiede l’Occidente. Chi ha letto i romanzi di Márai o Krúdy forse stenta a riconoscere nella realtà quelle atmosfere letterarie. Ma è proprio lì la chiave per capire i borborigmi fascisti della nuova Ungheria. Márai, come molti altri scrittori nati nel secolo breve, raccontava lo splendido mondo borghese della grande Budapest imperial-regia (il suo capolavoro, non a caso, è «Confessioni di un borghese»). Brillantezza intellettuale, tolleranza, quella civiltà delle buone maniere indagata da Elias, amore patriottico compensato da un naturale e brillante cosmopolitismo. Non poteva essere così, per chi era nato in case foderate da libri dove si parlavano in famiglia, correntemente, tre-quattro lingue. La borghesia era stato il motore dell’Europa moderna, ovunque. Anche in Ungheria. Ma con un problema. Lungo il Danubio, la borghesia, dopo secoli di guerre e dominazioni straniere, era nata in ritardo. E nonostante gli splendori della Belle Époque, era fragilissima.
Quando Márai scriveva, quel mondo borghese già non esisteva più, sepolto dalle macerie della prima guerra mondiale. Terrorizzato da una breve e sanguinaria rivoluzione bolscevica, poi tranquillizzata dal fascismo di Horthy, che però amava simboli, parole d’ordine, pennacchi, nazionalistici e feudali. Negli oltre quarant’anni di democrazia popolare, dal ’48 in poi, naturalmente, l’eutanasia della borghesia è proseguita.
L’economia di mercato introdotta da un giorno all’altro nell’89 ha ridato ossigeno alla classe media. Ma non è bastato. Il fiorino cagionevole ha presto spento i sogni di benessere, di rinascita, di prosperità a livelli occidentali, liberando il campo alle paure e agli orgogli nei quali l’Ungheria è vissuta per secoli, incuneata tra Occidente e Oriente. I valori della democrazia, del pluralismo, del dialogo, della diversità, sembrano superflui e accantonabili nella vita quotidiana dove è faticoso fare la spesa e pagare le bollette. Torna la tentazione del ripiegarsi su se stessi, appigliandosi all’idea di una Grande Ungheria, magari con un pizzico di ottuso vittimismo, per ciò che è successo nel corso della Storia, dalle guerre col turco, all’invasione sovietica, al trattato di pace di Trianon voluto dalla Francia che tolse alla fine della Grande Guerra due terzi del Paese.
Nei momenti di difficoltà, per antico morbo, l’Ungheria più che sentirsi parte del continente rimarca la sua fiera alterità suicida, corroborata da quella lingua dolce e altaica che nessuno in Europa capisce. Quando Orbán ha sfidato la comunità internazionale con la nuova costituzione, «Nessuno può sindacare su quel che facciamo», parlava anche in questo spirito. Le riforme, la modernità, il mercato, possono attendere. Meglio affidarsi a miti imprecisi di purezza, di sacralità della terra (che può essere comprata con quattro fiorini dagli stranieri della globalizzazione), di uomini forti al comando. Ancora una volta la classe media è stata stritolata, dalla farragine dello Stato e dall’inflazione. Ancora una volta torna la tentazione non di sconfiggere gli avversari politici, ma di cancellarli, processarli, zittirli. Ma per non perdere di nuovo i cugini ungheresi dalla famiglia europea, bisogna capire perché si sono ammalati.
Parla la filosofa ungherese Agnès Heller
"Questa voglia di democrazia è un nuovo inizio"
All’Europa chiediamo aiuto nel suo interesse, l’autoritarismo è contagioso
Intervista di A. T. (la Repubblica, 04.01.2012)
BUDAPEST «La gente in piazza può essere un nuovo inizio, ma l’autocrazia resta. L’Europa deve aiutarci aiutando i media indipendenti poveri, ostacolati dal regime. Nel suo interesse: l’autoritarismo è contagioso». Agnès Heller, massima intellettuale ungherese di oggi, analizza lucida la crisi magiara.
Quanto conta il nuovo trend di protesta?
«È importante. Molte nuove organizzazioni, da "Szolidaritàs" a "Quarta repubblica", voglia di libertà di stampa, di diritti civili, libertà della proprietà privata e libertà d’imprese contro gli oligarchi».
Che regime è quello di Orbàn?
«Orban dice: "noi siamo i più grandi, sappiamo fare tutto meglio, gli altri non capiscono quanto siamo bravi, noi siamo il modello per tutta Europa". Peggio che nazionalismo, è folle mania di grandezza».
