ATTUALITA’.
Molte domande sui congiuntivi, sul plurale di euro o sul femminile di avvocato.
L’ortografia è in testa ma vengono inviati anche quesiti sul lessico o sui neologismi
Sul web la Crusca scioglie i dubbi
sull’italiano, lingua sconosciuta
Di LAURA MONTANARI
FIRENZE - C’è una finestra da cui si vede l’italiano che ci tormenta, i dubbi di ortografia che fatichiamo a confessare, i neologismi che maneggiamo incerti: si scrive qual è o qual’è? Si dice cioccolata o cioccolato? Si può usare per gli immigrati il termine "respingimenti"? E in un tema la parola "tronista"? Il servizio di pronto soccorso sulla nostra lingua tutti i giorni raccoglie in una casella di posta elettronica sul sito dell’Accademia della Crusca, dieci o venti cose che non sappiamo sulle parole e sulla grammatica della lingua italiana.
Una piccola redazione di esperti, a Firenze, risponde on line o via e-mail gratuitamente: nel 2009 l’hanno fatto 900 volte, spiega Raffaella Setti docente (a contratto) alla facoltà di Scienze della Formazione. Un aumento progressivo delle richieste a dimostrazione che la lingua è un terreno minato. A inviare quesiti non sono soltanto insegnanti, docenti universitari, persone che frequentano abitualmente il sito del principale istituto che si occupa di ricerche sull’italiano, ma famiglie, studenti, professionisti e curiosi, persone anche lontane dagli studi umanistici. Un signora di Bologna per esempio, vuole sapere se ha ragione la maestra di sua figlia nel dire che si scrive "sogniando" e non "sognando".
Un avvocato di Genova chiede se sulla targa del suo studio la parola "avvocato" merita o meno la maiuscola. Un signore di Tolentino domanda se è sempre valido il principio di togliere l’apostrofo a fine riga e mettere la vocale dell’articolo. Un’aspirante giornalista di Roma desidera sapere se ha un plurale "pronto soccorso".
Un insegnante di Cagliari si lamenta dell’uso della doppia congiunzione avversativa "mentre invece" che ritiene sbagliata al pari di "ma però": "Eppure i miei alunni obiettano di averla sentita in contesti colti". "La nostra consulenza linguistica è uno spaccato interessante per vedere dove l’italiano fa paura - spiega la presidente dell’Accademia, Nicoletta Maraschio - L’ortografia è in testa, ma ci mandano pure molti quesiti sul lessico e sui neologismi. Sul sito abbiamo una sezione apposita dove troviamo i significati delle parole nuove: da videofonino, a bioterrorismo, a sitografia". Lo sportello sulla lingua è un servizio che nasce sulla carta, dalla rivista la "Crusca per voi" e che successivamente viene trasferito anche in rete.
Nei prossimi mesi, per la casa editrice Le Lettere, quel dialogo via mail con gli esperti dell’Accademia diventerà un volume, dal titolo "La Crusca risponde". "Ogni settimana mettiamo online una risposta - spiega Raffaella Setti che assieme a Matilde Paoli guida la redazione - molte domande sono ricorrenti e allora rimandiamo al motore di ricerca che c’è all’interno del sito, curato da Marco Biffi, che permette di ripescare in archivio le risposte date in passato".
Molto gettonati i dubbi sui congiuntivi, sull’uso di ed o ad o sul plurale di "euro". Poi ci sono le incertezze sempreverdi sui femminili delle professioni: si dice l’avvocata o l’avvocatessa? La presidentessa o la presidente? "Io preferisco la presidente - spiega Maraschio - la cosa importante è comunque non oscurare il genere". Televisione, Internet e giornali hanno una grossa influenza sulla circolazione delle parole: "Dopo alcune campagne pubblicitarie ci chiedevano se era corretto utilizzare il plurale di latte e in effetti si può, se si intendono diverse qualità di latti. Altri ci hanno consultato sulla differenza fra immigrato o migrante" riprende Raffaella Setti. Il fatto è che la lingua è in continuo mutamento e l’uso comune finisce col modificare la grammatica: "Ormai si accetta "gli" al posto di loro o "lui", "lei" impiegati come soggetti" spiegano i linguisti. "Quello che ci preoccupa - dice Nicoletta Maraschio - è la tendenza ad abbandonare dell’uso corretto della nostra lingua. La semplificazione sintattica e lessicale rischiano di minare le fondamenta della nostra società e della cultura".
