Salviamo i libri di Sanguineti
A rischio la biblioteca che il poeta donò a Genova Il figlio Federico lancia l’allarme: 40mila volumi che attendono ancora una sistemazione definitiva nell’ex Hotel Colombia, una struttura in degrado
di Federico Sanguineti (l’Unità, 08.12.2013)
GENTILE «UNITÀ», VORREI SOTTOPORRE ALL’ATTENZIONE DEL QUOTIDIANO UN ESEMPIO CHE AL TEMPO STESSO COMPENDIA IN SÉ SIA QUESTIONI RELATIVE ALLA PIÙ O MENO CORRETTA AMMINISTRAZIONE DEL DENARO PUBBLICO, sia questioni relative alla gestione e/o fruibilità dei beni culturali. L’esempio di cui parlo è quello dell’attuale sede della Biblioteca Universitaria di Genova, ex Hotel Colombia sito in via Balbi 40 (non lontano dall’Università che ho frequentato da giovane).
Per quanto mi è dato sapere, l’Hotel fu acquistato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo alla fine degli anni Novanta e poi «restaurato» con spesa complessiva ammontante a circa 22 milioni di euro (spero di sbagliarmi sull’entità della cifra).
Fino all’ottobre di quest’anno la sede, benché acquistata per alloggiarvi la Biblioteca, è rimasta chiusa. Dal mese di ottobre, vi sono stati trasferiti gli uffici amministrativi e una parte delle raccolte, quelle che erano nelle sedi dismesse di via XX Settembre e di via Balbi 38.
Mancano però ancora, a quanto pare, nonostante l’impegno economico profuso dal Ministero (ripeto: 22 milioni di euro!), le scaffalature per collocare le raccolte delle sale di lettura dell’antica sede di via Balbi 3, quelle per collocare i 21.427 metri lineari del deposito di via Balbi 3 (contenente circa 650mila volumi) e quelle per collocare i circa 40mila volumi del fondo Sanguineti, ceduto dalla famiglia al Comune di Genova e dato in comodato d’uso alla Biblioteca Universitaria di Genova.
Mi interrogo su come sia possibile che, a un anno e più dalla cessione della Biblioteca al Mibact, ancora non vi siano scaffalature adatte a conservare il patrimonio librario; e, per ciò che riguarda il lascito di Edoardo Sanguineti, come mai non siano ancora stati convocati, da parte della Direzione Regionale della Liguria, i Comitati di gestione e scientifici che dovrebbero decidere, fra l’altro, il tipo di collocazione da attribuire ai volumi (operazione propedeutica al lavoro di catalogazione).
Personalmente mi chiedo fra quanto tempo sia possibile al pubblico consultare i volumi della «biblioteca Sanguineti» nel loro ambiente «naturale», cioè insieme a tutti gli altri fondi storici, ancora collocati nella vecchia sede di via Balbi 3.
Mi chiedo soprattutto se, a quasi dieci anni dal termine del costosissimo «restauro», non sia il caso di rendere edotta l’opinione pubblica sull’articolazione delle voci di spesa e sulla consistenza della cassa residua della Direzione Regionale destinata alle esigenze della Biblioteca Universitaria.
Ciò anche in considerazione del fatto che l’ex Hotel Colombia, un tempo (dagli anni Venti agli anni Ottanta) lussuosissimo, si presenta oggi, in seguito a detto «restauro», vergognosamente inagibile almeno agli occhi del comune visitatore: pareti dell’atrio con evidenti tracce di umidità, mancanza di ricambio d’aria, serramenti mal funzionanti, perdite d’acqua dai soffitti, pregiati legni del pavimento in condizioni pietose, per non parlare, ciliegina sulla torta, dei libri stessi che, per infiltrazione d’acqua, a loro volta necessitano ormai di restauro. Domanda: che fine hanno fatto i circa 22 milioni di euro?
SU EDOARDO SANGUINETI, NEL SITO, SI CFR.:
EDOARDO SANGUINETI. E’ MORTO EDOARDO SANGUINETI, UN GRANDE SPIRITO LIBERO.