Nuova Costituzione, addio Banca centrale... si va verso una dittatura?
«È già una dittatura. Con un distinguo: un dittatore tipico decide su tutto, anche di vita e morte della gente. E può chiudere le frontiere. Qui non c’è la pena di morte e la gente può ancora viaggiare. Molti giovani qualificati vogliono andarsene, non ne avremo più a casa. Se Orbàn potesse chiudere le frontiere lo farebbe».
Fino a quando non potrà?
«Non possono ancora, non sono così pessimista. Hanno abolito il sistema di checks and balances costitutivo della democrazia. Non possono fermare le critiche dall’esterno, vitali anche qui. Qualche media indipendente vive ancora. Ma non è libertà. È come le voci tollerate sotto Horthy (ndr. il dittatore di destra che governò dal 1919 al 1944)».
Horthy è un modello per Orbàn?
«Non so quale sia il suo modello. Orbàn è Orbàn. Come tutti i tiranni è convinto di essere il solo ad avere ragione, e chi non è d’accordo con lui non è ungherese. Né Berlusconi né Putin lo hanno mai detto. Cuore straniero, quasi come dire "sangue straniero", viene definita l’opposizione».
Fascismo?
«Non amo i paragoni. I partiti siedono in Parlamento. Ma il Parlamento è diventato una macchina per votare le leggi senza dibattito. Con le istituzioni attuali non ci sarebbe più possibile entrare oggi nell’Unione europea. La gente ha paura sul posto di lavoro, ovunque. Paura di venire licenziata senza ragione con ogni pretesto legale di "ristrutturazione" se critica il governo, se non gli piaci».
L’Europa può muoversi?
«Nel suo interesse. La paura è diffusa in tutta la società, nei media pubblici restano solo opportunisti incapaci o chi teme di perdere lo stipendio. Ma molti credono a chi dice che la crisi è colpa di finanza internazionale, America, Israele. Slogan anticapitalisti e anticomunisti rafforzano il consenso del regime, l’idea di cospirazione internazionale e anche ebraica paga ancora, molti sono apatici».
Insisto, cosa può o deve fare l’Europa?
«Aiutare i nostri media indipendenti, e parlare chiaro. Ma prima di tutto dobbiamo aiutarci da soli».
Bruxelles. La Commissione: al via una procedura di verifica sulla nuova Costituzione ultra-nazionalista Reazioni. Il premier Orban sempre più isolato, ma ostenta sicurezza: il fiorino cade ai minimi storici
Ungheria, si sveglia l’Europa: «È democrazia o una dittatura?»
Dopo una forte pressione internazionale, la Commissione europea attacca con durezza: «Verifichiamo se la nuova Costituzione sia conforme con i valori democratici dell’Europa».
di Roberto Brunelli (l’Unità, 05.01.2012)
A Bruxelles il «dossier ungherese» passa di mano in mano, come una patata bollente. Scotta tanto da risvegliare antiche vibrazioni democratiche, tanto da decidere di andare allo scontro diretto con Budapest, dopo la dura svolta reazionaria impressa dal governo dell’ultraconservatore Viktor Orban con il varo della nuova Costituzione, considerata liberticida non solo tra le file della risorta opposizione ungherese, ma anche tra i più compassati funzionari di Eurolandia. La nota ufficiale consegnata ieri alle agenzie di stampa dal portavoce della Commissione europea non lascia spazio a dubbi: l’Ue afferma Olivier Billay si chiede se in Ungheria «ci sia una democrazia o una dittatura».
È questo il senso dell’«approfondita analisi» da parte di Bruxelles delle leggi costituzionali entrate in vigore il primo gennaio. Un procedimento che potrebbe portare anche alla Corte di giustizia europea: «La Commissione è stata la prima a sollevare dubbi sulla conformità delle nuove leggi ungheresi sui media, la giusitizia e la Banca centrale con i valori e i trattati europei». E se l’esame dei servizi giuridici confermasse quelli che con un eufemismo Billay chiama i «dubbi», a sua volta già espressi in numerose occasioni sia dal presidente José Manuel Barroso che da svariati commissari, Bruxelles è pronta ad aprire una procedura di infrazione contro Budapest.