© la Repubblica, 18 gennaio 2010
Ma la nostra lingua non è un "padre-padrone"
la sua bellezza è nella continua evoluzione
Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non
dall’adesione a un’identità, la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne
di STEFANO BARTEZZAGHI *
C’è qualcosa di persino commovente nell’ansia con cui una quota di parlanti, minoritaria ma cospicua, cerca risposte certe in merito alla nostra lingua nazionale. Esiste il verbo "perplimere"? "Qual è" vuole l’apostrofo, non lo vuole mai, lo vuole soltanto quando è seguito da un sostantivo femminile ("qual è il motivo", "qual’è la ragione")? "Piuttosto che" è sinonimo di "oppure", o no? È, quasi sempre, possibile dare una risposta certa: "perplimere" no, non esiste, almeno finora; "qual è" non vuole l’apostrofo in nessun caso; "piuttosto che" esprime una preferenza ("preferisco un dessert piuttosto che un liquore") e non un’alternativa ("mi va bene tutto: mi porti un dessert piuttosto che un liquore piuttosto che un piatto di formaggi piuttosto che della frutta... Scelga lei").
Ma tali risposte sono anche, quasi sempre, meno interessanti delle richieste che soddisfano: riportano a uno stato cristallizzato della lingua, mentre le domande ne testimoniano la continua erosione. Un linguista che sia un vero linguista, e non un burocrate della norma (sempre di per sé provvisoria, almeno in questa materia), sa che perplimere può diventare prima o poi un rispettabile lemma in un futuro dizionario; che l’infame apostrofo tra "qual" ed "è" può ricevere una sua legittimazione; che le grammatiche possono rassegnarsi all’uso ormai dominante del "piuttosto che". Un linguista non può minimamente legiferare, neppure in fatto di lingua, ma è al servizio di fenomeni spontanei che possono solo essere registrati e studiati. A legiferare è il parlante: quando è un singolo come il frate Antonino da Scasazza di Nino Frassica ("concorso Cuore T’Oro"), non può altro che far ridere platee televisive; quando è un’intera categoria, può spostare intere montagne.
Il fatto commovente è che, in assenza di autorità riconosciute in materia, quella larga minoranza prova nostalgia di un’istanza paterna nelle vicenda di una lingua che è appena riuscita, e a volte a stento, a essere madre. Chi ha sensibilità per la lingua spesso smarrisce il senso della di lei duttilità e mutevolezza: la desidererebbe strumento rigido, per sé e soprattutto per gli altri. Lo sportello dell’Accademia della Crusca è il luogo in cui si tenta di ragionare ed di far ragionare sulla differenza fra oggettive infrazioni alla lingua e violazioni della sensibilità stilistica soggettiva. Nelle risposte è spesso percepibile il sospiro con cui l’esperto dà torto a un richiedente di cui condivide quell’indignazione a cui però, in onesta coscienza professionale, non può dare supporto scientifico.
La lingua italiana è certo bistrattata: ma le cause di tale maltrattamento non sono direttamente linguistiche bensì culturali. Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non dall’adesione a un’identità (se la lingua madre fosse scambiata, cioè, per un padre padrone) la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne.
© la Repubblica, 18 gennaio 2010
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
PER L’ITALIA, AL QUIRINALE, RICHIESTA URGENTE DI UN INTERVENTO DI "LOGOPEDIA" COSTITUZIONALE.
Craxi lotta con noi
di Vittorio Zucconi *
Nella lettera di Napolitano alla vedova Craxi c’è un capoverso che alla nostra solita fretta di indignarci, di scandalizzarci o, da parte degli eredi del craxismo, di applaudire, sembra sfuggire, nella sua enorme gravità.
La frase è questa: ” Si deve invece parlare di una persistente carenza di risposte sul tema del finanziamento della politica e della lotta contro la corruzione nella vita pubblica. Quel tema non poteva risolversi solo per effetto del cambiamento (determinatosi nel 1993-94) delle leggi elettorali e del sistema politico, e oggi [....] si è ancora in attesa di riforme che soddisfino le esigenze a cui ci richiama la riflessione sulle vicende sfociate in un tragico esito per l’on. Bettino Craxi”.
Tradotto dal politichese e dal presidentese, questo passaggio vuole ricordarci che l’ordigno infernale del finanziamento dei partiti ancora è in piena azione e la condanna di Craxi, insieme con tutto il polverone di Tangentopoli, non mai ha risolto il problema che sta alla base di tutto e che preferiamo non vedere, se non nei partiti degli altri: chi paga, e in che modo, i costi della politica, a destra come a sinistra o al centro, per i micropartitini come i mega partiti azienda? Il problema non è stabilire se Craxi fosse stato o meno un corrotto/corruttore, domanda alla quale ha già risposto la magistratura in via definitiva, o se lo facessero tutti, argomento che non ha mai nessun valore essendo la responsabilità politica e penale sempre individuale nelle nazioni civile, ma sapere quanti Craxi ci siano oggi, in ogni partito e in piena attività, anche in quelli che strepitano contro la corruzione altrui.