Sanguineti, l’erudizione all’avanguardia
di Bruno Pischedda (Il Sole-24 Ore, 12 dicembre 2010)
Poco è trascorso dalla morte improvvisa di Edoardo Sanguineti, e puntualmente, grazie a una curatela precisa (ho notato solo un Finnegan’s wake con il singolare erroneo), Erminio Risso ne raccoglie un’ampia miscellanea di scritti dalla metà degli anni Cinquanta sino a noi. Cultura e realtà è il titolo del volume, ricco di letteratura, arti, musica, teatro: tutte materie che l’artefice di Laborintus affrontava in cataloghi di mostre e riviste come «Marcatrè», «Nuova Corrente», «Il Verri»; quindi da autorevole dispensatore di sapere entro saggi sparsi, convegni, dotte prefazioni. Vi fa spicco, e non poteva essere altrimenti, l’attitudine eversiva della sua parola critica, che particolarmente in letteratura si compiace di anticipazioni anacronistiche e ribaltamenti. Il Satyricon di Petronio, per dare qualche esempio, come forma menippea dell’antiromanzo moderno; Petrarca non già nume fondatore della lirica moderna, ma "sublime epigono", maestro sommo che ricapitola il Medioevo («I Fragmenta sono una pietra miliare. Ma sono tali in quanto pietra tombale»). E ancora, Leopardi filosofo "reazionario", con buona pace di Cesare Luporini; Campana post-continiano, fuori e oltre la deficitaria dicotomia tra poeta visivo e poeta veggente; Pound contro Eliot (lo "schianto" dell’uno in rapporto alla "lagna" dell’altro); Verga dei racconti milanesi riletto con puntiglio sulla falsariga di Brecht e del suo effetto straniante.
Non è senza significato se in un avanguardista d’impegno come Sanguineti il trattamento della poesia e delle poetiche («dico la poetica per intendere l’ideologia») prevale di gran lunga sulla tradizione del romanzo. L’epistolografia, la diaristica, al massimo la forma narrativa breve gli fanno da timone quando si addentra nel territorio della prosa. Eventualmente l’autoriflessione d’autore e gli elementi di consapevolezza programmatica e procedurale, in un arco che appunto dal Petrarca giunge sino a Landolfi e a Petrolini, magistrale saltimbanco e vero campione della "meta-recitazione". Ma soprattutto colpisce nella raccolta il desiderio di ricapitolare esistenzialmente, di fare punto in età matura e di darsi ragione di un tragitto intellettuale che si può ben dire novecentesco.
Fa bene l’editore a mettere in controcopertina il motto forse più istruttivo del volume: «Gli anni di apprendistato continuano per tutta la vita». Così da suggerire che nella sfera del moderno si attenua di molto la circostanza iniziatica a tutto favore di un acquisto sempre inconcluso. Da osservare, se mai, è che in un «tenace razionalista» come Sanguineti (così si definisce) proprio il processo di autocostruzione intellettuale procede tramite un’ininterrotta serie di avventure epifaniche, di lampi improvvisi, utili a rifondere il dato etico e politico nel più ampio mare dell’estetica. A dieci anni l’incontro con Fedele, giovane operaio ed emblema di un’alterità vivente, ossia «la rivelazione che esistevano persone al cui mondo non partecipavo, e che erano, in qualche modo, di un’altra razza». Nel 1947 l’apprezzamento del Dom Juan, giunto a Torino per la resa scenica di Louis Jouvet: «la prima rivelazione di una autentica grandezza teatrale»; le susseguenti e inattese simpatie per gli irrazionalisti maggiori: «da giovane fui incantato da Nietzsche, poi da Kierkegaard, poi da Schopenhauer, poi da Heidegger»; quindi l’approdo entusiasta all’etnologia di Vittorio Lanternari e alla sua opera capostipite, La grande festa, del 1959, «uno di quei testi che bene o male hanno deciso della mia interpretazione del mondo, e anzi, se così posso dire, del mio modo di stare al mondo». Sembrerebbe un percorso noto, generazionalmente condiviso, e solo eccentrico per la quota di circolarità radicale che viene manifestando.
Giovane adepto del Carducci giacobino, e di Campana come protagonista di un salutare «ritorno al disordine», Sanguineti assume presto un costume da «stalinista molto rigido», poi da seguace «filocinese», in seguito è parlamentare eurocomunista; per approdare infine, scomparso il Pci e crollato il muro di Berlino, a una rinnovata forma di ribellismo eslege. «Tutto ciò che nella modernità trascorsa ha avuto senso e peso e rilievo - scrive - si è sempre fondato in qualche modo sopra una pulsione radicalmente anarchica e se non altro anarcoide». Persiste insomma il gusto «del rischioso e dell’imprevedibile», però venato da una screziatura di alacrità pessimista, particolarmente quando si giunge al nodo dell’ideologia. «Io - prosegue - uso la parola positivamente»; e se è pur vero che «a questo mondo non ci sono che false coscienze», il massimo che si potrà fare è agire con tenacia lucida per crearsene una, senza lacune o tradimenti improvvisi.