L’attacco che avviene dopo la protesta di piazza di lunedì nella capitale ungherese e dopo una crescente pressione internazionale culminata con le dure critiche del segretario di Stato Usa Hillary Clinton e del ministro degli Esteri francese Alain Juppé è frontale, e fa il paio con la sospensione delle trattative con Ue e Fmi per la concessione degli aiuti finanziari richiesti proprio dal governo Orban. Che, tuttavia, pare più preoccupato di mettere «sotto tutela» governativa la Banca centrale e l’informazione, nonché mettere pesantissimi limiti ai diritti civili, eliminando sinanche la denominazione «Repubblica» dal nome di quest’Ungheria tutta Dio e totalitarismo, che non a mettere in sicurezza i propri conti disastrati.
L’esecutivo è sempre più isolato, con effetti pesanti anche sui mercati: il fiorino ha segnato ieri il suo record negativo. Per un euro ieri erano necessari circa 320 fiorini: un abisso. Negli ultimi mesi la moneta magiara ha perso circa il 20 per cento del proprio valore. Gli analisti concordano sul fatto che è proprio sul fronte economico che l’autocratico Orban definito «piccolo tiranno di provincia» dall’intellighentia magiara si sta giovando gran parte della credibilità interna. Dopo la doppia bocciatura da parte delle agenzie Standard & Poor’s e Moody’s, che hanno portato il rating sul debito sovrano sotto il livello d’investimento, il rendimento dei titoli di Stato è salito vertiginosamente, col risultato di ingrossare ulteriormente un debito pubblico arrivato nei giorni scorsi al suo massimo storico.
IMBARAZZI CONTINENTALI
Con la dura presa di posizione di ieri («democrazia o dittatura?»), Bruxelles cerca di uscire da un vero e proprio impasse nei confronti dell’Ungheria, che è membro dell’Ue da sette anni: ovvio che non può restare indifferente ai metodi di governo di Orban, agli attacchi al pluralismo dei media e alle minacce all’indipendenza dell’apparato giudiziario. Qualcuno (come Le Monde, ieri) ipotizza esplicitamente che l’Europa possa alla fine ricorrere all’articolo 7 del trattato di Lisbona, che prevede di togliere il diritto di voto agli stati membri che violano le regole democratiche.
Le voci che spingono ad una maggiore presa di coscienza nei confronti del «caso Ungheria» crescono di ora in ora. «È tempo che l’Europa si scuota, si svegli dallo shock dell’eurocrisi, ritorni ai valori fondamentali di coesione e di solidarietà. È tempo che rigetti gli incubi dei nazionalismi e dei populismi che scaricano su tutti noi i disagi di quest’epoca», dichiara il responsabile esteri del Pd, Lapo Pistelli. Il quale chiede anche un maggiore protagonismo dell’Italia per quel che riguarda «la vigilanza dei valori democratici».
In tutto questo, Orban, che ieri celebrava la totale indifferenza nei confronti dei centomila che lunedì sera affollavano le vie di Budapest («vedete, siamo un Paese libero?»), continua a fare orecchie da mercante. Il premier manda avanti i suoi spargendo segnali contrastanti alle controparti europee: al sottosegrtario per gli affari economici il premier fa dire che il fallimento dei negoziati per i prestiti «non sarebbe una tragedia». Orban «il viktator» ostenta sicurezza, e celebra con grandi celebrazioni ultra-kitsch la sua nuova Costituzione. Intanto, però, i sondaggi cominciano a turbare i suoi sonni: secondo un’indagine recente dell’istituto Szonda Ipsos, la Fidesz rimane sì il primo partito, ma perde il 18 per cento rispetto a quando conquistò sull’onda di un populismo trionfale i due terzi dei seggi parlamentari. Oggi, domani, dopodomani l’opposizione all’assolutismo magiaro del nuovo millennio rischia di crescere sempre di più. A Bruxelles lo sanno bene: meglio non sottovalutare chi s’indigna, di questi tempi.
Ungheria: intervenga la Ue
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 05.01.2012)
L’Ungheria democratica chiama, l’Europa istituzionale nicchia, fa orecchie da mercante, traccheggia nell’ipocrisia. Ma se i governi europei vogliono trastullarsi in paralizzanti e irresponsabili lungaggini procedurali, è necessario che i cittadini europei facciano della “questione Ungheria” un loro problema e una loro battaglia. Ormai improcrastinabile.
Il governo di Victor Orban ha imposto una nuova Costituzione che calpesta i diritti democratici minimi che l’Europa ha posto come vincolanti e irrinunciabili per ogni paese che voglia aderire alla Comunità. La legge elettorale è ritagliata su misura per facilitare al partito di Orban la vittoria anche in futuro, stampa e televisione vengono imbavagliate, i magistrati asserviti alla volontà dell’esecutivo, la Banca centrale perde ogni margine di autonomia, sciovinismo e razzismo diventano il collante “popolare” di questo vero e proprio fascismo postmoderno.