Tempo reale. Il blog del direttore zucconi 18 gen 2010
Lakoff: sinistra perdente? Ovvio, utilizza le parole e le emozioni della destra!
Le parole per dire qualcosa di sinistra... ma anche i «frame». Ecco cosa consiglia alla «sinistra perdente» il linguista americano George Lakoff: articolare un proprio linguaggio e recuperare l’empatia.
Empatia
Senza la percezione del vissuto degli altri c’è solo predazione
di Marco Rovelli (l’Unità, 20.01.2010)
Se la sinistra perde, è anche perché non ha compreso come funziona la mente umana. In Pensiero politico e scienza della mente (traduzione di G. Barile, pp. 339, euro 26,00, Bruno Mondadori), George Lakoff, uno dei più eminenti linguisti americani, torna a invitare la sinistra ad articolare un proprio linguaggio piuttosto che inseguire la destra sul suo terreno. Secondo Lakoff questa rincorsa ha segnato negativamente il destino dei liberal americani nei confronti dei repubblicani ma viene naturale riportare il suo discorso anche alle derive politiche italiane. Il fatto è che per vincere occorre comprendere l’inconscio cognitivo, il sistema di concetti che organizza la nostra mente, strutturata da «frame», cornici concettuali metaforiche di cui per la maggior parte siamo inconsapevoli ma che orientano in maniera decisiva la nostra interpretazione dei temi e dei discorsi politici. Questi frame sono indipendenti da noi, è circuiteria neurale che si è formata fin dai primi anni della nostra vita, è «esperienza incorporata». «I modelli culturali sono nel nostro cervello. E noi li usiamo automaticamente».
Due sono i modelli fondamentali secondo Lakoff: quello dei genitori premurosi e quello del padre severo. Danno vita a modalità profondamente di concepire la politica (Moralità è Cura versus Moralità è Obbedienza all’autorità), e bisogna esserne consapevoli per poter produrre un discorso politico vincente. Non basta citare fatti e cifre: bisogna partire dal significato morale, dai frame metaforici che strutturano la nostra mente, dal «mobile esercito di metafore» che percorre i nostri tracciati neurali. E «quando una verità importante passa inosservata perché priva di frame e di nome, può diventare importante costruire un frame concettuale e un nome»: Lakoff lo ha fatto coniando un termine, privateering, la «privatizzazione predatoria» che designa l’insieme di una serie di politiche repubblicane.
Ma lo si potrebbe fare anche in Italia, senza aver paura di essere tacciati di «ideologia» («la paura, dice Lakoff, di come l’altra parte presenterà il nostro voto e la paura di mostrare la verità su noi stessi»). Accettare il frame dell’avversario (dalla sicurezza alle riforme...) significa essere sconfitti in partenza. Così come si è sconfitti quando si accetta l’impostazione di conduttori di talk-show conservatori («Siete a favore di una riduzione/alleggerimento delle imposte?»; «Dobbiamo vincere la guerra al terrore o ritirarci?»), senza avere il coraggio di opporgli un altro tipo di impostazione, di frame. Non è solo questione di parole, ma di idee e di valori che stanno dietro alle parole.
E poi, alla radice di tutto questo, Lakoff sottolinea come troppo spesso la politica progressista si sia dimenticata del suo valore fondante, l’empatia, che determina la cura degli altri come necessità, e che assegna allo Stato i ruoli sia di protezione (libertà da) che di empowerment (libertà di: le possibilità concrete di uguaglianza, insomma). L’empatia, ricorda Lakoff, si fonda sulla attivazione dei neuroni specchio, che si attivano sia quando eseguiamo un’azione che quando la vediamo eseguire, e che sono dunque responsabili della nostra identificazione nell’altro, dalla quale riceviamo piacere: empatia e cooperazione sono dunque una valori fondanti dell’umano, e occorre coltivarli e rivendicarli, invece di accettare i frame della paura e dell’obbedienza tipici delle narrazioni metaforiche dei conservatori.❖
Empatia
Elogio del co-sentire di Max Scheler: arriva dagli Anni 20 una proposta di salvezza
Che in noi risuonino le gioie e i dolori altrui
“Una lucida analisi del filosofo tedesco: una nuova convivenza basata sul rispetto della reciproca diversità”
di Ermanno Bencivenga (La Stampa/Tuttolibri, 05.03.2011)
La simpatia o empatia è di moda. Mentre si allarga la meritata fama del gruppo di ricercatori italiani che hanno scoperto e studiano quei neuroni specchio che ne costituiscono il fondamento biologico, Jeremy Rifkin, in un libro edito quest’anno in Italia da Mondadori ( Civiltà dell’empatia ), trova in essa una speranza di salvezza tanto promettente e perentoria quanto, qualche anno fa, era per lui l’idrogeno. Ma la popolarità è spesso di ostacolo a un’analisi dettagliata e profonda; giunge quindi a proposito la nuova traduzione di un classico testo sull’argomento, Essenza e forme della simpatia , di Max Scheler (nella sua seconda edizione originariamente pubblicata nel 1923), curata con rigore linguistico e storico da Laura Boella.