Diverso in ogni caso è il ragionamento se ci spostiamo sul piano del metodo di analisi (letterario, culturale in genere) e sulla visione complessiva che Sanguineti ne trae. Anche in questo caso non può sfuggire il senso di un percorso: da un momento prioritario nutrito di Brecht, Artaud e di sociologia neomarxista: Goldmann, e magari Escarpit, il nostro Giuseppe Petronio, Hauser, Argan; ecco affiorare i contributi più canonici di Spitzer e soprattutto di Curtius, della critica psicoanalitica, della filologia: Mauron, Roncaglia. L’atteggiamento con cui si dedica a questi scritti è certo diversificato: psicocritico da un lato e attento alle fonti e alla topica generativa dall’altro. Sul terreno dell’interpretazione, osserva, mutuando un celebre motto di Debenedetti, «nessun coltello è da sottovalutare, quando serve ad aprire l’ostrica».
Ma è davvero arduo non vedere il vero collante che tutti questi metodi tiene insieme, ovvero il formidabile e quasi reattivo, polemico eruditismo. Due linee sembrano disegnarsi in definitiva: da un lato l’ampliamento multidisciplinare, come per tanta parte dei letterati impegnati a lui coevi (antropologia, folclore, sociologia, filosofia). E dall’altro una competenza libresca, anche la più minuta, che vale a surclassare qualunque obiezione di ideologismo ristretto. Insomma quel sale enciclopedico e nozionistico che un antico sodale come Eco, uomo in palandrana anche lui, scioglie nello humour accattivante, nel divertissement alla portata di (quasi) tutti, e che invece Sanguineti porge in modo grave, secondo un accademismo accurato e inappellabile.
A colui che intendeva fare dell’avanguardia un’arte da museo, sempre più va sostituendosi l’estimatore del museo e delle opere che vi sono custodite. In uno scritto fondamentale del 2002 annota: «è classico tutto ciò che sopravvive a un medioevo», alludendo con l’articolo determinativo al nostro oggi, che della vecchia barbarie sembrerebbe il duplicato. I classici, prosegue, «ammaestrano, documentatamente, intorno alla dialettica storica, e ci orientano in un autentico storicismo assoluto». Ma il punto, per concludere in battuta, è che di questo storicismo noi non sapremmo cogliere né l’assoluto né eventualmente il dialettico. Soprattutto se poniamo mente a uno dei saggi più ambiziosi e forse più deboli della compagine: lo scritto titolato Per una teoria della citazione (anno 2001), dove è riletta l’intera tradizione d’occidente in forma di recupero intertestuale, senza fasi distinte, articolazioni di merito, modalità accentuate. Un saggio che fa il paio con altra sentenza, o boutade, datata 1997, secondo cui «il sogno di Benjamin di un libro fatto di sole citazioni è un sogno che riassume in sé tutta la modernità, la pulsione della modernità». A un così netto riduzionismo, corrisponde, poi, e pure questo era da aspettarsi, una singolare afasia quando arriviamo alle poetiche del recupero neonarrativo: «Nessuno sa bene - dichiara - che cos’è il postmoderno». Tanto erudito pare insomma Sanguineti, ed è; quanto curiosamente disinteressato, e anzi bizzoso, dinnanzi alle tendenze letterarie delle decadi a noi più vicine. Si capisce la difficoltà, la remora ad affrontare una materia davvero bruciante sotto il profilo post-novecentista e post-sperimentale. Proprio qui, tuttavia, si sarebbe desiderata da una così grande figura di intellettuale e poeta qualche breve parola, magari non assoluta, ma storica.
La rivoluzione francese secondo Wu Ming
Di nuovo storia e finzione per il collettivo
di Ranieri Polese *
Nel 1883, per ricordare la vittoria francese di Valmy (20 settembre 1792) sugli eserciti di Austria e Prussia, Giosuè Carducci componeva i dodici sonetti del Ça ira. In cui, italianizzando nomi francesi (Tuglierì, Ostel di città, Abbadia per Tuileries, Hôtel de Ville e la prigione dell’Abbaye), celebrava la battaglia che aveva salvato la Rivoluzione. E in una nota scriveva: «Oggi è vezzo (...) voler abbassare e impiccolire la rivoluzione francese: con tutto ciò il Settembre del 1792 resta pur sempre il momento più epico della storia moderna». Non aveva paura, Carducci, a esaltare pure il linciaggio della dama di compagnia della regina, la principessa di Lamballe, la cui testa su una picca venne portata sotto la prigione del Tempio. Già dodici anni prima, nella fase più radicale della sua fede giacobina, aveva scritto Versaglia in gloria della grande Rivoluzione. Anche qui, nomi francesi italianizzati (Occhio di bue per l’oeil de boeuf della reggia che, appunto, diventa Versaglia) e la celebrazione degli eventi rivoluzionari come la decapitazione del re, giusto castigo per i secolari delitti di cui si era macchiata la monarchia francese.