Se l’Ungheria di Orban chiedesse oggi di aderire all’Europa verrebbe respinta, in quanto indigente dei requisiti democratici minimi. Ma l’articolo 7 del trattato di Lisbona specifica che un governo di un paese già membro dell’Unione Europea deve perdere il suo diritto di voto qualora violi quei requisiti. È perciò necessario che il Parlamento di Strasburgo , la Commissione di Bruxelles e i singoli governi europei si attivino immediatamente per applicare con assoluta intransigenza l’articolo 7. Ogni attendismo, ogni diplomatismo, ogni “gradualismo” nelle sanzioni, non farebbe che incoraggiare il governo Orban a proseguire sulla strada protervamente imboccata, che minaccia di contagio antidemocratico l’intera comunità politica continentale.
Piegarsi alle prepotenze dei poteri antidemocratici, in nome del “male minore”, è l’eterna tentazione degli establishment del privilegio. Tragici protagonisti di questa sindrome di viltà (che scolora nell’omertà) furono a Monaco, nel 1938, i democratici tiepidi Chamberlain e Daladier, che si piegarono agli antidemocratici coerenti Hitler e Mussolini. Se l’Europa delle Merkel, dei Cameron e dei Sarkozy cedesse oggi a Orban, guardando dall’altra parte o riducendosi a sanzioni di facciata, replicherebbe su scala ridotta l’infamia del ’38. E per favore non si citi Marx, che a proposito di Napoleone III giudicava come la storia si ripetesse sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Talvolta è così, talvolta la nuova tragedia, benché in formato mignon, è per chi la vive devastante quanto la precedente.
CON L’AGGRAVANTE che Hitler era ormai una potenza militare ed economica che da sola valeva il resto del-l’Europa, mentre il governo di Orban è costretto a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale col cappello in mano, e di fronte ad un efficace cordone sanitario europeo dovrebbe andarsene (proprio come l’amico Berlusconi). La viltà di Merkel, Cameron e Sarkozy sarebbe perciò una viltà al quadrato. Sarebbe complicità. Se Orban ha sempre indicato in Putin e Berlusconi i suoi modelli, ricambiato dal loro appoggio più sfegatato (dichiarò Berlusconi dieci anni fa a Budapest: “i nostri programmi e le nostre politiche sono identiche, tra noi c’è una straordinaria sintonia”), non è certo un caso. Dimostra come la peste del fascismo postmoderno, soft solo in apparenza, sia un forza diffusa e minacciosamente in crescita, di cui Marina Le Pen e la destra olandese nella maggioranza di governo sono solo altri inquietanti iceberg.
Se si vuole evitare il contagio, gli appestati vanno trattati come appestati. L’Europa ha fatto malissimo a non intervenire contro Berlusconi per quasi vent’anni, se non interviene contro Orban prepara il proprio suicidio. Perché sanzionare Orban, privarlo del voto nelle istituzioni europee, significa sostenere la Repubblica ungherese, la cittadinanza democratica ungherese, scesa in piazza cantando l’Inno alla Gioia di Schiller/Beethoven che l’Europa ha adottato come il proprio inno. Il nostro inno, se non vogliamo che l’Europa resti quella dei mercanti (e relative orecchie), dei banchieri (e relativi titoli tossici integrati di megabonus), dei governi democratici tiepidi (e relative viltà/omertà).
Ungheria, prova di diritto per l’Ue
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 05.01.2012)
L’attenzione focalizzata sulle difficoltà economiche e finanziarie dell’Italia e dell’Europa e la discussione sulle misure prese o da prendere per uscire dalla crisi, rischia di mettere in ombra, sotto la pressione dell’urgenza, un tratto fondamentale dell’Unione europea. Da lungo tempo ormai l’iniziale esclusivo scopo di creare un mercato comune si è arricchito di componenti diverse, di natura culturale e politica. Di esse si dà conto in apertura del Trattato sull’Unione, dichiarando che essa «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La coerenza con quei principi delle leggi e dei comportamenti di ciascuno dei ventisette Paesi membri è condizione per l’adesione all’Unione e per l’esercizio dei diritti che essa comporta. Tanto che la partecipazione di uno Stato membro può essere sospesa se gli organi dell’Unione constatano che esiste un rischio di violazione grave di quei valori. Le vicende in corso in Ungheria ci aiutano a ricordarcene.