Il pregio principale del lavoro di Scheler consiste nella precisa tassonomia da esso offerta di una costellazione di fenomeni certo collegati ma decisamente distinti, che il discorso comune e anche quello filosofico tendono a confondere tra loro. A un estremo di tale spettro troviamo il «ri-sentire» e il «rivivere», caratteristici «dello storico di valore, del romanziere, dell’artista drammatico»: in essi «cogliamo effettivamente la qualità del sentimento altrui senza che questo venga trasferito a noi o che un sentimento reale e uguale venga prodotto in noi». Questo rivivere è qualcosa di più di un semplice giudizio intellettuale, ma si situa ancora «nella sfera del comportamento conoscente» e non comporta alcuna partecipazione al sentire dell’altro.
Dimostrano maggiore partecipazione il contagio affettivo, come nel caso dell’«allegria in una locanda o a una festa», e le varie modalità dell’«unipatia (o identificazione) del proprio io individuale con un altro», un’accentuazione o «per così dire un caso limite del contagio»: il rapporto di una tribù primitiva con il suo totem, gli antichi misteri religiosi, la suggestione ipnotica, vari comportamenti infantili e schizofrenici, l’atto sessuale compiuto per amore in cui «entrambe le parti intendono tuffarsi in un’unica corrente di vita che non contiene più in sé nessuno degli io individuali separatamente».
Il genuino «co-sentire» ( Mitgefühl ) è al di là di questa fusione: mantiene l’altro come altro, come diverso da sé, e ne prova i sentimenti come suoi, senza identificarvisi. In questo modo, apre la strada all’amore, il cui «senso più profondo non è affatto di prendere e trattare l’altro come se fosse identico al proprio io», e lo riscatta dall’istinto: «È amore materno solo quello che supera questa tendenza [istintiva a riprendersi indietro il bambino] e mira al bambino come a un essere autonomo che lentamente dall’oscurità dell’organico sale a un livello di coscienza più alto».
Chiudendo genialmente il suo discorso in un circolo (o una spirale?), Scheler annuncia che solo il co-sentire, il quale è «sempre fondato su un amore e senza amore cessa», è fonte di vera conoscenza, cioè di una comprensione specifica e particolare di ogni individuo: «Quanto più profondamente penetriamo un uomo, attraverso una conoscenza comprendente guidata dall’amore della persona, tanto più questi diventa per noi non intercambiabile, individuale, unico, insostituibile e non rimpiazzabile». La presunta sfera conoscitiva menzionata sopra, figlia del disinteresse e della neutralità, si rivela così non in grado di adempiere alla sua promessa.
Sono solo scampoli di un’indagine ampia e lucida, vigorosa e originale; ma bastano per illustrare come quella che si considera una soluzione possa non essere altro che il nome di un mistero. Dobbiamo dunque cercare le basi di una nuova convivenza, si dice, non nell’interesse personale, nella fede o nella ragione ma nell’empatia. Che cosa vuol dire? In una semplice capacità di drammatizzare l’esperienza altrui? In un’unione mistica con la specie (del genere che Hegel, poco benevolmente, avrebbe chiamato una notte nera in cui tutte le vacche sono nere)? O facendo attenzione gli uni agli altri, mantenendo e rispettando la nostra reciproca diversità e insieme sentendo risuonare il nostro corpo e la nostra anima della gioia e del dolore dei nostri simili? Scheler, quantomeno, ci dà un vocabolario in cui cominciare a porci queste domande.