All’epoca, all’indomani della sconfitta di Sedan (1870), la Terza Repubblica in Francia operava una drastica revisione della Rivoluzione, condannando senza appello i giacobini, il Terrore, il radicalismo di Robespierre. E il giacobino Carducci protestava con i suoi versi. Oggi, contro le nuove revisioni storiografiche della Rivoluzione, il collettivo di scrittura Wu Ming ci propone un denso romanzo che inizia con l’esecuzione di Luigi XVI (21 gennaio 1793) e si ambienta nei mesi del Terrore, per arrivare, dopo la caduta di Robespierre il 9 Termidoro (27 luglio 1794), alla sconfitta finale del popolo di Parigi nella primavera del 1795. L’armata dei sonnambuli si dichiara subito dalla parte dei sanculotti, dei repubblicani dei grandi sobborghi popolari. Sono loro che appoggiano il governo di Robespierre anche nelle sue estreme decisioni (la messa a morte di Maria Antonietta, Danton, Desmoulins, Hébert), seppure criticando il mancato approvvigionamento di cibo e l’impunità degli accaparratori.
Sanno comunque che quando la ghigliottina smetterà di funzionare, per i sanculotti, gli operai, i miserabili sarà la fine: tornerà lo strapotere dei ricchi. E i Wu Ming si ricordano giustamente di una celebre pagina della Storia della rivoluzione francese di Jules Michelet, quella che racconta come, dopo la morte di Robespierre, le strade si popolano di Incroyables, i muscadins profumati che ostentano lusso e disprezzo e danno man forte alla repressione dei movimenti popolari.
Storia & invenzione Abile combinazione di fatti storici e personaggi di fiction, il romanzo dei Wu Ming segue le vicende di alcune figure d’invenzione: Marie Nozière, operaia del Faubourg Saint Antoine, e suo figlio Bastien; la guardia Treignac; l’attore Léo Modonnet (in realtà è l’italiano Leonida Modenesi, venuto a Parigi per incontrare Goldoni che vi risiede dal 1762); il buon medico Orphée d’Amblanc. Contro questi personaggi positivi spicca la figura di Monsieur Laplace, vera incarnazione del Male. Ospite dell’ospedale di Bicêtre, Laplace è in realtà un nobile, il cavaliere d’Yvers, che aveva tentato di salvare il re prima del suo arrivo sul patibolo. Scoperti, i congiurati vengono catturati o uccisi, ma Yvers si salva e si rifugia sotto falso nome nel manicomio. Dove esercita i suoi poteri magnetici, con la tecnica del dottor Messmer.
Fenomeno di gran moda negli ultimi anni dell’Ancien Régime, il mesmerismo può essere un metodo di cura a fin di bene (il dottor d’Amblanc se ne serve con i suoi malati) ma può anche diventare il mezzo per soggiogare la volontà di singoli individui e pure di gruppi di persone. Yvers, infatti, crea in questo modo una squadra di sonnambuli che invia a seminare il terrore nei faubourg popolari. E quando il governo giacobino viene abbattuto, le squadracce di ipnotizzati si scatenano contro chi prepara l’ultima resistenza sanculotta. Solitario vendicatore, l’attore Modonnet, coperto dalla maschera di Scaramouche, li sfida nel tentativo di frenare la violenza reazionaria.
Linguaggio & feuilleton In contrasto con la lunga tradizione romanzesca che ha narrato gli anni della Rivoluzione con un deciso orientamento reazionario (da Balzac, Les Chouans, ad Anatole France, Gli dei hanno sete, da Dickens, Le due città, alla Baronessa Orczy, La primula rossa; e il cinema non è stato da meno, con i film strappalacrime su Maria Antonietta), i Wu Ming optano per il feuilleton, Sue e Dumas naturalmente. I personaggi popolari - Marie, Bastien, Treignac - ricordano invece I miserabili di Hugo. Una scelta, comunque, quella del feuilleton che, oltre a regalare le migliori pagine del romanzo, ribadisce la scelta di campo dei Wu Ming dalla parte del popolo.
Quanto infine al linguaggio, L’armata dei sonnambuli, fra documenti d’epoca e capitoli avventurosi, dedica largo spazio a una scrittura che vuole imitare (inventare?) un parlato sanculotto. Che è un misto di gergo dialettale infarcito di parole francesi italianizzate con un certo oltranzismo. Tegolerie per Tuileries, Sant’Onorio per Saint Honoré, Ponte Nuovo per Pont Neuf, foborgo per faubourg. E forse in questo pastiche si coglie la riprova di un omaggio a Carducci, al Carducci cantore della Rivoluzione, oggi del tutto dimenticato, travolto nel generale rifiuto che ha colpito da tempo tutta la produzione del poeta.
Ranieri Polese
* FONTE: LA LETTURA - CORRIERE DELLA SERA.