L’Ungheria ha aderito (ha chiesto di aderire ed è stata accolta) all’Unione europea nel 2004, superando i test di democraticità e di compatibilità del sistema economico. Da allora il Paese ha vissuto gravi crisi economiche e politiche, ora giunte a un punto che allarma gli organi dell’Unione e l’opinione pubblica ungherese ed europea. Alle critiche provenienti dall’Unione e da altri Stati, il primo ministro ungherese Orban reagisce proclamando che nessuno può dettare al suo Paese ciò che deve fare. Con ciò solletica il suo elettorato e il nazionalismo ungherese, ma nega in radice la logica dell’appartenenza a una comunità come l’Unione. In Europa le vicende interne agli Stati membri, siano esse economiche o relative alla democrazia e alle libertà civili, riguardano tutti, istituzioni europee e cittadini. Non è irrilevante che ogni cittadino di ciascuno Stato membro sia anche cittadino dell’Unione.
Vinte le elezioni politiche e ottenuti, per il gioco della legge elettorale, più di due terzi dei seggi parlamentari, il governo ha introdotto modifiche alla Costituzione e alle leggi che confliggono con i valori propri dell’Unione. Sono stati fatti inquietanti richiami alla «ungheresità» etnica che urtano gli Stati confinanti in cui vivono minoranze magiare, è stata abolita la indipendenza della Banca centrale e sono state drasticamente ridotte l’indipendenza della magistratura e la libertà della stampa. Un’ampia epurazione è in corso. Il presidente della Corte suprema, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è dimesso.
Il reclutamento dei nuovi magistrati è ormai nelle mani di un organismo che risponde al governo. La composizione della Corte costituzionale è modificata per legarla alla maggioranza di governo. La stampa, le radio e televisioni sono sottoposte a limitazioni e controlli che hanno iniziato a produrre dimissioni e licenziamenti di giornalisti non in linea. Il quadro che deriva dal contemporaneo attacco alla magistratura e alla stampa, il terzo e il quarto potere in democrazia, è per un verso classico in ogni regime autoritario e per l’altro è in esplicita rotta di collisione con i principi di democrazia su cui l’Unione europea si fonda e che sono comuni a tutti gli Stati membri.
Merita di essere particolarmente richiamato un aspetto delle riforme che il governo ungherese, forte della sua maggioranza, ha introdotto. Si tratta dell’attribuzione a un organo amministrativo legato al governo della possibilità di obbligare i giornalisti a svelare l’identità delle loro fonti di informazione. La Corte costituzionale, prima della modifica della sua composizione, ne ha constatato la incostituzionalità, rilevando che solo il giudice può obbligare in casi eccezionali il giornalista a rivelare le sue fonti.
Un orientamento della Corte costituzionale in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e la pratica esistente negli altri Paesi dell’Unione. L’eccezionalità della violazione del segreto delle fonti, ammessa solo quando sia assolutamente necessaria per tutelare fondamentali interessi pubblici, è una regola indispensabile per consentire alla stampa di svolgere il suo ruolo di informazione e controllo nella società democratica. Per rimarcare la distanza tra le pretese del governo ungherese e la pratica negli altri Paesi si può ricordare la recente sentenza della Cassazione francese, che ha annullato un’indagine promossa dal pubblico ministero (che in Francia dipende dal ministro della giustizia), per individuare le fonti dei giornalisti che avevano ottenuto e pubblicato notizie da una istruttoria penale riguardante anche personaggi politici della maggioranza governativa.
La Corte di Cassazione, richiamando la Convenzione europea dei diritti umani, ha osservato che le notizie pubblicate, da un lato avevano un notevole interesse per il pubblico e dall’altro non mettevano in pericolo essenziali esigenze di segretezza e ha annullato l’indagine. Proteggere le fonti delle notizie raccolte dai giornalisti, è necessario per evitare che esse si inaridiscano e per consentire alla società di far emergere notizie imbarazzanti per il potere, mantenendo vivo il dibattito democratico. Poiché la sola volontà della maggioranza non basta a dar linfa a una democrazia.
L’indipendenza della magistratura, la libertà della stampa e la completezza dell’informazione della opinione pubblica, sono condizioni essenziali per la vitalità delle istituzioni della democrazia a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Centottant’anni orsono Tocqueville, segnalando i pericoli della dittatura della maggioranza, scriveva che «quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».