Milano, una App per imparare a mettersi nei panni degli altri: nasce la prima Fondazione Empatia
Vedere il mondo con gli occhi di un bambino, di un migrante, di un cieco, di un pdisabile o di chi è vittima di bullismo. Dall’etimologia della parola, sentire-dentro, nasce il progetto per imparare a comprendere lo stato d’animo degli altri. Presto iniziative, eventi e un film d’animazione di Bruno Bozzetto
di ZITA DAZZI (la Repubblica/Milano, 06 luglio 2017)
Mettersi nei panni di un rifugiato, di una persona che soffre un disagio psichico, una disabilità. Provare a vedere il mondo con gli occhi di un bambino, di un migrante, di un cieco, di chi subisce atti di bullismo. E’ la sfida che si pone la nuova Fondazione Empatia Milano, presentata a Milano, a Palazzo Marino, partner dell’iniziativa che nasce da un’idea di Giannatonio Mezzetti. L’ex dirigente d’azienda, già promotore del format danese "Biblioteca Vivente" sui temi della salute mentale, aveva portato in luoghi prestigiosi come il Museo del ’900, persone che raccontavano la loro storia, come libri parlanti, con l’obiettivo di diffondere le esperienze personali. Iniziative fatte in collaborazione con ABCittà e Coop lotta contro l’Emarginazione. Se negli ultimi anni la parola più di tendenza è stata "resilienza", ora è il momento dell’"empatia", una parola che significa sentire-dentro. Empatia è infatti la capacità di comprendere a pieno lo stato d’animo altrui, che si tratti di gioia o di dolore. Sentire l’altrui dentro di sé, mettersi nei panni dell’altro.
Accanto all’assessore Pierfrancesco Majorino, in sala Brigida, alcuni dei molti promotori e testimonial di questa iniziativa, unica in Italia, che ha invece precedenti illustri all’estero: a Londra esiste il primo Empathy Museum europeo e ad esso si ispira la Fem di Milano. Fra i testimonial, il grande disegnatore e padre della scuola di animazione italiana, Bruno Bozzetto, che con il suo studio realizzerà un film sull’idea dell’empatia e sulle iniziative milanesi per fare sì che questa pratica si diffonda.
Intorno a questa idea, che abbraccia tutti i campi del privato e del sociale, si svilupperà l’attività di FEM, che ha nel suo comitato etico una fiosofa come Laura Boella, un criminologo come Adolfo Ceretti, lo psicoanalista Francesco Comelli, Marina Pugliese, storica dell’arte che dopo aver diretto il museo del ’900 ora vive e insegna negli Usa. "Con questo progetto facciamo una grande scommessa - ha detto l’assessore Majorino - Viviamo ogni giorno il corpo a corpo tra precarietà e risposte al bisogno e questo ci pone domande nuove. Questa Fondazione è una opportunità per farcela. Dalle biografie di chi compone il comitato etico si comprende quale sia l’orientamento e quale la forza di questo progetto che unisce ciò che è già vicendevolmente partecipato, ovvero cultura e pratica sociale, arte e bellezza come cura e restituzione nel sociale. La fragilità non è da eliminare ma da includere e far propria".
A spiegare l’assunto da cui nasce questa idea - che avrà presto anche una App e un Kit per l’empatia, è la sociologa Petra Mezzetti: "In società plurali, dove l’alterità fa sempre più paura e molti si difendono alzando barriere o frequentando solo gruppi omogenei, sollecitare la capacità di creare empatia attraverso esperienze culturali innovative - e anche spiazzanti - può diventare un’occasione per "forzare il blocco", incoraggiare l’incontro e il dialogo con nuove realtà, promuovere processi partecipativi, creare un circolo virtuoso di conoscenza, apertura, e quindi di inclusione".
Bruno Bozzetto, - fondatore, nel 1960, della casa di produzione Studio Bozzetto&Co - aggiunge: "Siamo contenti di poter dare il nostro contributo al progetto FEM. L’animazione è un linguaggio che si presta ad un numero infinito di soluzioni narrative, poterla utilizzare per comunicare un concetto molto ampio e complesso come l’Empatia ci è subito sembrata una sfida interessante". La Fondazione sta attivando strumenti di fundraising e di crowdfunding, in attesa di trovare finanziamenti pubblici. I partner sono la Pinacoteca di Brera (comprendente la Mediateca di Santa Teresa), le Gallerie d’Italia e prossimamente altri di cui verrà data presto comunicazione.
Con loro FEM realizzerà percorsi "empatici", iniziative, eventi. La Mediateca di Santa Teresa, in particolare, sarà punto di riferimento per le attività della Fondazione. Qui nascerà un archivio permanente di materiali multimediali utili a ricostruire storie e profili di persone portatrici di diversità e di sfide culturali. Da ottobre, ci saranno diversi eventi pubblici, per invitare i milanesi a mettersi anche fisicamente "nelle scarpe degli altri" condividendo emozioni e problemi.